Il sistema dei reati tributari e le riforme di cui al d.l. n. 124 del 2019 e al d.lgs. n. 75 del 2020*
di Stefano Tocci
La risposta penale all’illecito tributario, soprattutto quella in senso detentivo, non è da sempre esistente nel sistema giuridico italiano. Immediatamente dopo l’Unità d’Italia infatti, la normativa in materia di imposte dirette prevedeva soltanto sanzioni di carattere pecuniario, dal contenuto punitivo e risarcitorio, denominate pene pecuniarie e soprattasse.
La prospettiva di una sanzione detentiva cominciò a balenare con la L.n. 2834/1928, ma con l’effettivo riordino della materia punitiva tributaria, che si realizzò con la L.n. 4/1929 ed il correlato R.D. 1608/1931, la sanzione detentiva non aveva ancora preso pienamente piede.
La L.n. 4 del 1929 ebbe una fondamentale importanza per la edificazione del sistema penale tributario, articolato in senso coerente, e concepito come un diritto speciale, prevedendosi ampie e significative deroghe alle norme generali della materia penale. Detta legge infatti esprimeva due principi molto caratterizzanti:
- il principio di “ultrattività”, basato sul tempus regit actum, per cui le norme penali tributarie continuavano ad essere applicate per i fatti consumati durante la loro vigenza anche se in seguito abrogate o modificate in melius; l’art. 20 della L.n. 4/1929 prevedeva infatti espressamente che le disposizioni penali delle leggi finanziarie e quelle che prevedono ogni altra violazione di dette leggi si applicano ai fatti commessi quando tali disposizioni erano in vigore, ancorché le disposizioni medesime siano abrogate o modificate al tempo della loro applicazione; evidente la piena deroga al generale principio consacrato nell’art. 2 c.p. del Codice Zanardelli e ribadito, sempre all’art. 2, dal Codice Rocco.
- la “pregiudiziale tributaria”, ossia la sospensione dell’azione penale, in materia di imposta dirette, fino al completo accertamento da parte della giustizia tributaria dell’imposta evasa e delle consequenziali sopratasse. Praticamente al giudice penale era consegnato l’esito dell’accertamento fiscale già completo nella sua dimensione erariale, pronto per la sua valutazione in termini penalistici.
L’efficacia deterrente del sistema sanzionatorio risultava ancora insufficiente a causa delle modeste entità delle pene. Bisogna attendere il D.P.R. n. 645/1958, testo unico in materia di imposte dirette, per vedere comparire la sanzione detentiva nello scenario del sistema penale tributario, ma l’effetto di prevenzione generale è ancora minimo.
Il primo importante impatto della sanzione penale come risposta all’illecito tributario può farsi quindi risalire alla riforma tributaria dei primi anni ’70, e precisamente all’introduzione dell’art. 50 D.P.R. n. 633/1972, in materia di IVA, ed all’art. 56 D.P.R. n. 600/1973 in materia di imposte dirette, che comminavano per alcune fattispecie, oltre ad una forte pena pecuniaria, la sanzione della pena detentiva. Tale normativa si caratterizzava dell’introduzione delle soglie di punibilità per alcune delle molteplici fattispecie ivi contemplate, e ciò evidentemente rispondeva all’esigenza, avvertita dal Legislatore, di non “criminalizzare” gli illeciti nella loro essenza, comunque sempre suscettibili di sanzione amministrativa fiscale, ma solo nella loro entità, al di là di un ammontare in ragione del quale il danno erariale appariva meritevole di una risposta penale. Tale meccanismo punitivo, in astratto ben più incisivo di quanto precedentemente previsto nell’ordinamento, comunque trovava un notevole ostacolo, nel suo funzionamento, nella persistente vigenza della pregiudiziale tributaria, sempre presente nel rallentare il processo penale, ancora visto in prospettiva consequenziale rispetto all’accertamento tributario definitivo.
La riforma organica del diritto penale tributario il nostro ordinamento la vede finalmente con il D.L n. 429/1982 converto nella L.n. 516/1982, la cd. Legge “Manette agli evasori”, che costituisce un articolato specifico dotato di una propria struttura autonomamente definita. Le peculiarità del nuovo sistema incriminatorio sono costituite da:
- l’abbandono della pregiudiziale tributaria, e conseguentemente la creazione di un doppio binario, non del tutto perfetto, tra giustizia tributaria e giustizia penale;
- l’adozione di una tecnica di formulazione normativa estremamente casistica, diretta a prevedere e colpire non tanto l’evento danno per l’erario quanto condotte prodromiche all’illecito tributario vero e proprio, con un conseguente arretramento della tutela penale a fattispecie non ancora costituenti un fatto di evasione bensì sintomatiche di un pericolo in tal senso.
Quest’ultima caratteristica costituirà il limite della riforma del 1982, apparendo l’apparato sanzionatorio predisposto soprattutto a tutela dell’accertamento fiscale e non come risposta al danno erariale effettivamente verificatosi, con tutti i consequenziali problemi di conformità costituzionale ai principi di offensività e determinatezza che connaturano il nostro ordinamento penale.
Il Legislatore proverà a rimediare con la L.n. 154 del 1991, diretta a risolvere aspetti interpretativi nel frattempo insorti, ma il tentativo risulterà abbastanza timido, soprattutto alla luce del necessario coordinamento con la riforma del sistema sanzionatorio amministrativo tributario, introdotto col D. Lgs. N. 472/1997, per cui si decise di promuovere l’ennesima riforma organica della materia attraverso la delega al Governo di cui alla L.n. 205/1999, art. 9, che poneva in sostanza i seguenti obiettivi:
- previsione di una ristretta rosa di reati di natura esclusivamente delittuosa, di entità sanzionatoria significativa;
- carattere di effettiva offensività delle fattispecie penali con riferimento ai concreti interessi erariali da tutelare;
- elemento psicologico del reato caratterizzato dal dolo specifico, di evadere l’imposta o di conseguire un indebito rimborso;
- ricorso alla previsione di soglie di punibilità, in modo da rendere effettiva la risposta punitiva dello Stato rispetto ad un concreto danno erariale, ad eccezion fatta per il reato di falsità in fatturazione o distruzione di documentazione contabile, trattandosi di fattispecie di per sé lesive degli interessi fiscali.
La svolta, concretizzatasi quindi col D. Lgs. N. 74/2000, in attuazione della suddetta legge delega, consiste nell’orientare la tutela penale a fatti dotati di reale significatività economica, con la rinuncia alla criminalizzazione di violazioni formali o di proiezioni meramente sintomatiche di un danno erariale, per concentrare l’azione del diritto penale tributario al perseguimento di fatti realmente dotati di offensività per gli interessi fiscali dello Stato. Tale linea prospettiva veniva ribadita nella delega di riforma fiscale di cui alla L.n. 80/2003, il cui art. 2 lett. m) prescriveva il principio che la legge penale tributaria dovesse essere riservata ai soli casi di frode e di effettivo e rilevante danno per l’erario.
Ma il sistema penale tributario continuerà a non trovare pace, diventando sempre più, col passare del tempo, uno strumento malleabile destinato a piegarsi alle emotività legislative, adoperato sovente, nella sua finalità di contrasto al fenomeno dell’evasione fiscale, diversamente interpretato a seconda del momento politico, a perseguire, più negli intenti che nella realtà, anche gli effetti economici e finanziari di una organica riforma fiscale ancora lungi da all’essere attuata o, rectius, concepita.
Con il d.L. n. 138/2011, convertito nella L.n. 148/2011, abbiamo il primo sensibile ritocco all’articolato del D. Lgs. n. 74/2000, ma praticamente solo con riferimento agli aspetti sanzionatori, ed invero:
- sono abolite alcune circostanze attenuanti specifiche;
- sono ridotte le soglie di punibilità;
- sono aumentati di 1/3 i termini di prescrizione per quasi tutte le norme incriminatrici;
- la sospensione condizionale della pena non potrà più essere applicata in ragione di una evasione superiore al 30% del volume d’affari del contribuente e, congiuntamente, a tre milioni di euro;
- l’accesso al rito alternativo del patteggiamento è consentito solo nel caso di estinzione del debito tributario.
È evidente che la modifica attiene solo agli aspetti più crudamente repressivi del sistema penale tributario, chiamato a mostrare i muscoli in un momento di grave crisi economica.
Ulteriori interventi, sull’ordinamento qui studiato, si registrano nell’anno 2015, e precisamente segue prima il D. lgs. N. 128/2015, che riveste enorme importanza in materia di abuso del diritto ed elusione fiscale: l’art. 37 bis D.P.R. n. 600/1973, che contemplava le principali operazioni ritenute elusive inopponibili all’amministrazione finanziaria, viene infatti abrogato e con il comma 13 dell’art. 10 bis L.n. 212/2000 si introduce l’irrilevanza penale delle condotte abusive in materia fiscale.
Fa quindi seguito il D. Lgs n. 158/2015 che, sia pur in linea, almeno astrattamente, con la direttrice del D. Lgs. N. 74/2000, interviene sulla disciplina penale tributaristica in modo più articolato: rafforza la sanzione penale per fattispecie più pregnanti per gli interessi erariali con contestuale attenuazione del rigore sanzionatorio per fattispecie con minore disvalore; alcune fattispecie non sono più penalmente rilevanti ma nuove incriminazioni vengono introdotte; il pagamento del debito erariale diventa causa di non punibilità per alcune fattispecie e circostanza diminuente della pena per altre.
Di rilievo appare poi l’introduzione dello strumento della confisca (art. 10 che ha novellato il D Lgs. N. 74/2000 inserendo l’art. 12 bis) nel caso di condanna o applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. per uno dei delitti previsti dal D. Lgs. N. 74/2000. Trattasi di confisca obbligatoria dei beni che costituiscono profitto o il prezzo di detti reati, salvo che non appartengano a persona diversa dal reo, ed eseguibile anche “per equivalente” in caso di impossibilità, ossia: quando non è possibile rivalersi direttamente sul profitto o prezzo del delitto, saranno confiscabili beni per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto. Detta misura non opera per la parte di debito erariale che il contribuente condannato s’impegna a corrispondere al fisco.
L’evoluzione del sistema però non si è fermata qui, essendo il Legislatore intervenuto anche più recentemente con il d.L. 124/2019 e quindi il D. Lgs. 74/2020, i cui effetti saranno appresso esaminati.
Prima di osservare le più recenti modifiche al sistema normativo, mi sembra opportuno delineare in estrema sintesi come lo stesso risultava strutturato fino all’ultima modifica qui menzionata, ossia al 2015.
Il D. Lgs. N. 74/2000 costituisce sempre l’ossatura portante del sistema penale tributario, sebbene, come visto, abbia conosciuto ripetuti interventi abrogativi, modificativi ed integrativi. Il primo titolo, riempito dall’art. 1, ha una mera elencazione di definizioni, ossia di esplicazione del significato dei termini che si incontrano nel successivo articolato, con l’evidente funzione di restringere l’ambito degli interventi interpretativi sul tema. Quindi segue la delineazione dei vari reati, distinguibili in:
- delitti dichiarativi, ossia la dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2); la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, cioè compiuta mediate operazioni oggettivamente o soggettivamente simulate ovvero altri documenti falsi, diversi da quelli di cui all’articolo precedente, o altri mezzi fraudolenti idonei ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria (art. 3). Per entrambe le norme appena citate il reato sussiste allorquando i documenti falsi (fatture o altro) siano registrati nelle scritture contabili, e solo per le ipotesi di cui all’art. 3 è prevista una soglia di punibilità. Ugualmente è prevista una soglia di punibilità per i reati di dichiarazione infedele (art. 4), quando cioè, al di fuori delle ipotesi precedentemente dette, in una delle dichiarazioni annuali sono indicati elementi attivi in misura inferiore a quella reale ovvero elementi passivi inesistenti, nonché per l’omessa presentazione della dichiarazione (art. 5). L’art. 6 esclude espressamente la configurabilità del tentativo per detti reati.
- delitti documentali, quali l’emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8). Il Legislatore, al comma 2, ha prescritto non solo che l’emissione di più fatture o documenti falsi nell’ambito dello stesso periodo d’imposta si considera un unico reato, escludendosi pertanto l’applicazione della disciplina della continuazione, ma anche, all’art. 9, che l’emittente e l’utilizzatore delle fatture o documenti falsi non concorrono nei rispettivi reati previsti dagli artt. 8 e 2 citati. L’art. 10 invece sanziona l’occultamento o la distruzione di documenti contabili.
Sia i delitti dichiarativi che quelli documentali sono delineati come reati a dolo specifico, ossia l’elemento psicologico del reato deve essere teleologicamente orientato all’evasione dell’imposta sui redditi o sul valore aggiunto.
- i delitti in materia del pagamento delle imposte, ossia l’omesso versamento di ritenute dovute o certificate (art. 10 bis), reato proprio del sostituto d’imposta, l’omesso versamento dell’I.V.A. (art. 10 ter), il delitto di indebita compensazione (art. 10 quater) e di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11), tutte norme incriminatrici che per la loro configurazione prevedono il superamento di definite soglie di punibilità.
Su tale contesto ha nuovamente operato il Legislatore con il d.L. 124/2019, convertito nella L.n. 157/2019, effettuando, rispetto alle innovazioni del 2015, una notevole deviazione, se non una vera e propria inversione di marcia, nel senso di un maggior inasprimento degli aspetti punitivi, nell’intento di mostrare, nuovamente, i muscoli nella repressione del fenomeno dell’evasione fiscale. Infatti stavolta il Legislatore ha operato seguendo tre direttrici: 1) l’intervento sul trattamento sanzionatorio dei reati tributari di cui al d.lgs. 74/2000; 2) l’introduzione della confisca allargata; 3) la previsione della responsabilità degli enti ex D. Lgs. 231/2001 per gli illeciti penali tributari.
In primo luogo va ravvisata una evidente anomalia, se non una vera e propria violazione costituzionale, nella tecnica legislativa adottata: l’efficacia delle modifiche in materia penale previste dal decreto-legge è stata normativamente posticipata al momento dell’entrata in vigore della legge di conversione (art. 39, comma 3, d.l. 124/2019). Evidente la contraddizione tra l’adozione dello strumento della decretazione d’urgenza e la funzione ad essa attribuita dalla Costituzione, ed il differimento dell’efficacia delle norme. Lasciando ai costituzionalisti l’analisi della problematica, per quel che riguarda questa sede possiamo osservare:
- quanto al primo profilo, l’inasprimento della politica sanzionatoria si è realizzata con l’elevazione delle cornici edittali di pena per molti dei reati contemplati, con ricadute per alcuni di essi anche sui termini di prescrizione; ovvero abbassando le soglie di punibilità ivi previste, così estendendosi l’area di rilevanza penale dell’illecito fiscale. Questi effetti, tuttavia, sono stati smorzati dalle modifiche apportate dalla legge di conversione, che infatti ha ammorbidito l’effetto innovativo della riforma. Da una parte l’innalzamento delle pene per i reati di cui agli artt. 4 e 5 d.lgs. 74/2000, pur confermato, è stato ridimensionato; d’altro canto, il prospettato abbassamento delle soglie di punibilità, mantenuto all’art. 4, non è stato invece confermato rispetto ai reati di omesso versamento ex art. 10-bis e 10-ter, i cui limiti configurativi rimangono pertanto invariati. Inoltre, le suindicate novità, volte ad irrigidire il sistema penale tributario, sono state controbilanciate da un ampliamento dell’ambito applicativo della causa di non punibilità dell’art. 13, comma 2, che viene estesa anche ai reati di cui agli artt. 2 e 3.
Il decreto-legge viene altresì modificato, in sede di conversione, nella parte in cui prevedeva l’abrogazione della disposizione di cui al comma 1-ter dell’art. 4, in forza della quale si escludeva la punibilità delle “valutazioni” che, singolarmente considerate, differissero in misura inferiore al 10% da quelle corrette, precisando altresì che gli importi compresi in tale percentuale non fossero computati ai fini del superamento delle soglie di punibilità. La legge di conversione ha mantenuto in vigore il comma 1-ter, prevedendo però che le valutazioni non debbano essere “singolarmente” considerate, bensì “complessivamente” considerate.
Trova conferma, senza modificazione rispetto al decreto-legge, l’inasprimento sanzionatorio per il reato di “emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” (art. 8), ove la previgente pena della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni viene elevata a quella della reclusione da 4 a 8 anni; viene però inserita in un nuovo comma 2-bis una soglia di punibilità, statuendosi che la pena rimane invece quella della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni «se l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti, per periodo d’imposta, è inferiore a euro centomila».
La legge di conversione introduce poi un’ulteriore novità, non contemplata dal decreto-legge: la causa di non punibilità del pagamento del debito tributario di cui all’art. 13, comma 2, originariamente prevista per i soli reati di omessa o infedele dichiarazione di cui agli artt. 4 e 5, può trovare applicazione anche per i reati di dichiarazione fraudolenta di cui agli artt. 2 e 3.
- Novità di enorme rilievo è costituita dall’introduzione nel sistema penale tributario dell’istituto della “confisca allargata”. Come detto l’art. 10 comma 1 del D. Lgs. N. 158/2015 aveva già introdotto la cd. “confisca tributaria” con l’art. 12 bis sia nella forma della “confisca diretta”, quando l’ablazione investe beni che costituiscono il profitto, il prodotto o il prezzo del reato o qualunque vantaggio patrimoniale direttamente derivante dal reato, anche se consistente in un risparmio di spesa (in tal senso Cass. SS.UU. n. 10561/2013), sia della “confisca per equivalente” ossia altri beni di valore equivalente al profitto.
L’art. 39 d.L. n. 124/2019 convertito con modificazioni dalla L.n. 157/2019 ha ulteriormente introdotto l’art. 12 ter rubricato “casi particolari di confisca”. Tale norma prevede che nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale per i delitti di seguito indicati, si applica l'articolo 240 bis del codice penale quando:
a) l'ammontare degli elementi passivi fittizi è superiore a euro 200.000 nel caso del delitto previsto dall'articolo 2;
b) l'imposta evasa è superiore a euro 100.000 nel caso del delitto previsto dall'articolo 3;
c) l'importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti è superiore a euro 200.000 nel caso del delitto previsto dall'articolo 8;
d) l'ammontare delle imposte, delle sanzioni e degli interessi è superiore a euro 100.000 nel caso del delitto previsto dall'articolo 11, comma 1;
e) l'ammontare degli elementi attivi inferiori a quelli effettivi o degli elementi passivi fittizi è superiore a euro 200.000 nel caso del delitto previsto dall'articolo 11, comma 2.
Trattasi di una previsione speciale della cd. “confisca allargata” o “per sproporzione” di cui all’art. 240 bis c.p., introdotta nell’ordinamento penalistico dal D. Lgs. n. 21/2018, in cui è confluito il primo comma dell’art. 12 sexies d.L. n. 306/1992 convertito nella L.n. 356/1992, in materia di lotta alla criminalità mafiosa, la cui ratio era colpire una disponibilità economica di valore sproporzionato al reddito del perseguito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica. Questa confisca ex art. 240 bis c.p., dunque, consiste in una forma di ablazione fondata essenzialmente sulla sproporzione patrimoniale, che consente la formulazione di una presunzione iuris tantum di origine illecita dei beni, secondo un meccanismo di accertamento non dissimile da quello proprio della confisca di prevenzione di cui al c.d. codice antimafia: come si è espressa la Corte Costituzionale con sentenza n. 33/2018 si presume “che il patrimonio stesso derivi da attività criminose che non è stato possibile accertare”, cioè, in altri termini, che “il condannato abbia commesso non solo il delitto che ha dato luogo alla condanna, ma anche altri reati, non accertati giudizialmente, dai quali deriverebbero i beni di cui egli dispone”. Da ciò consegue che la confisca “per sproporzione” non richiede l’accertamento del nesso di pertinenzialità tra la res ed il delitto per cui è stata pronunciata sentenza di condanna o applicazione pena. L’art. 12 ter non contiene la previsione di inoperatività della confisca “per la parte che il contribuente s’impegna a versare all’erario” sancita nell’art. 12 bis comma 2.
Le fattispecie penali tributarie suscettibili di provocare l’applicazione della “confisca allargata” sono connotate da condotte fraudolenti, rimanendo fuori dalla sua sfera di operativa i reati documentali e puramente dichiarativi.
La giurisprudenza, anche costituzionale, è costante nell’attribuire alla confisca allargata una natura ibrida perché sospesa tra funzione special-preventiva e vero e proprio intento punitivo. La giurisprudenza convenzionale è invece orientata a ritenere la “confisca allargata” come mera misura preventiva, volta ad impedire l’uso illecito di beni di cui non è provata l’origine lecita da parte di soggetti pericolosi (così CEDU, Sentenza Bocellari e Rizza contro Italia, 13 novembre 2007 -ricorso n. 399/02).
La “confisca allargata” di cui all’art. 12 ter quindi si aggiunge alla “confisca per equivalente” di cui all’art. 12 bis investendo solo le condotte poste in essere successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del d.L. n. 124/2019: ciò è espressamente previsto dal Legislatore all’art. 1 comma 1 bis del detto decreto Legge, in deroga all’art. 200 c.p. che invece prevede per le misure di sicurezza la vigenza del principio tempus regit actum.
Va segnalato infine, per quanto attiene alla materia della confisca tributaria, che l’art. 12 ter fa richiamo all’art. 240 bis c.p. che è a sua volta richiamato dall’art. 578 bis c.p.p., a norma del quale il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull'impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell'imputato.
-Altra importante novità introdotta dall’art. 39 comma 2 d.L. 124/2019 convertito nella L.n. 157/2019 è costituita dall’inserimento di alcuni reati tributari nel catalogo dei reati-presupposto della responsabilità dell’ente ex D.Lgs. 231/2001. L’orizzonte prospettato nel decreto-legge appariva ristretto al solo reato di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000, ma la legge di conversione l’estende anche agli artt. 3, 8, 10 e 11 d.lgs. 74/2000.
Più in particolare, viene aggiunto nel D. Lgs. n 231/2001 un nuovo art. 25-quinquiesdecies, rubricato “Reati tributari”, che prevede in capo all’ente responsabile:
a) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’art. 2, comma 1, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;
b) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’art. 2, comma 2-bis, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
c) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici previsto dall’art. 3, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;
d) per il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’art. 8, comma 1, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;
e) per il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’art. 8, comma 2-bis, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
f) per il delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili previsto dall’art. 10, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
g) per il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte previsto dall’art. 11, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote.
Come è noto la sanzione pecuniaria prevista dal D. Lgs. 231/2001 è quantificata con il sistema delle “quote” (unità di misura così espressamente definita dal legislatore). La determinazione del quantum è rimessa, nel rispetto della cornice edittale normativamente fissata, alla discrezionalità del giudice il quale procede attraverso due distinte fasi valutative: 1) nella prima fase, individua il numero delle quote da applicare che può variare da un minimo di 100 ad un massimo di 1.000. In tale fase i parametri di riferimento sui quali il giudicante fonda la propria discrezionale determinazione sono la gravità del fatto, il grado di responsabilità dell’ente (considerando, ad esempio, se risultano essere stati adottati o meno modelli organizzativi, codici etici, sistemi disciplinari, nonché il loro eventuale grado di efficacia), la sussistenza di eventuali condotte riparatorie nei confronti dei soggetti danneggiati;
2) nella seconda fase, determina il valore di ogni singola quota che può variare da un minimo di 258 euro ad un massimo di 1.549 euro. In tale fase, per assumere le proprie determinazioni, il giudice valuta le condizioni economiche e patrimoniali della società così da assicurare l’efficacia della sanzione. L’importo finale della sanzione sarà, dunque, il prodotto della moltiplicazione tra l’importo della singola quota e il numero di quote da applicare, per un ammontare complessivo che potrà, pertanto, variare da un minimo di 25.800 euro ad un massimo di 1.549.000 euro.
Se l’ente ha conseguito un profitto di rilevante entità, la sanzione pecuniaria è aumentata di un terzo. In tutti questi casi, si applicano le sanzioni interdittive di cui all’art. 9, comma 2, lettera c (divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio), lettera d (esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi) e lettera e (divieto di pubblicizzare beni o servizi).
Il mancato inserimento dei reati tributari nel novero di quelli previsti dal D. Lgs. n. 231/2001 era una distonia già evidenziata dalla Suprema Corte con la sentenza “Gubert”, SS.UU. n. 10561/2014, ma tale “irrazionalità”, segnalava il supremo consesso, “non è peraltro suscettibile di essere rimossa sollevando una questione di legittimità costituzionale, alla luce della costante giurisprudenza costituzionale, secondo la quale il secondo comma dell’art. 25 Cost. deve ritenersi ostativo all’adozione di una pronuncia additiva che comporti effetti costitutivi o peggiorativi della responsabilità penale, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore”. L’estensione della responsabilità amministrativa degli enti agli illeciti penali tributari era quindi divenuta non più eludibile. Nella Relazione illustrativa all’art. 39 cit. si afferma chiaramente che “Con l’introduzione della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per i più gravi reati tributari commessi nel loro interesse o a vantaggio delle medesime, si inizia a colmare un vuoto di tutela degli interessi erariali che, pur giustificato da ampi settori della dottrina con la necessità di evitare duplicazioni sanzionatorie, non può più ritenersi giustificabile sia alla luce della più recente normativa eurounitaria, sia in ragione delle distorsioni e delle incertezze che tale lacuna aveva contribuito a generare nella pratica giurisprudenziale”. Evidente quindi il richiamo alla Direttiva (UE) 2017/1371 “relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale” (cd. “direttiva PIF” cioè Protezione Interessi Finanziari), che ha imposto agli Stati membri l’adozione delle misure necessarie perché le persone giuridiche non siano esenti da responsabilità in ordine ai reati che ledono gli interessi finanziari dell’unione Europea, laddove questi siano commessi a loro vantaggio da soggetti apicali dell’ente (cioè che assumono funzioni di rappresentanza, decisionali o di controllo) ovvero da sottoposti, con omissione dei necessari controlli da parte dei primi, secondo i criteri di imputazione della responsabilità indicati nell’art. 6 D. Lgs. n. 231/2001). Notevoli le conseguenze che scaturiscono dall’inserimento delle fattispecie penali fiscali nell’art. 25 quinquiesdecies suddetto: innanzitutto non vi sono più incertezze interpretative sul riconoscimento della responsabilità dell’ente giuridico in ordine a reati tributari che siano fine di un reato associativo ai sensi dell’art. 416 c.p., ovvero siano reati presupposto di delitti di riciclaggio ed autoriciclaggio ai sensi degli artt. 648 bis e 648 ter c.p. Diventa quindi applicabile la confisca “diretta” o “per equivalente” prevista dall’art. 19 D. Lgs. n. 231/2001 anche con riferimento al prezzo o profitto del reato tributario, nonché, ovviamente, il sequestro preventivo ad essa funzionale.
Va segnalato il problema, già chiaro alla dottrina, che l’estensione della responsabilità da reato tributario alle persone giuridiche possa condurre ad una duplicazione di incriminazione con conseguente violazione del principio del ne bis in idem. Lasciando l’approfondimento della tematica a chi mi seguirà, segnalo che il Legislatore dovrà necessariamente prevedere un meccanismo di coordinamento tra le sanzioni pecuniarie tributarie di cui al D. Lgs. n. 472/1997 e le sanzioni di cui al D. lgs. n. 231/2001, da effettuarsi alla luce della giurisprudenza costituzionale, secondo cui non ricorre violazione del principio ne bis in idem quando “le due sanzioni perseguano scopi diversi e complementari, connessi ad aspetti diversi della medesima condotta; quando la duplicazione dei procedimenti sia prevedibile per l’interessato; quando esista una coordinazione, specie sul piano probatorio, tra i due procedimenti; e quando il risultato sanzionatorio complessivo, risultante dal cumulo della sanzione amministrativa e della pena, non risulti eccessivamente afflittivo per l’interessato, in rapporto alla gravità dell’illecito” (Corte Cost. Sent. N. 222 del 24/10/2019).
Se la citata Direttiva PIF n. 2017/1371 è stata una importante sollecitazione alla formulazione dell’art. 25 quinquiesdecies D. Lgs. n. 231/2001, che ha introdotto la responsabilità amministrativa degli enti giuridici da reato tributario, l’attuazione della stessa direttiva, col D. Lgs. n. 75/2020, ha comportato una ulteriore, limitata ma importante, riforma nel sistema penale tributario del nostro Paese.
Per conformarsi alle disposizioni innovative contenute nella direttiva (UE) 2017/1371 il Legislatore è intervenuto rivoluzionando la disciplina del delitto tentato contenuta nell’art.6 D. Lgs. n.74/2000. La disciplina precedente, infatti, come detto, escludeva che fossero punibili a titolo di “tentativo” le fattispecie delittuose di cui agli artt.2 “Dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di fatture relative ad operazioni inesistenti”, 3 “Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici” e 4 “Dichiarazione infedele”. La “ratio” della norma contenuta nel D. Lgs. 74/2000 era quella di evitare che l’aspirazione del Legislatore delegante di cui alla legge n.205/1999 di bandire il modello del cd. “reato prodromico”, ossia la criminalizzazione di condotte che ancora non comportassero un danno concreto all’erario, risultasse vanificato, in concreto, dall’applicazione dell’art.56 c.p. Conformemente si era espressa anche la Corte Costituzionale, che ha ritenuto che la scelta “di escludere la punibilità a titolo di tentativo dei delitti in materia di dichiarazione di tipo commissivo di cui agli artt. 2, 3 e 4, mira, oltre che a stimolare, nell’interesse dell’Erario, la resipiscenza del contribuente nel corso del periodo d’imposta, ad evitare che violazioni preparatorie già autonomamente represse nel vecchio sistema, possano essere ritenute tuttora penalmente rilevanti ex se, quali atti idonei, preordinati in modo non equivoco ad una falsa dichiarazione”
Con l’art.2 del decreto legislativo n.75/2020 il legislatore ha ora, all’opposto, aggiunto un ulteriore comma al suindicato art.6, prevedendo a tal fine che “… salvo che il fatto integri il reato previsto dall’articolo 8, la disposizione di cui al comma 1 non si applica quando gli atti diretti a commettere i delitti di cui agli articoli 2, 3 e 4 sono compiuti anche nel territorio di altro Stato membro dell’Unione europea, al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto per un valore complessivo non inferiore a dieci milioni di euro”. Per i “delitti in materia di dichiarazione” di cui agli artt. 2, 3 e 4 decreto legislativo n.74/2000, è quindi ora prevista la punibilità a titolo di “tentativo” (precedentemente espressamente esclusa dall’art. 6, cui è ora aggiunto il nuovo comma 1-bis), ma solo in presenza di determinate condizioni, ossia:
1. l’evasione d’imposta deve avere ad oggetto specificatamente l’imposta sul valore aggiunto;
2. l’imposta di cui è preordinata l’evasione deve avere un valore complessivo non inferiore a dieci milioni di euro;
3. la condotta che integra il “tentativo”, riferito alle fattispecie delittuose interessate dalla nuova disposizione normativa (ex artt.2, 3 e 4 d.lgs. n.74/2000), deve realizzarsi anche nel territorio di altro Stato membro dell’Unione europea; ovvero può interessare anche più Stati membri dell’U.E.;
4. Il “tentativo” oggetto di contestazione non deve integrare la fattispecie delittuosa prevista dall’articolo 8 D. Lgs .n.74/2000 “Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”: trattasi di una vera e propria clausola di riserva. Resta comunque impregiudicato il principio della non punibilità in materia di “Concorso di persone nei casi di emissione o utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” di cui all’art.9 lett. a) D. Lgs. n.74/2000.
Altra novità di rilievo contenuta nel decreto legislativo n.75/2020 riguarda l’estensione del catalogo dei reati presupposto alla responsabilità da reato degli enti. Invero, con l’art.5 del D. Lgs. n.75/2020 il legislatore è intervenuto, nuovamente, sul D. Lgs. n.231/2001, ampliando significativamente il catalogo dei reati presupposto non compresi nella recente citata riforma contenuta nel d.L. n.124/2019, convertito con modificazioni nella L.n. 157/2019.
Difatti l’art.5, lett.c) del D. Lgs. n.75/2020 rubricato “Modifiche al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231” ha inserito all’articolo 25-quinquiesdecies il comma 1-bis che include ora tra i reati presupposto anche le fattispecie delittuose previste dagli artt.4 “Dichiarazione infedele”, 5 “Omessa dichiarazione” e 10-quater “Indebita compensazione” del D. Lgs. n.74/2000, a condizione però che tali delitti siano commessi nell’ambito di sistemi fraudolenti transfrontalieri, al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto, e l’imposta evasa deve essere non inferiore a dieci milioni di euro. La ratio di entrambi gli interventi sul sistema penale tributario appaiono quindi incentrarsi sulla necessità, ravvisata dalla Direttiva PIF, di perseguire, anche a livello di tentativo nonché da parte di persone giuridiche, fatti di particolare rilevanza per l’entità del danno erariale in materia di IVA che possa derivare su scala transfrontaliera, per le sue ripercussioni sugli interessi finanziari dell’U.E.
Tale piccola ma incisiva modifica è destinata invero ad avere particolare importanza in prospettiva futura, allorquando sarà pienamente operativo il cd. Pubblico Ministero Europeo. Con Regolamento CE, 12/10/2017 n° 1939, l’U.E. ha infatti istituito la Procura Europea, per volontà di alcuni Stati membri, con lo scopo di far fronte a quelle frodi internazionali ai danni dell’Unione Europea aventi carattere transfrontaliero e rispetto alle quali le procure nazionali non hanno poteri di indagine sufficientemente rapidi e penetranti. La Procura Europea, nata mediante l’utilizzo della procedura di cooperazione rafforzata promossa da sedici Stati membri (oggi estesa a ventidue Stati) - in quanto la proposta della Commissione di instituirla per l’intera Unione, non è stata approvata all’unanimità dal Consiglio - opera a tutela degli interessi finanziari dell’U.E. in relazione a reati rilevanti ai sensi della direttiva 2017/1371, e precisamente investe:
- le condotte fraudolente ai danni del bilancio dell’Unione, comprese le operazioni finanziarie quali l'assunzione e l'erogazione di prestiti;
- i reati gravi contro il sistema comune dell’IVA, (es. frodi carosello, frodi commesse nell’ambito di operazioni criminali etc..), compiuti in due o più stati membri ed il cui danno complessivo sia almeno pari a 10 milioni di Euro;
- le condotte di appropriazione indebita di funzionari pubblici, di corruzione attiva e passiva;
- le condotte di riciclaggio.
Evidente appare pertanto la correlazione tra le modifiche introdotte dal D. Lgs n. 75/2020 in materia penale tributaria e lo spettro di competenza del Pubblico Ministero Europeo. Tale figura, che per certi versi sembrava costituire una mera prospettiva avveniristica, è ormai realtà alla luce del D. lgs. n. 9/2021, che stabilisce le norme necessarie ad adattare l’ordinamento giuridico nazionale alle previsioni del regolamento (UE) 2017/1939 del Consiglio, del 12 ottobre 2017, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata sull’istituzione della Procura europea («EPPO»).
Il sistema penale tributario appare quindi destinato a nuove rivisitazioni che, con particolare riferimento alle imposte indirette, amplieranno la dimensione territoriale delle relative applicazioni, risultando non più adeguata una visione esclusivamente nazionalistica degli interessi finanziari protetti.
*Relazione svolta in occasione del seminario “Riforme del diritto penale tributario, prospettive sistematiche ed esperienze applicative”, tenutosi attraverso l’aula virtuale Teams presso la Corte di cassazione il 10 marzo 2021.