I profili penalistici del concordato preventivo di Andrea Fidanzia
L’autore si occupa dei profili penalistici del concordato preventivo partendo, in primo luogo, dall’analisi dell’art. 236 L.F. , unica norma della Legge Fallimentare che contempla tale istituto sotto l’aspetto penalistico. Sono state, inoltre, esaminate le ricadute in termini penalistici dell’entrata in vigore della legge fallimentare del 2005 ed i rapporti dell’art. 236 L.F. con la dichiarazione di fallimento. Infine, sono state approfondite le problematiche relative al diverso configurarsi delle fattispecie di bancarotta concordataria e fallimentare in relazione alle varie fasi (ammissione, approvazione ed omologa) della procedura di concordato preventivo.
Sommario: 1. Premessa - 2. Disciplina dell’art. 236 1°comma L.F.- 3. Individuazione delle norme penali applicabili agli amministratori di società - 4. Ambito di applicazione dell’art. 236 comma 2° L.F. - 5. Applicabilità dell’art. 236 comma 2° L.F. a seguito della riforma della legge fallimentare - 6. Disciplina dell’art. 236 comma 2° L.F. e rapporto con la dichiarazione di fallimento - 7. Consumazione del delitto di bancarotta concordataria - 8. Atti distrattivi compiuti dopo l’ammissione al concordato preventivo - 9. Atti distrattivi commessi successivamente all’approvazione del concordato ed al provvedimento giudiziale di omologa, - 10. Atti distrattivi compiuti prima dell’ammissione al concordato preventivo da amministratore di società poi fallita.
1. Premessa
La normativa penalistica del concordato preventivo è sempre stato un tema tradizionalmente trascurato dal nostro legislatore, il quale, se nel versante civilistico, ha sempre disciplinato la procedura del concordato preventivo in modo dettagliato e capillare, sia nel periodo precedente che in quello successivo alla riforma del diritto fallimentare del 2005, che è stato caratterizzato da una serie di interventi finalizzati ad attribuire nuovo vigore, nuova linfa a tale procedura, in campo penale, per lungo tempo, prima della recente introduzione degli art. 217 bis e 236 bis L.F., l’unica norma di riferimento è sempre stata l’art. 236 L.F. , la quale è rimasta inalterata nonostante le profonde modifiche e trasformazioni dell’istituto del concordato preventivo, finalizzate ad accentuarne il caratteristico privatistico, a consentire una anticipata emersione della crisi dell’imprenditore, a ridimensionarne i profili liquidatori a vantaggio della prospettiva di risanamento dell’impresa.
L’art. 236 L.F. è una norma che già prima della riforma della legge fallimentare del 2005 era formulata in modo imperfetto a causa di imprecisioni, incongruenze, e difetti di coordinazione, che riguardavano e riguardano, tuttora, soprattutto il primo comma.
Con riferimento al secondo comma, la dottrina si è, in primo luogo, posta la problematica della sua perdurante applicabilità dopo il mutamento normativo dei presupposti di accesso alla procedura concordataria, non più identici a quelli del fallimento, e del venir meno dell’automatismo tra concordato preventivo e fallimento, in caso di insuccesso della procedura concordataria, mutamenti che non giustificherebbero più il rinvio tout court alle norme che disciplinano i reati fallimentari.
2. Disciplina dell’art. 236 1°comma L.F.
L’art. 236 comma 1° L.F. è una norma che, in primo luogo, sanziona le condotte riferibili esclusivamente all’imprenditore individuale.
L’art. 236 comma 1° L.F. non è estensibile agli amministratori delle società se non violando il divieto di analogica in malam partem delle disposizioni penali, concetto recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione [1]. E’ stato in particolare, evidenziato che l’applicabilità della norma al solo imprenditore individuale emerge necessariamente dal tenore letterale della medesima, soprattutto raffrontando la dicitura di “imprenditore” ivi contemplata con il precetto disegnato dal comma successivo che, mediante la tecnica del rinvio ad altre norme della legge fallimentare, si occupa dei soggetti titolari di funzioni gestorie, di direzione e controllo di imprese societarie nonché degli stessi creditori.
Peraltro, il giudice di legittimità ha precisato che la delimitazione voluta dal legislatore, sotto diverso profilo, potrebbe financo intendersi giustificata dall’autonoma previsione per gli amministratori delle società e non per gli imprenditori individuali (come sarà più avanti approfondito) di figure delittuose concernenti l’appostazione di dati falsi in bilanci o diverse comunicazioni sociali, reati che possono prescindere anche dalla sussistenza di procedure concorsuali.
Esaminando, a questo punto, la struttura della norma, deve, in primo luogo, precisarsi che la stessa disciplina due diverse fattispecie.
La prima contempla il caso dell’imprenditore, che allo scopo di essere ammesso alla procedura di concordato preventivo, si attribuisce attività inesistenti.
La seconda concerne la simulazione di crediti in tutto in parte inesistenti per influire sulla formazione delle maggioranze.
Entrambe le fattispecie configurano reati di mera condotta e di pericolo che si perfezionano indipendentemente dal verificarsi dell’effettivo danno per i creditori.
Ove, infatti, si determini un danno ai creditori, è stato prospettato il ricorso alla fattispecie della truffa di cui all’art. 640 c.p..
Si tratta di fattispecie incriminatrici plurioffensive contro l'amministrazione della giustizia e contro il patrimonio dei creditori, tutelando, da un lato, la regolarità e la legalità della procedura concordataria controllata dall'autorità giudiziaria, dall’altro, l'interesse dei creditori a non essere tratti in inganno da atti di frode compiuti dal debitore proponente il concordato in loro danno.
Tali norme hanno lo scopo di evitare che l’imprenditore, attraverso una falsa rappresentazione della propria realtà aziendale, consegua i benefici insiti nella procedura di concordato preventivo, sacrificando quelli dei propri creditori, senza possederne i requisiti.
Il dolo specifico caratterizza entrambe le fattispecie, con la conseguenza che difetta l’elemento soggettivo ove l’immutatio veri compiuta dall’imprenditore sia diretta a realizzare finalità diverse da quelle afferenti alla procedura concorsuale, come l’ammissione a tale procedura o la formazione delle maggioranze.
La condotta dell’imprenditore deve quindi essere diretta a trarre in inganno gli organi della procedura ed i creditori.
La formulazione eccessivamente restrittiva delle due fattispecie ha dato luogo a notevoli problemi interpretativi.
In un primo arresto, il giudice di legittimità [2] , valorizzando il tenore letterale della norma che circoscrive la condotta punibile all’attribuzione di attività inesistenti, aveva ritenuto che la sopravalutazione di beni effettivamente esistenti nel patrimonio del fallito non fosse prevista come reato dall'art. 236 legge fallimentare.
Di diversa opinione, è il successivo intervento della Suprema Corte [3] che ha ritenuto che con la dizione “attribuzione di attività inesistenti e simulazione di crediti in tutto o in parte inesistenti", anche l'omessa indicazione di debiti e la sopravvalutazione di immobili integri il delitto in oggetto.
Infatti, la simulazione o la dissimulazione, anche parziali, dell'attivo o del passivo, sono operazioni che, alterando il risultato finale della denunzia della situazione patrimoniale dell'impresa al momento della proposta di concordato, comportano, implicitamente ed esplicitamente, una automatica attribuzione di attivo, ideologicamente falsa.
Si tratta di un reato a condotta libera, che può essere commesso in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, attraverso operazioni contabili e atti artificiosi, implicanti, nella sostanza, non solo la falsa attribuzione di attività inesistenti in assoluto ma che comunque incidano sull'entità dell'attivo, risultante del computo di elementi positivi e negativi.
E’ quindi punibile la condotta di dolosa omissione o esagerazione di voci attive e passive rappresentate nei documenti contabili allegati alla domanda di concordato ed indicati nell’art. 161 comma 2° L.F. (e segnatamente la relazione aggiornata sulla situazione patrimoniale, finanziaria e contabile dell’impresa di cui al punto a), lo stato analitico ed estimativo delle attività e l’elenco nominativo dei creditori con l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione, etc.) che sono necessari per la formazione dell'inventario del patrimonio dell'imprenditore.
Ad avviso di questa seconda pronuncia della Suprema Corte, la norma incriminatrice richiama, in sostanza, quali disposizioni integrative, l’art. 161 L.F. e le altre norme, come l’art. 173 L.F. che, prima della riforma della legge fallimentare, sanzionavano, sotto il profilo civilistico, la condotta dell’imprenditore che aveva occultato o dissimulato parte dell'attivo, o omesso di denunziare uno o più crediti, esposto passività insussistenti o commesso altri atti di frode", con la trasformazione della procedura alternativa in dichiarazione di fallimento, e, dopo l’entrata in vigore della riforma, con la revoca dell’ammissione alla procedura concordataria.
In conclusione, l’art. 236 comma 1° L.F. sanziona in sede penale come falso ideologico la medesima condotta di occultamento, simulazione e dissimulazione, pur se espressa con una formulazione riassuntiva e generica, sanzionata civilisticamente dall’art. 173 L.F., non potendosi seriamente ritenere che il legislatore avesse voluto punire determinati atti fraudolenti, escludendone altri, pur sanzionati civilmente, non riportandoli nella dizione della norma incriminatrice.
Una diversa conclusione sarebbe del tutto incoerente con la natura del reato e la ratio della stessa norma incriminatrice, con la struttura e la finalità del concordato preventivo, che invece, giustificano la diversa interpretazione.
Questo secondo intervento del giudice di legittimità nell’interpretazione dell’art. 236 comma 1° L.F. è stato oggetto di molte critiche da parte della dottrina, che ha ritenuto che l’interpretazione giurisprudenziale avesse eccessivamente dilatato la portata incriminatrice della norma, sconfinando nel divieto di analogia di malam partem.
Dopo la pronuncia del 2000 non constano altri arresti della giurisprudenza penale di legittimità in ordine all’interpretazione della norma sopra esaminata.
Verosimilmente, la scarsa applicazione della norma in oggetto deriva, oltre che dal ridottissimo uso dello strumento concordatario nel periodo ante riforma, anche dal rilievo che riguarda solo l’imprenditore individuale e non si applica a quei soggetti titolari di funzioni organiche nelle imprese sociali, ovvero agli amministratori delle società, degli enti collettivi, che rappresentano senz’altro i soggetti che in una percentuale prevalente, se non quasi esclusiva, si sono avvalsi in questi anni della procedura concordataria.
3. Individuazione delle norme penali applicabili agli amministratori di società
Non essendo loro applicabile l’art. 236 comma 1° L.F , si pone la questione di individuare in quali fattispecie penali sia sussumibile la condotta degli amministratori di società, che, al solo scopo di essere ammessi alla procedura di concordato preventivo o di influire sulla formazione delle maggioranze, rappresentino ai creditori e agli organi della procedura una situazione contabile e finanziaria inveritiera, manipolando i dati contabili aziendali.
Sul punto, va osservato che l’art. 236 comma 2° L.F. rinvia alla previsione dell’art. 223 L.F., norma quest’ultima che richiama la violazione dell’art. 2621, 2622 cod. civ.
Tuttavia, in tale ambito, la contestazione dell’art. 236 L.F. a titolari di funzioni gestorie appare problematica, in primo luogo, perchè il richiamo agli artt. 2621 e 2622 cod. civ. da parte dell’art. 223 L.F. riguarda una fattispecie di reato avente caratteristiche peculiari, ovvero le c.d. operazioni dolose che abbiano cagionato il dissesto della società, concetto questo non sempre coincidente con lo stato di crisi, che costituisce il presupposto per essere ammesso alla procedura di concordato preventivo.
Inoltre, l’accusa sarebbe onerata della dimostrazione del nesso di causalità tra le false comunicazioni sociali ed il dissesto (ammettendo che lo stato di crisi sia sfociato in quest’ultimo evento), prova non del tutto agevole, e ciò sul rilievo che il delitto di bancarotta impropria di cui all’art. 223 L.F. comma 2° L.F. , a differenza della bancarotta fraudolenta disciplinata all’art. 216 L.F., richiede la prova del nesso di causalità tra la condotta dell’amministratore ed il dissesto e la consapevolezza dell’idoneità della condotta dell’agente a determinare o aggravare il dissesto.
Si pone allora la questione se le informazioni fraudolente fornite dall’amministratore di società nell’ambito della procedura di concordato preventivo siano sussumibili - senza il filtro dell’art. 236 L.F. - direttamente nella previsione dell’art. 2621 cod. civ. che, secondo la nuova formulazione, punisce la condotta degli amministratori , direttori generali etc. che, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico o imposte dalla legge, consapevolmente espongono fatti materiali non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale finanziaria della società o del gruppo in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore.
Una prima problematica concerne la riconducibilità o meno della relazione sulla situazione patrimoniale dell’impresa prevista dall’art. 161 L.F. o di altri documenti analoghi (a titolo di esempio, la situazione finanziaria dell’impresa che il debitore che abbia presentato domanda di concordato in bianco, e cui sia stato assegnato per il deposito del piano e della proposta concordataria, deve depositare con cadenza mensile a norma dell’art. 161 comma 8° L.F.) alla nozione di “comunicazioni sociali previste dalla legge dirette ai soci od al pubblico”. [4]
La risposta deve ritenersi affermativa.
In primo luogo, per i documenti contabili sopra citati è prevista dall’art. 161 comma 5 ° e 8° L.F. una particolare forma di pubblicità, dovendo essere pubblicati nel registro delle imprese a cura del cancelliere, in modo tale che siano conoscibili per tutti coloro che siano interessati alle vicende della società che ha proposto la domanda di concordato (o che sia stata già ammessa alla procedura).
Inoltre, tradizionalmente la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto al delitto di falso in bilancio di cui all’art. 2621 cod. civ. la natura di reato plurioffensivo, posto a tutela non solo della fede pubblica ma anche degli interessi patrimoniali della società, dei singoli soci, dei creditori e dei terzi che entrano in rapporto con la società [5].
Le successive modifiche intervenute nella formulazione della norma non ne hanno modificato la struttura in ordine ai soggetti destinatari ed ai beni giuridici tutelati.
Va, inoltre, osservato che eventuali dubbi che erano sorti in ordine alla persistente rilevanza penale del falso valutativo all’indomani dell’entrata in vigore dalla legge 27 maggio 2015 n. 69 – che ha eliminato l’inciso “ancorchè oggetto di valutazioni “ – essendo state pronunciate alcune sentenze contrastanti sul punto dalla V Sezione Penale della Corte di Cassazione, sono stati definitivamente fugati dal celeberrimo arresto delle Sezioni Unite Passarelli[6].
Il Supremo Collegio ha ritenuto irrilevante che il nuovo testo non faccia più riferimento alle “informazioni” ma solo ai “fatti materiali rilevanti” non rispondenti al vero, considerata la natura meramente concessiva/specificativa – e sostanzialmente la superfluità – del sintagma “ancorchè oggetto di valutazioni”, come, del resto, ritenuto dalla giurisprudenza antecedente alla riforma del 2015.
In particolare, l’esclusivo riferimento ai “fatti materiali” oggetto di falsa rappresentazione non ha avuto l’effetto di escludere dal perimetro della repressione penale gli enunciati valutativi, i quali ben possono essere definiti falsi quando si pongano in contrasto con criteri di valutazione normativamente determinati ovvero tecnicamente generalmente accettati (si è osservato, proposito, che la valutazione, se fa obbligatorio riferimento a criteri vincolanti e predeterminati, è un modo di rappresentare la realtà non dissimile dalla descrizione o dalla constatazione).
D’altra parte, il termine di “materialità” non va inteso nell’accezione comune, trattandosi di espressione del linguaggio contabile di derivazione anglosassone, e vuole significare essenzialità, nel senso che nella redazione del bilancio devono essere riportati ( e valutati ) solo dati informativi essenziali, cioè significativi ai fini dell’informazione, utili a garantire la rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società e del risultato economico di esercizio (art. 2423 cod. civ.).
“Rilevanza” è un concetto di origine comunitaria (art. 2. Punto 16 dir. 2013/34/UE) e deve intendersi l’idoneità dell’informazione ad influenzare le decisioni dei destinatari, degli utilizzatori sulla base del bilancio.
Per “rilevanza” deve quindi intendersi l’idoneità del dato falsamente esposto ad alterare in modo apprezzabile il quadro d’insieme, ad indurre concretamente in errore il lettore del documento.
In conclusione, il falso valutativo per essere rilevante deve riguardare dati informativi essenziali idonei ad ingannare i destinatari e ad indurli a scelte potenzialmente pregiudizievoli per gli stessi.
La sentenza delle S.U. ha, infine, concluso che tale potenzialità ingannatoria ben può derivare dalla esposizione in bilancio di un bene inesistente o dalla omissione di un bene esistente, o dalla falsa valutazione di un bene che è pure presente nel patrimonio sociale.
Alla luce delle sopra illustrate argomentazioni delle S.U., non può esservi dubbio che ove la relazione aggiornata sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa, allegata alla domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo a norma dell’art. 161 comma 2° lett a) L.F., così come la situazione finanziaria dell’impresa depositata a norma dell’art. 161 comma 8° L.F contengano una rappresentazione inveritiera della situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società proponente, frutto della violazione dei criteri di valutazione normativamente fissati o dei criteri tecnici generalmente accettati – connotata da rilevanza e significatività - e siano concretamente idonee a trarre in errore sia gli organi fallimentari e soprattutto i creditori, inducendo soprattutto questi ultimi ad approvare una proposta di concordato che senza la falsa rappresentazione non avrebbe mai ottenuto la loro adesione e che pregiudica i loro interessi patrimoniali, non vi sono elementi ostativi alla configurabilità del delitto di false comunicazioni sociali[7].
4. Ambito di applicazione dell’art. 236 comma 2° L.F.
Come per la previsione legislativa di cui al primo comma dell’art. 236 L.F. , anche per la norma in esame è stata riscontrata una disparità di trattamento (questa volta in termini rovesciati) tra gli organi societari che rispondono dei fatti di bancarotta, in virtù del richiamo agli artt. 223 e 224 L.F. , gli imprenditori individuali cui non si applica tale disciplina.
La Suprema Corte ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in merito [8], evidenziando la diversità della posizione dell’impresa individuale e di quella societaria di fronte alla procedura di concordato preventivo (e di amministrazione controllata) e rilevando, in sintonia con quanto da tempo sostenuto dalla dottrina [9], la maggiore gravità riconosciuta alle condotte commesse da soggetti che non sono titolari del patrimonio pregiudicato dalle condotte illecite.
L’imprenditore individuale, infatti, a differenza dei titolari delle cariche sociali, nel porre in essere le condotte di bancarotta, pone in pericolo non solo gli interessi dei creditori ma anche il proprio patrimonio, il quale nella sua interezza è posto a garanzia delle obbligazioni assunte nell’esercizio dell’impresa.
5. Applicabilità dell’art. 236 comma 2° L.F. a seguito della riforma della legge fallimentare
Si è già accennato che all’indomani dell’entrata in vigore della riforma del diritto fallimentare del 2005, è stata sollevata [10] la questione della perdurante applicabilità di tale norma, e ciò in conseguenza del mutamento normativo dei presupposti di accesso alla procedura concordataria, non più identici a quelli del fallimento, e del venir meno dell’automatismo tra concordato preventivo e fallimento.
In particolare, dopo l’intervento legislativo di riforma della materia fallimentare, presupposto di accesso alla procedura di concordato preventivo non è più lo “stato di insolvenza” ma lo “stato di crisi” che, da un lato, può comprendere anche l’insolvenza, come puntualizzato dall’art. 160 comma 3° L.F., dall’altro, non coincide in via esclusiva con lo stesso[11].
Inoltre, in base al nuovo dettato normativo dell’art. 162 comma 2° L.F. , qualora la proposta di concordato preventivo venga dichiarata inammissibile, il fallimento può essere dichiarato soltanto previo accertamento dei presupposti di cui agli artt. 1 e 5 L.F… Analoga disciplina è prevista dall’art. 173 L.F. in caso di revoca dell’ammissione al concordato o dall’art. 180 L.F. in caso di mancata omologa del concordato.
In conclusione, il venir meno con la riforma del diritto fallimentare dell’automatismo tra concordato preventivo e fallimento farebbe parimenti venir meno il fondamento del rinvio operato dall’art. 236 comma 2° n. 1 e 2 L.F. alle norme penali ricollegabili al fallimento e che giustificava l’equiparazione tra gli effetti della dichiarazione di fallimento e l’ammissione alla procedura di concordato preventivo.
Tale affermazione non è condivisibile.
Va osservato che secondo la giurisprudenza consolidata di legittimità,[12] che si era pronunciata sull’istituto dell’amministrazione controllata prima della sua abrogazione con la riforma del 2005, il legislatore, in virtù del richiamo dell’art. 236 comma 2 ^ L.F. (“Nel caso di concordato preventivo o di amministrazione controllata si applicano….”) alle norme della bancarotta impropria (art. 223 e 224 L.F.) aveva equiparato agli effetti penali il decreto di ammissione alla procedura di amministrazione controllata alla sentenza dichiarativa di fallimento.
Anche tale procedura, come l’attuale concordato preventivo, presentava un diverso presupposto di accesso (difficoltà ad adempiere e non lo stato di insolvenza) rispetto a quella fallimentare e l’abrogato art. 189 L.F. , in caso di diniego dei creditori all’amministrazione controllata, non prevedeva l’automatica instaurazione della procedura fallimentare, come era una volta stabilito per il concordato preventivo.
Deve dunque ritenersi che il fondamento del rinvio operato dall’art. 236 comma 2° L.F. non risiedesse nella identità dei presupposti di accesso e nella continuità delle procedure , caratteristiche che possedeva solo il concordato preventivo pre riforma e non l’amministrazione controllata.
La giurisprudenza di legittimità più recente [13] , chiamata a pronunciarsi sull’applicabilità al concordato preventivo delle norme penali in materia di bancarotta e sulla sollevata questione di legittimità per violazione dell’art. 3 della Cost., in relazione alla differenza dei presupposti e caratteristiche delle due procedure, ha rigettato la questione di legittimità costituzionale osservando che “ rientra nei poteri discrezionali del legislatore equiparare quoad poenam situazioni concretamente diverse ma aventi la medesima finalità della tutela dei creditori a fronte dell’attività del debitore non ancora impossibilato del tutto alla fisiologica estinzione delle proprie obbligazioni” ed ha ribadito la parificazione del decreto di ammissione al concordato preventivo alla sentenza dichiarativa di fallimento, assumendo la stessa funzione e svolgendo la stessa efficacia nelle fattispecie di bancarotta fraudolenta.
6. Disciplina dell’art. 236 comma 2° L.F. e rapporto con la dichiarazione di fallimento
Una prima questione dibattuta in dottrina riguarda l’applicabilità al concordato delle norme di cui agli artt. 223 e 224 L.F. nella parte in cui puniscono a titolo di bancarotta fraudolenta o semplice condotte che abbiano cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società.
Essendo la nozione di dissesto difficilmente compatibile con lo stato di crisi se questo non ha assunto la forma dell’insolvenza, si è ritenuto[14] che in queste ipotesi la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 236 comma 2° L.F. “abbia vigenza soltanto quando la commissione dei fatti sottesi dalle norme penali ad opera del debitore concordatario abbia determinato non già la impalpabile (sia in termini economici sia nel profilo giuridico) soglia della crisi bensì il più <
Altra questione di maggiore caratura è se la penale responsabilità prevista dall’art. 236 comma 2° L.F. sia comunque ascrivibile ai soggetti titolari di funzioni gestorie sociali, che siano resi responsabili dei fatti di bancarotta, indipendentemente dal verificarsi della successiva dichiarazione di fallimento della società, in un primo momento ammessa alla procedura concordataria.
La dottrina, orientata in senso negativo [15] in periodo più risalente, si è in tempi più recenti espressa in termini affermativi[16].
La Suprema Corte [17] ha affermato che le condotte distrattive poste in essere prima dell'ammissione al concordato preventivo rientrano, anche nel caso in cui la società non sia poi stata dichiarata fallita, nell'ambito previsionale dell'art. 236, comma secondo, L.F. il quale, in virtù dell'espresso richiamo all'art. 223 L.F., punisce i fatti di bancarotta previsti dall'art. 216 L.F., commessi da amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società fallite.
L’art. 236 comma 2° L.F. quindi punisce i titolari di cariche sociali che si siano resi responsabili di condotte di bancarotta commesse nella gestione di società ammesse al concordato preventivo, anche se poi non sfociato nel fallimento.
Il giudice di legittimità ha precisato che ove si accogliesse la tesi secondo cui la punibilità della bancarotta nelle procedure concorsuali "minori" dipendesse dall'effettiva successiva instaurazione di quella fallimentare, si affermerebbe una interpretatio abrogans del dettato dell'art 236 L.F., il quale, invece, rivela la volontà del legislatore di punire, per l'appunto, in maniera autonoma, le condotte di bancarotta commesse nelle diverse procedure concorsuali, al fine di evitare che restino imputati gravi comportamenti verificatisi prima ed anche in assenza del fallimento.
In definitiva, l'autonomia della fattispecie in esame dalle altre ipotesi di bancarotta contemplate dalla legge fallimentare, con le quali sostanzialmente condivide l'oggetto giuridico, si caratterizza per il particolare disvalore della modalità d'offesa selezionata dalla norma incriminatrice, individuato nella consumazione delle tradizionali condotte di bancarotta nell'ambito delle singole procedure concorsuali pre fallimentari.
Peraltro, a tale conclusione la giurisprudenza di legittimità era già addivenuta prima dell’entrata in vigore della riforma del 2005[18] anche con riferimento all’istituto dell’amministrazione controllata, essendo stato ritenuto che ai fini della punibilità dei fatti di bancarotta commessi nell’ambito della procedura c.d. “minore” non occorresse che quest’ultima fosse sfociata nel fallimento.
7. Consumazione del delitto di bancarotta concordataria
Trasponendo al concordato preventivo gli approdi cui è pervenuta la Corte di Cassazione in materia di bancarotta pre-fallimentare, il momento consumativo del delitto di bancarotta concordataria coincide con la data di emissione del decreto che ammette l’imprenditore societario al concordato preventivo, determinando la dichiarazione giudiziale non soltanto il c.d. “tempus commissi delicti” ma anche la localizzazione dell’illecito ai fini processuali nel luogo in cui si trova il Tribunale che ha emesso tale dichiarazione [19], e ciò indipendentemente dal fatto che il provvedimento giudiziale ricognitivo dello stato di crisi venga configurato come elemento costitutivo del reato o, come in talune recenti sentenze del giudice di legittimità, come condizione obbiettiva di punibilità [20].
Ne consegue che ogni condotta penalmente rilevante[21] antecedente al provvedimento di ammissione della società alla procedura di concordato preventivo viene ricondotta alla pronuncia giudiziale.
8. Atti distrattivi compiuti dopo l’ammissione al concordato preventivo.
Va osservato che in virtù del rinvio dell’art. 223 L.F. ai tutti fatti disciplinati dall’art. 216 L.F., commessi quindi non solo prima dell’apertura della procedura fallimentare, ma anche in costanza della stessa (comma 2° della predetta norma), il rinvio dell’art. 236 comma 2° all’art. 223 L.F. consente la punizione degli atti distrattivi commessi anche durante la procedura concordataria.
Va premesso che il provvedimento ricognitivo dello stato di crisi – decreto di ammissione al concordato preventivo – certifica l’effettiva inidoneità del patrimonio dell’impresa a soddisfare le pretese dei creditori, rendendo potenzialmente pregiudizievole per il patrimonio sociale qualsiasi atto dispositivo dei beni patrimoniali, salvo che non sia stata verificata, tramite il provvedimento di autorizzazione del G.D. (richiesto dall’art. 167 comma 2° L.F. per gli atti di straordinaria amministrazione), l’inerenza all’attività di impresa.
Tale inerenza dell’atto dispositivo non può essere decisa autonomamente dall’imprenditore ammesso al concordato, ma deve essere sottoposta all’autorizzazione degli organi della procedura.
Si verifica, tuttavia, frequentemente nella prassi giudiziaria, che l’imprenditore in concordato, tenda a dimenticarsi che, pur conservando l’amministrazione dei suoi beni, l’esercizio della sua impresa è soggetto a dei limiti per effetto dell’ammissione alla procedura concordataria e così assume iniziative autonome che sfociano in condotte penalmente rilevanti.
La Suprema Corte [22] si è occupata di un caso in cui il legale rappresentante della società ammessa alla procedura concordataria aveva, senza l’autorizzazione del G.D., prelevato fondi dalla società per erogarli, a titolo di finanziamento, a terzi e, pur essendo la somma distratta stata successivamente restituita, il giudice di legittimità non ha potuto altro che affermare che la distrazione di somme da una società ammessa al concordato preventivo configura un'ipotesi di bancarotta fraudolenta postfallimentare in relazione alla quale la restituzione della somma distratta non realizza una forma di cosiddetta bancarotta "riparata". In proposito, affinchè il reato non sia configurabile sotto il profilo della materialità, l'attività di segno contrario che annulla la sottrazione deve reintegrare il patrimonio dell'impresa prima della dichiarazione di fallimento o del decreto che ammette il concordato preventivo, evitando che il pericolo della dispersione della garanzia dei creditori acquisisca effettiva concretezza.
9. Atti distrattivi commessi successivamente all’approvazione del concordato ed al provvedimento giudiziale di omologa.
In un recente arresto la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla questione di diritto se sia configurabile il delitto di bancarotta fraudolenta in caso di distrazione o dissipazione di beni la cui cessione sia stata espressamente prevista in un piano approvato dai creditori ed omologato dal Tribunale. Il giudice di legittimità, pur non ravvisando, nel caso concreto, la configurabilità del delitto di bancarotta, ha risposto, in linea teorica, affermativamente a tale quesito nell’ipotesi di indebito uso della procedura concordataria in frode al ceto creditorio per la realizzazione di un interesse illecito del proponente.
E’ quindi necessario che il soggetto proponente il piano di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti abbia utilizzato la procedura concordataria in frode al ceto creditorio, mediante una chiara ed indiscutibile manipolazione della realtà aziendale, tale da falsare il giudizio dei creditori e orientarli in maniera presumibilmente diversa rispetto a quella che sarebbe conseguita ad una corretta rappresentazione.[23]
Il giudice di legittimità, partendo dalla premessa che l'art. 236 cit., nel prevedere l'applicazione degli artt. 223 e 224 legge fall. "nel caso di concordato preventivo", si riferisca non solo ai fatti commessi ante procedura, ma anche ai fatti commessi "attraverso la procedura", indebitamente piegata a fini illeciti, ha precisato che per configurare il delitto di bancarotta occorre che il piano sia congegnato in maniera frodatoria, per la realizzazione di interessi diversi da quelli sottesi alla normativa concordataria, pensata e voluta dal legislatore per favorire il risanamento delle imprese o la loro liquidazione.
Il carattere frodatorio del piano va accertato in concreto e, derivando da una chiara ed indiscutibile manipolazione della realtà aziendale, non può consistere in una diversa lettura dei dati esposti nel piano da parte dei soggetti cui è demandata la funzione di verifica; presuppone quindi una rappresentazione non veritiera della realtà aziendale, attuata attraverso la volontaria pretermissione - nel piano - di cespiti rilevanti (beni strumentali, crediti, ecc.), attraverso l'indicazione di attività o l'esposizione di passività inesistenti, ovvero in presenza di qualunque altro comportamento obbiettivamente idoneo ad ingannare i creditori e che legittimerebbe la revoca del concordato, ex art. 173 legge fall..
L'indicazione legislativa contenuta nella norma suddetta costituisce, infatti, valido riferimento per giungere non solo alla risoluzione del concordato preventivo, ma anche per punire, sub specie di distrazione o dissipazione, condotte che tradiscono, in modo indiscutibile e non congetturale, lo spirito e la funzione degli istituti di "risoluzione della crisi d'impresa", pensati dal legislatore per favorire la salvaguardia di valori aziendali inevitabilmente compromessi dal fallimento e non certo per consentire all'imprenditore di avvantaggiarsi, a danno dei creditori, delle "crisi" cui ha dato luogo; sempreché, ovviamente, le condotte censurate determinino una distrazione o dissipazione di attività aziendali.
La Suprema Corte ha risposto, inoltre, affermativamente alla questione, comportante notevoli ricadute sul piano pratico, se la giurisdizione penale possa attivarsi prima che sia disposta, da parte degli organi fallimentari, la "revoca" del concordato, ex art. 173 cit. , e ciò in relazione alla tendenziale autosufficienza della giurisdizione penale, che consente di risolvere ogni questione da cui dipenda la decisione (art. 2 cod. proc. pen.). E poiché nello specifico del concordato preventivo l'art. 236 legge fall. fa salva espressamente l'applicabilità degli artt. 223 e 224, ne consegue che ogni condotta rivolta a commettere i reati previsti dalle norme suddette, in qualunque momento posta in essere (prima dell'ammissione alla procedura concordataria, durante lo svolgimento della procedura o dopo la revoca del provvedimento di ammissione), diviene perseguibile dal giudice penale.
10. Atti distrattivi compiuti prima dell’ammissione al concordato preventivo da amministratore di società poi fallita.
Nell’ipotesi in cui, a seguito dell’esito infausto della procedura concordataria, venga successivamente pronunciata la sentenza dichiarativa di fallimento, la Suprema Corte ha statuito che il concorso di norme tra l’art. 236 comma 2° n. 1 L.F. e l’art. 223 L.F. va risolto utilizzando il principio di specificità con l’applicazione delle fattispecie di bancarotta fallimentare [24].
In tale eventualità, è orientamento consolidato del giudice di legittimità [25] che la prescrizione decorra dalla sentenza dichiarativa di fallimento e non dalla ammissione al concordato preventivo, stante la diversità tra le due procedure che non consente di intravvedere nella successione delle vicende concorsuali la medesima connotazione e quella uniformità che può consentire l'assorbimento cronologico della seconda procedura nella prima.
Un tema degno di nota di cui si è occupato il giudice di legittimità, in ipotesi di procedura concordataria poi sfociata in fallimento, è la configurabilità dell’elemento soggettivo del delitto di bancarotta patrimoniale nel caso in cui la procedura di concordato non sia andata a buon fine per fatti indipendenti dalla volontà del debitore.
La Suprema Corte ha affermato che le condotte distrattive compiute prima dell'ammissione al concordato preventivo di una società poi dichiarata fallita integrano il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale anche nel caso in cui l'agente abbia ottenuto l'ammissione al concordato preventivo, si sia adoperato per il buon esito della procedura, e questo non sia stato conseguito per fatti indipendenti dalla sua volontà, in quanto, laddove si verifichi il fallimento, ai fini della configurabilità del dolo, è sufficiente la consapevole volontà di aver dato (al momento del compimento dell’atto distrattivo) al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte[26].
Atteso che l’atto distrattivo si caratterizza, sotto il profilo oggettivo, per la sua idoneità a porre in pericolo il patrimonio sociale, costituente la garanzia dei creditori, e sotto il profilo soggettivo, per la mera consapevolezza di dare al patrimonio una destinazione diversa dal perseguimento degli scopi della società, il successivo fallimento, per quanto non voluto, vale a connotare le precedenti condotte depauperative , in qualunque tempo verificatesi, attualizzando la lesione del bene giuridico tutelato, ovvero l’interesse del ceto creditorio alla conservazione della garanzia patrimoniale rappresentata dai beni sociali[i].
[i] Relazione depositata in occasione dell’incontro di studi sul tema “Concordato preventivo e fallimento: una prospettiva interdisciplinare su prassi applicative, opzioni interpretative e prospettive di riforma”, tenutosi a Bologna nei giorni 7-9/05/2018 a cura della struttura territoriale di Bologna della scuola superiore di Magistratura.
[1] Sez V n. 31451 del 20/01/2017, depositata il 23/96/2017, non mass.
[2] Sez. V n. 9392 del 3 luglio 1991, D’amico, Rv. 188188; in “Cassazione Penale” 1992, pag. 166.
[3] Sez V n. 3736 del 23 marzo 2000, Simoncelli, Rv. 188188 in “Rivista Penale” , pag. 694,
[4] In termini negativi si esprime sul punto D. Pasquariello, in “La responsabilità penale dei protagonisti delle procedure di composizione negoziale delle crisi di impresa”, relazione all’incontro di studi della formazione decentrata presso la Corte di Appello di Bologna, Bologna, 24 gennaio 2011, pag. 10.
L’autore evidenzia che le comunicazioni fornite per l’ammissione al concordato preventivo non sono dirette al pubblico ma al ceto predeterminato e circoscritto dei soggetti creditori.
Anche per G. Termini il richiamo alle norme societarie ex art. 2621 e 2622 c.c. appare meramente teorico date le difficoltà applicative che tali figure criminose trovano nella pratica giudiziaria, in “Il Mancato rispetto degli obblighi del fallito. La riforma del concordato preventivo”, relazione tenuta nel Convegno di Torino del 10 e 11 novembre 2006 sui Profili penali della riforma del fallimento, pag. 9.
[5] Sez V n. 4073 del 26/09/1994, Rv. 200191. La citata pronuncia ne ha tratto la conseguenza che al creditore spettasse la qualifica di persona offesa dal reato e come tale legittimata a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione. In termini analoghi si è espressa Sez V n. 3949 del 28/02/1991, Rv. 186896, che ha affermato che la tutela sancita dalla legge riguardi non soltanto la società, i soci uti singuli, i futuri soci, i possibili creditori e terzi interessati ma si estende all’interesse generale al regolare funzionamento delle società commerciali nell’ambito dell’economia nazionale.
[6] S.U. n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli, Rv. 266802.
[7] Soluzione avvalorata dalla Sez. V n. 31451 del 20/01/2017, sopra citata.
[8] Sez V 29/09/1983 n. 10517, Totaro, Rv. 161588; Sez. V 6/10/1999 n. 12897, Tassan Din, non massim. sul punto.
[9] Nuvolone, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Milano, 1955, 232
[10] Rossi, Manuale di diritto penale , Leggi Complementari, vol II, I reati fallimentari, tributari, ambientali e dell’Urbanistica. F. Antolisei , a cura di C.F. Grosso, Milano 2008, pag. 326.
[11] La Legge 19 ottobre 2017, n. 155, recante "Delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza" dispone all’art. 2 lett. c) che il legislatore delegato dovrà introdurre una definizione dello stato di crisi, intesa come probabilita' di futura insolvenza, anche tenendo conto delle elaborazioni della scienza aziendalistica, mantenendo l'attuale nozione di insolvenza di cui all'articolo 5 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267.
[12] Sez. V n. 12897 del 6 ottobre 1999, Tassan Din, Rv. 214859;
[13] Sez. V n. 33320 del 18 maggio 2012, Valsecchi, non massim.
[14] R. Bricchetti, F. Mucciarelli, G. Sandrelli, Commento agli artt. 216-241 L.F. in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da Jorio, Bologna, 2006, pag. 2744.
[15] G. Ferri, Sull’interpretazione dell’art. 236 L.F., in Rivista Italiana di Diritto Penale, 1952, pag. 725.
[16] C. Pedrazzi, I reati Fallimentari, In Manuale di diritto penale dell’impresa, Bologna, 2003, pag. 208.
[17] Sez. 5, n. 26444 del 28/05/2014 - dep. 18/06/2014, Denaro e altro, Rv. 259849.
[18] Sez. V n. 12897 del 6 ottobre 1999 cit.
[19] G.G. Sandrelli in “La riforma penale della legge fallimentare: i rimedi per la crisi di impresa, il concordato preventivo e le nuove fattispecie (art. 217 bis e 236 bis L. fall.), in Archivio Penale 2015, n. 2, pag. 24.
[20] Sez. V, n. 13910 del 08/02/2017, Santoro, Rv. 269389 che, nel qualificare la dichiarazione di fallimento quale condizione obiettiva di punibilità, ha precisato che tale approdo non è suscettibile di determinare alcun significativo mutamento nelle regole operative di individuazione del tempo e del luogo di consumazione del delitto di bancarotta. “………. Ciò è senz'altro vero, con riferimento alla disciplina della prescrizione, alla luce dell'art. 158, comma secondo, cod. pen., a mente del quale, quando la legge fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione, il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata………. Tuttavia, lo stesso art. 158, comma secondo, cod. pen. dimostra che, nel dettare la disciplina delle questioni che presuppongono la consumazione del reato, è proprio il verificarsi della condizione che assume rilievo determinante. Siffatta considerazione consente di affermare che il concetto di consumazione del reato di cui all'art. 8 cod. proc. pen., in assenza di vincolanti e diverse prescrizioni normative, deve appunto essere ricostruito nei termini di completa realizzazione della fattispecie incriminatrice (e si è sopra visto, come anche per Corte cost. n. 247 del 1989, la condizione obiettiva di punibilità rientri nella fattispecie). La conclusione, oltre a garantire una piena equiparazione delle soluzioni in tema di tempus e di locus commissi delicti, la cui diversificazione non avrebbe senso alcuno, è coerente con le finalità delle norme che assumono la consumazione del reato a presupposto della loro applicabilità, giacché la condizione di punibilità, pur estranea, nella accezione che qui assume rilievo, all'offesa, comunque rappresenta il dato che giustifica l'intervento sanzionatorio dello Stato….……”.
- Sez. 5, n. 12365 del 12/02/2018, Cesati Cassin richiama la sentenza Santoro con riferimento al tempus e al locus commissi delicti.
- Sez. 5, n. 45288 del 11/05/2017, Gianesini, Rv. 271114, sottolinea l’indifferenza, ai fini dell’individuazione del dies a quo per la decorrenza del termine di prescrizione, della configurazione della sentenza di fallimento come elemento costitutivo o condizione di punibilità.
[21] Si devono segnalare due recenti pronunce, in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale della sezione V Penale della Corte di Cassazione, la n. 13910 del 8.2.2017, Santoro, Rv. 269389, e la n. 17819 del 24/03/2017, Palitta, che presentano entrambe profili di assoluta novità e che elaborano soluzioni che si muovono in una diversa direzione in ordine alla stessa nozione di atti distrattivi ed alla qualificazione della sentenza di dichiarativa di fallimento nell’ambito del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale.
La prima sentenza Santoro, dal nome dell’imputato, n. 13910 del 8.2.2017, ha configurato la sentenza dichiarativa di fallimento come una condizione obiettiva di punibilità.
Questa sentenza muove dall’esigenza di superare le criticità emergenti dalla tradizionale classificazione della sentenza dichiarativa di fallimento come elemento costitutivo del reato c.d. “improprio” , non coincidente con l’evento del reato - ciò si evince dal chiaro dato normativo per il quale la rilevanza del rapporto causale tra condotta e dissesto è previsto per le sole fattispecie di bancarotta impropria ex art. 223 comma 2° L.F. - , non legato dalla condotta distrattiva da un nesso di causalità ed estraneo all’atteggiamento psichico dell’agente.
Tale qualificazione giuridica è stata ritenuta da una parte dei commentatori scarsamente compatibile con i principi costituzionali in materia di personalità della responsabilità penale.
Orbene, la diversa qualificazione giuridica della sentenza dichiarativa di fallimento quale condizione obiettiva di punibilità muove, in primo luogo, dagli approdi cui è giunta la giurisprudenza della Corte di Cassazione nella elaborazione del concetto di atto distrattivo integrante il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale.
Partendo dal presupposto che l’oggetto giuridico del reato di bancarotta fraudolenta, tutelato dall’art. 216 comma 1° n. 1 L.F., è l’interesse dei creditori alla conservazione dell’integrità del patrimonio dell’impresa a garanzia dei loro crediti (Corte Cost. ord. N. 268 del 1989; S.U. n. 21039 del 2011, Loy), nozione che consente di configurare la bancarotta fraudolenta patrimoniale come reato di pericolo, integra l’atto distrattivo, sotto il profilo dell’elemento oggettivo, qualunque condotta che determini un depauperamento del patrimonio dell’impresa o che sia anche solo potenzialmente idonea a porre in pericolo le ragioni dei creditori. Essendo quindi sufficiente ai fini della configurabilità del delitto in oggetto che l’agente abbia cagionato il depauperamento del patrimonio dell’impresa (o lo abbia solo messo in pericolo), destinandone le risorse ad impieghi estranei all’attività d’impresa, si è ritenuto ed è stato recentemente ribadito dalla sentenza delle S.U. Passarelli, Rv. 266804, sopra citata, che, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, i fatti distrattivi assumono rilevanza in qualsiasi tempo siano stati commessi e quindi anche se la condotta è stata realizzata quando l’impresa non versava ancora in condizioni di insolvenza.
La sentenza Santoro quindi evidenzia, alla luce di tale ricostruzione, che l’offesa agli interessi dei creditori si realizza già nella sua massima gravità con l’atto depauperativo, indipendentemente da quanto lo stesso è stato commesso, e a prescindere dalla successiva dichiarazione di fallimento, con la conseguenza che il reato deve considerarsi pienamente integrato in tutti i suoi elementi costitutivi già con il compimento dell’atto distrattivo, incidendo la sentenza dichiarativa di fallimento solo sulla sua punibilità. Tale ricostruzione giuridica elimina l’anomalia di considerare come elemento costitutivo di una fattispecie criminosa un elemento estraneo alla condotta dell’agente ed all’offesa al bene giuridico protetto, quale un provvedimento del giudice (la dichiarazione di fallimento) ed è peraltro pienamente conforme a quanto ritenuto dalle S.U. del 2016 nella sentenza Passarelli, che, pur non qualificando la sentenza dichiarativa di fallimento quale condizione di punibilità, tale ruolo in concreto le ha inequivocabilmente assegnato, avendola definita come evento successivo ed estraneo alla condotta di distrazione cui è subordinata la punibilità.
La seconda sentenza n. 17819 del 24/03/2017, Palitta, muove dalla diversa impostazione che affinchè il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale sia realmente un reato di pericolo concreto, l’interesse giuridico tutelato dalla norma incriminatrice deve essere individuato non tanto nell’interesse tout court dei creditori alla conservazione dell’integrità del patrimonio, ma in una prospettiva di soddisfacimento concorsuale, quindi in caso di apertura della procedura concorsuale. E’ quindi atto distrattivo non una qualsiasi condotta che determini un impoverimento dell’asse patrimoniale dell’impresa, non ogni distacco del bene dal patrimonio della società, ma quello che ponga in pericolo la garanzia che la massa dei creditori, al momento del fallimento, sarà in grado di escutere.
In questa prospettiva, la sentenza Palitta ha valorizzato quelle pronunce della Suprema Corte che hanno ritenuto che, ai fini della configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta, il pregiudizio ai creditori deve sussistere non già al momento della commissione dell'atto antidoveroso, ma al momento della dichiarazione giudiziale di fallimento che sola rileva ai fini dell’individuazione del momento consumativo del reato.
Se la dichiarazione di fallimento rappresenta il momento in cui si verifica la consumazione del reato di bancarotta, tale provvedimento non può costituire una condizione obiettiva di punibilità.
Pertanto, non integra fatto punibile come bancarotta per distrazione la condotta, ancorché fraudolenta, la cui portata pregiudizievole risulti annullata per effetto di un atto o di un'attività di segno inverso, capace di reintegrare il patrimonio della fallita prima della soglia cronologica costituita dall'apertura della procedura, quantomeno, prima dell'insorgenza della situazione di dissesto produttiva del fallimento. (Sez. 5, n. 8402 del 03/02/2011 - dep. 02/03/2011, Cannavale, Rv. 24972101). Questa è la classica situazione della c.d. bancarotta riparata.
La sentenza, nel cercare di individuare le ipotesi in cui la condotta dell’imprenditore ponga concretamente in pericolo le ragioni dei creditori, evidenzia che, laddove vi sia uno stretto rapporto cronologico tra l’atto dispositivo che diminuisce la garanzia dei creditori della futura procedura concorsuale e la manifestazione dei segnali indicatori di una crisi di impresa o addirittura dell’insolvenza, è agevole la ricostruzione in concreto della condotta distrattiva, essendo evidente non solo la natura pericolosa ma anche depauperativa dell’azione.
L’atto distrattivo compiuto in prossimità dello stato di insolvenza può ritenersi quindi idoneo a creare un pericolo concreto per i creditori .
Per quanto concerne l’atto distrattivo o dissipativo compiuto in una fase antecedente alla manifestazione dello stato di insolvenza, pur non occorrendo, come nell’ipotesi di cui all’art. 223 comma 2 n. 1 c.c. che tale atto avesse cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società, occorre che al momento del compimento dell’atto il dissesto ed il successivo fallimento fosse almeno prevedibile. Tale situazione ricorre in presenza di situazioni che presentino caratteristiche obiettive che, di regola, non richiedono particolari accertamenti per provare l’esposizione al pericolo del bene patrimonio (cessione a prezzo vile dell’azienda che determina l’impossibilità dell’impresa di realizzare l’oggetto sociale).
-Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, Sgaramella, Rv. 270763 considera la questione “elemento costitutivo/condizione obiettiva di punibilità” non decisiva ai fini della tenuta costituzionale della norma incriminatrice, ritenendo, invece, centrali – in linea con la sentenza Palitta ed anche con riguardo al problema della distanza temporale del fatto distrattivo dalla sentenza di fallimento – la configurazione della fattispecie incriminatrice come reato di pericolo concreto e la correlata configurazione del dolo (con i connessi oneri motivazionali del giudice di merito), elaborando dei c.d. “principi di fraudolenza” nella valutazione del dolo.
[22] Sez. V n. 50289 del 07/07/2015, Rv. 265903. Nel caso esaminato il legale rappresentante di una società consortile ammessa al concordato preventivo, aveva , con due bonifici effettuati dai conti della società, senza la preventiva autorizzazione del giudice delegato, imposta dall’art. 167 comma 2° L.F., erogato un finanziamento a favore di una propria consorziata che lo impiegava per l’avvio di lavori edili, ed in occasione del primo stato di avanzamento il relativo pagamento veniva versato nelle casse consortili.
[23] Sez. V n. 50675 del 06/10/2016, Rv. 268595.
Nel caso esaminato dalla suprema Corte il G.I.P. aveva disposto il sequestro preventivo della somma di circa € 2.000.000 ( ed il Tribunale del Riesame confermato il provvedimento) ad una società che aveva acquistato l’azienda dalla società fallita, riferibile sempre al legale rappresentante della fallita, dopo che il P.M. aveva contestato a quest’ultimo, proponente il concordato preventivo in continuità, successivamente omologato, una condotta distrattiva pari alla differenza di valore (di importo di circa due milioni di euro) tra il prezzo di cessione dell’azienda indicato nella domanda concordataria ed il valore effettivo ritenuto dal Commissario Giudiziale, che aveva espresso parere negativo all’omologa del concordato.
La proposta prevedeva altresì l’azzeramento di due importanti posizione creditorie verso società collegate di diritto straniero. La Suprema Corte, nell’affermare il principio di cui alla massima, ha accolto il ricorso della società terza sul rilievo che in concreto non era stata fornita dell’azienda che la procedura concordataria fosse stata utilizzata in frode ai creditori - non potendosi di per sé attribuire carattere fraudolento alla diversa valutazione del valore dell’azienda operata dal debitore concordatario in relazione ai diversi metodi di valutazione dei cespiti - non essendo stato dimostrato che l’attribuzione all’azienda di un valore incongruo fosse da attribuire alle manovre decettive del proponente che aveva “montato “ una realtà aziendale diversa da quella effettiva, celando valori aziendali e ed enfatizzando passività inesistenti.
[24] Sez V n. 39307 del 28/9/2007, Rv. 238183.
[25] Sez. V n. 31117 del 30/06/2011 , Rv. 250588; Sez. 5, n. 15712 del 12/03/2014, Rv. 260220.
[26] Sez. V n. 33268 del 08/04/2015, Rv. 264354. Nel caso esaminato dalla predetta pronuncia, il legale rappresentante della società in un primo tempo ammessa al concordato preventivo, e poi fallita, aveva, prima dell’ammissione alla procedura, distratto beni e risorse finanziarie della società verso società dello stesso gruppo poi anch'esse fallite attraverso vendite senza corrispettivo, in assenza della prospettiva di ogni ipotizzabile vantaggio compensativo, in danno dei creditori, sottraendole risorse economiche e finanziarie. L’imputato si era difeso sostenendo l’assenza di dolo sul rilievo che si era adoperato per il buon esito del concordato preventivo non andato a buon fine per motivi indipendenti dalla sua volontà (fallimento di un grosso debitore, sopravvenuta incommerciabilità del magazzino).