La Corte Costituzionale ritorna sul tema della “materia penale”: verso uno statuto della disciplina delle sanzioni formalmente amministrative ma sostanzialmente penali?
di Andrea Venegoni
Sommario: 1. Introduzione – 2. La questione – 3. Tre considerazioni – 4. Un’ulteriore riflessione – 5. Sviluppi futuri.
1. Introduzione
Se si volesse dare una sorta di marchio distintivo alla sentenza n. 68 del 2021 della Corte Costituzionale, per identificarla immediatamente, forse questo dovrebbe risiedere nel concetto, tra i tanti che la decisione affronta, per cui con essa la Corte sembra espandere in maniera più incisiva che in passato le garanzie proprie delle sanzioni formalmente penali alla “materia penale”, cioè a quell’area non qualificata formalmente come tale, ma che del diritto penale, in particolare delle sanzioni, possiede alcune caratteristiche, sulla base dei notissimi criteri elaborati dalla Corte EDU a partire dalla sentenza Engel del 1976[1].
In questo caso, il passo compiuto in questo percorso riguarda l’applicabilità dell’art. 30 della legge 87 del 1958 che prevede, in campo penale, la prevalenza sul giudicato degli effetti della pronuncia di illegittimità costituzionale della norma sulla base della quale è stata irrogata la pena divenuta definitiva.
Ciò appare tanto più notevole perché non molto tempo fa la stessa Corte, in un’altra ben nota decisione su questione analoga, seppure non formalmente identica, la n. 43 del 2017, sembrava essere giunta a conclusioni opposte.
È del tutto legittimo, quindi, provare a ragionare su cosa è avvenuto nel frattempo e quale sia il rilievo della presente decisione.
2. La questione
La stessa ha l’antefatto in un’altra sentenza della Corte Costituzionale, la n. 88 del 2019[2], che ha riguardato l’art. 222, comma 2, quarto periodo, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada). Tale norma contiene disposizioni generali sulle sanzioni amministrative da violazioni del codice della strada e, fino alla suddetta decisione, prevedeva, in linea generale, l’applicazione della sanzione amministrativa della sospensione o della revoca della patente, a seconda del tipo di conseguenza derivante dalla violazione. In caso di lesioni personali, la sospensione della patente per un periodo variabile a seconda dell’entità delle stesse. Per i reati di cui agli art. 589-bis c.p. (omicidio stradale) e 590-bis c.p. (lesioni personali stradali gravi o gravissime), in caso di condanna o anche di applicazione della pena su richiesta, era prevista, invece, la revoca della patente, senza possibilità per il giudice di esercitare alcuna discrezionalità nella scelta tra quest’ultima più grave sanzione e quella più mite della sospensione. Ciò comportava una serie di ulteriori importanti conseguenze per il condannato, oltre all’applicazione della sanzione stessa, indicate nel comma 3-bis della stessa norma, quali l’impossibilità di ottenere una nuova patente prima che fosse decorso un determinato lasso di tempo, variabile a seconda delle caratteristiche del reato (in particolare, se fosse aggravato o meno).
Poiché, tuttavia, anche il reato di omicidio stradale di cui all’art. 589-bis c.p. e di lesioni personali stradali di cui all’art 590-bis c.p. si caratterizzano per una diversa gravità a seconda della modalità concreta della condotta (esistendo una figura “base”, non aggravata, e fattispecie aggravate come quelle di avere commesso il fatto in stato di ebbrezza, o l’essersi dati alla fuga dopo il fatto), la Corte Costituzionale, con la suddetta sentenza n. 88 del 2019, è intervenuta per stabilire la illegittimità del precitato art. 222 nella parte in cui non prevede che, nelle ipotesi non aggravate dei reati di cui agli artt. 589-bis e 590-bis del codice penale, il giudice possa disporre, in alternativa alla revoca della patente di guida, la sospensione della stessa.
In altri termini, pur nella consapevolezza della dannosità dei reati di omicidio stradale e lesioni personali gravi e gravissime, la Corte ha voluto significare che il giudice deve avere la possibilità di graduare la sanzione amministrativa a seconda della gravità del reato, applicando, nelle ipotesi non aggravate, invece della revoca automatica della patente, la più lieve sanzione della sospensione del titolo di guida.
Per inciso, e deviando – ma poi fino ad un certo punto - solo per un momento dal tema della “materia penale”, la n. 88 del 2019 costituisce una sentenza che, in generale, si inserisce in un orientamento che la Corte sta manifestando da tempo, tendente a valorizzare il grado di colpevolezza dell’imputato ed il principio di proporzionalità nell’irrogazione di sanzioni ulteriori rispetto a quella principale, e quindi sia amministrative che pene accessorie, rimodellando quelle disposizioni normative che prevedono l’applicazione automatica di pene in misura fissa e predeterminata. Ne è ulteriore esempio recente, tra le altre, la sentenza n. 222 del 2018 in materia di reati fallimentari[3].
Successivamente alla sentenza n. 88 del 2019, il giudice remittente si trova a dover decidere una istanza, come giudice dell’esecuzione, formulata da un condannato definitivo per omicidio stradale non aggravato; un imputato, quindi, al quale, alla luce della sopravvenuta decisione n. 88 del 2019, potrebbe essere applicata anche solo la sospensione della patente per un periodo limitato di tempo e non la revoca della stessa. L’istanza è, infatti, proprio in questi termini, per la sostituzione della disposta revoca della patente con la sospensione.
Il problema è la base legale per l’accoglimento, di cui, evidentemente, il giudice remittente ritiene sussistenti i presupposti, perché è vero che l’art. 30 della legge n. 87 del 1953, che disciplina il funzionamento della Corte Costituzionale, afferma, al quarto comma, con disposizione che si differenzia da quella generale del terzo comma, che “quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”, ma tale disposizione si riferisce in senso stretto alle sanzioni penali, e non a quelle amministrative.
Mentre, cioè, se la sanzione in questione fosse stata anche formalmente “penale”, la pena applicata si sarebbe potuta classificare, in seguito alla sopravvenuta pronuncia di incostituzionalità, come “pena illegale”, con necessità per lo Stato di riesaminare la situazione del condannato, ciò non sarebbe potuto avvenire in caso di sanzione formalmente “amministrativa”, non essendo ciò contemplato dal suddetto art. 30.
Da qui il dubbio sulla legittimità costituzionale di tale norma, allorché le statuizioni travolte dalla sopravvenuta incostituzionalità riguardino sanzioni che, sebbene formalmente amministrative, siano però qualificabili come “sostanzialmente penali” alla luce dell’elaborazione dalla Corte EDU sulla base dei noti “criteri Engel”.
Torna al centro dell’attenzione, in altri termini, il concetto di “materia penale” che tanto ha attirato l’attenzione dei giuristi in questi ultimi anni, come si può convenire sol che si pensi, per esempio, allo sviluppo del concetto del “ne bis in idem”.
La violazione è denunciata sotto vari profili, tra i quali, va detto, la Corte accoglie quello relativo alla violazione dell’art. 3 Cost., considerato poi assorbente di tutti gli altri, ma con una serie di argomentazioni che affondano le loro radici nell’applicazione dei principi convenzionali.
3. Tre considerazioni
Sulla questione, sono interessanti, in primo luogo, tre considerazioni, che testimoniano la complessità del tema e come ci si muova nell’interpretazione di queste norme su un terreno che definire scivoloso è un eufemismo, dove la diverse esegesi trovavano tutte valide giustificazioni, mettendo però, forse, a rischio un altro principio fondamentale, quello della certezza del diritto.
Le prime due riguardano sempre la materia delle violazioni al codice della strada.
La prima è che, investita – sempre a seguito della sentenza n. 88 del 2019 - della medesima questione che si era posta davanti al giudice remittente che ha determinato la pronuncia della Corte Costituzionale qui in commento, la Corte di Cassazione, a fine 2019, in almeno due casi, non aveva ritenuto di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 30 legge 87 del 1953, affermando che “la dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell'art. 222, comma 2, cod. strada, intervenuta con la sentenza della Corte costituzionale n. 88 del 2019, non comporta che, in caso di revoca della patente di guida disposta con sentenza di condanna passata in giudicato per alcuno dei delitti previsti dagli art. 589-bis e 590-bis cod. pen., il giudice dell'esecuzione possa applicare, in luogo della stessa, la più mite disciplina derivante dalla citata pronuncia della Corte costituzionale, atteso che detta revoca ha natura di sanzione amministrativa accessoria e, come tale, esula dall'ambito di operatività dell'art. 30, comma 4, della legge 11 marzo 1953, n. 87, che circoscrive soltanto alle pene la retroattività degli effetti favorevoli delle sentenze di illegittimità costituzionale oltre il limite dei rapporti esauriti”[4], il tutto sul presupposto dell’applicazione dei principi sì convenzionali, ma non necessariamente di tutti quelli costituzionali interni alle sanzioni amministrative rientranti nel concetto di “materia penale” elaborato dalla Corte EDU, proprio sulla scia della sentenza della Corte Costituzionale n. 43 del 2017.
La seconda richiede un’ulteriore premessa.
Anche l’art. 186 del codice della strada, che punisce la guida in stato di ebbrezza, prevede la revoca della patente.
Ciò avviene al comma 2-bis della norma, come sanzione al fatto che il guidatore in stato di ebbrezza abbia provocato un incidente stradale con un tasso alcolemico particolarmente elevato, per quanto la stessa norma faccia “salva in ogni caso l’applicazione dell’art. 222”.
Orbene, proposta, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 88 del 2019, questione di legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 2-bis, cod. strada, in relazione all'art. 3 Cost., e cioè proprio per una disparità di trattamento rispetto all’applicazione della stessa sanzione ai sensi dell’art. 222 cdS, la Corte di Cassazione ha dichiarato manifestamente infondata la questione affermando che “sussiste piena autonomia tra tale previsione e quella di cui all'art. 222 cod. strada, e non avendo, la declaratoria di parziale illegittimità costituzionale di tale ultima disposizione, ad opera della sentenza n. 88 del 2019 della Corte costituzionale, inciso sulla coerenza sistematica delle disposizioni in materia di revoca e sospensione della patente attualmente vigenti”[5].
Infine, ulteriore motivo di interesse della pronuncia n. 68 del 2021 è dato dal fatto che, invece, non molto tempo fa, l’analoga questione dell’incidenza di una pronuncia di illegittimità costituzionale sulle sanzioni amministrative irrogate con sentenza definitiva (anche se la fattispecie riguardava sanzioni diverse, per violazioni della normativa sulla tutela del lavoro) era già stata sollevata da altro giudice remittente e la Corte Costituzionale aveva dato, con la sentenza n. 43 del 2017, una risposta diversa da quella fornita oggi con la decisione in commento.
In quella occasione, la Corte aveva dichiarato non fondata la questione in virtù della asserita inesistenza, nella giurisprudenza della Corte EDU, del principio secondo cui la sopravvenuta illegittimità costituzionale di una norma sanzionatoria comporterebbe il venire meno della legalità della sanzione irrogata in base ad essa, con prevalenza sul giudicato.
Quella sentenza non si soffermava specificamente sulla qualificazione come “sostanzialmente penali” delle sanzioni amministrative in materia di lavoro che venivano in rilievo nella specie, e che il giudice remittente considerava tali.
La sentenza in commento, invece, giunge a diversa conclusione anche in virtù della natura della sanzione che viene in rilievo nel caso di specie, e cioè la revoca della patente che, come detto, non riguardava invece la vicenda della sentenza n. 43 del 2017.
Ciò che caratterizza la decisione e la differenzia non solo dalla sentenza n. 43 del 2017, ma anche dalla sopra citata giurisprudenza nazionale di legittimità, è la espressa qualificazione della sanzione in questione come “sostanzialmente penale” perché caratterizzata da “connotazioni sostanzialmente punitive”, come affermato in più occasioni nella giurisprudenza della Corte EDU ed il progressivo processo di assimilazione delle sanzioni amministrative sostanzialmente penali a quelle penali, manifestatosi, dopo la sentenza n. 43 del 2017, in una serie di pronunce della Corte Costituzionale citate in sentenza, tra cui la decisione n. 63 del 2019[6].
La sentenza n. 43 del 2017 esprime un concetto molto chiaro: il principio di legalità penale convenzionale, di cui all’art. 7 della CEDU, si estrinseca in requisiti quali quello di accessibilità e prevedibilità che devono connotare il diritto penale, ma non in quello per cui non sarebbero più applicabili sanzioni basate su norme dichiarate successivamente illegittime, previsto, invece, dall’ordinamento interno. Non estende, quindi, una garanzia penalistica interna delle sanzioni formalmente penali alle sanzioni che, pur “sostanzialmente penali” sono, però, formalmente amministrative. Con la sentenza n. 43 del 2017, quindi, il percorso di ampliamento delle garanzie alla “materia penale” avanza, ma fino ad un certo punto; la sanzione amministrativa non perde del tutto la sua connotazione formale e quindi, anche laddove le siano applicabili garanzie convenzionali, questo non significa una equiparazione assoluta alle sanzioni formalmente penali del sistema interno.
Secondo la sentenza in commento, invece, anche alla materia penale si applica il principio di legalità della pena delle sanzioni formalmente penali nella declinazione per cui, finché la pena è in corso di esecuzione sulla base della sentenza definitiva, lo Stato non può tollerare che, qualora siano intervenuti fatti nuovi che ne determinano, in tutto o in parte, la contrarietà all’ordinamento, la stessa continui ad essere applicata. Il riferimento, in questo caso, è anche alla giurisprudenza di legittimità, ed in particolare alla sentenza delle SSUU della Corte di Cassazione n. 42858 del 2014 riguardante le sanzioni dei reati in materia di sostanze stupefacenti.
Ciò che è interessante, però, è che, nella sentenza n. 68 del 2021, tale principio, tipico delle sanzioni penali, è appunto applicato anche alle sanzioni formalmente amministrative ma che, per le loro caratteristiche, devono, appunto, intendersi come sostanzialmente penali.
4. Un’ulteriore riflessione
Come è stato messo in luce[7], infatti, negli anni il rapporto tra Corte Costituzionale e Corte EDU in merito alla considerazione della “materia penale” non è stato sempre semplice e caratterizzato da univocità.
L’ordinamento nazionale, in particolare, è sempre stato contraddistinto da un maggiore formalismo nella qualificazione delle sanzioni rispetto al sistema convenzionale, e, per sua tradizione e cultura giuridica, da un maggior legame con lo statuto normativo, cosicché l’attribuzione della qualifica di “penale” “costituisce il portato di una scelta di politica legislativa assolutamente discrezionale ed insindacabile dalla Corte costituzionale, se non nei limiti (stretti) della ragionevolezza”.
Tuttavia, se c’è un settore in cui, per utilizzare i concetti della sentenza n. 43 del 2017, la coesistenza tra regime “costituzionale” delle garanzie e regime “convenzionale” è venuta progressivamente a svilupparsi, questo è probabilmente proprio quello delle sanzioni amministrative, un campo in cui i parametri dei due sistemi tendono fortemente a coincidere[8].
Questo, si può ritenere, anche per evitare conseguenze paradossali, che traspaiono nella stessa motivazione della sentenza in commento, tali per cui la sottoposizione a sanzioni formalmente amministrative, in linea di principio meno gravi, può finire per rivelarsi più afflittiva e meno garantita dell’applicazione di sanzioni penali.
Peraltro, è stato anche affermato in dottrina[9] che gli approdi della giurisprudenza costituzionale sul rapporto tra l’ordinamento convenzionale e quello interno sul tema della “materia penale” possono riassumersi nei seguenti punti:
- il riconoscimento della natura punitiva di un istituto non penale gli associa garanzie tipiche degli istituti penali ma non ne snatura l’essenza e non priva il legislatore del monopolio che la Costituzione gli attribuisce in materia penale.
Si può ricordare, al riguardo, che sempre nel 2017, con una sentenza di poco successiva alla n. 43, la Corte Costituzionale affermava che non era l’art. 25, comma 2, Cost. Il parametro in base al quale sollevare questioni di legittimità costituzionale sulla irretroattività della norma più favorevole in materia di sanzioni amministrative[10].
- in presenza di un istituto sostanzialmente ma non formalmente penale, i presidi garantistici propri dell’ordinamento interno e della CEDU non si fondono e non possono essere assimilati ma sono invece destinati a coesistere all’insegna della massimizzazione delle tutele.
- il legislatore può decidere di riservare talune garanzie ai soli istituti formalmente penali senza che l’esercizio di questo potere discrezionale sia costituzionalmente censurabile.
La questione, allora, è se la sentenza in commento rappresenti una svolta o meno nella configurazione delle garanzie nel diritto interno allorché viene in rilievo il concetto convenzionale di “materia penale”.
Ci si può chiedere, in particolare, se la sentenza n. 68 del 2021 rappresenti una sorta di svolta nel percorso di scrittura dello statuto delle sanzioni amministrative previste da norma nazionali, ma rientranti nel concetto di “materia penale” convenzionale.
A questa domanda si può rispondere compiutamente se si considera ciò che è avvenuto nello spazio temporale compreso tra la sentenza n. 43 del 2017 e la sentenza oggi in commento.
Per quanto, infatti, si tratti di un arco di tempo relativamente breve, nel corso dello stesso la Corte ha adottato una decisione con cui è sembrata già manifestare un certo cambio di passo sul tema della materia penale.
Si tratta della sentenza n. 63 del 2019 (non per nulla specificamente richiamata dalla sentenza in commento), in cui, previo riconoscimento della natura “punitiva” delle sanzioni amministrative, che in quel caso consistevano nelle sanzioni previste per l’abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, è stata affermata l’illegittimità costituzionale della norma (art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015) che non prevedeva l’applicazione retroattiva della lex mitior sopravvenuta.
La sentenza ha, quindi, attribuito alle sanzioni amministrative “sostanzialmente penali” una caratteristica propria delle sanzioni formalmente penali.
Anche in tal caso esisteva un precedente che, probabilmente, ha, per così dire preparato la strada, seppure in maniera non così esplicita ma nelle pieghe della decisione, laddove nella sentenza n. 193 del 2016 la Consulta, pur statuendo, in merito alle sanzioni amministrative in generale che “non si rinviene nel quadro delle garanzie apprestato dalla CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, l’affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative”, aveva, nello stesso tempo, lasciato intendere che tale valutazione poteva essere riconsiderata proprio per le sanzioni amministrative di natura sostanzialmente penale, la cui natura doveva essere stabilita sulla base di un criterio casistico da condurre in concreto.
La sentenza n. 63 del 2019 la Corte Costituzionale ha, così, proceduto direttamente alla qualificazione della relativa sanzione amministrativa pecuniaria che veniva in rilievo nel caso di specie (si trattava, come ricordato, di una sanzione del TUF), affermando che essa non poteva essere considerata come una misura meramente ripristinatoria dello status quo ante, né semplicemente mirante alla prevenzione di nuovi illeciti.
Ne veniva riconosciuta, piuttosto, l’elevatissima carica afflittiva, anche in virtù dell’elevato importo “che è comunque sempre destinato, nelle intenzioni del legislatore, a eccedere il valore del profitto in concreto conseguito dall’autore, a sua volta oggetto, di separata confisca. Una simile carica afflittiva si spiega soltanto in chiave di punizione dell’autore dell’illecito in questione, in funzione di una finalità di deterrenza, o prevenzione generale negativa, che è certamente comune anche alle pene in senso stretto”
Ancora, nella vicenda della sentenza n. 63 del 2019, non si può negare che avesse avuto rilievo sulla qualificazione della sanzione anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE che, dovendo trattare del tema del ne bis in idem in relazione a tale sanzione, ne aveva ravvisato la finalità repressiva[11].
Alla luce della sentenza n. 63 del 2019, si può allora provare ad affermare che la sentenza in commento aggiunge un tassello nella costruzione delle garanzie penalistiche alle sanzioni amministrative rientranti nel concetto di “materia penale”, permettendo di ravvisare un percorso intrapreso in questo senso dalla Corte Costituzionale: dopo l’affermazione dell’applicazione retroattiva della lex mitior sopravvenuta, ora si rende applicabile alla materia penale anche il principio per cui l’intervenuta pronuncia di incostituzionalità della norma sulla cui base è stata applicata la sanzione determina la necessità di rivalutare la pena, anche se già definitiva. Si tratta di un percorso, quindi, di maggiore tutela dei diritti in cui è essenziale il ruolo degli ordinamenti sovranazionali. Non solo, infatti, viene in rilievo il sistema convenzionale, ma occorre ricordare anche l’affermazione, contenuta nella sentenza n. 63 del 2019, sulla riconducibilità del principio della retroattività della normativa sopravvenuta più favorevole anche all’art. 49 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea[12].
Si tratta, quindi, di un percorso, verrebbe da dire, esemplare nella dimostrazione di come l’interazione tra i vari sistemi non è affatto fonte di confusione o di diminuzione delle garanzie, ma, al contrario, si pone come baluardo ed ulteriore rafforzamento delle stesse.
Ad essere pignoli, peraltro, forse due commenti possono ancora compiersi in relazione a in tale processo.
Il primo è che, anche in questo caso, l’illegittimità costituzionale della norma denunciata non è dichiarata in relazione all’art. 25, comma 2, Cost., ma in relazione all’art. 3 Cost.
Può sembrare una questione formale, ed è anche vero che la retroattività della legge penale più favorevole sopravvenuta non è considerato principio di natura costituzionale, anche se è certamente una declinazione del principio di legalità, ma può anche rappresentare, in realtà, la volontà di non contraddire palesemente quell’orientamento tradizionale prevalente della Corte per cui il riconoscimento dei “criteri Engel” per la qualificazione di una sanzione non determina di per sé l’applicazione delle garanzie costituzionali penalistiche – che restano applicabili solo alle sanzioni formalmente penali - bensì “solo” di quelle convenzionali. Come detto, sebbene nella materia delle sanzioni amministrative molti principi costituzionali e convenzionali tendano a combaciare, i piani sono stati però tenuti tradizionalmente distinti, seppure qualche apertura in merito all’applicazione diretta dell’art. 25 Cost. si sia registrata in passato[13]
La seconda considerazione è che il limite del processo cui appartengono la sentenza n. 63 del 2019 e la sentenza in commento – limite, peraltro, proprio di tutta l’estensione delle garanzie della “materia penale” alle sanzioni formalmente amministrative, come anche la vicenda del “ne bis in idem” dimostra –, forse consiste nel fatto che questo non può che avanzare per analisi casistica, e quindi specificamente legata alla situazione concreta. Non è possibile, in altri termini, classificare a priori determinate sanzioni amministrative come “sostanzialmente penali” con conseguente applicazione delle garanzie, e ciò non aiuta nella realizzazione del principio di certezza del diritto, che dovrebbe, invece, essere un aspetto essenziale di un sistema sanzionatorio.
5. Sviluppi futuri
Anche quanto ai possibili futuri scenari ci si possono porre alcune domande.
In primo luogo, ci si può chiedere se, alla luce della presente sentenza che qualifica come “sostanzialmente penali” le sanzioni come quella in questione, dovrà essere rivista o meno l’affermazione della Corte di Cassazione[14] secondo cui “Nei casi di applicazione, da parte del giudice, della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, prevista dall'art. 222 cod. strada, la determinazione della durata di tale sospensione deve essere effettuata non in base ai criteri di cui all'art. 133 cod. proc. pen., ma in base ai diversi parametri di cui all'art. 218, comma 2, cod. strada, sicché le motivazioni relative alla misura della sanzione penale e di quella amministrativa restano tra di loro autonome e non possono essere raffrontate ai fini di un'eventuale incoerenza o contraddittorietà intrinseca del provvedimento”.
Si può provare, in questa sede, ad azzardare una conclusione, secondo cui, probabilmente, lo statuto delle sanzioni amministrative sostanzialmente penali, di cui la sentenza in commento rappresenta un tassello, riguarderà nel sistema nazionale solo l’estensione di garanzie proprie del diritto penale (convenzionali o costituzionali), ma non necessariamente la determinazione della sanzione stessa, i cui criteri sono oltretutto specificamente regolati dalla legge 689 del 1981.
La qualificazione come “sostanzialmente penale” di una sanzione amministrativa non dovrebbe, quindi, far sì che la norma di riferimento per individuarne la misura diventi automaticamente l’art. 133 c.p.
Ma domande significative potrebbero sorgere anche in relazione ad almeno due grandi ulteriori temi.
Il primo è se il percorso che la Corte sembra avere intrapreso porterà ad altre pronunce relative ad altre garanzie penalistiche in campo sostanziale.
In tal senso, restano aperte questioni, per esempio, sul principio di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 Cost.
Altro grande tema è quello dell’applicazione delle garanzie penalistiche in materia processuale, e non solo sostanziale.
In materia, cioè, di giusto processo. In questo senso, è già stata scritta una pagina molto importante nell’ambito di quello che può veramente definirsi un virtuosissimo “dialogo tra Corti” in tema di “nemo tenetur se detegere”[15].
Altre, però, potrebbero esserne scritte, per esempio in tema di contraddittorio, di pubblicità dell’udienza, di imparzialità del giudice, e su alcune di esse la Corte di Strasburgo ha già iniziato a pronunciarsi[16].
Insomma, il campo dell’estensione delle garanzie nella “materia penale” sembra in pieno sviluppo, e, probabilmente, non si sbaglia nell’affermare che già in un prossimo futuro altre interessanti pagine verranno scritte in questo percorso.
[1] Corte EDU, Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976; sull’evoluzione del concetto di “materia penale” nella giurisprudenza della Corte EDU, anche attraverso le successive sentenze Öztürk c. Germania, 21 febbraio 1986 e Welch c. Regno Unito, 9 febbraio 1995, si veda, tra gli altri, GIGLIO, La “materia penale” e il suo statuto nella giurisprudenza interna e sovranazionale , In Dir. pen. e uomo, sett. 2019
[2] Corte Cost., n. 88 del 17 aprile 2019, in www.cortecostituzionale.it
[3] Corte Cost., n. 222 del 5 dicembre 2018, in cui la Corte, tra l’altro, afferma: “La durata fissa delle pene accessorie previste dall’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare non appare, in linea di principio, compatibile con i principi costituzionali in materia di pena, e segnatamente con i principi di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio.”
[4] (Cass., sez. 1 pen., n. 1634/20 del 13/12/2019, Rv. 277911-01; Cass., sez. 1 pen., n. 1804/20 del 14/11/2019, Rv. 278182-01)
[5] Cass., sez. 4, n. 7950 dell’ 11/02/2021 Ud. (dep. 01/03/2021 ) Rv. 280951 - 01
[6] Su cui si veda, tra gli altri, SCOLETTA, Retroattività favorevole e sanzioni amministrative puntive: la svolta, finalmente, della Corte Costituzionale, in Dir. Pen. Cont., 2 aprile 2019
[7] Si veda, tra gli altri, MANCINI, La “materia penale” negli orientamenti della Corte EDU e della Corte costituzionale, con particolare riguardo alle misure limitative dell'elettorato passivo, in federalismi.it, n. 1/2018
[8] Si veda, al riguardo, Corte Cost. n. 196 del 2010 in materia di applicazione retroattiva della confisca
[9] GIGLIO, cit.
[10] Corte Cost., n. 109 del 2017, su cui si veda, tra gli altri, il commento di PELLIZZONE, Garanzie costituzionali e convenzionali della materia penale: osmosi o autonomia? , in DPC, Riv. Trim., n. 4/2017
[11] CGUE, sentenza 20 marzo 2018, Di Puma e altri, in cause C-596/16 e C-596/16, paragrafo 38
[12] BINDI e PISANESCHI, La retroattività in mitius delle sanzioni amministrative sostanzialmente afflittive tra Corte EDU, Corte di Giustizia e Corte costituzionale , in Federalismi.it, 27.11.2019
[13] MASERA, La nozione costituzionale di materia penale, Torino, 2018
[14] Cass., sez. IV, n. 4740 del 18/11/2020 R. 280393
[15] In cui tappe fondamentali in cui si è sviluppato il percorso sono state: Cass., sez. II civ., n. 3831 del 2018; Corte Cost n. 117 del 2019; CGUE, Grande Sezione, sent. 2 febbraio 2021, in C-489/19, D.B. c. CONSOB
[16] Si veda, per esempio, Corte EDU, Sez. I, 10 dicembre 2020, Edizioni Del Roma società cooperativa a.r.l. e Edizioni Del Roma s.r.l. c. Italia , e commento di MAZZACUVA, Poteri sanzionatori delle Authorities e principi del giusto processo: punti fermi e prospettive nella giurisprudenza di Strasburgo, in Sist. Pen., 29.4.2021