Covid -19: sicurezza del lavoro e valutazione dei rischi.
di Salvatore Dovere
Sommario: 1. La valutazione dei rischi sul lavoro e Covid-19: le opinioni a confronto – 2. Nel cuore del problema – 3. Ma quali misure? – 4. E quali sanzioni? – 5. Conclusioni.
1. La valutazione dei rischi sul lavoro e Covid-19: le opinioni a confronto
L’emergenza sanitaria in corso ha rimodellato le nostre abitudini di vita, sospeso l’esercizio di diritti ed esaltato l’assunzione di responsabilità di ciascuno verso la collettività. Ma mentre la dimensione privata – che è di nuovo fortemente pubblica – cerca di attraversare questi giorni, queste settimane, non vanno dimenticati quanti devono contemporaneamente esporsi necessariamente ad un maggior pericolo di contagio perché impegnati in attività lavorative che non sono sospese e non sono compatibili con lo smart working. Il mondo del lavoro può contrarsi ma non cessare il proprio moto.
Ma come incide l’emergenza sanitaria sul sistema teso a garantire la sicurezza del lavoro? Lo confina in un limbo, tra quei che son sospesi? Il nuovo si associa al vecchio? E in che forme: si sovrappone, ne viene integrato, gli impone delle modifiche[1]? Ecco alcune delle domande che si sono affacciate non appena nei provvedimenti adottati dopo la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale sanitaria si è alluso al mondo del lavoro. Ma in fine dei conti tutti gli interrogativi si condensano in uno: il nuovo rischio sanitario deve essere considerato mediante la valutazione dei rischi, fulcro della normativa prevenzionistica?
Il quesito evoca immediatamente la previsione dell’art. 29, comma 3 TU, della quale basterà riportare solo una parte del testo: “La valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata, …, in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, …”.
I repertori di giurisprudenza abbondano di massime che ammoniscono sulla necessità che la valutazione consideri tutti i rischi ai quali sono esposti i lavoratori. Meno frequente è che si concettualizzi la classe dei rischi che devono essere considerati, anche in funzione della evidenziazione di quelli che ne restano esclusi.
Nel dibattito apertosi all’insegna del Covid-19 sono presto emerse posizioni nettamente contrapposte[2].
Secondo alcuni, i rischi oggetto di valutazione – e che quindi impegnano ad un aggiornamento della stessa – sono solo quelli specifici dell’organizzazione lavorativa. Pertanto, si distingue la classe dei rischi specifici, implicati dal processo produttivo, dal modo di essere dell’organizzazione definita dal datore di lavoro, da quella dei rischi generici[3], ovvero dei rischi ai quali è esposta la collettività ed il lavoratore non in quanto tale ma come membro di essa.
Si evoca, nel medesimo orizzonte, l’opposizione tra rischio endogeno e rischio esogeno, assegnando valore, quale presupposto dell’obbligo di aggiornamento della valutazione dei rischi, solo al primo.
Il rischio sanitario al quale oggi ognuno è esposto, in Italia come in gran parte del mondo, sarebbe un rischio generico, esogeno, e come tale non imporrebbe al datore di lavoro di tenerne conto mediante l’aggiornamento della valutazione dei rischi.
Si pone l’enfasi, a confermare questa tesi, sul fatto che la valutazione del rischio sanitario anche in ambito lavorativo è stata fatta dalla pubblica autorità, imponendo – oggi possiamo fare riferimento al d.l. n. 19/2020 – la regola del distanziamento e, solo ove questa non sia applicabile, l’obbligo di adottare, quali DPI, le mascherine chirurgiche. Si considera che l’obbligo di valutazione datoriale può ritenersi sussistente solo in corrispondenza di una libertà di decisione organizzativa; sicché, assente questa, viene a mancare il presupposto del dovere.
Sull’opposto fronte si è fatto appello principalmente all’art. 2087 c.c., quale fonte di un obbligo dell’imprenditore di adottare tutte le misure che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, secondo la particolarità del lavoro, deducendone – ma invero senza particolare argomentazione – che ciò vale anche in relazione al livello di rischio nascente dalla situazione di contagio pandemico e pertanto, “visto l’aumento esponenziale del livello normale di rischio derivante dal pericolo della malattia virale Covid 19, è necessario aggiornare il documento di valutazione dei rischi”[4].
Ulteriore argomentazione fa leva su una interpretazione ‘estensiva’ dell’art. 267 TU, che si riconosce concernere gli aspetti ambientali connessi all'uso delle specifiche sostanze nelle lavorazioni proprie del processo produttivo ma che dovrebbe essere applicato anche all’agente biologico CoViD19, considerato che il protocollo lo definisce rischio biologico generico e che nell'allegato XLVI del TUSL è considerato anche il Coronaviridae, ossia l'aggregazione (o famiglia) di virus i cui componenti sono noti come “coronavirus”[5].
Di più ampio respiro la ricostruzione che rimarca la necessità di una interpretazione ispirata alla logica sottesa al TU, quale emerge dall’artt. 3, comma 1, a mente del quale, “il presente decreto legislativo si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio”; dall’art. 2, comma 1, lett. o), laddove definisce la salute del lavoratore come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità”; dall’art. l’art. 2, comma 1, lett. n), D.Lgs. n. 81/2008, secondo il quale la “prevenzione” è “il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno”.
Se ne trae il giudizio di una volontà del Governo di coinvolgere le imprese nell’opera di contenimento del virus. Ma l’obbligo di aggiornare la valutazione dei rischi si fa discendere essenzialmente dall’art. 28, comma 2, lett. a), D.Lgs. n. 81/2008, del quale si rimarca il riferimento a “tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa”. Si sostiene che quest’ultima espressione “fa intendere che debbono essere valutati tutti i rischi che possono profilarsi, non necessariamente a causa dell’attività lavorativa, bensì durante l’attività lavorativa: come appunto il coronavirus”[6]. E si richiama, ad ulteriore conferma dell’assunto, quanto ritenuto dalla Commissione per gli interpelli nel dare risposta al quesito in merito alla sussistenza dell’obbligo di valutazione anche per i rischi derivanti dalla “situazione ambientale e di sicurezza intesa anche come security, in particolare in paesi esteri ma non solo, legata a titolo esemplificativo ma non esaustivo ad eventi di natura geo politica, atti criminali di terzi, belligeranza e più in generale di tutti quei fattori potenzialmente pericolosi per l’integrità psicofisica dagli equipaggi nei luoghi (tipicamente aeroporti, alberghi, percorso da e per gli stessi e loro immediate vicinanze) dove il personale navigante si trovi ad operare/alloggiare quando comandati in servizio”. Ad avviso della Commissione, il datore di lavoro deve valutare tutti i rischi, compresi i potenziali e peculiari rischi ambientali legati alle caratteristiche del Paese in cui la prestazione lavorativa dovrà essere svolta, quali a titolo esemplificativo, i cosiddetti rischi generici aggravati, legati alla situazione geopolitica del Paese (es. guerre civili, attentati, ecc.) e alle condizioni sanitarie del contesto geografico di riferimento, non considerati astrattamente, ma che abbiano la ragionevole e concreta possibilità di manifestarsi in correlazione all’attività lavorativa svolta[7].
2. Nel cuore del problema
Sull’uno e sull’altro fronte si dispiegano argomenti di notevole spessore.
Tuttavia, a mio avviso, la questione non si presta a soluzioni draconiane: obbligo si/obbligo no, in ogni caso senza se e senza condizioni. E, in fin dei conti, a leggere bene tra le righe la distanza tra i due orientamenti è minore di quanto non appaia.
Cominciamo con l’esaminare alcuni capisaldi della tesi che esclude l’obbligo di aggiornamento. In definitiva, essa sembra assumere una nozione di rischio professionale ritagliata sul tipo di produzione piuttosto che sulle singole mansioni espletate dai lavoratori. Non sembra bisognevole di dimostrazione che, al contrario, è proprio il rischio intrinseco alle singole attività lavorative a dover essere valutato. La stessa definizione di valutazione dei rischi offerta dall’art. 2, lett. q) - valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell'ambito dell'organizzazione in cui essi prestano la propria attività – non pare alludere all’organizzazione in senso astratto ma a quella concretata dalla connessione tra luoghi fisici, procedure, apparecchiature, uomini.
Sicché vanno considerati i singoli segmenti del processo produttivo, le fasi della lavorazione, le diverse postazioni di lavoro e le attrezzature impiegate[8].
Se ciò persuade, allora è agevole considerare che quasi in ogni impresa, accanto a lavorazioni che non innalzano il rischio di contagio rispetto al livello al quale è esposto il non lavoratore, ve ne sono altre nelle quali le mansioni espletate espongono l’operatore ad un rischio ‘differenziale’ di essere aggredito dall’agente patogeno. Si pensi a coloro che hanno relazioni con i clienti, con i fornitori; che in generale svolgono compiti che implicano il contatto con soggetti estranei alla compagine aziendale. Non è, per questi lavoratori, quello da contagio, un rischio specifico? V’è davvero differenza tra il caso dell’impresa che invii un lavoratore in uno Stato estero nel quale è in atto un’epidemia – che si riconosce essere rischio professionale[9] - e quello del lavoratore chiamato a ricevere in azienda una persona che proviene da un ambiente esterno nel quale è in corso un’epidemia?
Ma anche relativamente a tutti gli altri lavoratori la tesi in esame non sembra convincente. Se si è disposti ad adottare quale criterio di discrimine il requisito della specificità del rischio, e però correlato alle varie mansioni previste dall’organizzazione produttive, allora viene da chiedersi se le prescrizioni – non più le raccomandazioni – imposte alla intera collettività (allontanarsi dal domicilio solo per comprovate necessità sanitarie, di lavoro ecc.) non definiscano un livello di rischio inferiore rispetto a quello cui risulta esposto il lavoratore, ‘confinato’ all’interno di un ambiente che, ordinariamente, è spazialmente delimitato, è frequentato da una pluralità di persone, richiede costantemente contatti intersoggettivi.
Detto altrimenti e più semplicemente: non è l’attività di lavoro divenuta ex sé un fattore di accrescimento del rischio sanitario al quale è esposto il non lavoratore?
Si potrebbe obiettare, l’argomento lo si è già preannunciato, che questo fattore è stato oggetto di valutazione da parte del legislatore, il quale ha imposto la regola del distanziamento fisico. Quindi non vi sarebbe alcuna necessità, premessa del dovere, per il datore di lavoro di valutare il rischio da Covid-19. Si afferma che “La valutazione di quel rischio è operata a monte dalla pubblica autorità, ai cui comandi il datore di lavoro deve adeguarsi adattando a tal fine la propria organizzazione alle misure di prevenzione dettate dalla stessa pubblica autorità. Tale riorganizzazione non è altro che un adeguamento alle direttive pubbliche e, come tale, non pare costituire un vero e proprio aggiornamento della valutazione dei rischi ex art. 29 del d.lgs. n. 81/2008, con la conseguenza che l’eventuale inosservanza delle direttive pubbliche rileva non già ai sensi dell’art. 55 dello stesso decreto, bensì in relazione alle speciali sanzioni pubblicistiche sancite dalla pubblica autorità”.
Si può replicare che previsioni come quelle contenute nelle lett. z) e gg) dell’art. 1, comma 2 d.l. n. 19/2020 possono essere associate al concetto di valutazione del rischio solo in ben diverso senso. In realtà le norme operano una positivizzazione della regola cautelare da adottare per lo specifico rischio, nel peculiare contesto delle attività di impresa la cui prosecuzione è consentita. Il che dimostra che il legislatore ha identificato un fattore produttivo di rischio e una misura in grado di ridurre – non crediamo di eliminare – tale rischio; da qui la formulazione di un comando. Nulla più dell’ordinario procedimento attraverso il quale si perviene alla formazione di una regola cautelare.
Ciò non attinge la dimensione delle premesse fattuali dell’obbligo di aggiornamento della valutazione dei rischi. Anzi, a ben vedere, l’enunciazione della regola segnala l’esistenza del rischio e la necessità della adozione della misura impone di riconsiderare l’intera morfologia aziendale, al fine di verificare se non ne discendano effetti negativi per la sicurezza dei lavoratori. Di più: la regola positivizzata della quale stiamo trattando ha in realtà carattere elastico; essa non ha un contenuto definito rigidamente, ma indica un obiettivo da garantire conformando la specifica situazione concreta in chiave funzionale al raggiungimento dello stesso. Si prescrive che le attività consentite possono essere svolte se prima il titolare mette in esecuzione (“assume”) misure atte ad evitare assembramenti e predispone le condizioni per garantire il rispetto delle distanze interpersonali. Come è agevole osservare, si tratta di disposizione che rimanda a scelte organizzative del datore di lavoro, al quale è indicato unicamente il risultato da conseguire.
D’altro canto, non è forse vero che la regola del distanziamento fisico impone rilevanti modifiche organizzative se non addirittura al modo di produrre? E l’art. 29, comma 3, con il quale abbiamo aperto queste riflessioni, non impone di rielaborare immediatamente la valutazione dei rischi in occasione – almeno – di modifiche della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e della sicurezza dei lavoratori? Si potrebbe obiettare che, per essere quelle considerate dalla norma, deve trattarsi di modifiche che incidono in senso peggiorativo sulle condizioni di salubrità dell’ambiente di lavoro; di talchè non devono essere considerate quelle che invece costituiscono misure migliorative. Mi sembrerebbe tuttavia una lettura ‘ingenua’, nel senso che non tiene conto delle implicazioni sistemiche di ogni innovazione. Ad esempio: la maggior distanza tra due lavoratori addetti ad una comune lavorazione può determinare la sopraggiunta inidoneità della misura che garantiva l’esecuzione in sicurezza (si pensi al controllo visivo di un lavoratore sull’altro, o alla disposizione di pulsantiere ecc.).
In sintesi, la valutazione dei rischi deve essere aggiornata, secondo quanto impone l’art. 29, comma 3, perché l’implementazione della misura del distanziamento fisico determina una rilevante modifica della organizzazione, in astratto ma ancor più perché il d.l. n. 19/20 rimanda al datore di lavoro per la definizione dell’assetto organizzativo concreto che vale a garantire il risultato del rispetto delle regole di condotta positivizzate.
Sarebbe erroneo sostenere che in questo modo si pone a carico del datore di lavoro l’obbligo di fare fronte al rischio epidemico. Agevole la replica: al debitore di sicurezza lavorativa non si chiede di garantire la salute dell’intera collettività ma unicamente del lavoratore che, a causa della necessità di prestare l’opera fuori dal domicilio, si trova esposto al rischio ed impossibilitato a proteggersi isolandosi.
Né risulta decisivo in senso avverso il richiamo alla disciplina del rischio biologico espressamente prevista dal TU; disciplina che indubbiamente fa riferimento agli agenti biologici implicati ordinariamente dal processo produttivo. Infatti, ciò importa l’inapplicabilità delle specifiche disposizioni ma non esclude la cogenza del più generale obbligo datoriale discendente dall’art. 2087 c.c.; obbligo che vincola anche alla valutazione dei rischi che, si noti, non siano classificati dal TU.
3. Ma quali misure?
Altra questione è se le misure del distanziamento e dell’uso di DPI – e più in generale quelle espressamente previste in provvedimenti normativi - esauriscano il novero delle misure da adottare. Essa rimanda ad un tema perennemente dibattuto; ma si può cominciare con il rilevare che proprio il carattere elastico della prescrizione da un canto relativizza e dall’altro drammatizza il tema della adozione di misure ulteriori, che fossero suggerite dalla scienza e tuttavia non indicate dal d.l. 19/2020.
Lo relativizza perché in realtà il datore di lavoro è chiamato dalla regola ad individuare l’assetto organizzativo in grado di assicurare il rispetto della stessa; e qualora non ve ne fosse alcuno possibile, l’alternativa non può che essere la chiusura della lavorazione. Lo drammatizza perché ciò pone in capo al datore di lavoro l’onere di identificare le condizioni che permettono di osservare la misura. Il che non è sempre agevole e soprattutto si proietta su prassi che normalmente stressano il concetto di osservanza, tendendo a ritenere tale anche condotte non integralmente rispettose della prescrizione. Per altro verso, al datore di lavoro non si può chiedere più di quanto la scienza, allo stato attuale, permette di conoscere come efficaci misure prevenzionistiche.
In questa cornice si iscrive il Protocollo d’intesa. Il fatto che l’art. 1, comma 3, dello stesso d.P.C.M. del 22 marzo 2020 abbia previsto che le «imprese le cui attività non sono sospese rispettano i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 14 marzo 2020 fra il Governo e le parti sociali» e che le misure di cui a tale decreto presidenziale rientrano tra quelle confermate e sussunte nel d.l. n. 19/2020 ha fatto sostenere che il Protocollo ha natura lato sensu normativa[10].
Il profilo è di sicura rilevanza sul piano del diritto del lavoro e anche per le ricadute sull’attività di vigilanza; ma per quanto attiene alla dimensione penalistica è sostanzialmente irrilevante. Per il versante contravvenzionale vale quanto si osserverà a breve; per quello dei reati contro l’incolumità pubblica o individuale, la positivizzazione della regola cautelare – sia nella forma della legge, del regolamento, dell’ordine o della disciplina (art. 43, comma 1 c.p.) – viene in considerazione nel giudizio sulla colpa, ma può essere non risolutiva.
Indubbiamente, le misure concordate tra le parti sociali e condivise dal Governo si pongono come punto di riferimento per la individuazione delle misure prevenzionistiche ritenute, allo stato, necessarie per ridurre il rischio da Covid-19; ma ciò non esclude che esse possano essere insufficienti quando emerga che rappresentano non già le misure suggerite dalla scienza e dalla tecnica del tempo presente ma l’esito di un compromesso tra esigenze economiche e esigenze di tutela della salute individuale e collettiva. Solo una esplicita presa di posizione del legislatore può permettere che un nucleo di misure, che non esauriscono le cautele disponibili, sia valutato come integrale adempimento dell’obbligazione prevenzionistica.
4. E quali sanzioni?
Da quanto sin qui esposto discendono rilevanti conseguenze anche in tema di vigilanza e di sanzioni.
Poiché l’implementazione della misura disposta dal d.l. 19/2020 importa rilevanti modifiche organizzative, la valutazione va aggiornata immediatamente ed il relativo documento rielaborato entro trenta giorni dalla adozione della modifica
Si tratta di obblighi la cui violazione è presidiata da sanzione penale, prevista dall’art. 55, comma 3 TU.
E’ possibile quindi che gli organi preposti alla vigilanza svolgano il controllo del rispetto dell’obbligo e che impartiscano, ricorrendone le condizioni, la prescrizione condizionata, secondo la previsione dell’art. 301 TU.
Quid iuris se l’impresa non rispetta le regole imposte dal d.l. 19/20?
A considerare le misure indicate come volte a garantire la sicurezza dei lavoratori sul lavoro si dovrebbe ritenere che la mancata adozione debba trovare qualche eco in una delle norme sanzionatrici del TU. Senonché, a rendere inutile una ricerca che sarebbe stata di non agevole compimento, viene l’espressa previsione dell’art. 4 del d.l. 19/20, a mezzo della quale si manifesta la scelta del legislatore di mantenere un controllo pubblicistico sull’attuazione delle misure di contenimento, per la cui violazione è stato previsto uno speciale corredo sanzionatorio.
Si prevede, infatti, che, salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all'articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell'articolo 2, comma 1, ovvero dell'articolo 3, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall'articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità, di cui all'articolo 3, comma 3.
Nei casi di cui all'articolo 1, comma 2, lettere i), m), p), u), v), z) e aa), si applica altresì la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell'esercizio o dell'attività da 5 a 30 giorni.
Le violazioni sono accertate ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689; si applicano i commi 1, 2 e 2.1 dell'articolo 202 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, in materia di pagamento in misura ridotta. Le sanzioni per le violazioni delle misure di cui all'articolo 2, comma 1, sono irrogate dal Prefetto.
Come si vede, l’osservanza delle misure è posta sotto il controllo del Prefetto, con una soluzione certamente fin qui sconosciuta al mondo della sicurezza del lavoro.
Per contro vi è una integrazione tra misura emergenziale e disciplina della sicurezza del lavoro nella previsione dell’art. 16 del d.l. n. 18/20, secondo la quale “per i lavoratori che nello svolgimento della loro attività sono oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro, sono considerati dispositivi di protezione individuale (DPI), di cui all'articolo 74, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n.81, le mascherine chirurgiche reperibili in commercio, il cui uso è disciplinato dall'articolo 34, comma 3, del decreto-legge 2 marzo 2020, n. 9”. Si ripropone, come è già stato osservato, il consueto modello prevenzionistico, fondato sul favore per misure collettive rispetto a quelle individuali (cfr. art. 75 TU).
Non è però agevole individuare la sanzione applicabile nel caso di mancata dotazione delle mascherine chirurgiche, giacché l’art. 87, comma 2 lett. d) chiama in causa il comma 3 dell’art. 77, che prescrive la dotazione di DPI conformi ai requisiti previsti dall’art. 76, tra i quali la conformità al d.lgs. n. 475/1992 e succ. mod.; conformità che manca alle mascherine chirurgiche, le quali sono prodotte in conformità delle norme UNI 14683-2019 e rientrano tra i dispositivi medici di cui al D.Lgs. 24 febbraio 1997, n. 46; diversamente dai facciali filtranti (mascherine FFP2 e FFP3), che sono utilizzati in ambiente ospedaliero e assistenziale per proteggere l’utilizzatore da agenti esterni, i quali sono certificati ai sensi di quanto previsto dal D.lgs. n. 475/1992 e sulla base di norme tecniche armonizzate (UNI EN 149:2009).
Sicché, se da un verso la previsione dell’art. 16 sembra avere lo scopo di rendere idonee come DPI maschere che diversamente non lo sarebbero, dall’altro emerge l’inapplicabilità dell’art. 87, come sopra citato. Ne risulta la configurabilità della contravvenzione di cui agli artt. 18, comma 1 lett. d) e 55, comma 5 lett. d).
Più palese è la correlazione tra la violazione degli obblighi concernenti i DPI previsti dal 77, comma 4, e la sanzione penale: è quella apprestata dall’art. 87.
5. Conclusioni.
Come sempre accade, il mondo del lavoro si è mosso rapidamente. Mentre si discute se si debba o meno procedere all’aggiornamento della valutazione dei rischi molte imprese hanno assunto iniziative volte a ridurre al minimo il rischio che i lavoratori si ammalino avendo contratto il virus sul posto di lavoro. Le innovazioni sono state formalizzate in modi diversi. L’opinione espressa nelle righe precedenti conduce a ritenere che non può assumere rilievo la forma, ogni volta che si sarà realizzato nella sostanza un aggiornamento della valutazione dei rischi; ma a questo scopo, occorre rimarcarlo, è pur sempre necessario osservare le pertinenti prescrizioni normative; in particolare quelle dettate dall’art. 29.
[1] A. Ingrao, C’è il COVID ma non adeguati dispositivi di prevenzione: sciopero o mi astengo?, in giustiziacivile.com, 18.3.2020, 4, ha sostenuto, con riferimento alle pertinenti disposizioni del d.P.C.M. 11.3.2020, che “trattasi di indicazioni aggiuntive rispetto a un sistema normativo – preesistente e generale – di protezione e prevenzione della salute e della sicurezza del lavoratore che resta pienamente efficace”. IL d.P.C.M. è il primo provvedimento che, nella blanda forma della raccomandazione, ha prefigurato una gamma di misure a chiara funzione prevenzionistica, quali – a prescindere dal ricorso al lavoro agile e dall’incentivazione alle ferie e ai congedi – la sospensione delle attività nei reparti non essenziali alla produzione, l’adozione di protocolli anti-contagio, il distanziamento fisico e in subordine l’adozione di DPI, la sanificazione degli ambienti, la riduzione degli spostamenti all’interno dei siti e il contingentamento dell’accesso agli spazi comuni. Pochi giorni dopo è stato stipulato tra le parti sociali il “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, del 14.3.2020, contenente linee guida alle imprese per l’adozione di specifici protocolli di sicurezza anti-contagio. Sul ruolo di tale accordo nel quadro della tutela della sicurezza del lavoro, P. Pascucci, Coronavirus e sicurezza sul lavoro, tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale?, in DSL, 2019, fasc. 2, 107 ss. Infine, almeno per ora, è giunto – e con ben altra cogenza – il d.l. 25.3.2020, n. 19, recante norme sulle “Misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19”, al quale si farà ampio richiamo nel testo.
[2] Controversia che non tocca le attività lavorative prestate nell’erogazione dei servizi sanitari e ospedalieri, per le quali si riconosce nel rischio biologico da Covid-19 un rischio specifico professionale.
[3] P. Pascucci, Ancora su coronavirus e sicurezza sul lavoro: novità e conferme nello ius superveniens del d.P.C.M. 22 marzo 2020 e soprattutto del d.l. n. 19/2020, in DSL, 2020, fasc. 1, 129, “i rischi specifici … sono connessi al contesto strutturale, strumentale, procedurale e di regole che il datore di lavoro ha concepito e messo in atto per il perseguimento delle proprie finalità produttive”.
[4] A. Ingrao, op. cit., 4.
[5] F. Bacchini, Controlli sanitari sui lavoratori al tempo del COVID-19, in giustiziacivile.com, 18.3.2020, 4.
[6] R. Guariniello, La sicurezza del lavoro al tempo del coronavirus, (e-book), WKI, 2020, 5.
[7] Interpello 25.10.2016, n. 37412.
[8] Per quanto non specificamente tematizzato, l’assunto emerge con sufficiente nitidezza anche dalle pronunce della giurisprudenza di legittimità; nelle quali si danno affermazioni come la seguente: “Il datore di lavoro è tenuto a redigere e sottoporre ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall’art. 28 D.Lgs. n. 81/2008, all’interno del quale deve indicare in modo specifico i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda, in relazione alla singola lavorazione o all’ambiente di lavoro…” (Cass. 25.2.2020, n. 6567; corsivo mio).
[9] P. Pascucci, op. cit.,129 s.
[10] Pascucci, terzo saggio, 123.