Collateral damages e Corte di Strasburgo: dalla giurisdizione agli obblighi positivi procedurali. A proposito di Corte edu, Hanan c. Germania, [GC] 16 febbraio 2021.
di Marina Silvia Mori[*]
L’attesa sentenza Hanan contro Germania, decisa dalla Corte il 16 febbraio 2021 un anno dopo l’udienza di Grande Camera, affronta in particolare il tema dell’applicabilità della Cedu in caso di operazioni militari all’estero, utilizzando il criterio della “connessione giurisdizionale” per far scattare gli obblighi di inchiesta da parte degli Stati, in una evoluzione dei principi espressi dalla sentenza Güzelyurtu
Sommario: 1.La vicenda all’esame della Corte. 2. Le indagini tedesche e le iniziative del ricorrente.3. Le questioni relative alla ricevibilità: la giurisdizione ratione personae e ratione loci e la connessione giurisdizionale derivante dall’inchiesta. 4. Gli obblighi procedurali di inchiesta. 5. Conclusioni
1.La vicenda all’esame della Corte
La sentenza della Corte europea riporta con meticolosità le vicende connesse al raid effettuato dalle forze armate tedesche il 4 settembre 2009 nella zona di Kunduz, nel nord dell’Afghanistan[1].
Come noto, a seguito degli attentati dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti e il Regno Unito attivavano nell’ottobre 2001 una serie di operazioni militari (“Enduring Freedom”) in Afghanistan, finalizzate a distruggere i campi di addestramento dei terroristi, a catturare i capi di Al-Qaeda e a far cadere il regime talebano. Il Parlamento tedesco il 16 novembre 2001 autorizzava l’invio di 3900 soldati a supporto.
Il 5 dicembre 2001 veniva sottoscritto l’Accordo di Bonn[2], nel quale venticinque leader afghani, rappresentanti di diverse fazioni, chiedevano tra l’altro l’assistenza della comunità internazionale per il mantenimento della sicurezza nel Paese, con la creazione di una Forza internazionale di assistenza (ISAF, in lingua inglese). Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con risoluzione 1386 (2001) del 20 dicembre 2001 autorizzava la creazione della Forza di assistenza, inizialmente con mandato limitato a sei mesi e alla sola zona di Kabul, e successivamente esteso sia temporalmente sia quanto all’applicazione territoriale ad altre aree dello Stato afghano, fino a giungere a fine 2006 a coprire l’intero territorio nazionale[3].
Il 22 dicembre 2001 il Parlamento tedesco autorizzava la partecipazione delle forze armate tedesche all’ISAF; l’11 agosto 2003 la NATO assumeva il comando della Forza di assistenza. Le truppe tedesche venivano destinate al Comando Regionale del nord del Paese, diretto dal generale di brigata V.; il Provincial Reconstruction Team (PRT) di Kunduz, facente parte del Comando Regionale predetto, era comandato dal colonnello K.
Dall’aprile 2009, la situazione nella regione di Kunduz degenerava sensibilmente, con numerosi attacchi e perdite umane nella ISAF. Il 3 settembre 2009 alcuni insorti si appropriavano di due autocisterne, uccidendo uno dei due conducenti. I due veicoli restavano bloccati in un banco di sabbia e, per liberarli, gli insorti facevano intervenire gli abitanti dei paesi vicini per svuotare in parte le cisterne. Il PRT, avvertito da un informatore, inviava un primo aereo in ricognizione che trasmetteva al comando un video con le due autocisterne e numerosi veicoli e persone; l’informatore, ripetutamente sollecitato dal comando tedesco, comunicava successivamente che le autocisterne erano state parzialmente svuotate e che non vi erano civili in prossimità delle medesime. Giunti sul posto gli F-15 verso l’1,10 di notte, il colonnello K. dava loro ordine di bombardare le due autocisterne. All’1,49 venivano sganciate due bombe da cinquecento libbre, che distruggevano le due autocisterne ed uccidevano e ferivano numerose persone (il numero complessivo di vittime non è mai stato accertato)[4]. Tra le vittime, Abdul Bayan e Nesarullah, di dodici e otto anni, figli del ricorrente Abdul Hanan.
2.Le indagini tedesche e le iniziative del ricorrente
La polizia militare tedesca (Feldjäger), inviata dalla città di Mazar-i-Sharif, e una squadra del PRT di Kunduz procedevano alle prime indagini, sia sul luogo del raid (significativamente modificato: in particolare i corpi delle vittime erano già stati rimossi) sia attraverso l’audizione di numerosi testimoni presso gli ospedali e i villaggi della zona. La sentenza rammenta che, per le convinzioni religiose e gli usi afghani, era impossibile l’utilizzo di tecniche forensi come l’esame del DNA che presupponeva l’esumazione dei corpi[5].
Su segnalazione delle forze armate, la Procura di Potsdam apriva un’inchiesta, poi trasferita a Lipsia e poi alla Procura Generale di Dresda, nei confronti del colonnello K. e del sergente di stato maggiore W. All’esito dell’interrogatorio degli indagati, dell’esame di alcune persone informate sui fatti, dell’esame della documentazione raccolta in loco e dei video filmati dagli aerei, il procuratore generale con atto del 16 aprile 2010 escludeva la sussistenza di responsabilità, sia secondo il codice dei crimini di diritto internazionale (Völkerstrafgesetzbuch[6]), sia secondo il codice penale tedesco. Queste, in estrema sintesi, le valutazioni della procura:
-In Afghanistan, o almeno nell’area settentrionale del Paese, dove le forze armate tedesche erano dispiegate, al momento del raid era in corso un conflitto armato non internazionale, secondo i parametri del diritto internazionale umanitario, sebbene con la partecipazione di truppe internazionali;
-Le autorità afghane avevano consentito al dispiegamento dell’ISAF, che stava combattendo in nome dello Stato afghano;
-Gli insorti talebani e i gruppi ad essi correlati dovevano essere considerati “parti in conflitto” e, secondo il diritto internazionale, ogni persona funzionalmente integrata in un gruppo armato organizzato e che svolga una funzione di combattimento continuo al suo interno perde lo status di civile, diventando un obiettivo militare legittimo;
-Per le caratteristiche del conflitto venivano in rilievo il diritto internazionale umanitario e il codice tedesco dei crimini di diritto internazionale;
-Le forze armate tedesche erano combattenti regolari e, di conseguenza, non potevano essere ritenute responsabili per azioni di guerra conformi al diritto internazionale;
-Il dolo era necessario per la sussistenza del reato, ma mancava nel colonnello K. la volontà di uccidere o ferire civili, e inoltre la liceità dell’operazione di guerra costituiva una causa di giustificazione;
-La valutazione compiuta dal colonnello K. sulla assenza di civili al momento del raid era basata sulle notizie ripetutamente sollecitate e ricevute dall’informatore, che si era rivelato sempre affidabile, e le cui indicazioni corrispondevano alle immagini tratte dai video degli aerei; la presenza di talebani armati e l’orario notturno rendevano improbabile la presenza di civili, oltretutto nel corso del Ramadan;
-Era incontestato che le due autocisterne fossero in quel momento in mano ai talebani, che già in precedenza avevano commesso attentati con veicoli imbottiti di esplosivo, e la base tedesca risultava essere uno dei possibili obiettivi;
-Due comandanti talebani erano stati uccisi nel raid, che quindi aveva colpito sia insorti sia civili;
-La credibilità delle dichiarazioni del colonnello K., supportate dalle altre testimonianze, portava ad escludere la necessità di valutare l’eventuale sproporzione del danno collaterale occorso, e comunque erano stati utilizzati gli ordigni di minor potenza disponibili e razzi ad esplosione ritardata, che ne limitavano la portata effettiva;
-il colonnello K. non poteva essere ritenuto responsabile nemmeno ai sensi del codice penale, e il sergente maggiore W. non poteva essere accusato di concorso con il colonnello K. perché le azioni del colonnello K. erano legittime secondo il diritto internazionale e sussisteva quindi una causa di giustificazione per l’azione militare.
Il 12 aprile 2010 il difensore del ricorrente (e, solo inizialmente, anche dei familiari di 113 altre persone asseritamente decedute nel raid) presentava una denuncia e chiedeva di poter accedere al fascicolo dell’indagine. Il 27 aprile la Procura Generale comunicava che il procedimento era già stato archiviato. Dopo una serie di memorie, al ricorrente era consentito l’accesso alle parti del fascicolo non secretate per ragioni di sicurezza. Il ricorrente presentava quindi un’istanza, chiedendo alla Corte di appello di Düsseldorf che gli indagati fossero rinviati a giudizio o che la Procura procedesse ad ulteriori indagini. Il 16 febbraio 2011 la Corte dichiarava inammissibile la richiesta del ricorrente. Seguiva un nuovo ricorso (Gehörsrüge, reclamo d’udienza), rigettato dalla Corte d’appello il 31 marzo 2011.
Il ricorrente presentava quindi due ricorsi alla Corte costituzionale federale, sostenendo tra l’altro di avere avuto solo tardivamente e parzialmente accesso al fascicolo dell’indagine, di non essere mai stato sentito dagli inquirenti e che l’indagine non fosse stata completa ed effettiva, non essendo mai stati esaminati esperti militari o testimoni oculari del raid al fine di stabilire se l’intervento fosse giustificato e se fossero state poste in essere delle adeguate misure per evitare danni ai civili. La Corte costituzionale federale rigettava il ricorso relativo all’accesso al fascicolo l’8 dicembre 2014, e la doglianza non veniva poi portata all’attenzione della Corte europea[7]. Il successivo 19 maggio 2015 la Corte costituzionale federale rigettava anche il secondo ricorso, relativo alla incompletezza e ineffettività delle indagini, essenzialmente ritenendo che ulteriori misure investigative, come l'audizione di testimoni oculari del raid, non avrebbero apportato elementi aggiuntivi, considerato che il bombardamento e le perdite civili non erano mai stati messi in discussione, che la decisione di chiudere l'indagine era stata presa principalmente perché non era possibile provare che gli indagati avessero saputo con certezza che l'attacco avrebbe ferito o ucciso dei civili e che né la decisione, né le indagini ponevano un problema dal punto di vista costituzionale.
Il Signor Hanan presentava ricorso alla Corte europea, lamentando la violazione da parte della Repubblica federale tedesca dell’obbligo procedurale imposto dall’art. 2 della Convenzione di svolgere un’indagine effettiva sul raid del 4 settembre 2009, e dell’art. 13 combinato con l’art. 2, per non avere avuto a disposizione un rimedio interno effettivo finalizzato a contestare la decisione della Procura Generale di Dresda di archiviare l’indagine[8].
3.Le questioni relative alla ricevibilità: la giurisdizione ratione personae e ratione loci e la connessione giurisdizionale derivante dall’inchiesta
Sulla ricevibilità del ricorso si sono concentrate le valutazioni più significative delle parti e dei terzi intervenuti[9], in particolare sulla giurisdizione della Corte e sull’applicabilità dell’art. 1 della Convenzione[10].
La prima eccezione sollevata dal Governo tedesco riguardava l’insussistenza della giurisdizione[11] della Corte ratione personae. Secondo lo Stato convenuto, le operazioni militari condotte sotto l’egida e il controllo del Consiglio di Sicurezza ai sensi del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite[12] non potrebbero essere fonte di responsabilità per il singolo Stato, e di conseguenza verrebbe meno la giurisdizione della Corte.
Il Governo evidenziava la creazione dell’ISAF attraverso la risoluzione 1386 (2001), con la delega di poteri fornita dal Consiglio di Sicurezza e l’esistenza di un mandato preciso e con obiettivi definiti; l’obbligo per gli Stati partecipanti all’ISAF di fornire resoconti; l’approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza e dei diversi organi della Nazioni Unite delle attività militari dell’ISAF, compresi i raid aerei contro i talebani. Sottolineava, il Governo, la sovrapponibilità delle caratteristiche dell’ISAF con quelle della Forza internazionale di sicurezza del Kosovo (KFOR), già oggetto di precedenti decisioni[13].
La seconda eccezione riguardava la carenza di giurisdizione della Corte ratione loci. La Germania non avrebbe esercitato un controllo effettivo sulla zona del raid: nella vasta area di Kunduz c’erano combattimenti attivi, con gli insorti ben organizzati e numericamente equivalenti alle truppe ISAF. Inoltre, la ISAF si limitava a prestare assistenza al Governo afghano (che disponeva delle proprie forze di sicurezza nella regione) senza esercitare poteri governativi o di polizia per mantenere ordine e sicurezza.
Il Governo, in sintesi, con le proprie eccezioni riprendeva la giurisprudenza “storica” della Corte europea che limita a circostanze di carattere eccezionale la possibilità di estendere la propria giurisdizione al di fuori del territorio statale, eccezioni elaborate già nella decisione Banković[14] e riassunte nella sentenza Jaloud[15]: se vi sia controllo effettivo di un’area al di fuori del territorio statale (“effective control of an area”) o se gli organi statali esercitino funzioni esecutive o giudiziarie sulla medesima area, inteso come controllo fisico sulle persone da parte di agenti dello Stato (“State agent authority”)[16]. La Corte, in due decisioni controverse e molto criticate dalla dottrina, aveva stabilito che le violazioni lamentate dai ricorrenti nel Kosovo occupato dalle forze NATO non potessero essere imputabili alle forze armate dei singoli Stati partecipanti al KFOR (istituito anch’esso, come l’ISAF, attraverso il Capitolo VII della Carta ONU), ma unicamente alle Nazioni Unite: se l’organizzazione internazionale cui lo Stato appartiene assicura un livello di tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente a quello convenzionale, deve presumersi che non si sia verificata una violazione, salvo il caso di evidente mancanza di tutela[17]. Solo nel caso dell’intervento statunitense e britannico nel territorio iracheno le decisioni della Corte avevano riconosciuto la giurisdizione ratione personae e loci della Corte, in quanto le Nazioni Unite non avevano assunto alcun controllo sull’autorità provvisoria creata dagli Stati Uniti e dal Regno Unito[18] e, infatti, il Governo tedesco nelle proprie difese precisava le diverse caratteristiche dell’azione militare in Iraq.
L’esame della sussistenza della giurisdizione della Corte nel caso Hanan, tuttavia, si gioca tutto su un piano diverso. La recente sentenza della Grande Camera, infatti, evita di affrontare (e, forse, di chiarire definitivamente) l’imputabilità ai singoli Stati di violazioni convenzionali avvenute in operazioni di peace enforcement, perché il ricorrente sottopone alla Corte unicamente la possibile violazione degli obblighi procedurali di inchiesta, e non lamenta la violazione materiale dell’art. 2 CEDU in relazione al raid ordinato dal Comando tedesco.
Questo consente alla Corte di prendere come riferimento la recente sentenza Güzelyurtlu[19], riguardante l’uccisione di tre cittadini ciprioti e conclusa con il riconoscimento della violazione dell’art. 2 sotto il profilo procedurale nei confronti della Turchia, per non avere adempiuto agli obblighi di cooperazione nell’indagine promossa dallo Stato cipriota. Il principio, espresso nel paragrafo 188 della sentenza Güzelyurtlu, è che se gli inquirenti o gli organi giudiziari di uno Stato attivano un’indagine penale in relazione ad un decesso verificatosi al di fuori della giurisdizione territoriale dello Stato stesso (ad esempio, sulla base del principio di giurisdizione universale o del principio di personalità attiva o passiva), per ciò stesso si crea una connessione giurisdizionale ai fini dell’applicabilità dell’art. 1 della Convenzione europea tra lo Stato e le vittime indirette della violazione, che potrebbero adire la Corte. Se lo Stato non attivasse l’indagine o il procedimento penale, la Corte dovrebbe comunque verificare la possibilità di rinvenire la predetta connessione giurisdizionale per verificare la sussistenza di obblighi procedurali derivanti dall’art. 2 sulla base di caratteristiche particolari del caso concreto, che potrebbero derogare al principio per cui l’onere procedurale di investigazione sarebbe in capo esclusivamente allo Stato nel cui territorio si verifica il decesso. Dette circostanze particolari sarebbero indagabili anche in caso di fatti avvenuti al di fuori dello spazio giuridico territoriale della Convenzione. Il riferimento giurisprudenziale è al principio espresso già nella giurisprudenza Banković e poi precisato nella sentenza Markovic[20], in cui la Corte aveva ritenuto che, a partire dal momento in cui un soggetto introduce un’azione civile davanti al giudice di uno Stato (sebbene per fatti avvenuti al di fuori dell’ambito di applicazione territoriale della Convenzione, com’era il territorio serbo al momento dei fatti) esista indiscutibilmente un "nesso giurisdizionale" ai fini dell’articolo 1. In realtà, il riferimento consente di evidenziare la significativa evoluzione della giurisprudenza europea rispetto ad una decisione molto criticata, emessa a seguito di un provvedimento interno italiano altrettanto discutibile. Infatti, giudicando sulla possibile violazione del diritto ad accedere a un tribunale, nella Markovic la Corte aveva escluso la violazione dell’art. 6 rispetto ad un regolamento di giurisdizione delle Sezioni Unite della Cassazione, che aveva dichiarato inammissibile il ricorso dei familiari delle vittime del raid alla sede della Radiotelevisione serba, sul presupposto che le modalità di conduzione del conflitto armato non fossero giudizialmente sindacabili, in quanto atto politico che non consentiva la configurazione di alcun interesse protetto[21]. E, tuttavia, la Corte escludeva che la decisione delle Sezioni Unite potesse evidenziare la sussistenza di una forma di immunità, in quanto si era limitata ad uniformarsi alla giurisprudenza interna costante sulla insindacabilità degli atti di guerra. Si rinvia, in particolare, alla appassionata dissenting opinion del giudice Zagrebelsky alla sentenza.
Nel caso Güzelyurtlu, la Corte aveva rinvenuto la connessione giurisdizionale con lo Stato turco (sebbene i decessi si fossero verificati in territorio cipriota) per tre caratteristiche della fattispecie concreta: le autorità di Cipro Nord avevano aperto una propria indagine sui fatti; la parte settentrionale di Cipro era sotto il controllo effettivo dello Stato turco; i sospettati dei delitti erano nel territorio di Cipro Nord, la cosa era nota alle Autorità turche (che non avevano prestato alcuna collaborazione) e questo aveva impedito allo Stato cipriota di adempiere agli obblighi convenzionali di indagine effettiva.
Pur premettendo di confermare i principi di Güzelyurtlu, la sentenza Hanan, in realtà, ne limita significativamente l’efficacia[22], tuttavia con una valutazione che potrebbe rivelarsi portatrice di importanti conseguenze nelle future azioni di peace enforcing extraterritoriali.
La Corte precisa che il campo applicativo della Convenzione risulterebbe esteso in modo eccessivo, se si ipotizzasse la creazione della connessione giurisdizionale per il solo fatto che uno Stato membro abbia attivato un’indagine su un decesso avvenuto al di fuori del proprio territorio. L’affermazione della Corte raccoglie le osservazioni del Governo tedesco e degli Stati terzi intervenuti (in particolare, i Governi francese e britannico) che, evidenziando il rischio che in futuro gli Stati evitino di indagare su morti avvenute in occasione di operazioni militari extraterritoriali, temevano ovviamente un revirement della giurisprudenza Behrami e una conseguente applicazione universale della Convenzione.
Escluso quindi l’automatismo della creazione del nesso giurisdizionale, la Corte esamina le caratteristiche del caso concreto:
-L’obbligo di investigazione in capo alla Germania sul raid aereo derivava dal diritto internazionale umanitario consuetudinario, perché i fatti avrebbero potuto essere qualificati come crimini di guerra commessi da appartenenti alle forze armate tedesche;
-Le autorità afghane non avevano giuridicamente il potere di iniziare un’indagine nei confronti del colonnello K. e del sergente di stato maggiore W., in quanto, in linea con la prassi delle missioni militari sotto l’egida ONU, ai sensi dell’art. 1 par. 3 costitutivo della ISAF, gli Stati che avevano fornito le truppe mantenevano una competenza esclusiva in relazione a qualunque infrazione penale o disciplinare eventualmente commessa dai propri militari in territorio afghano;
-Le autorità tedesche avevano comunque, anche secondo il diritto interno, un obbligo di investigare; detto obbligo sarebbe venuto meno solo se un’inchiesta fosse stata iniziata da un tribunale internazionale, o da un tribunale afghano, o della nazione di cui le vittime fossero, eventualmente, cittadini. Non essendosi verificata nessuna delle tre ipotesi, la Germania manteneva la giurisdizione esclusiva sulla responsabilità penale dei membri delle proprie forze armate.
Le circostanze specifiche del caso concreto idonee a creare la connessione giurisdizionale, quindi, erano la giurisdizione esclusiva tedesca e gli obblighi di indagine derivanti dal diritto interno e dal diritto internazionale: ne conseguiva l’applicabilità dell’art. 1 della Convenzione e l’insorgenza degli obblighi procedurali di indagine dell’art. 2, sia in relazione all’operato dei militari tedeschi che avevano svolto le indagini in Afghanistan, sia in relazione all’operato di inquirenti e giudicanti in Germania[23].
4.Gli obblighi procedurali di inchiesta
La decisione sul merito risulta sicuramente di minor interesse, se si esclude l’ampio resoconto dello “stato dell’arte” in materia di obblighi di inchiesta, che la sentenza ripercorre nei paragrafi 200-210, in relazione ai requisiti dell’indagine.
Per il resto, la Corte premette che tra le regole del diritto internazionale umanitario (di cui il Governo tedesco sollecitava l’applicazione per individuare gli obblighi positivi a carico dello Stato, pur non avendo fatto uso della deroga dell’art. 15 della CEDU) e quelle derivanti dalla Convenzione non vi sia alcun conflitto.
La valutazione dell’adeguatezza dell’inchiesta in Germania pare in linea con i parametri giurisprudenziali della Corte, sia per la celerità, sia per il fatto che il procuratore generale avesse comunque potuto accedere a molta documentazione riservata; inoltre l’audizione del ricorrente difficilmente avrebbe fornito elementi utili all’indagine, in un procedimento concluso per mancanza di elemento soggettivo del reato negli indagati. Le attività di indagine svolte sul suolo afghano, invece, pur tra tutte le obiettive difficoltà (la squadra del PRT di Kunduz era stata bersaglio di colpi di arma da fuoco, nonostante fosse scortata da un centinaio di membri dell’esercito afghano) presentavano numerosi problemi secondo i parametri convenzionali, segnalati dal ricorrente: non era stato inviato un drone sul luogo del raid, prima che vi accedessero le squadre di inchiesta; gli accertamenti erano stati svolti dallo stesso PRT di Kunduz, comandato dal colonnello K.; lo stesso colonnello aveva partecipato alle attività di indagine, sia sul luogo dei fatti sia partecipando alle deposizioni. Le circostanze del caso concreto, in particolare il fatto che i decessi siano avvenuti in una fase di ostilità attive, hanno pesantemente condizionato l’inchiesta, ma hanno anche portato la Corte ad utilizzare parametri particolarmente benevoli nei confronti dello Stato convenuto, tanto da portare la Corte ad escludere all’unanimità la violazione dell’art. 2 sotto il profilo procedurale.
5.Conclusioni
L’utilizzo del criterio della “connessione giurisdizionale” da parte della Corte, per giungere alla applicabilità della Convenzione oltre i parametri dell’effective control of an area e dello State agent authority, comincia a definirsi. Se, nonostante le premesse, l’esistenza di un’indagine o di un procedimento penale non è sufficiente per portare all’estensione della Convenzione oltre l’ambito territoriale ordinario, la sentenza Hanan offre uno spunto significativo. Infatti, nelle operazioni di peace enforcing sono giocoforza presenti le due caratteristiche specifiche che hanno portato all’applicazione della Convenzione nella predetta fattispecie: la giurisdizione esclusiva dello Stato di appartenenza delle truppe sui reati commessi dai propri militari e gli obblighi di indagine imposti dal diritto internazionale. La Corte, insomma, ha finito per individuare due caratteristiche generali che consentono l’applicazione dell’art. 1 e quindi delle garanzie convenzionali alle azioni militari extraterritoriali degli Stati membri del Consiglio d’Europa, estendendo in realtà gli obblighi procedurali extraterritoriali a carico degli Stati. Quali saranno i parametri valutativi, in particolare in caso di obblighi procedurali privi del supporto della possibilità di contestare la violazione sostanziale[24], sarà altro problema.
[*]Avvocato.
[1] La breve sintesi che segue è un riassunto dei paragrafi 9-70 della sentenza Hanan. La vicenda ebbe notevoli ripercussioni anche politiche, con le dimissioni del Capo di stato maggiore dell’esercito tedesco e dell’allora Ministro della difesa.
[2] Formalmente “Agreement on Provisional Arrangements in Afghanistan Pending the Re-Establishment of Permanent Government Institutions”; nell’allegato 1 – riportato al par. 71 della sentenza Hanan – è inserita la richiesta di formazione dell’ISAF (“International Security Assistance Force”).
[3] Risoluzione 1510 (2003) del 13 ottobre 2003; al momento dei fatti oggetto del ricorso, la Risoluzione 1833 (2008) del 22 settembre 2008 aveva prorogato per dodici mesi l’attività dell’ISAF.
[4] Una commissione di inchiesta creata dalla Presidenza della Repubblica afghana indicava nel proprio rapporto finale che l’operazione avrebbe causato 99 morti (69 insorti e 30 civili), oltre a numerosi feriti; il rapporto della Croce Rossa Internazionale a cui la sentenza Hanan fa riferimento risulta essere confidenziale e destinato solo all’ISAF, come pure i rapporti delle forze armate, classificati “NATO‑/ISAF‑Confidential”; secondo la UNAMA (United Nations Assistance Mission In Afghanistan) in conseguenza del raid ci sarebbero stati 109 morti e 33 feriti; nell’Annual Report on Protection of Civilians in Armed Conflict 2009, pubblicato nel 2010, si fa riferimento all’uccisione di almeno 74 civili, tra i quali un consistente numero di bambini; infine, un’indagine svolta dal Parlamento tedesco terminata con un rapporto dell’ottobre 2011 ipotizzava un numero di morti compreso tra 14 e 142 (tra 14 e 113 civili) e un numero di feriti compreso tra 10 e 33 (tra 9 e 12 civili). Il Governo tedesco ha versato un risarcimento di 5000 dollari statunitensi a persona ai familiari di 91 morti e 11 feriti.
[5] Hanan, cit., par. 40.
[6] Adottato nel 2002, il Völkerstrafgesetzbuch modificava il diritto penale tedesco adeguandolo alle disposizioni del diritto penale internazionale, in particolare allo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, al fine di permettere di indagare e perseguire condotte rilevanti secondo lo Statuto della Corte.
[7] È conseguentemente mancato, nella sentenza Hanan, l’esame della spinosa problematica relativa alla apposizione del segreto di Stato in relazione agli obblighi di cui all’art. 34 della Convenzione (si veda, ad esempio, Janowiec e altri c. Russia, [GC], 21.10.2013, parr. 202-206; tra le pronunce più recenti Yam c. Regno Unito, 16.1.2020, par. 56 e, in relazione anche agli obblighi derivanti dall’art. 38 CEDU, Georgia c. Russia (II), [GC], 21.1.2021, parr. 341-346).
[8] Si riporta, in estrema sintesi, anche l’esito dell’azione risarcitoria civile introdotta dal ricorrente e da un altro familiare di persona deceduta nel raid (i riferimenti sono in Hanan, cit., par. 70). Dopo il rigetto della domanda da parte del Tribunale regionale di Bonn e della Corte d’appello di Colonia, la Corte federale di giustizia respingeva il ricorso dei ricorrenti. La Corte non affrontava la questione della eventuale responsabilità tedesca per operazioni militari extraterritoriali sotto il comando operativo della NATO. Invece, escludeva che i ricorrenti potessero chiedere risarcimenti sulla base del diritto internazionale umanitario invocando l’applicazione diretta del diritto internazionale, riservato agli Stati, e precisava che secondo il diritto tedesco la responsabilità dello Stato non può essere ipotizzata per i danni causati a cittadini stranieri dalle forze armate tedesche impiegate in un conflitto armato all'estero, ribadendo, comunque, che nella fattispecie nessun soldato tedesco o nessuna autorità tedesca era venuto meno agli obblighi connessi alle proprie funzioni, e in particolare che il colonnello K. non aveva commesso alcuna violazione delle norme del diritto internazionale umanitario.
[9] Nel corso della procedura, sono state presentate osservazioni da parte dei Governi britannico, danese, francese, norvegese e svedese, da parte del Human Rights Centre dell’Università di Essex, dell’Istituto di studi internazionali dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, di Open Society Justice Initiative e di Rights Watch (UK). I Governi britannico e francese e Rights Watch (UK) hanno anche partecipato all’udienza in Grande Camera.
[10] Le questioni di ricevibilità hanno riguardato anche la regola dell’esaurimento dei ricorsi interni; in assenza di novità particolari rispetto alla giurisprudenza della Corte, si rinvia alla lettura dei parr. 148-152 della sentenza Hanan.
[11] Si sceglie, per ragioni pratiche, l’uso del termine “giurisdizione”, ricordando però che la Corte europea utilizza nozioni autonome non necessariamente sovrapponibili a quelle nazionali. Per una sintesi, Zagrebelsky, Chenal, Tomasi, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, Il Mulino, 2019, pag. 124 e ss.
[12] “Capitolo VII - Azione rispetto alle minacce alla pace, alle violazioni della pace ed agli atti di Aggressione”. In particolare, gli artt. 45 e 46 dispongono: “Articolo 45 – Allo scopo di dare alle Nazioni Unite la possibilità di prendere misure militari urgenti, i Membri terranno ad immediata disposizione contingenti di forze aeree nazionali per l'esecuzione combinata di un'azione coercitiva internazionale. La forza ed il grado di preparazione di questi contingenti, ed i piani per la loro azione combinata, sono determinati, entro i limiti stabiliti nell'accordo o negli accordi speciali previsti dall'articolo 43, dal Consiglio di Sicurezza coadiuvato dal Comitato di Stato Maggiore. Articolo 46 - I piani per l'impiego delle forze armate sono stabiliti dal Consiglio di Sicurezza coadiuvato dal Comitato di Stato Maggiore” (traduzione dal sito del Ministero della difesa; per il testo completo, https://www.un.org/en/sections/un-charter/chapter-vii/index.html)
[13] Si veda infra, nota 16.
[14] Banković e altri c. Belgio e altri (dec.), [GC], 12.12.2001, parr. 55-81.
[15] Jaloud c. Paesi Bassi, 2.11.2014, parr. 139-153.
[16] Per un riassunto con le pronunce fondamentali, Sudre, Les Grands arrêts de la Cour européenne des droits de l'homme, Presse Universitaires de France, 2019, pp. 869-873; ampio approfondimento in Besson, The Extraterritoriality of the European Convention on Human Rights: Why Human Rights Depend on Jurisdiction and What Jurisdiction Amounts to, Leiden Journal of International Law, 2012, 25, pp. 857–884.
[17] Behrami e Behrami c. Francia e Saramati c. Francia, Germania e Norvegia, (dec.) [GC], 2.5.2007. Per un commento alle predette decisioni, Sari, Jurisdiction and International Responsibility in Peace Support Operations: The Behrami and Saramati Cases, Human Rights Law Review, 2008, p. 159-162; Klein, Responsabilité pour les faits commis dans le cadre d’opérations de paix et étendue du pouvoir de contrôle de la Cour européenne des droits de l’homme: quelques considérations critiques sur l’arrêt Behrami et Saramati, Annuaire français de droit international, vol. 53, 2007, pp. 43-64.
[18] Al-Jedda c. Regno Unito, [GC], 7.7.2011; Al-Skeini c. Regno Unito, [GC], 7.7.2011; Viganò, Tutela dei diritti fondamentali e operazioni militari all’estero: le sentenze Al-Skeini e Al-Jedda della Corte europea dei diritti umani, Rivista telematica AIC, 4/2011; Milanovic, Al-Skeini and Al-Jedda in Strasbourg, The European Journal of International Law Vol. 23 no. 1, pp.121-139 e dello stesso Autore The Applicability of the ECHR in Contested Territories, International and Comparative Law Quarterly 67, 2018 pp 779-800.
[19] Güzelyurtlu e altri c. Cipro e Turchia, [GC], 29.1.2019.
[20] Markovic e altri c. Italia, [GC], 14.12.2006, ci si riferisce al par. 54 della sentenza.
[21] Per un ampio commento, Conti, La radice umanitaria dei diritti fondamentali e le scelte politiche come limite “valicabile” dal giudice nazionale. La lezione, ancora attuale, della vicenda legata al bombardamento NATO sulla Radiotelevisione serba dell’aprile 1999, in Europa Umana – scritti in onore di Paulo Pinto de Albuquerque, a cura di Galliani e Santoro, Pacini Giuridica, 2021, pp. 215-236, e la bibliografia ivi, in particolare Balsamo, Le corti europee e la responsabilità degli stati per i danni da operazioni belliche: inter armas silent leges? in Cass. Pen. 5, 2007, 2186.
[22] Tra i primi a commentare, per ora brevemente, la sentenza, Milanovic, Extraterritorial Investigations in Hanan v. Germany; Extraterritorial Assassinations in New Interstate Claim Filed by Ukraine against Russia, EJIL: Talk! Blog of the European Journal of International Law, https://www.ejiltalk.org/extraterritorial-investigations-in-hanan-v-germany-extraterritorial-assassinations-in-new-interstate-claim-filed-by-ukraine-against-russia/ che rileva infatti la contraddizione nel riferimento alla giurisprudenza Güzelyurtlu.
[23] Si veda la successiva nota 23, in relazione al contenuto dell’opinione parzialmente dissenziente dei giudici Grozev, Ranzoni ed Eicke.
[24] La questione della “scissione” tra la violazione sostanziale e quella procedurale dell’art. 2 è chiaramente evidenziata nella opinione parzialmente dissenziente dei giudici Grozev, Ranzoni ed Eicke, che avevano votato per l’irricevibilità del ricorso per carenza di sussistenza del nesso giurisdizionale. Secondo la dissenting, la maggioranza avrebbe esteso la possibilità di separare l’obbligo procedurale di indagare oltre il punto di rottura, trattandosi di fattispecie completamente diversa rispetto ai precedenti McCann e altri c. Regno Unito (27.9.1995, par. 161) e Šilih c. Slovenia ([GC], 9.4.2009, par. 154), e comunque non riferibile agli obblighi di cooperazione come Güzelyurtlu. La Corte creerebbe di fatto un obbligo “senza limiti” di investigare su fatti avvenuti al di fuori dello spazio giuridico della Convenzione, sebbene sia esplicitamente stabilito che detti fatti non possano far sorgere alcuna obbligazione materiale in capo allo Stato, e questo avverrebbe anche in assenza dei presupposti di effective control e State agent authority, come nel caso concreto, in cui mancava il controllo effettivo sull’area di Kunduz da parte delle forze armate tedesche e la Germania non esercitava alcun controllo o potere sui figli del ricorrente (al contrario del caso Jaloud, cit.). I giudici, inoltre, evidenziano che le supposte “caratteristiche specifiche” del caso concreto che hanno consentito di stabilire la sussistenza del nesso giurisdizionale sarebbero in realtà comuni alla grande maggioranza degli Stati, e quindi non suscettibili di creare il predetto nesso per l’applicazione dell’art. 1.