GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Sull’omicidio di Pasolini

     Notazioni sull’omicidio Pasolini di Giuseppe Salmè

    1. Quando la mattina del 2 novembre 1975 ho sentito dalla radio la notizia del ritrovamento del corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini tra le casette abusive dell’idroscalo di Ostia ho provato, come credo molti ascoltatori, smarrimento e profonda tristezza per la tragica scomparsa di un grande artista, che, spaziando dal cinema alla poesia al romanzo, aveva occupato un posto importante nel panorama culturale, italiano e internazionale. Ma ricordo anche la preoccupazione per il venir meno di una voce pensosa e scomoda, che costringeva a riflettere senza pregiudizi sulle tumultuose vicende sociali e politiche del nostro Paese.

    Dopo poche ore dal primo annuncio si diffuse la notizia che autore confesso dell’omicidio sarebbe stato un ragazzo di 17 anni. Mai avrei potuto immaginare che a distanza di pochi mesi sarei stato chiamato a comporre il collegio giudicante del processo sia perché per formazione propendevo a occuparmi, e mi occupavo effettivamente di procedimenti civili di adozione e controllo della potestà dei genitori, sia perché la mia esperienza come magistrato (da otto anni) e, come magistrato per i minorenni in particolare (da tre anni), era di gran lunga inferiore a quella di altri bravissimi magistrati del tribunale per i minorenni.

     La decisione del presidente del tribunale per i minorenni, Carlo Alfredo Moro, magistrato di grande professionalità, di lunga brillante esperienza e raffinato intellettuale, di nominarmi componente del collegio giudicante mi sorprese e mi onorò, anche per la grandissima stima e per l’affetto che ho avuto nei suoi confronti fin dai primi tempi in cui l’ho conosciuto.

    Ero nello stesso tempo consapevole delle difficoltà che avremmo dovuto affrontare, non tanto sul piano tecnico-giuridico [1] quanto su quello strettamente giudiziario e processuale, perché nell’opinione pubblica già si confrontavano con asprezza di toni diverse e opposte ipotesi di ricostruzione dei fatti, frutto non della conoscenza della realtà sostanziale o meramente processuale, ma di contrapposte impostazioni culturali e ideologiche. Era inevitabile che dall’opinione pubblica l’asprezza del confronto si trasferisse nei comportamenti delle parti processuali.

    L’attenzione mediatica, prima, durante e dopo il processo, come era prevedibile, è stata altissima, non solo per la personalità della vittima, ma, in qualche misura, anche per la non pubblicità del dibattimento minorile che spingeva le parti del processo a continuare il confronto tra loro sui mass media, rinfocolando il naturale interesse dell’opinione pubblica. Insomma, una realtà difficile ma in fondo normale per chi fa il mestiere di giudice.

    2. L’accurato studio degli atti processuali non ci risparmiò l’impegno nella soluzione di varie questioni, alcune del tutto nuove, che si sono poste nel corso del processo.

    Una prima questione riguardò la testimonianza di Oriana Fallaci, la quale, dopo aver riferito di alcuni particolari della vicenda oggetto di accertamento processuale si rifiutò di indicare le fonti dalle quali l’aveva appresa. Il tribunale, anticipando la soluzione accolta dall’art. 200, 3° comma del codice di procedura penale del 1989, ritenne che non sussistessero gli estremi del reato di reticenza e quindi della possibilità per il giudice di emettere anche d'ufficio mandato di arresto del testimone prevista dall’art. 359 cod. proc. pen. all’epoca vigente, perché l’art. 2, 3° comma della legge 3 febbraio 1963, n. 69 prevede il dovere dei giornalisti di rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie ([2]).  

    In gran parte nuova fu anche la soluzione data al problema dell’accertamento della capacità d’intendere e di volere dell’imputato. I periti d’ufficio, quelli indicati dalla difesa dell’imputato e, sostanzialmente, anche quello della parte civile, ritenevano che Pino Pelosi non fosse sufficientemente maturo per comprendere il disvalore di ciò che aveva commesso, ma il tribunale, la cui giurisprudenza in tema di accertamento della maturità non era certo restrittiva, lo ritenne al contrario maturo Pelosi, sia sulla base del comportamento processuale dell’imputato che in considerazione dell’estrema gravità del reato percepibile anche con un minimo di consapevolezza.

     Ma soprattutto eccezionale, nel senso letterale della parola, fu l’impegno nell’istruttoria dibattimentale, volta a colmare vistose lacune delle indagini preliminari (ad esempio, sulla tavoletta con la quale venne colpito Pasolini furono scoperte impronte di mani sporche di sangue, mai rilevate dalla polizia giudiziaria). Fu disposta la rinnovazione della perizia volta ad accertare la veridicità della versione di Pelosi, che aveva lamentato una lesione al dorso del naso, esclusa dalla perizia effettuata nella fase istruttoria e accertata in quella dibattimentale; fu effettuata una perizia volta a stabilire se le tracce di pneumatico sulla canottiera della vittima erano quelle dell’auto di Pasolini alla cui guida si era posto Pelosi; fu disposta un’accurata ispezione dei luoghi in cui fu consumato il delitto, anche perché i rilievi effettuati nell’immediatezza dalla polizia giudiziaria non erano significativi in quanto, inopinatamente, sul campo di calcio adiacente il luogo del ritrovamento del corpo di Pasolini, sul quale sia era svolta una parte dell’azione delittuosa, era stata rilevata un pluralità di tracce impresse successivamente alla consumazione del delitto.

    La lacunosità dell’istruttoria, che in ossequio alla legge minorile si era svolta con quello che all’epoca era definito rito sommario, era peraltro conseguenza dei tempi molto ristretti che i p.m. si erano assegnati. La Procura per i minorenni se ne era occupata solo fino al 21 novembre, ma, dopo quella data, l’istruttoria era stata avocata dal Procuratore generale, che aveva ritenuto di limitare il tempo delle indagini a 40 giorni, come era imposto dal codice di procedura penale all’epoca vigente per i processi davanti al giudice ordinario, che prevedeva che trascorso quel termine il p.m. dovesse richiedere al giudice istruttore di procedere con il rito formale. Si trattò di un evidente errore, perché per il rito minorile non si applicava l’alternativa tra istruttoria sommaria e formale, essendo prevista solo quella sommaria, con conseguente inapplicabilità del termine massimo di durata dell’istruttoria stessa. Alla base dell’errore ci fu certamente la mancata esperienza delle specificità del rito minorile, ma anche gli effetti di un atteggiamento semplificatorio di tutti gli operatori coinvolti nella vicenda e della stessa opinione pubblica a fronte di un delitto del quale fin dal primo momento era noto, per sua stessa confessione, l’autore e che aveva innestato sentimenti di ansia collettiva per il disagio provocato dalla “scomodità” della vittima e delle modalità del delitto.

    3. Il punto centrale della sentenza, che fu poi al centro delle successive vicende processuali, è stato certamente il tema del concorso nell’omicidio.

    Come ha osservato Stefano Rodotà in nota alla sentenza di Cassazione [3]  “..è proprio un “concorso con ignoti” l’estrema frontiera che i giudici Moro e Salmè riescono a raggiungere forzando il fronte delle disattenzioni, delle versioni canoniche, delle omertà mal dissimulate.

    I principali argomenti sui quali si basa questa conclusione possono sinteticamente essere così indicati:

    a) nel bagagliaio (o, secondo la versione fornita dai carabinieri che bloccarono Pelosi, sul lungomare di Ostia, sul sedile posteriore) venne trovato un golf verde, di fattura dozzinale, che non apparteneva né a Pasolini né a Pelosi, come risulta dal fatto che la cugina di Pasolini, Graziella Chiarcossi, che aveva pulito l’auto la mattina del 31 ottobre, aveva dichiarato di non avere visto l’oggetto;

    b) sempre nell’auto di Pasolini fu rinvenuto un plantare di scarpa destra che non era né di Pasolini né di Pelosi, anche perché le loro scarpe destre non recavano traccia dell’uso di un plantare;

    c) Pelosi, accompagnato sul luogo del delitto dai carabinieri che l’avevano fermato, chiese loro di cercare un pacchetto di sigarette e un accendino, che dichiarò di aver lasciato sul portaoggetti dell’auto e che non vennero mai trovati;

    d) Pasolini aveva riportato numerose lesioni e aveva perso molto sangue, Pelosi, che pure non soverchiava la vittima per prestanza fisica, aveva poche tracce di sangue di Pasolini addosso e solo una leggera frattura del setto nasale che lui stesso, peraltro, aveva giustificato con l’urto contro il volante dell’auto al momento in cui era stato fermato dai carabinieri;

    e) sul luogo del delitto fu reperita una pluralità di corpi contundenti che non potevano essere stati utilizzati contestualmente da una sola persona;

    f) macchie di sangue di Pasolini furono trovate sul tettino dell’auto, lato passeggero, ma nessuna macchia fu lasciata sull’auto dal lato guidatore e, soprattutto sul volante; il che dimostra le macchie non furono lasciate da Pelosi che era appunto al volante, ma neppure da Pasolini che, secondo il racconto dell’imputato, non si avvicinò mai alla sua auto dopo essere stato colpito.

    Questo è l’ultimo processo penale al quale ho partecipato.

    4.  Qualche ulteriore sintetica notazione.

    La celerità, purtroppo non usuale per la nostra giurisdizione penale, ha contraddistinto tutte le fasi del processo, non solo quella dell’istruttoria predibattimentale. Il dibattimento, iniziato nei primi mesi del 1976 si è concluso con la sentenza del 26 aprile 1976; la sentenza d’appello fu pronunciata il 4 dicembre 1976 [4] , la sentenza della Corte di Cassazione è del 26 aprile 1979 [5].

    La corte d’appello, dopo aver dissentito su alcune soluzioni giuridiche, come quella sui limiti del dovere di testimonianza del giornalista, esaminati uno per uno gli argomenti di prova del concorso, “col metodo...pressappoco ...dell’Orazio superstite contro i tre Curiazi” (Giuseppe Branca, in nota alla sentenza di Cassazione,), ne contesta la rilevanza e arriva alla conclusione che pur “se non possono essere espresse in termini di totale e assoluta certezza”, le valutazioni sull’estraneità di concorrenti, le considerazioni svolte sui singoli indizi “sono tuttavia sufficientemente tranquillanti” per negare il concorso di ignoti.

    Come spesso è avvenuto e continua ad avviene nell’esperienza giudiziaria, specialmente in tema di delitti di natura sessuale, sempre forte è la tentazione paradossale di contrapporre all’autore formale del delitto, la responsabilità sostanziale della stessa vittima. “Pasolini è l’autore del proprio omicidio”. E’, ripeto, paradossale, eppure è stato uno dei temi che ha percorso il dibattito pubblico e a tratti persino quello giudiziario. Offesa più grave alla dignità della vita umana non poteva essere recata.      

    [1] Sentenza Tribunale per i minorenni di Roma 26 aprile 1976, Foro it. 1976, II 281: “Il tribunale non è chiamato a giudicare l’attuale imputato perché ha ucciso un artista di fama internazionale, ma perché ha ucciso un uomo, ed ogni essere umano ha di fronte alla legge, e all’etica sottostante al diritto, una eguale valenza.”

    [2] Sentenza 26 aprile 2976, cit.: "In proposito si deve rilevare che l'art. 2, 3° comma, legge 3 febbraio 1963 n. 69 sancisce espressamente il dovere dei giornalisti di rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse e che tale disposizione è strettamente collegata, costituendone un necessario corollario, con la disposizione di cui al primo comma dello stesso articolo secondo cui « è diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica limitata dall'osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ». Appare pertanto evidente che il legislatore ha voluto, con le norme in questione, riaffermare che la libertà di informazione e di critica costituisce un fondamentale e inalienabile bene sociale per la riconosciuta rilevanza pubblica che la funzione della stampa ha nello sviluppo democratico del paese; che il conseguente diritto inopprimibile del giornalista può e deve trovare dei limiti nella garanzia di altri beni fondamentali costituzionalmente protetti; che, se può e deve prevedersi una responsabilità del giornalista quando tali limiti siano valicati si deve garantire al giornalista la possibilità di proteggere le sue fonti di informazioni perché tale garanzia è funzionale al libero esplicarsi della funzione della stampa…..

    Ora, se sussiste nell'ordinamento una norma di legge che afferma essere il giornalista « tenuto » (e quindi obbligato) a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie nei confronti di tutti (e quindi anche nei confronti di un magistrato in un processo penale o civile) non può non ritenersi che l'adempimento di un simile do vere imposto da una norma giuridica faccia scattare la causa di giustificazione di cui all'art. 51 cod. penale. Sarebbe assurdamente illogico che l'ordinamento da una parte imponesse al giornalista l'obbligo di conservare il segreto sulle fonti di informazioni e poi lo chiamasse penalmente a rispondere dell'azione doverosa posta in atto."

    [3] Foro it. 1980, II, 38

    [4] Foro it. 1977, II, 441

    [5] Foro it. 1980, II, 31

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