Sommario: 1. La proposta di introduzione del reato di femminicidio – 2. Il quadro delle prime critiche al disegno di legge - 3. Il femminicidio e il femicidio - 4. La responsabilità “di aver a che fare" con il diritto penale - 5. La dimensione politica della ribellione delle donne alla violenza maschile - 6. L’impatto sulla carcerazione a seguito del riconoscimento della rilevanza penale della violenza maschile nei confronti delle donne - 7. L’assenza di uno statuto coerente dei diritti e poteri della persona offesa dal reato e la vittimizzazione secondaria - 8. Note conclusive.
1. La proposta di introduzione del reato di femminicidio
Il 7 marzo 2025, come noto, è stato presentato in conferenza stampa dal Governo il disegno di legge per l’introduzione del reato di femminicidio.
Il disegno di legge formula un delitto autonomo introducendo l’articolo 577-bis nel codice penale che punisce con l’ergastolo «chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità». Con la stessa formulazione si propongono aggravanti per altri reati, come maltrattamenti, atti persecutori, violenza sessuale e lesioni.
Sul piano processuale e organizzativo, il testo mira a potenziare i diritti delle persone offese e dei loro familiari nel procedimento penale attraverso obblighi di informazione fin dal primo contatto con le autorità, il diritto a essere ascoltate dal pubblico ministero e prevede la notifica obbligatoria di atti rilevanti, come le richieste di patteggiamento. Vengono rafforzati i criteri per applicare misure cautelari e introdotti obblighi di comunicazione anche in fase esecutiva, ad esempio in caso di concessione di benefici penitenziari.
La legge prevede, infine, la formazione obbligatoria per magistrati e operatori, per assicurare un approccio competente e rispettoso delle vittime del reato, anche con lo scopo di prevenire ogni forma di vittimizzazione secondaria.
2. Il quadro delle prime critiche al disegno di legge
Le posizioni critiche sul disegno di legge che introduce il reato autonomo di femminicidio si muovono lungo i seguenti assi principali: l’inefficacia strutturale della legge penale per affrontare la violenza maschile nei confronti delle donne, l’abuso del diritto penale e l’incostituzionalità della norma, un protagonismo esacerbato delle vittime di reato, fino a considerazioni generali secondo le quali le ultime riforme in materia avrebbero alimentato la risposta carceraria senza nessun impatto né deterrente né di prevenzione generale, mentre la vittima sarebbe ridotta a oggetto simbolico della legge, privata di agency. Il carcere diventa il principale — e unico — strumento di risposta. La giustizia trasformativa e sociale sarebbe così accantonata a favore di una deterrenza punitiva che non mostrerebbe efficacia concreta.
Insomma, come si legge sempre a ogni proposta di riforma penale sul tema, dalla violenza sessuale allo stalking, il diritto penale alle donne “non serve”, sarebbe la “polpetta avvelenata” cui alcune più ingenue abboccano, e per di più si contrapporrebbe con il movimento abolizionista (del carcere).
Dall’altra parte, giuristi e penalisti evidenziano gravi criticità tecnico-costituzionali. Il nuovo reato è visto come espressione di un uso strumentale del diritto penale a fini di consenso politico, con un effetto simbolico che sovraccarica la macchina giudiziaria già ingolfata. Si sottolinea la vaghezza e l’indeterminatezza della fattispecie incriminatrice introdotta, ritenuta fondata su concetti psicologici e morali (odio, discriminazione, repressione dell’identità) che sarebbero difficili da provare in sede processuale e dunque suscettibili di applicazioni arbitrarie e soggettive.
Secondo questa prospettiva, il d.d.l. presentato ribadirebbe una deriva panpenalista, non solo inefficace e ingannevole, ma anche pericolosa per la tenuta costituzionale del diritto penale in uno Stato democratico, addirittura definita una “ordalia”, una vendetta femminista.
Inoltre, si osserva che, se davvero si volesse punire in modo autonomo l’omicidio motivato da odio verso un’identità, allora sarebbe necessario istituire specifiche figure di reato anche per omicidi omotransfobici, razzisti o abilisti.
Vale la pena ricordare sul punto che in questa direzione andava proprio il d.d.l. “Zan”, che aveva al cuore misure di natura strettamente penale, poiché volto ad ampliare l’ambito di applicazione dei reati attualmente contenuti nella sezione dedicata ai “delitti contro l’eguaglianza”, oltreché a modificare l’art. 1 della c.d. ‘legge Mancino’ (art. 5 del d.d.l.).
Nello specifico, l’art. 604 ter c.p., che già prevede invece un’apposita aggravante – applicabile a tutti i reati, fuorché quelli già puniti con l’ergastolo – che aumenta la pena fino alla metà se i reati sono commessi “per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità”, avrebbe meritato, secondo la proposta di legge, molto sostenuta anche da parte di chi oggi si scaglia contro la formulazione del delitto autonomo e dell’aggravante di femminicidio, l’aggiunta al novero delle possibili discriminazioni che la legge già prende in considerazione (razza, etnia, nazione, religione) quelle, del sesso, del genere, dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere e della disabilità (art. 2 e 3 del d.d.l).
3. Il femminicidio e il femicidio
Il termine “femicidio”, dall’inglese femicide, è in uso sin dal XIX secolo e nel Law Lexicon del 1848 compare con il significato di “uccisione di una donna”. Nel contesto del dibattito femminista è impiegato per la prima volta da Diana Russell, scrittrice e attivista, durante la campagna per la costituzione a Bruxelles di un tribunale internazionale sui crimini contro le donne (Russell, Van De Ven, 1976). In tale contesto, secondo Diane Russell, il termine “femicidio” costituiva una valida alternativa al termine “omicidio” per indicare le uccisioni di donne “in quanto donne”: come l’espressione “omicidi a sfondo razzista” (racist murders) evidenzia il razzismo che ispira alcune uccisioni, così, secondo Russell, l’adozione del termine “femicidio” (femicide) e “femicidio nelle relazioni intime” (intimate partner femicide) avrebbe potuto condurre ad una maggiore sensibilizzazione sulle ragioni culturali e politiche che sottendono molte uccisioni di donne da parte di uomini, evidenziandone e denunciandone la motivazione misogina (Russell D. , 2012).
In Messico, l’antropologa e politica Marcela Lagarde ha approfondito e diffuso l’utilizzo del termine femminicidio per indicare il contesto generale nel quale si consumano i femicidi.
Secondo Marcela Lagarde per femminicidio si intende, dunque, l’insieme delle «condotte misogine che comportano l’impunità delle condotte poste in essere, tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una situazione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambini, di sofferenze psichiche e fisiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e all’esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia» (Lagarde, 2008).
Marcela Lagarde “nominando” tale contesto con il termine femminicidio ha richiamato l’attenzione sulla dimensione sociale e politica che costituisce terreno fertile per la commissione e l’impunità delle violenze maschili nei confronti delle donne nello stato di Chihuahua, in particolare a Ciudad Juárez[1], dove l’entità della questione sociale aveva raggiunto numeri tali da far parlare in Messico e poi in altri paesi dell’America Latina, di una vera e propria “guerra alle donne”, anche se ovunque sono state evidenziate preoccupazioni in merito a una risposta esclusivamente punitiva, scollegata da un rinnovamento socio-culturale (Segato, 2023).
In questa accezione ampia il termine femminicidio è stato sviluppato e utilizzato quale categoria antropologica e sociologica in altre zone del Messico e dell’America Latina, per essere recepito poi in Spagna (Instituto Centro Reina Sofìa, 211, 2007) e in Italia (Spinelli, 2008; UDI, 2004).
Il dibattito conseguente all’affermazione delle parole per nominare l’uccisione delle donne in quanto donne si è spostato anche sul piano di specifiche formulazioni di reati in molti ordinamenti, proprio a partire dai paesi latinoamericani (Toledo, 2013), avviando una riflessione sull’insieme delle pratiche sociali, politiche e pubbliche che di fatto legittimano le violenze maschili nei confronti delle donne in una dimensione di impunità, e sull’opportunità di una formulazione di fattispecie incriminatrici ad hoc, senza trascurare le misure volte ad assicurare l’effettività delle norme introdotte come disposto dalle Corti regionali per i diritti umani e dal Comitato CEDAW.
Il termine “femminicidio” ha trovato progressivamente diffusione anche nel linguaggio comune nel nostro paese, grazie all’instancabile lavoro del movimento delle donne che a partire dal 2009, in occasione dello Shadow report presentato al Comitato CEDAW per i trent’anni della convenzione Onu per l’eliminazione di ogni discriminazione nei confronti delle donne, si è mobilitato affinché la parola entrasse nel discorso pubblico, fino ad entrare ufficialmente anche nel dizionario della lingua italiana per indicare «qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte» (Devoto, Oli, 2014).
Nonostante l’innegabile impegno profuso dalle studiose e dalle attiviste femministe a chiarire il significato e la rilevanza dei termini femicidio e femminicidio, il loro recepimento da parte del discorso giuridico è sempre stato particolarmente problematico e anche dileggiato con le stesse modalità che spesso si riservano a chi di noi pretende di essere nominata al femminile.
In Italia, sul piano politico, i termini femminicidio e femicidio sono stati impiegati in modo interscambiabile come etichette giornalistiche da apporre di volta in volta alle più variegate iniziative legislative, a fronte delle quale si registra sempre una diffusa reazione che invoca la generale presunzione di adeguatezza delle norme penali e procedurali vigenti ogni qualvolta, in modo trasversale tra le varie legislature degli ultimi venti anni, sono state proposte norme di diritto penale sostanziale e procedurale, lanciando allarmi per la tenuta del sistema penale liberale classico, percepito come “sotto assedio” dell’Unione Europea che progressivamente potenzia la posizione delle vittime di reato nei procedimenti penali, e come “labirinto intricato” dalle sentenze delle Corti e degli atti internazionali. Indicativo della refrattarietà della dottrina a istanze volte a riequilibrare i rapporti di potere tra uomini e donne costruiti dal diritto è sicuramente il dato storico che i timori di un eccessivo interventismo della Corte europea dei diritti umani si siano diffusi nella dottrina proprio quando i giudici di Strasburgo hanno cominciato ad aprire brecce nel muro di indifferenza che storicamente ha occultato la responsabilità statale dinanzi alle violazioni dei diritti fondamentali delle donne.
4. La responsabilità “di aver a che fare" con il diritto penale
Il disegno di legge che oggi propone, tra l’altro, il delitto di femminicidio, come ogni proposta di legge nel nostro ordinamento, sarà discusso e posto di fronte alle contraddittorie e gravi ulteriori proposte legislative che minano la sicurezza sociale delle donne, per esempio non riconoscendo pienamente diritti e libertà sessuale e riproduttiva o perseguitando in sede civile coloro che cercano di difendere i figli da una genitorialità controllante e coercitiva. D’altro canto, la riforma delle disposizioni in materia di violenza sessuale ha atteso il 1996 per essere approvata ben diciotto anni dopo la proposta di legge di iniziativa popolare, attraversando cinque legislature.
Sulle disposizioni proposte dal disegno di legge, nello specifico, mi sto ancora interrogando e lo sto facendo insieme ad altre donne con cui sono in relazione politica, in particolare le operatrici attiviste, le avvocate e le donne accolte dai centri antiviolenza dell’associazione Differenza Donna: quotidianamente infatti, e a partire dall’esigenza concreta di misurarci con il bisogno specifico, e sempre diverso, di strategie elastiche e ridefinite caso per caso al fine di liberarsi da una situazione di violenza maschile (espressione che ancora ci dice in modo realistico chi agisce la condotta violenta), ci domandiamo “dell’utilità e del danno” delle tante disposizioni introdotte dal 1996 in poi, sulla loro efficacia deterrente, sull’effettività della protezione, sulle dinamiche processuali che continuano a imbrigliare la libertà delle donne e a mortificarne la dignità di soggetto di diritto uguale davanti alla legge[2].
Questa riflessione non può mai ignorare che il diritto penale storicamente ha codificato la violenza maschile nei confronti delle donne, nel senso che ne è stato architrave legittimante, con tracce culturali ancora vivide nella giurisprudenza di merito contemporanea, nella quale a volte riacquistano vigore le motivazioni che fondavano la tollerabilità sociale e giuridica della violenza nei confronti delle donne.
Pertanto, il diritto penale non è il solo strumento da invocare, ma neppure può rimanere ideologicamente esente da riscrittura e nuova problematizzazione e, in particolare, non può restare campo minato che impedisce il pensiero ogni qualvolta siano le donne il soggetto di diritto cui sono riconducibili i beni giuridici di rango costituzionale che si assumono violati.
La legge, in particolare quella penale, in nessun ordinamento ha eliminato la violenza maschile nei confronti delle donne fino alle sue conseguenze letali, così come, del resto, il reato di tortura, laddove introdotto, non ha posto fine alla inumana sopraffazione ai danni di chi rimane nella disponibilità solo della sua nuda vita nelle mani del potere statale, né, d’altra parte, il diritto internazionale e il diritto penale internazionale sono stati capaci di eliminare la guerra e i suoi spietati crimini, ma non per questo è possibile affermare, in tutta onestà intellettuale, che le disposizioni negli ambiti citati non abbiano prodotto un cambiamento degli ordinamenti e delle società attraverso meccanismi che assicurano l’accountability individuale e pubblica.
Non è dettaglio di contorno poi considerare che proclamarsi contro il diritto tout court non ha mai significato per le donne una estraneità del diritto stesso alla propria vita: ogni norma giuridica produce e ha prodotto un impatto su tutte e ciascuna, e non riesco a riconoscere alcun potenziale trasformativo della sola parola “contro” che non si interroga sulla possibilità di una riscrittura delle norme, comprese quelle penali, e non perché io “creda” nel diritto: la responsabilità di mettere mano alle norme, comprese quelle penali, è radicata proprio nella consapevolezza della loro fragilità e vischiosità, così come delle trappole delle procedure, consapevolezza che deriva dalla pratica di avvocata che non consiste, come ci ricorda la Suprema Corte, in una prestazione privatistica, ma in una funzione pubblica strumentale al corretto esercizio della giurisdizione nei confronti di tutte le parti[3], comprese le donne, esposte costantemente a un doppio standard di valutazione in qualsiasi ambito del diritto (civile, minorile, penale, finanche amministrativo) ci muoviamo.
Dunque, insieme all’opportunità o meno della formulazione del nuovo reato o dell’aggravante ipotizzata sarà necessario discutere e ragionare insieme sulle altre norme di diritto sostanziale e processuale necessarie affinché si definisca una cornice più complessa che metta a sistema tutte le modifiche normative che si sono susseguite negli ultimi anni, ma questa volta prevedendo un cospicuo investimento di risorse finanziarie nel sistema giudiziario, in affanno certamente, ma non perché ingolfato dalle denunce delle donne, come si legge da più parti, ma in quanto deprivato di spazi, mezzi, magistrati e personale sufficiente ormai da decenni.
5. La dimensione politica della ribellione delle donne alla violenza maschile
Preliminarmente a qualsiasi considerazione sulla proposta legislativa in questione, per me è importante riflettere sulla reazione scandalizzata che essa ha scatenato e sui tanti luoghi comuni che costantemente ritornano al centro della discussione quando si ripropone il dibattito su legge penale e diritti delle donne.
Innanzitutto, la violenza maschile nei confronti delle donne viene puntualmente mistificata: è bene chiarire che non stiamo parlando di corteggiamenti quando le donne denunciano atti persecutori, non stiamo parlando di litigi e conflitti irrisolti dalla psicanalisi quando le donne si rivolgono alla giustizia penale, non stiamo parlando di libertà sessuale repressa o conservatorismo bigotto quando si pretende di restituire centralità al consenso nelle relazioni sessuali. Bisognerebbe forse cominciare a pubblicare i capi di imputazione oggetto dei processi penali pendenti dinanzi agli uffici giudiziari del nostro paese e ciò per consentire di comprendere in concreto, fuori dagli esercizi di stili, la molteplicità di condotte che le donne ancora subiscono nelle relazioni da parte dei propri partner ed ex partner a prescindere dall’estrazione sociale, culturale e provenienza geografica, età e condizioni materiali.
Sono capi d’imputazione difficili da leggere e a volte anche per l’ordinarietà delle condotte, che spiazza, perché non racconta dell’eccezione, di contesti che si possono allontanare da sé in quanto marginali, che consentono di fare differenze tra chi agisce, subisce e chi legge: sono capi di imputazione che raccolgono fatti che “ci dicono” di tutti e tutte, dello stato delle relazioni nella nostra società, ci parlano dei vicini di casa, degli amici di famiglia, e forse di ciascuno/ciascuna di noi. E questo è faticoso da accettare, quindi si normalizza, si mistifica per non vedere cosa non va non solo nelle relazioni degli altri/e ma anche nelle proprie.
Sono capi di imputazione che, a prescindere dall’esito processuale, comprovano che le donne non accettano più violazioni dei propri diritti e libertà per un tempo prolungato, perché si riconoscono come soggetto e si occupano della realizzazione della propria identità; riconoscono le dinamiche di oppressione che vivono, provano a svelarle stando nella relazione, ma poi si ribellano e “si portano via” da quella situazione, nominandola sempre di più per quello che è: violenza sessista. Altra storia è la nominazione istituzionale che ricevono in risposta ciascuna nella propria esperienza di ribellione.
Non intendo dunque qui scendere nel dettaglio dei fatti oggetto di denuncia, per rispetto di tutte e di ciascuna: dal femminismo ho appreso che la realizzazione piena della mia umanità viene dal riconoscimento della forza trasformatrice della parola usata, da una parte, per “riparare” nella relazione con le altre donne al tentativo di annientamento della propria personalità, dall’altra per ribellarsi politicamente alle forme che assume il patriarcato privato e pubblico.
I fatti di violenza costituiscono il prezzo che le donne pagano per la ribellione dinanzi a chi ne vuole annullare identità e libertà, autodeterminazione e vitalità, sono causa di un trauma loro prodotto deliberatamente mediante condotte che in qualsiasi altro contesto e relazione sociale ormai sono ritenute inammissibili, essendo giunti anche a una censura netta del presunto monopolio statale della forza e della violenza.
Dunque, ciò che mi interessa, al di là di quello che la singola parola racconta, è il coraggio stesso della parola (dal racconto tra le pari alla denuncia in senso tecnico, passando per la rivendicazione pubblica), che fa politica perché apre al mondo ciò che si ritiene debba, ancora, rimanere privato.
Che tale parola femminile di ribellione trovi spazio anche nelle aule giudiziarie penali non può dirsi insignificante passaggio, poiché ha contribuito e contribuisce a ristabilire un equilibrio tra le voci ascoltate che somiglia sempre di più a un’idea di giustizia equa, che quasi mai, come più avanti si approfondisce, sfocia nella detenzione, poiché le pene sono generalmente contenute nelle soglie che ne consentono la sospensione oppure l’applicazione di pene alternative al carcere.
Per l’obiettivo di una giustizia anche per le donne, d’altra parte, lo studio e la pratica processuale non mi consentono di confidare sull’apporto della “dottrina autorevole” che oggi si scandalizza dinanzi alla proposta di una fattispecie incriminatrice che menziona l’odio o la discriminazione verso la donna o la volontà di reprimerne la libertà e l’identità: la pubblica indignazione manifestata mi induce a riflettere infatti sul contributo proprio di tale dottrina alla cultura giuridica che oggi ancora agisce da detonatore di ogni avanzamento sociale e giuridico delle donne dentro e fuori dai tribunali, dentro e fuori dall’accademia, dentro e fuori dai libri sui quali apprendiamo il diritto, e dove si legge che ritenere l’espressione “diritti dell’uomo” non equipollente a “diritti umani” sarebbe solo una questione di moda utile a soddisfare «un esacerbato formalismo femminista»[4].
Quando si parla di uguaglianza giuridica davanti alla legge nel nostro ordinamento, a maggior ragione davanti alla legge penale che, come ci hanno ricordato da più parti proprio negli ultimi giorni, deve essere caratterizzata da tassatività e determinatezza ed è soggetta al divieto di analogia, bisognerebbe partire dall’articolo 575 del Codice penale che, ancora oggi, è formulato prevedendo la punizione di “chiunque cagiona la morte di un uomo”. Questo delitto è spiegato da sempre nei manuali chiarendo che oggetto materiale è “un uomo” che indica ogni “essere umano”, “qualsiasi uomo” e l’evento prodotto è “la morte dell’uomo”, oggetto giuridico è “un altro uomo”, ovvero la vita di cui è titolare “qualunque uomo”[5], senza sentire mai il bisogno di contestualizzare e riattualizzare la formulazione della fattispecie incriminatrice e chiarire che dovrebbe intendersi superata la prospettiva per la quale la nozione di uomo si identifica con quella di essere umano in generale[6].
Sarebbe quindi importante riflettere sulle ragioni storiche, politiche, giuridiche per le quali ancora oggi l’articolo 575 del codice penale sia così formulato e sul motivo per il quale non disturba nessuno/a che la donna non sia espressamente nominata, e ciò costituirebbe riflessione utile anche per il superamento delle logiche binarie, ricorrendo per esempio alla parola “persona”, già usata nel Codice penale per nominare il titolo XII del libro secondo (reati contro la persona), scelta linguistica che ci conferma, insieme agli altri pochi riferimenti alle donne nel codice penale, come individuare quale soggetto passivo del reato l’uomo, piuttosto che l’uomo e la donna o in generale una persona, non è stata storicamente motivata dal registro linguistico all’epoca in uso, (anche perché ci si è interrogati a lungo sulla posizione di soggetto passivo del reato nel caso di uccisione del monstrum partorito “da donna”), ma deliberata decisione dettata dal maggior valore della vita maschile a fronte di quella femminile, per la quale fino al 1981 non valeva nella dimensione privata l’habeas corpus, in quanto esposta all’ira funesta del padre, fratello o marito colpiti nell’onore per l’esercizio della sua libertà non contemplata dall’ordinamento.
6. L’impatto sulla carcerazione a seguito del riconoscimento della rilevanza penale della violenza maschile nei confronti delle donne
Secondo le ulteriori critiche sollevate, la logica sottesa al disegno di legge in esame alimenterebbe politiche di “incarcerazione di massa” così come avrebbero fatto le riforme legislative intervenute in tema di violenza maschile nei confronti delle donne negli ultimi anni. La proposta della pena dell’ergastolo — già previsto nel nostro ordinamento per l’omicidio aggravato — viene letta da molte voci come un arretramento rispetto alle battaglie per il superamento del carcere, e come un’ulteriore manifestazione del populismo penale.
Il movimento abolizionista del carcere e i movimenti femministi si intersecano, e non può essere silenziato con poche battute l’enorme contributo quotidiano da parte femminista a sostenere le ragioni di un superamento del modello carcerocentrico, considerato tutto il compendio di mobilitazione femminista per la denuncia politica di ogni forma di violenza istituzionale.
Tuttavia, invece di duellare “su chi è in possesso della verità” come spesso accaduto tra movimento abolizionista e movimento femminista[7], sarebbe auspicabile riflettere sul fatto oggetto di problematizzazione: quando si discute di politiche pubbliche e di diritto penale in tema di violenza maschile nei confronti delle donne, sarebbe prioritario partire dalle condizioni primarie trasversali e diffuse che rendono le donne particolarmente esposte all'uso della violenza psicologica, fisica e sessuale fino all’uccisione da parte degli uomini. Riprendo sul tema il dubbio che avanzava Gerlinda Smaus la quale sottolinea come ancora agisca da fattore di disturbo nel contesto del movimento abolizionista, che per lo più si mobilita per la liberazione degli “altri” rispetto a chi prende parola, cioè di coloro che, marginalizzati e razzializzati sono più vulnerabili alle pratiche selettive della criminalizzazione e carcerazione, il fatto che le condizioni primarie sottese alla violenza sessista non consentono alterizzazioni, poiché ci dicono di noi tutti/tutte.
La promozione di un quadro normativo effettivo ed efficace anche in termini di deterrenza ci viene indicato dalla Corte europea dei diritti umani, che penso rimanga autorevole riferimento tanto se obbliga l’Italia a punire la tortura[8] quanto se impone l’adozione di norme penali deterrenti in tema di violenza nei confronti delle donne[9], quale uno dei pilastri della politica integrata di prevenzione della violenza maschile nei confronti delle donne. In rapporto a questa finalità si condivide che il sistema delle pene andrebbe superato nelle sue logiche non conformi ai principi costituzionali, e ciò sotto un profilo sistemico e complessivo, anche alla luce dell’esperienza delle donne stesse che, dopo aver denunciato e ottenuto una condanna non possono permettersi la leggerezza del disinteresse, a causa di un diritto delle relazioni familiari tutt’altro che mite. E tuttavia ciò non può significare per l’ordinamento rinunciare a tutelare da violazioni di diritti e libertà fondamentali, ma vanno ridisegnate le forme della reazione dell’ordinamento nel rispetto dei principi costituzionali.
Non corrisponde, inoltre, a un dato di realtà correlare i reati specifici e le misure di protezione introdotti dalle riforme in materia all’incremento della popolazione detenuta, tantomeno è corretto affermare che le misure normative volte a prevenire la violenza nei confronti delle donne si inserisca nella cornice del populismo penale. Sul piano della realtà sociale che si vuole descrivere è bene ricordare che la pena non interessa alle donne che denunciano il proprio partner o ex partner, poiché la motivazione che muove all’accesso alla giustizia è la paura concreta per la propria integrità psicofisica; dunque, primario obiettivo è la prevenzione primaria ossia la protezione da ulteriori forme di violenza che si può concretamente perseguire con divieti disposti dall’autorità giudiziaria. A ciò deve aggiungersi però il superamento di una lettura individualista della violenza maschile nei confronti delle donne e la promozione di sicurezza intesa come risultato della condivisione e della co-gestione dello spazio pubblico nel quale il benessere individuale è tassello del più generale benessere collettivo. Ciò significherebbe rifiutare l’accettabilità sociale delle logiche omertose che spesso, a livello comunitario, intrappolano le donne nelle relazioni violente: per le singole sembra non esserci via di uscita perché c’è un muro di silenzio che giustifica, normalizza e rafforza l’autore aggravandone il controllo e la forza coercitiva. V’è inoltre l’indifferenza e la de-responsabilizzazione collettiva per la sofferenza individuale, di cui ciascuno/ciascuna risponde per non aver fatto abbastanza per prevenire un danno, nella logica stereotipata della considerazione per cui “forse se l’è cercata”, con i suoi comportamenti, con le sue scelte, anche con la sua fragilità, di cui si è sempre un po' colpevoli.
Una volta frenata la condotta violenta, le donne chiedono di essere credute. Chiedono che la propria vita, schiacciata dalla sopraffazione, possa essere riscritta con parole di giustizia. Cercano risarcimento e riparazione, perché questa è la risposta che la cultura giuridica ha formulato ripudiando ogni forma di vendetta e mirando a ricostruire rapporti sociali prima segnati dalla violenza attraverso il riequilibrio e il riconoscimento del danno prodotto, salvo poi tutto ciò essere usato in sede giudiziaria come pretesto per screditare l’attendibilità delle donne che hanno osato chiedere un risarcimento del danno subito. Sul punto, è bene evidenziare che dalle prime attuali documentazioni dei percorsi di recupero dedicati agli autori del reato che ritroviamo nei fascicoli (in attesa di una effettiva implementazione dei percorsi di giustizia riparativa) emerge una generalizzata tendenza a giustificare i comportamenti addebitati al condannato alla luce delle condotte delle donne, facendo “rientrare dalla finestra” tutte quelle argomentazioni colpevolizzanti delle donne faticosamente espunte dal processo penale, interferendo così con l’accertamento dei fatti e delle responsabilità contenuto nelle sentenze di condanna, mai incoraggiando operativamente una dimensione di consapevolezza del disvalore delle condotte commesse, bensì alimentando, al contrario, mistificazioni delle stesse quali reazioni tutto sommato “comprensibili” alla delusione, al rifiuto, alla ribellione delle donne.
È infondato, inoltre, su un piano statistico sostenere che la legislazione penale intervenuta in materia di violenza maschile nei confronti delle donne sia causa in concreto di politiche carcerarie inflazionate: prima del 2001 si interveniva solo quando la condotta era ormai gravissima, quindi non solo prolungando l’esposizione al rischio di atti lesivi della vita, ma anche ricorrendo alla misura cautelare in carcere, cioè con la massima privazione della libertà personale possibile durante il procedimento penale prima dell’accertamento della responsabilità penale.
Solo con la legge n. 154 del 2001 e poi con il decreto-legge n. 11 del 23 febbraio 2009, convertito con modificazioni dalla legge n. 38 del 23 aprile 2009, che ha introdotto il reato di atti persecutori, sono state disciplinate misure che — dopo l’abbandono della custodia cautelare in carcere prevista ex lege per la violenza sessuale, dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale — hanno risposto in modo più articolato e coerente alle esigenze di prevenzione primaria.
Tali misure si collocano nell’ambito di una gradualità effettiva del sistema, da presidiare anche in sede di discussione del nuovo disegno di legge che propone automatismi nella fase cautelare, in quanto ispirata al principio del minimo sacrificio della libertà personale e al principio di adeguatezza, secondo cui la misura deve essere proporzionata alla natura e all’intensità delle esigenze cautelari da soddisfare, in conformità agli articoli 13, primo e secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione.
Secondo le statistiche del Ministero della Giustizia, al 31 luglio 2024, su una popolazione carceraria totale di 61.133 detenuti, 15.285 (circa il 25%) erano in custodia cautelare, dato che indica una diminuzione complessiva della percentuale di detenuti in custodia cautelare sul totale della popolazione carceraria, che nel 2010 era il 42% della popolazione detenuta. I dati non ci dicono quanti di questi detenuti lo siano per reati che rilevano in tema di violenza nei confronti delle donne; tuttavia, si consideri che la custodia cautelare in carcere generalmente è risposta, prevista dal codice di procedura penale, alle violazioni delle restrizioni imposte con l’applicazione della misura cautelare specifica del divieto di avvicinamento (art. 282-ter c.p.p.), misura che ha percentuali di applicazione che oscillano da 9,2% fino al 14,9%, mentre l’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis c.p.p.) rappresenta la quota minore delle misure cautelari (tra il 3,3% e il 5,6% in generale), in calo netto nelle percentuali negli anni recenti (anche sotto l’1% in alcuni casi)[10]. Si consideri che questi dati non sono disaggregati dunque potrebbero riguardare anche situazioni di violenza domestica, per esempio, dei figli contro i genitori.
In generale, rileva evidenziare che si registra una diminuzione significativa del numero assoluto di misure cautelari emesse nel quadriennio 2020–2023 rispetto al biennio precedente e, in generale, secondo i dati statistici disponibili al 31 dicembre 2024, la popolazione detenuta in Italia è costituita da persone perseguite per reati che non riguardano né la sfera familiare né quella interpersonale. I detenuti al 31 dicembre 2024 erano ristretti prevalentemente per reati contro il patrimonio come furti, rapine, truffe (35.287 persone). Seguono i reati in materia di stupefacenti (21.131 detenuti), che da anni costituiscono un asse portante del sistema penale e penitenziario italiano. A questi si aggiungono 9.303 persone detenute per associazione di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.), 9.242 per violazioni alla legge sulle armi, 2.716 per reati contro l’ordine pubblico, 11.214 per reati contro la pubblica amministrazione[11]. Questi dati confermano che l’universo penitenziario italiano continua a essere strutturato attorno a reati economici, di criminalità organizzata o di sicurezza pubblica.
Nel 2022 risultano rilevate sul territorio italiano 10.146 notizie di reato a carico di uomini per delitti di atti persecutori, maltrattamenti contro familiari o conviventi, percosse, violenze sessuali, omicidi consumati, diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, costrizione o induzione al matrimonio[12].
Rileva, infine, evidenziare che la maggior parte delle pene di reclusione applicate in caso di condanna per i reati prevalentemente contestati nei casi di violenza maschile nei confronti delle donne sono sotto i due anni, sono sospese, solo a volte condizionate al risarcimento del danno e, fino ai quattro anni beneficiano dell’esecuzione mediante pene alternative (ad eccezione dei reati ostativi, tra cui la violenza sessuale o la violenza assistita di cui all’art. 572 co. 2 c.p.).
Se ne ricava, pertanto, un quadro nel quale la violenza maschile nei confronti delle donne costituisce in realtà una parte minoritaria delle condotte effettivamente punite con il ricorso alla carcerazione.
7. L’assenza di uno statuto coerente dei diritti e poteri della persona offesa dal reato e la vittimizzazione secondaria
Vengo all’ultimo tema toccato dal dibattito in corso, ossia il presunto protagonismo della vittima di reato, denunciato come segno di un arretramento culturale perché restaurerebbe una struttura dei rapporti sociali fondata sul modello della vendetta insieme al correlato paradigma vittimario di analisi dei conflitti sociali.
Il disegno di legge proposto contiene dei meri correttivi, pur fondamentali, a lacune informative del sistema processuale che ancora, dopo i numerosi interventi legislativi, non ha saputo costruire uno statuto sistematico e coerente di diritti, facoltà e poteri per la persona offesa dal reato che rischia di rimanere all’oscuro delle scelte processuali dell’indagato/imputato, anche quando le stesse scelte possano avere un impatto sulla propria incolumità personale.
In questo contesto, il ruolo della difesa tecnica è quello di garantire che il processo penale non si faccia strumento di un nuovo silenziamento istituzionale delle donne, ma sia, al contrario, luogo di riconoscimento della loro parola. Un ruolo che va esercitato non in modo assolutistico o dogmatico, ma nella relazione, nell’ascolto delle scelte soggettive, anche quando consistono nel desistere, nell’arretrare, nel rinunciare. Perché non di rado quelle scelte sono frutto di una sopraffazione ancora in atto, o segnano invece un oltrepassamento, una nuova direzione, una libertà.
Neppure questa scelta è neutra quando a compierla sono le donne. Se una persona offesa da un reato di truffa (art. 640 c.p.) decide di rimettere la querela nei confronti dell’imputato, nessuno si azzarda a generalizzare, sostenendo che “tutte le vittime di truffa mentono”. Al contrario, quando una donna sceglie di non proseguire l’azione penale per violenza subita, sa che quella decisione —mai leggera come non lo è la denuncia querela — avrà un impatto che travalica la sua vicenda personale: alimenterà, suo malgrado, quel senso comune diffuso secondo cui le donne denunciano “strumentalmente”, per vendetta, interesse o calcolo. Una rappresentazione tossica e persistente, che finisce per ricadere su tutte secondo una generalizzazione che non si rileva per altre fattispecie incriminatrici.
L’altra questione sollevata è quella della prevalenza di un paradigma vittimario nella costruzione pubblica dei problemi sociali: un approccio che innegabilmente oggi tende a patologizzare questioni strutturali, a ridurre i conflitti politici ad antagonismi puntuali, privandoli di spessore trasformativo. Su questo, ritengo sia fondamentale chiarire che non è certo addebitabile alle mobilitazioni per politiche sistemiche di prevenzione della violenza maschile nei confronti delle donne l’incapacità politica attuale generalizzata di assumersi la responsabilità collettiva dei conflitti sociali, della loro analisi e della loro trasformazione, anzi, nella mobilitazione politica femminista sulla violenza di genere v’è ancora traccia di una politica delle relazioni e della complessità che altrove è difficile scorgere.
È giunto però il momento di un riconoscimento pubblico alle donne che si ribellano alla violenza della piena dignità di soggetto politico del nostro tempo accantonando l’immagine di simulacro senza voce della miseria femminile che temiamo ricada su di noi ogni qualvolta non mettiamo distanza tra noi e “queste” donne viste solo come oggetto della violenza prima e dell’intervento pubblico poi.
A fronte di violazioni gravi di diritti e libertà fondamentali, quale risposta l’ordinamento dovrebbe predisporre? Tra le righe di tanti commenti critici io leggo chiaramente che quanto le donne denunciano non è riconosciuto, davvero, in termini di compressione di beni giuridici ritenuti da tutelare: in fondo, rimane forte il preconcetto che si tratti “di questioni di famiglia”, di “liti”, di “panni sporchi da lavare in casa”.
Accanto alle fattispecie incriminatrici, sarebbe importante riflettere inoltre anche sui meccanismi normativi e pratici in grado di monitorare e sanzionare l’inadempimento delle autorità pubbliche di fronte alle richieste di protezione in caso di violazione dell’obbligo di dovuta diligenza, comportamenti discriminatori, dilatori, di sottovalutazione o che scoraggino l’accesso alla giustizia da parte della persona offesa. Norme di questo tipo, che spostano il fuoco dell’attenzione sulle responsabilità istituzionali, possono rappresentare un ulteriore importante strumento per promuovere un cambiamento culturale profondo. Un cambiamento che chiami le autorità giudiziarie a riconoscere, non solo nei singoli casi concreti, ma anche nell’operato delle autorità coinvolte le connessioni tra la violenza perpetrata nella dimensione privata e quella tollerata o prodotta in ambito pubblico, interrogandosi sulle strategie per spezzare questa continuità e superare le cattive prassi che ostacolano la protezione effettiva e producono vittimizzazione secondaria.
Quest’ultimo fenomeno tanto è stato documentato, anche in sede istituzionale dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e ogni forma di violenza nei confronti delle donne[13], in particolare in relazione alle cattive prassi delle forze dell’ordine e alla vittimizzazione secondaria nel processo, ma un ulteriore approfondimento meriterebbe anche il ruolo dell’avvocatura, oggi scagliata compatta contro l’ipotesi di un reato autonomo di femminicidio intesa quale tradimento di una prospettiva liberale e garantista del diritto penale, ma che nelle aule giudiziarie perpetua una strategia difensiva basata sul discredito, sulla colpevolizzazione della vittima, sulla mistificazione e sottovalutazione della offensività delle condotte oggetto di accertamento, allorché una difesa tecnica consapevole che riconosce le dimensioni della questione sociale della violenza maschile potrebbe essere di grande ausilio, soprattutto nella fase di attualità delle condotte aggressive: porre un freno ai propri assistiti, non avallarne le motivazioni e definire strategie difensive volte alla maturazione della consapevolezza delle lesività delle proprie condotte non significa non fare gli interessi del proprio assistito o non chiedere l’assoluzione laddove non ci sia la prova della responsabilità. Significa. al contrario, contribuire ai presupposti per un percorso autentico di riparazione e rieducazione.
8. Note conclusive
Non esistono soluzioni semplici a fenomeni strutturali come la violenza maschile contro le donne. Ma è certo che il diritto, anche quello penale, svolge un ruolo che non è mai neutro. E non lo è neppure l’inerzia legislativa o istituzionale così come non lo è un generalizzato rifiuto di definire una condotta offensiva di beni costituzionalmente protetti.
La discussione sull’introduzione di un reato autonomo di femminicidio, con tutte le sue ambiguità, è oggi uno spazio politico che, come a ogni proposta di legge che riguardi il tema, e che attraversano tutte le legislature, problematizza le pratiche politiche e l’esperienza delle donne, ma non può essere abbandonato né derubricato a “discorso populista punitivo”. È un terreno di conflitto simbolico e concreto, che impone di interrogarsi sul senso della giustizia e sul potere che la legge mantiene, a prescindere dal nostro rifiuto, di nominare, proteggere, riconoscere o escludere.
Sostenere la necessità di questa discussione non equivale a negare le contraddizioni del sistema penale né a smettere di lottare per un cambiamento sociale profondo, per la prevenzione, per l’autodeterminazione e la libertà delle donne. Significa, invece, riconoscere che anche il linguaggio della legge è luogo in cui si gioca la possibilità, per le donne, di essere credute, riconosciute e vedersi difeso il diritto a vivere libere dalla violenza. Rifiutarsi di nominare giuridicamente la violenza per ciò che è — esercizio del potere patriarcale, alimentato da odio sessista — significa mantenere agibile il terreno del diritto quale contesto per legittimarla dimenticando che il tentativo di problematizzarla anche in termini di fattispecie giuridiche ha consentito di sparigliare le carte sul tavolo delle relazioni sociali e della pratica processuale.
E perciò, infine, mi chiedo, dopo aver letto tanti articoli e analisi sul disegno di legge in questione: perché l’odio razziale può essere oggetto di accertamento giuridico, e quello sessista no?
Perché si invocano scioperi accademici per l’espressione “limitazione della libertà della donna” nel Codice penale, e non per la riscrittura autoritaria del diritto penale minorile, per l’abuso delle misure penali e amministrative contro dissenso, povertà e migrazioni, per l’assenza di identificativi per le forze dell’ordine, o per lo “scudo penale” loro promesso?
Prima ancora di discutere la perfezione tecnica della formulazione normativa, credo sia urgente interrogarsi su ciò che queste resistenze raccontano. Forse che l’odio per le donne, purtroppo, è più diffuso e socialmente legittimato di quanto siamo disposti/e ad ammettere.
[1] Marcela Lagarde, Los cautiverios de las mujeres. Madresposas, monjas, putas, presas y locas. Coordinación General de Estudios de Posgrado, UNAM. México, 1993; Id, “Género y feminismo. Desarrollo humano y democracia”, in Cuadernos Inacabados, No. 25, 1997; p. 244; Id., “Para mis socias de la vida. Claves feministas para el poderío y la autonomía de las mujeres, los liderazgos entrañables y las negociaciones en el amor”, in Cuadernos Inacabados, No. 48, p.489.
[2] https://www.differenzadonna.org/news/differenza-donna-lancia-il-suo-1-rapporto-nazionale-sulla-violenza-maschile-contro-le-donne/
[3] Cass. Pen., Sez. Un., 27 giugno 2019 (dep. 19 novembre 2019), n. 46994.
[4] Così Zanghì, La protezione dei diritti dell’uomo, Giappichelli, Torino, 2013, p.3.
[5] G. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale I. Delitti contro la persona, CEDAM, 2008, p. 95 ss.
F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale. I delitti contro la persona, Milano, Giuffrè, 2006, p. 43 ss.
[6] R. Bartoli, M. Pelissero, S. Seminara, Diritto penale. Parte speciale, Torino, Giappichelli, 2024, cap. I, §3 (edizione online, Biblioteca Giappichelli).
[7] Così G. Smaus, Io sono io, Castelvecchi, 2024, p. 95.
[8] Corte EDU, Quarta Sezione, sentenza 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia, ricorso n. 6884/11.
[9] Da ultimo Corte EDU, Quarta Sezione, sentenza 13 febbraio 2025, P.P. c. Italia. ricorso n. 64066/19.
[10] Relazione al Parlamento 2024 ai sensi della legge 16 aprile 2015, n. 47
[11] https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?contentId=SST459008# https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?facetNode_1=1_5_2&facetNode_2=3_1_6&contentId=SST613925&previsiousPage=mg_1_14
[12] https://www.istat.it/statistiche-per-temi/focus/violenza-sulle-donne/il-percorso-giudiziario/denunce-forze-di-polizia/
[13] https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/372013.pdf
Immagine: Henri de Toulouse-Lautrec, Ritratto di Suzanne Valadon, olio su tela, 1885, Museo Nacional de Bellas Artes, Buenos Aires.