Le comunicazioni conservate sulle chat sono da considerare corrispondenza. Problematiche attuali e prospettive de iure condendo.
Sommario: 1. La sentenza n.170/2023 della Corte costituzionale 2. Il mutamento della giurisprudenza penale: da documento a corrispondenza - 3. La tutela dell’art. 15 Cost. e l’inosservanza delle regole processuali - 4. Problematiche attuali e prospettive de iure condendo.
1. La sentenza n.170/2023 della Corte costituzionale
Come è noto a tutti, le comunicazioni tra le persone non si svolgono quasi più tramite la corrispondenza tradizionale, ossia con la lettera in busta chiusa ed inviata a mezzo posta, ma avvengono tramite telefono oppure, sempre più di frequente, attraverso dispositivi elettronici e informatici, come e-mail, messaggi SMS, o con applicativo WhatsApp e simili. Tali comunicazioni, una volta ricevute dal destinatario, rimangono conservate nella memoria dello strumento elettronico, sia esso un computer, uno smartphone o un tablet. Sono dati ormai statici, ovvero cd. “freddi” secondo il linguaggio informatico, perché il flusso della comunicazione elettronica è già avvenuto; per tale ragione la giurisprudenza della Corte di Cassazione, in misura pressoché unanime, aveva sempre escluso che in ordine a tali comunicazioni potesse trovare applicazione la disciplina sulle intercettazioni, facendo, invece, richiamo alle norme sui documenti (art. 234 cod. proc. pen.) oppure quella sui documenti informatici (art. 234-bis cod. proc. pen.).
La svolta interpretativa, certamente, è stata data soprattutto dalla sentenza n.170 del 22 giugno 2023 della Corte costituzionale (cosiddetta sentenza Renzi, perché aveva ad oggetto l’acquisizione di plurime comunicazioni, con messaggi elettronici, del Senatore Matteo Renzi disposte dalla Procura di Firenze senza la previa autorizzazione da parte del Senato), che ha affermato una serie di principi, tra cui, per quanto qui di interesse, quello relativo alla definizione di corrispondenza, rilevante ai fini della tutela dell’art. 15 della Costituzione. Sul sito della Corte cost., si trovano pubblicate le seguenti massime:
“Il discrimen tra le intercettazioni di comunicazioni o conversazioni e i sequestri di corrispondenza non è dato principalmente dalla forma della comunicazione, giacché le intercettazioni possono avere ad oggetto anche flussi di comunicazioni non orali (informatiche o telematiche). Affinché si abbia intercettazione debbono invece ricorrere due condizioni: la prima, di ordine temporale, è che la comunicazione deve essere in corso nel momento della sua captazione da parte dell’extraneus, e va dunque colta nel suo momento “dinamico”, con conseguente estraneità al concetto dell’acquisizione del supporto fisico che reca memoria di una comunicazione già avvenuta (dunque, nel suo momento “statico”); la seconda condizione attiene alle modalità di esecuzione: l’apprensione del messaggio comunicativo da parte del terzo deve avvenire in modo occulto, ossia all’insaputa dei soggetti tra i quali la comunicazione intercorre.
Il concetto di «corrispondenza» è ampiamente comprensivo, atto ad abbracciare ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza; in linea generale, pertanto, lo scambio di messaggi elettronici – e-mail, SMS, WhatsApp e simili – rappresenta, di per sé, una forma di corrispondenza agli effetti degli artt. 15 e 68, terzo comma, Cost.
La tutela accordata dall’art. 15 Cost. – anche ove si guardi alla prerogativa parlamentare prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost. – prescinde dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato ai fini della trasmissione del pensiero, aprendo così il testo costituzionale alla possibile emersione di nuovi mezzi e forme della comunicazione riservata. La garanzia si estende, quindi, ad ogni strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi, compresi quelli elettronici e informatici, ignoti al momento del varo della Carta costituzionale. Posta elettronica e messaggi inviati tramite l’applicazione WhatsApp (appartenente ai sistemi di c.d. messaggistica istantanea) rientrano, dunque, a pieno titolo nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost., apparendo del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi. La riservatezza della comunicazione, che nella tradizionale corrispondenza epistolare è garantita dall’inserimento del plico cartaceo o del biglietto in una busta chiusa, è qui assicurata dal fatto che la posta elettronica viene inviata a una specifica casella di posta, accessibile solo al destinatario tramite procedure che prevedono l’utilizzo di codici personali; mentre il messaggio WhatsApp, spedito tramite tecniche che assicurano la riservatezza, è accessibile solo al soggetto che abbia la disponibilità del dispositivo elettronico di destinazione, normalmente protetto anch’esso da codici di accesso o altri meccanismi di identificazione. (Precedenti: S. 2/2023 - mass. 45265; S. 20/2017 - mass. 39645; S. 81/1993 - mass. 19295; S. 1030/1988).
La garanzia apprestata dall’art. 15 Cost. si estende anche ai dati esteriori delle comunicazioni (quelli, cioè, che consentono di accertare il fatto storico che una comunicazione vi è stata e di identificarne autore, tempo e luogo), come ad esempio i tabulati telefonici, contenenti l’elenco delle chiamate in partenza o in arrivo da una determinata utenza e che possono aprire squarci di conoscenza sui rapporti di un parlamentare, specialmente istituzionali. La stretta attinenza della libertà e della segretezza della comunicazione al nucleo essenziale dei valori della personalità – attinenza che induce a qualificare il corrispondente diritto come parte necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana – comporta infatti un particolare vincolo interpretativo, diretto a conferire a quella libertà, per quanto possibile, un significato espansivo. (Precedenti: S. 38/2019 - mass. 42192; S. 188/2010 - mass. 34690; S. 372/2006 - mass. 30769; S. 281/1998 - mass. 24085; S. 81/1993 - mass. 19295; S. 366/1991 - mass. 17448). (Nel caso di specie, è dichiarato che non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze acquisire agli atti del procedimento penale iscritto al n. 3745/2019 R.G.N.R., sulla base di decreti di perquisizione e sequestro emessi il 20 novembre 2019, corrispondenza riguardante il sen. Matteo Renzi, costituita da messaggi di testo scambiati tramite l’applicazione WhatsApp tra il sen. Renzi e V. U. M. nei giorni 3 e 4 giugno 2018, e tra il sen. Renzi e M. C. nel periodo 12 agosto 2018-15 ottobre 2019, nonché da posta elettronica intercorsa fra quest’ultimo e il senatore Renzi, nel numero di quattro missive, tra il 1° e il 10 agosto 2018; ed è annullato, per l’effetto, il sequestro dei messaggi di testo scambiati tra il sen. Matteo Renzi e V. U. M. nei giorni 3 e 4 giugno 2018, per i quali, a differenza di altri, non è nel frattempo intervenuto provvedimento di annullamento della Cassazione. Degradare la comunicazione a mero documento quando non più in itinere, è soluzione che, se confina in ambiti angusti la tutela costituzionale prefigurata dall’art. 15 Cost. nei casi, sempre più ridotti, di corrispondenza cartacea, finisce addirittura per azzerarla, di fatto, rispetto alle comunicazioni operate tramite posta elettronica e altri servizi di messaggistica istantanea, in cui all’invio segue immediatamente – o, comunque sia, senza uno iato temporale apprezzabile – la ricezione. Una simile conclusione si impone a maggior ragione allorché non si tratti solo di stabilire cosa sia corrispondenza per la generalità dei consociati, ma di delimitare specificamente l’area della corrispondenza di e con un parlamentare, per il cui sequestro l’art. 68, terzo comma, Cost. richiede l’autorizzazione della Camera di appartenenza. Limitare la citata prerogativa alle sole comunicazioni in corso di svolgimento e non già concluse significherebbe darne una interpretazione così restrittiva da vanificarne la portata: condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione del mandato parlamentare possono bene derivare, infatti, anche dalla presa di conoscenza dei contenuti di messaggi già pervenuti al destinatario. Se, dunque, l’acquisizione dei dati esteriori di comunicazioni già avvenute, quali quelli memorizzati in un tabulato, gode delle tutele accordate dagli artt. 15 e 68, terzo comma, Cost., è impensabile che non ne fruisca, invece, il sequestro di messaggi elettronici, anche se già recapitati al destinatario: operazione che consente di venire a conoscenza non soltanto dei dati identificativi estrinseci delle comunicazioni, ma anche del loro contenuto, e dunque di attitudine intrusiva tendenzialmente maggiore). (Precedenti: S. 157/2023 - mass. 45658; S. 38/2019 - mass. 42192; S. 113/2010 - mass. 34488; S. 390/2007 - mass. 31839)”[1].
Alla decisione appena analizzata, è seguita dopo poco altra pronuncia, la sentenza n. 227 del 2023, in cui la Consulta ha risolto un altro conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Senato della Repubblica, dichiarando che non spettava all’autorità giudiziaria procedente disporre, effettuare e utilizzare le intercettazioni che avevano coinvolto un senatore della Repubblica, nel periodo in cui questi ricopriva l’incarico, e acquisire, quali elementi di prova documentale, i messaggi WhatsApp scambiati tra il predetto e un terzo imputato, prelevati tramite copia forense dei dati contenuti nello smartphone in uso a quest’ultimo nell’ambito di un procedimento penale, pena la violazione degli artt. 4 e 6, legge n. 140 del 2003.
2. Il mutamento della giurisprudenza penale: da documento a corrispondenza
A distanza di meno di un anno sono, poi, intervenute le due sentenze “gemelle” delle Sezioni Unite, n.23755 (Gjuzi Ermal - Rv.286573) e n.23756 (Giorgi - Rv.286589) del 29 febbraio 2024, dep. 14/06/2024[2], in tema di acquisizione tramite Ordine europeo di indagine (da cui l’acronimo O.E.I) di comunicazioni svolte su piattaforma criptata e su cd. criptofonini che l’autorità giudiziaria francese aveva già captato e decriptato. Le due decisioni del massimo consesso hanno affermato in motivazione, con espresso richiamo della giurisprudenza costituzionale, che “…quando la prova documentale ha ad oggetto comunicazioni scambiate in modo riservato tra un numero determinato di persone, indipendentemente dal mezzo tecnico impiegato a tal fine, occorre assicurare la tutela prevista dall’art. 15 Cost. in materia di «corrispondenza». Come infatti precisato dalla giurisprudenza costituzionale, «quello di “corrispondenza” è concetto ampiamente comprensivo, atto ad abbracciare ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza», il quale «prescinde dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato», e si estende, perciò, anche alla posta elettronica ed ai messaggi inviati tramite l’applicativo WhatsApp, o s.m.s. o sistemi simili, «del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi» perché accessibili solo mediante l’uso di codici di accesso o altri meccanismi di identificazione (così Corte cost., sent. n. 170 del 2023; nello stesso senso, Corte cost., sent. n. 227 del 2023 e Corte cost., sent. n. 2 del 2023). Di conseguenza, indipendentemente dalla modalità utilizzata, trova applicazione «la tutela accordata dall’art. 15 Cost. – che assicura a tutti i consociati la libertà e la segretezza «della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione», consentendone la limitazione «soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge – […]» (cfr., ancora, testualmente, Corte cost., sent. n. 170 del 2023). La tutela prevista dall’art. 15 Cost., tuttavia, non richiede, per la limitazione della libertà e della segretezza della corrispondenza, e, quindi, per l’acquisizione di essa ad un procedimento penale, la necessità di un provvedimento del giudice. Invero, l’art. 15 Cost. impiega il sintagma «autorità giudiziaria», il quale indica una categoria nella quale sono inclusi sia il giudice, sia il pubblico ministero (per l’inclusione del pubblico ministero nella nozione di “autorità giudiziaria” anche nel diritto euro-unitario, cfr., proprio con riferimento alla Direttiva 2014/41/UE, Corte giustizia, 08/12/2020, Staatsanwaltschaft Wien, C-584/19). E questa conclusione trova conferma nella disciplina del codice di rito. L’art. 254 cod. proc. pen. prevede che il sequestro di corrispondenza è disposto della «autorità giudiziaria», senza fare alcun riferimento alla necessità dell’intervento del giudice, invece espressamente richiesto, ad esempio, in relazione al sequestro da eseguire negli uffici dei difensori (art. 103 cod. proc. pen.). A sua volta, l’art. 353 cod. proc. pen. statuisce, in modo testuale, che l’acquisizione di plichi chiusi e di corrispondenza, anche in forma elettronica o inoltrata per via telematica, è autorizzata, nel corso delle indagini, dal «pubblico ministero», il quale è titolare del potere di disporne il sequestro”. Le Sezioni Unite, perciò, hanno fatto propria la definizione di corrispondenza che la Corte costituzionale ha dato delle comunicazioni già avvenute con posta elettronica, oppure con i messaggi inviati tramite l’applicativo WhatsApp, o s.m.s. o sistemi simili, e conservati nella memoria dei dispositivi mobili. Si tratta, quindi, di ius receptum, malgrado in giurisprudenza permane qualche voce dissenziente[3].
Nelle motivazioni vi è stato poi il richiamo alla disciplina specifica del sequestro di corrispondenza ex art. 254 cod. proc. pen.; in particolare, la norma prevede, al comma 2, che: “Quando al sequestro procede un ufficiale di polizia giudiziaria, questi deve consegnare all'autorità giudiziaria gli oggetti di corrispondenza sequestrati, senza aprirli o alterarli e senza prenderne altrimenti conoscenza del loro contenuto”. Norma chiara se riferita alla corrispondenza per così dire tradizionale, ossia quella cartacea, a mezzo una busta chiusa inviata tramite il servizio postale. La probabile ratio della previsione normativa va ravvisata nell’esigenza che il contenuto della corrispondenza non debba essere conosciuto da soggetti diversi dall’autorità giudiziaria prima che il destinatario abbia ricevuto il plico con la corrispondenza poi sequestrata. Le Sezioni Unite, pertanto, hanno affermato che le chat costituiscono non mera documentazione acquisibile ex articolo 234 cod. proc. pen., ma “corrispondenza informatica” che quindi deve essere acquisita attraverso un provvedimento di sequestro ai sensi dell'articolo 254 cod. proc. pen., così disattendo la granitica giurisprudenza di legittimità che fino a quel momento aveva, invece, sostenuto trattarsi di mero documento acquisibile ex art. 234 ovvero ex art. 234-bis cod. proc. pen., ove qualificato come documento informatico[4]. Si può osservare che, a legislazione vigente, in entrambi i casi, sia che la messaggistica di una chat venga considerata mero documento (oppure documento informatico) sia che, invece, sia definita corrispondenza, il sequestro probatorio dei messaggi contenuti nell’archivio di un device può essere disposto direttamente dal pubblico ministero, senza alcuna previa autorizzazione del giudice. Del resto, l’art. 15 Cost., che prevede, a tutela della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, la doppia riserva di giurisdizione e di legge[5], fa riferimento all’endiadi autorità giudiziaria, che comprende, come è noto, anche il pubblico ministero, il quale gode nel nostro ordinamento delle stesse guarentigie di indipendenza ed autonomia del giudice. Tale assunto, però, non può celare le profonde differenze di disciplina processuale che conseguono all’affermazione di una definizione anziché dell’altra, sia dal punto di vista teorico sia per quanto riguarda aspetti per così dire pratici.
3. La tutela dell’art. 15 Cost. e l’inosservanza delle regole processuali
Partendo da un profilo teorico si ritiene che considerare come corrispondenza lo scambio di comunicazioni avvenuto con la posta elettronica, oppure con i messaggi inviati tramite l’applicativo WhatsApp, o s.m.s., involga la tutela di un diritto, quello della riservatezza delle comunicazioni, a copertura costituzionale ai sensi dell’art. 15 Cost. La violazione delle norme processuali sull’acquisizione della corrispondenza porta all’inutilizzabilità cosiddetta patologica di quanto sequestrato dal P.M., come di recente sostenuto dalla Suprema Corte (Sez. 6, n.31180 del 21/05/2024, Donnarumma, Rv.286773-01), che in motivazione ha affermato sul punto che “ Si è da tempo affermato che rientrano nella categoria delle prove sanzionate dall'inutilizzabilità, non solo le prove oggettivamente vietate, ma anche quelle formate o acquisite in violazione dei diritti soggettivi tutelati dalla legge e, a maggior ragione, come in precedenza detto, quelle acquisite in violazione dei diritti tutelati in modo specifico dalla Costituzione. La Corte costituzionale con la sentenza numero 34 del 1973 ha ravvisato l'esistenza di divieti probatori ricavabili in modo diretto dal dettato costituzionale, enunciando il principio per cui attività compiute in dispregio dei diritti fondamentali del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione e fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito. Il suddetto principio - come già detto - ha consentito l'elaborazione della categoria delle prove cosiddette incostituzionali, cioè di prove ottenute attraverso modalità, metodi e comportamenti realizzati in violazione dei fondamentali diritti del cittadino garantiti dalla Costituzione, da considerarsi perciò inutilizzabili nel processo”[6]. In precedenza, mutatis mutandis, la Suprema Corte ha sostenuto, sempre in tema di prove assunte in violazioni di precetti costituzionali, che “ In tema di acquisizione di dati contenuti in tabulati telefonici, non sono utilizzabili nel giudizio abbreviato i dati di geolocalizzazione relativi a utenze telefoniche o telematiche, contenuti nei tabulati acquisiti dalla polizia giudiziaria in assenza del decreto di autorizzazione dell'Autorità giudiziaria, in violazione dell'art. 132, comma 3, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in quanto prove lesive del diritto alla segretezza delle comunicazioni costituzionalmente tutelato e, pertanto, affette da inutilizzabilità patologica, non sanata dalla richiesta di definizione del giudizio con le forme del rito alternativo” (così Sez.6, n.15836 del 11/01/2023, Berera, Rv.284590-01)[7]. Tale ultima decisione, si segnala anche perché ha escluso in maniera netta che possa argomentarsi in senso contrario, facendo leva, ad esempio, sulla disciplina della cosiddetta prova innominata di cui all'articolo 189 cod. proc. pen; tale norma consente certamente l'ingresso processuale della prova atipica, ma solo qualora essa presenti cumulativamente due caratteristiche: la prima, positiva, si sostanzia nella sua idoneità all'accertamento del thema probandum; la seconda, di segno negativo, consiste nel limite per il quale essa non possa presentarsi come lesiva della libertà morale della persona. Essa, però, ricorda la Corte contempla solo le prove atipiche che non rechino vulnus alle esigenze costituzionalmente tutelate e, dunque, non richiedono una disciplina legislativa espressa, come deve, invece, sussistere in tutti i casi in cui sono in gioco i diritti tutelati dalla previsione dell'articolo 15 Cost. In altri termini, l’inosservanza delle norme codicistiche conduce all’inutilizzabilità patologica della prova raccolta in tal modo, né può utilizzarsi in tale ambito lo strumento della prova atipica per il limite intrinseco del citato art. 189.
4. Problematiche attuali e prospettive de iure condendo
Orbene, se il quadro teorico derivante dall’affermazione che le comunicazioni avvenute su chat sono corrispondenza appare più che sufficientemente delineato, molto meno chiare sono implicazioni dal punto di vista per così dire pratico. Come già evidenziato, il richiamo alla disciplina di cui all’art. 254 cod. proc. pen. (rubricato “Sequestro di corrispondenza”), comporta che la polizia giudiziaria non possa prendere conoscenza del contenuto della corrispondenza presente nel dispositivo sequestrato. Tale limite, facilmente osservabile per la corrispondenza cartacea, risulta di difficile ottemperanza in caso di comunicazioni digitali/informatiche. All’interno di un computer o di un telefono cellulare si trova, di regola, tutta “la vita” di una persona, come sinteticamente è stato affermato in termini giornalistici: messaggi, fotografie, registrazioni vocali, appunti ecc.ecc., che possono risalire fino ad alcuni anni addietro rispetto al momento del sequestro a seconda della memoria del dispositivo. Va sottolineato, peraltro, che è ormai consolidata la giurisprudenza di legittimità, a partire dalla decisione Sez. 6, n.6623 del 9/12/2020, (dep.19/02/2021), Pessotto, Rv. 280838-01, che ha enunciato il seguente principio: “È illegittimo per violazione del principio di proporzionalità ed adeguatezza il sequestro a fini probatori di un dispositivo elettronico che conduca, in difetto di specifiche ragioni, alla indiscriminata apprensione di una massa di dati informatici, senza alcuna previa selezione di essi e comunque senza l'indicazione degli eventuali criteri di selezione (Fattispecie relativa a sequestro di un telefono cellulare e di un tablet)”[8]. Ne consegue, perciò, che quando viene sequestrato, ad esempio, uno smartphone, gli inquirenti devono selezionare le comunicazioni archiviate che sono pertinenti al reato per cui si procede, fatto salvo, ovviamente, il caso, in cui lo stesso smartphone è corpo di reato (ad esempio nei casi di diffusione o detenzione di materiale pedopornografico di cui agli artt. 600-ter e 600-quater cod. pen.). Come può, in concreto, svolgersi tale ricerca e selezione se la polizia giudiziaria non può prendere conoscenza del contenuto della corrispondenza presente sul device, in forza del limite indicato dall’art. 254, comma 2, cod. proc. pen.? La questione è stato oggetto di una recente sentenza della Suprema Corte (Sez. 2, n.25549 del 15/05/2024, Tundo, Rv.286467-01), che ha affermato in massima il seguente principio: “In tema di mezzi di prova, i messaggi di posta elettronica, i messaggi "whatsapp" e gli sms custoditi nella memoria di un dispositivo elettronico conservano natura giuridica di corrispondenza anche dopo la ricezione da parte del destinatario, sicché la loro acquisizione deve avvenire secondo le forme previste dall'art. 254 cod. proc. pen. per il sequestro della corrispondenza, salvo che, per il decorso del tempo o altra causa, essi non perdano ogni carattere di attualità, in rapporto all'interesse alla riservatezza, trasformandosi in un mero documento "storico". (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che non si fosse determinata alcuna violazione del disposto dell'art. 254 cod. proc. pen. sul rilievo che la polizia giudiziaria si era limitata a sequestrare il telefono cellullare, mentre l'accesso al contenuto della corrispondenza era avvenuto successivamente ad opera del pubblico ministero con il proprio consulente)”. A sommesso avviso dello scrivente, la sentenza citata appare, dal punto di vista del rigore logico/giuridico della motivazione, ineccepibile nella decisione finale perché fa propria la ricostruzione sistematica compiuta dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n.170/2023, e coerentemente ha ritenuto applicabile al sequestro dello smartphone la disciplina dell’art. 254 cod. proc. pen., che, nel caso di specie, non era stata violata solo perché la polizia giudiziaria si era limitata al sequestro del cellulare senza accedere al suo contenuto e subito dopo lo aveva consegnato al P.M. procedente. Questi, successivamente, tramite un consulente tecnico sua longa manus, aveva ricercato i messaggi di interesse investigativo. Tuttavia, appare evidente che l’utilizzo di un consulente tecnico diverso dalla P.G., in termini generali, allunga i tempi dell’attività investigativa, nonché aumenta in maniera esorbitante i suoi costi. Del resto, come già evidenziato, l’art. 254 cod. proc. pen. è una norma “costruita” in relazione alla corrispondenza cartacea, che mal si adatta alle comunicazioni elettroniche e informatiche per le ragioni esposte. In molti uffici di Procura si è cercato di trovare alcune soluzioni pratiche, diverse dall’applicazione dell’art. 254 cod. proc. pen., che consentano di salvaguardare in maniera sostanziale da un lato la tutela della riservatezza dei dati, contenuti nei dispositivi elettronici, ulteriori rispetto a quelli pertinenti al reato per cui si procede e dall’altro la necessaria speditezza delle attività di indagine. Per ragioni di spazio editoriale non è possibile descriverle e commentarle, ma si tratta, come è facile intuire, di sforzi interpretativi di adattamento rispetto ad una evidente lacuna normativa che è emersa solo dopo la sentenza della Corte costituzionale.
Accanto all’attività interpretativa della magistratura italiana, vi è però la concreta possibilità di un intervento legislativo che, prendendo atto della giurisprudenza costituzionale, modifichi la disciplina del sequestro dei device. Il disegno di legge n.806 del 19/07/2023, approvato dal Senato e in attesa dell’approvazione della Camera, introdurrebbe, dopo l’art. 254-bis cod. proc. pen., l’art.254-ter (Sequestro di dispositivi e sistemi informatici, smartphone e memorie digitali), con significative novità, prima fra tutte la necessità di un preventivo controllo del giudice sulla richiesta di sequestro del pubblico ministero[9].
Infine, si dovrà valutare l’impatto sull’ordinamento interno della recentissima sentenza della Corte di Giustizia U.E., Grande Camera, del 4 ottobre 2024, C-548/21, che riguarda proprio i messaggi contenuti nel telefono cellulare, già ricevuti e letti dal destinatario, ritenuti anche dalla C.G.U.E. come dati personali e segreti, che possono essere acquisiti nell’ambito di specifici procedimenti penali, nel rispetto del principio di proporzionalità e, di regola, a seguito di un provvedimento di autorizzazione del giudice o di un’autorità amministrativa indipendente[10].
[1] La Consulta nella sentenza ha sottolineato che tale orientamento trova, peraltro, conforto nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo che non ha avuto esitazioni nel ricondurre nell'alveo della «corrispondenza» tutelata dall'art. 8 CEDU anche i messaggi informatico-telematici nella loro dimensione "statica", ossia già inviati e ricevuti dal destinatario (con riguardo alla posta elettronica, Corte EDU, sentenza Copland, paragrafo 44; con riguardo alla messaggistica istantanea, Corte EDU, sentenza Barbulescu, paragrafo 74; con riguardo a dati memorizzati in floppy disk, Corte EDU, sezione quinta, sentenza 22 maggio 2008, Iliya Stefanov contro Bulgaria, paragrafo 42). Indirizzo, questo, recentemente ribadito anche in relazione [...] al sequestro dei dati di uno smartphone, che comprendevano anche SMS e messaggi di posta elettronica (Corte EDU, sentenza Saber, paragrafo 48).
[2] Si veda per un primo commento su questa rivista, in data 20 giugno2024, G.Spangher, Criptofonini: le sentenze delle Sezioni Unite.
[3] Si veda al riguardo la recente sentenza Cass., Sez. 6, n.31180 del 21/05/2024, Donnarumma, in cui si legge che “non può condividersi l'osservazione del procuratore generale secondo il quale il principio affermato dalla Corte costituzionale non avrebbe portata generale ma si riferirebbe esclusivamente all'ambito applicativo delle guarentigie apprestate dall'articolo 68 Cost. in favore del parlamentare”.
[4] Si veda a titolo di esempio, tra le tante, Sez.6 n. 22417 del 16/03/2022, Sgromo, Rv.283319-01, che ha affermato in massima il seguente principio: “In tema di mezzi di prova, i messaggi "whatsapp" e gli sms conservati nella memoria di un telefono cellulare hanno natura di documenti ai sensi dell'art. 234 cod. proc. pen., sicché è legittima la loro acquisizione mediante mera riproduzione fotografica, non trovando applicazione né la disciplina delle intercettazioni, né quella relativa all'acquisizione di corrispondenza di cui all'art. 254 cod. proc. pen. (Fattispecie relativa a dati - allegati in copia cartacea o trasfusi nelle informative di polizia giudiziaria - acquisiti in separato procedimento, in cui la Corte ha precisato che non è indispensabile, ai fini della loro autonoma valutabilità, l'acquisizione della copia forense effettuata nel procedimento di provenienza, né dell'atto autorizzativo dell'eventuale perquisizione)”. In precedenza, si veda anche Sez.3, n.29426 del 16/04/2019, Moliterno, Rv.276358-01, secondo cui: “I messaggi di posta elettronica allocati nella memoria di un dispositivo dell'utente o nel server del gestore del servizio hanno natura di prova documentale sicché la loro acquisizione processuale non costituisce attività di intercettazione disciplinata dall'art. 266-bis cod. proc. pen. - atteso che quest'ultima esige la captazione di un flusso comunicativo in atto - ma presuppone l'adozione di un provvedimento di sequestro. (In motivazione, la Corte ha precisato che non è comunque applicabile la disciplina del sequestro di corrispondenza di cui all'art. 254 cod. proc. pen., la cui nozione implica un'attività di spedizione in corso o almeno avviata dal mittente mediante consegna a terzi per il recapito)”. In dottrina si vedano, tra i vari approfondimenti sul punto, le considerazioni di: W. Nocerino, L’acquisizione della messaggistica su sistemi criptati: intercettazioni o prova documentale? in Cass. pen., 2023, 9, 2786 ss., che, pur condividendo gli approcci della giurisprudenza maggioritaria quanto all’utilizzo dell’art. 234-bis cod. proc. pen., sollecita, però, il legislatore ad introdurre un nuovo mezzo di ricerca della prova che consenta, in maniera tipizzata e con le dovute garanzie, agli investigatori di accedere ed acquisire i cd. big data nei nuovi spazi virtuali, nonché P. Corvi, Le modalità di acquisizione dei dati informatici trasmessi mediante posta elettronica e applicativi di chatting: un rebus non ancora del tutto risolto, in Proc. pen. e giust., 2023, 1, 216 ss.
[5] Una parte della dottrina ritiene che la tutela della riservatezza delle comunicazioni necessiti di un controllo giurisdizionale in senso stretto, ossia da parte del giudice, in quanto il pubblico ministero non avrebbe nel processo la terzietà del giudice, essendo parte processuale, come ricavabile dall’art. 111, comma 2, Cost. In tal senso si veda F.R. Dinacci, I modi acquisitivi della messaggistica chat o e-mail: verso letture rispettose dei principi, in Arch. Pen. Web, 1, 2024.
[6] Sul concetto di prova incostituzionale si veda in dottrina G.M. Baccari – C. Conti, La corsa tecnologica tra Costituzione, codice di rito e norme sulla privacy: uno sguardo d'insieme, in Dir.Pen.Proc., 2021, n.6, pag. 711 ss., che affronta funditus il tema dell’inutilizzabilità della prova che va a ledere diritti fondamentali della Costituzione, tra cui rientrano quelli tutelati dall’art. 15 Cost.
[7] Edita su Cass. pen., 2023, n.7-8, p.2279 ss., con nota di C.Marinelli, Non sono utilizzabili neppure in sede di giudizio abbreviato i dati di geolocalizzazione relativi a cellulari, contenuti in tabulati telefonici, acquisiti dalla polizia giudiziaria in assenza del decreto di autorizzazione dell’autorità giudiziaria.
[8] Di recente Conf. Sez.6, n.17312 del 15/02/2024, Corsico, Rv. 286358-03, che evidenzia il contenuto che dovrebbe avere la motivazione del decreto di sequestro probatorio del pubblico ministero per osservare i criteri di proporzionalità della misura sia nella fase genetica sia in quella esecutiva.
[9] Per approfondimenti sul DdL n.806/2023 si veda C.Parodi, Signori, si cambia: la nuova disciplina sul sequestro di PC e device, in IUS del 13 marzo 2024.
[10] Per un primo commento si veda L. Filippi, La CGUE mette i paletti all’accesso ai dati del cellulare, in Il Quotidiano Giuridico, del 10 marzo 2024; C.Parodi, Accesso ai dati presenti sul cellulare: quando, come e perché, in Il diritto vivente, del 11 ottobre 2024; F.Agnino, Accesso ai dati del cellulare, da parte della polizia, in IUS del 15 ottobre 2024.
Immagine: Patrick Caulfield, La lettera, 1967, serigrafia, cm 48×76, Tate, Londra