Sommario: 1.Le linee guida della prossima “riforma Nordio” in tema di collegialità del giudice della cautela. 2. Le ragioni tecniche. 3. Le ragioni politiche. 4. Conclusioni.
1.Le linee guida della prossima “riforma Nordio” in tema di collegialità del giudice della cautela
In questi ultimi giorni si sono moltiplicati lanci di agenzia, interviste e dichiarazioni di parlamentari che annunciano una ormai imminente “riforma Nordio” del processo penale.
La notizia non sorprende gli operatori del diritto, ormai assuefatti alla ineluttabilità di un piccolo o grande tsunami delle norme del codice di procedura penale ad ogni cambio del titolare di via Arenula.
Può apparire singolare commentare una proposta di riforma che sulla carta ancora non esiste: tuttavia, dalle predette dichiarazioni di parlamentari e dello stesso Ministro è possibile farsi un’idea molto chiara delle linee programmatiche del futuro provvedimento, che sin da ora appare meritevole di qualche riflessione.
In questa sede si approfondirà in particolare la ventilata proposta di affidare ad un giudice collegiale l’emissione dei provvedimenti di misura cautelare personale.
In merito, una conferma ufficiale è giunta proprio pochi giorni fa: rispondendo a un’interrogazione parlamentare, il viceministro della Giustizia Paolo Sisto ha preannunciato “iniziative normative atte a garantire il principio di non colpevolezza di cui all’articolo 27 della Costituzione, rafforzando il controllo giurisdizionale in quei contesti” (Il Dubbio, 4 maggio 2023).
Il consigliere giuridico del Ministro, professor Bartolomeo Romano, ha specificato che il rafforzamento del controllo giurisdizionale sulle misure cautelari avverrà prevedendo che l’interrogatorio di garanzia preceda l’adozione della misura cautelare e che questa sia adottata non più dal GIP ma dal Tribunale per il Riesame (con spostamento della competenza a decidere delle impugnazioni da quest’ultimo alla Corte di Appello), in modo da consentire che la decisione sulla richiesta del Pubblico Ministero sia collegiale e non monocratica.
La modifica riprenderebbe dunque un’iniziativa legislativa avanzata nella scorsa legislatura dall’onorevole Costa; questo aggancio ad un disegno di legge esistente consente di argomentare su qualcosa di concreto, salve ovviamente le modifiche che dovessero intervenire nel corso dell’iter legislativo.
Lo stesso Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha parlato delle modifiche sulle norme in tema di misure cautelari in termini identici.
2. Le ragioni tecnico giuridiche dell’attribuzione al Tribunale in composizione collegiale: criticità
Le argomentazioni spese dai tecnici del diritto a sostegno dell’attribuzione della competenza a decidere sulle richieste di misure cautelari ad un organo collegiale poggiano su un unico assunto, riassumibile nei seguenti termini: la decisione presa da tre giudici è necessariamente più meditata di quella presa da uno solo; e maggiore meditazione vuol dire meno possibilità di errori. Trattandosi di decidere sulla libertà personale degli individui, l’attenzione ad evitare errori deve essere massima.
Può senza dubbio concordarsi con il terzo degli assunti ora esposti: nessuno può dubitare della assoluta necessità di evitare errori laddove è in gioco un diritto fondamentale come la libertà personale, perché il danno provocato anche da un solo giorno di custodia cautelare ingiustificata è gravissimo e potenzialmente irreparabile, da molteplici punti di vista.
Non è invece assiomatica come può sembrare l’equivalenza tra maggior numero di decidenti e migliore resa della decisione.
In merito, sembrano particolarmente calzanti le riflessioni espresse da Franco Cordero nella sua notissima “Guida alla procedura penale”, laddove a proposito dell’organo giudicante collegiale ha affermato che esso “stimola un metabolismo dialettico molto utile, quale antidoto agli errori, ma talvolta abbassa l’impegno intuitivo e raziocinante dei singoli componenti”, specificando altresì che “il rischio è più alto dove le premesse della decisione, emessa sulle carte, non emergano da avvenimenti vissuti nel dibattimento; al relatore compete una leadership talvolta acriticamente subita”.
Per altro verso, ammoniva ancora l’insigne giurista a proposito del giudice monocratico, “implica dei rischi l’atto nato dal lavoro solitario, ma impegna l’autore o, almeno, esclude una spenta presenza fisica” per concludere che “laddove l’apparato conti su teste idonee, ne basta una, almeno in primo grado” (Cordero, op. cit. pag, 109).
Nello stesso senso si è recentemente espresso il Consigliere della Corte di Cassazione Marco Dell’Utri: intervenendo in un simposio di questa rivista, l’alto magistrato ha descritto la proposta di modifica in esame come espressione dello “spirito geometrico e misurativo tipico del nostro tempo”, aggiungendo che “per rendere migliori le decisioni sulla libertà personale (quanto di più delicato e sacro ancora ci rimane) si aumenta il numero delle teste. E si dimentica di migliorare la qualità di quell’unica di cui ancora disponiamo”.
Queste considerazioni appaiono sufficienti quantomeno per escludere che l’equazione tra quantità dei decidenti e qualità delle decisioni sia così scontata e possa fungere da argomento indiscutibile per giustificare la necessità di procedere alla modifica del codice di procedura penale nel senso proposto.
Ma accanto a queste, pur acute e condivisibili, considerazioni di carattere generale ve ne sono altre, ancora più stringenti in quanto discendenti dalla peculiare natura delle misure cautelari personali.
Questo strumento è connotato ontologicamente dal carattere di urgenza, essendo stato pensato quale intervento di reazione al pericolo di un accadimento irreparabile che interviene, vanificandolo, nelle more del processo penale (periculum in mora).
La privazione della libertà personale disposta dall’autorità giudiziaria è normalmente effetto dell’affermazione della responsabilità per un reato, e presuppone l’accertamento incontrovertibile della violazione di un precetto penale e l’attribuibilità di tale violazione all’imputato da parte del giudice competente.
Incidere sopprimendolo, sia pur temporalmente, sul più sacro dei diritti costituzionali o anche semplicemente comprimere tale diritto, in assenza della certezza processuale di avere di fronte il colpevole del reato sembra dunque un controsenso.
Tuttavia, è altrettanto vero che la proclamazione della responsabilità penale non può prescindere da un accertamento serio, approfondito e in cui sia garantito il pieno rispetto del contraddittorio.
Questo tipo di processo comporta l’impiego di un notevole lasso di tempo: la formazione della prova richiede la massima attenzione e, nonostante i principi di oralità ed immediatezza che teoricamente informano il nostro sistema processuale penale, un’attenta ponderazione sia nella fase delle indagini che in quella del dibattimento.
Prima ancora della formazione in contraddittorio e della valutazione, le prove devono essere raccolte, ed in un momento ancora anteriore individuate e cercate, in quella fase delicata e importante del processo denominata nel nostro attuale sistema processuale penale “indagini preliminari”: un esito insoddisfacente o incompleto delle stesse porta inevitabilmente all’assoluzione, secondo il principio fondamentale del sistema accusatorio.
E’ pertanto fondamentale preservare tutta la fase delle indagini, e quella successiva del dibattimento, dal pericolo che le prove siano occultate, nascoste, manipolate, distrutte, distorte: ed è inevitabile e naturale che sia proprio chi ha commesso il reato ad essere interessato ad un accertamento incompleto o distorto.
Sorge dunque la necessità di “proteggere” (cautelare) il procedimento penale dalle aggressioni del suo attore principale: l’indagato/imputato.
E’ inoltre inevitabile che, man mano che si acquisisca la ragionevole certezza della colpevolezza di taluno, anche se questa certezza non è ancora sacralizzata in una sentenza di condanna definitiva, il fatto stesso che il colpevole continui a circolare libero crea allarme sociale, soprattutto in relazione a determinati reati.
Laddove, in casi siffatti, si raccolgano elementi consistenti sulla persistente attività delinquenziale dello stesso soggetto lo Stato è chiamato ad intervenire, con la massima urgenza possibile, per evitare che il tempo occorrente per lo svolgimento del giusto processo comporti un prezzo eccessivamente alto per la collettività e l’ordine pubblico.
Anche la funzione general-preventiva della pena, oltre che quella strettamente sanzionatoria, è dunque “cautelata” dal nostro sistema processuale.
Infine, è intuitivo che l’imputato, man mano che si rende conto che l’accertamento processuale procede verso l’acquisizione di un compendio probatorio pieno ed inoppugnabile e che dovrà dunque essere assoggettato alla privazione della libertà in risposta alla violazione del precetto da lui compiuta, possa considerare la fuga come strumento per sottrarsi alle conseguenze penali della sua azione: per impedire che il tempo di accertamento processuale del responsabilità comporti la frustrazione in concreto dello scopo principale del processo stesso (assoggettare a sanzione il responsabile della violazione del precetto) è dunque possibile, ancora una volta, intervenire in via preventiva impedendo che l’imputato fuggendo si sottragga alle sue responsabilità.
La prima ragione dell’esistenza delle misure cautelari è dunque data dalla necessaria protrazione temporale del momento di accertamento della verità processuale, che comporta l’esistenza di un sensibile periodo in cui taluno, pur sospettato o gravemente indiziato di essere l’autore di un reato, non è ancora formalmente etichettabile come “colpevole”: “se il processo fosse un punto e non una retta non occorrerebbero le misure cautelari” (la citazione è di Giovanni Conso).
Da quanto detto deriva che il requisito più importante per assicurare l’efficacia dell’intervento cautelare è senza dubbio la tempestività: un intervento tardivo rispetto alla verifica della sussistenza delle situazioni di pericolo rischia di essere del tutto vano, e risolversi nella mera anticipazione degli effetti della pena che l’articolo 274 del codice di procedura penale intendeva, come si è visto, scongiurare.
La conciliazione tra l’esigenza di tempestività e quella di ponderazione costituisce la sfida cui il legislatore è da sempre chiamato nel dettare le regole in tema di misure cautelari: più si impone ponderazione più si rinuncia alla tempestività, e viceversa.
Si è già detto in principio che sacrificare eccessivamente l’esigenza di ponderazione in relazione alla necessità di agire tempestivamente aumenta il rischio di errore.
Ma uno sbilanciamento in favore dell’esigenza di ponderazione, con compressione eccessiva di quella della tempestività rischia di fare della decisione cautelare un inutile doppione della sentenza di merito, sovrapponendo lo standard cautelare a quello probatorio e in definitiva abdicando al compito di cautela.
Il pericolo paventato assume connotati ancora più allarmanti laddove si consideri che nella proposta di legge in esame, accanto alla competenza collegiale del decidente, è previsto l’obbligo di procedere all’interrogatorio di garanzia prima dell’adozione della misura cautelare.
La totale elisione dell’effetto sorpresa, l’instaurazione del contraddittorio, la ponderazione del materiale raccolto dal richiedente e l’allungamento dei tempi configurano la misura cautelare ipotizzata come una sorta di dibattimento anticipato, dove i pericula in mora hanno perso ogni valore e sbiadiscono sulla sfondo della decisione del collegio, ridotta ad una valutazione quasi del tutto sbilanciata sull’analisi della sussistenza dei gravi indizi.
Di più: appare impossibile emettere un’ordinanza motivata sul periculum in mora, perché l’intervento pensato per scongiurare i suddetti pericula è vanificato dalle regole di azione del giudice della cautela, che è chiamato ad agire, paradossalmente, senza alcuna cautela ma anzi con modalità tale da avvertire l’indagato del pericolo per la sua libertà, effetto contrario a quello proprio delle misure cautelari.
Un esempio, tra i tanti, di applicazione delle nuove ipotizzate regole ai procedimenti che i Pubblici Ministeri gestiscono quotidianamente: nel corso di un’indagine per una serie di rapine compiute negli istituti di credito di una zona gli inquirenti individuano alcuni degli indagati e scoprono, attraverso intercettazione di alcuni indagati, che gli stessi si apprestano a compiere un’altra rapina. Il Pubblico Ministero avanza dunque richiesta di applicazione di misura cautelare motivata – oltre che dai gravi indizi di colpevolezza delle rapine precedenti – dal concreto ed attuale pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie.
Il Collegio decidente dovrebbe, secondo le regole della paventata riforma, convocare gli indagati e chiedere loro, alla presenza dei difensori, di fornire la loro versione sui delitti di cui sono accusati nonché convincere i giudici della insussistenza del pericolo di reiterazione, dopo essere stati avvertiti che se non saranno convincenti potrebbero essere privati della libertà personale.
E’ evidente che la tutela delle vittime, della sicurezza, dell’ordine pubblico e tutte le ragioni che sono connaturate all’intervento cautelare (cioè, letteralmente: “a cautela”) scompaiono del tutto in favore del principio di non colpevolezza, trascurando la circostanza che quando si agisce in via di urgenza l’articolo 272 del codice di procedura penale impone già un severo vaglio della sussistenza dei gravi indizi.
Di fatto, si sta proponendo di abolire le misure cautelari e procedere ad una sorta di incidente probatorio del tutto eccentrico in quanto avente ad oggetto non l’assunzione di una singola prova ma il giudizio di colpevolezza dell’indagato (non ancora imputato); un innesto nel procedimento penale sostanzialmente inutile e al contempo una pericolosa abdicazione del presidio d’urgenza del processo e della sicurezza pubblica.
3.Le ragioni politiche
L’analisi fin qui condotta lascia la sensazione di essere di fronte ad un provvedimento del tutto incoerente non solo con il sistema processuale ma persino con la ratio indicata di restituire maggiore efficacia alle misure cautelari.
Probabilmente il motivo è che alle motivazioni tecnico-giuridiche fin qui esaminate si aggiungono ragioni di politica giudiziaria che sono esposte dagli ideatori della riforma con maggior convinzione e che disvelano dunque il vero intento del provvedimento in esame.
Esamineremo dunque anche queste ulteriori e più pregnanti rationes legis.
Come si è detto, le modifiche ventilate dallo staff del Ministro della Giustizia Nordio ricalcano un disegno di legge presentato nella scorsa legislatura dall’onorevole Costa.
E’ dunque non privo di significato ricordare che, secondo le parole dell’originario proponente la trasformazione del giudice della cautela in organo collegiale, avrebbe come scopo di contrastare la “burocratizzazione del ruolo del GIP”, ridotto secondo alcuni “ad una sorta di passacarte dei pm”[1].
Ancora l’onorevole Costa, nel descrivere la ratio del disegno di legge ha evocato l’esigenza di contrastare l’eccessiva percentuale di ordinanza di accoglimento delle richieste cautelari, a suo avviso così spiegabile: “l’adeguamento del gip alle richieste del pm (…) dipende (…) anche purtroppo da una sorta di sudditanza nei confronti della Procura”.
Lo stesso Ministro Carlo Nordio ha chiaramente esplicitato che “il fatto che il giudice collegiale possa essere distaccato dal luogo dove si trova il pubblico ministero e quello per cui tre giudici possono sentirsi meno deboli rispetto alle richieste dei pm assicurano una maggiore ponderazione delle decisioni e pertanto accordano al cittadino un livello di tutela maggiore di quello che attualmente assicura la decisione del giudice monocratico”.
La riforma nasce dunque, secondo le stesse parole di chi l’ha ideata, per allontanare i giudici dai pubblici ministeri; si tratta, a ben vedere, dell’ennesima declinazione del tema della separazione delle carriere.
L’argomento è noto, così come noto che una parte della politica consideri la necessità di separare le carriere della magistratura inquirente da quella dei giudici l’urgenza prioritaria in materia penale, mentre la stragrande maggioranza dei magistrati è di parere contrario (e tenta da tempo di indicare come priorità aumenti di organico e risorse per restituire efficienza alla giustizia).
In questa sede il tema non può che essere trattato incidentalmente ( si rinvia agli articoli pubblicati su questa Rivista: La separazione della carriera dei magistrati: la proposta di riforma e il referendum di Paola Filippi, Separazione delle carriere a Costituzione invariata. Problemi applicativi dell’art. 12 della legge n. 71 del 2022 di Pasquale Serrao d’Aquino)
non può tacersi però che ad avviso di chi scrive ne è indimostrato il presupposto (cioè che i PM siano tutti e ontologicamente privi di equilibrio) e in ogni caso sbagliata la soluzione.
Se infatti il problema è la carenza di senso della giurisdizione della magistratura inquirente, la soluzione logica dovrebbe essere il maggiore coinvolgimento dei pubblici ministeri nella cultura del processo al fine di far acquisire ai rappresentanti delle procure, nello svolgimento delle indagini e della funzione di accusa, una mentalità “da giudice” imparziale e terzo; non il contrario.
Separare i pubblici ministeri dai giudici per farne dei professionisti dell’accusa vuol dire avvicinarli al modello della polizia giudiziaria, chiedere loro di sostenere una tesi anche senza essere convinti, cercare sempre e comunque di trasformare l’indagato in imputato e questi in condannato, tendere ad un unico risultato: la conferma della notizia di reato, senza più la libertà di determinarsi nel senso migliore per lo Stato che rappresentano, anche se questo vuol dire chiedere l’assoluzione della persona su cui si erano svolte indagini.
Ad occhio e croce, questa soluzione non risolve i problemi di mancanza di equilibrio della magistratura requirente ma li esalta e li aggrava.
Maggiori prospettive nel recupero dell’equilibrio potrebbero venire invece dall’esaltare l’unicità della cultura della giurisdizione tra tutti i protagonisti del processo, coinvolgendo gli avvocati in un percorso di formazione comune: l’inclusività, non la ghettizzazione dovrebbe essere la linea ispiratrice delle riforme.
4.Conclusioni
Occorre un ultimo sforzo interpretativo per comprendere appieno il significato ed il contesto della riforma in esame, perché questa si inserisce in una sorta di linea invisibile di coerenza che supera steccati ideologici e cambi di maggioranza parlamentare.
E’ infatti in atto da qualche anno una rimodulazione delle regole di azione dei GIP, che ha per presupposto una sorta di tracimazione della sfiducia congenita nei PM da parte del legislatore in una sfiducia acquisita nei confronti dei giudici che per compito principale hanno quello di vagliarne le richieste, come se l’asserita mancanza di equilibrio che affligge la magistratura requirente si fosse loro trasmessa per contatto.
E’ ancora l’onorevole Costa a rendere palese questo pensiero affermando “a questo si è cercato di rimediare con la nuova regola di giudizio e anni fa con la riforma che rafforzava gli obblighi di motivazione a carico del giudice sulla custodia in carcere. Ma tutto questo non è bastato, non è cambiato nulla”.
Ed invero, sin dalla riforma della legge 47 del 2015 (seguita poi dalla cosiddetta “riforma Orlando”) sono stati introdotti obblighi di motivazione dei provvedimenti di intercettazione e delle sentenze e criteri di adozione delle misure cautelari sempre più stringenti.
Con le riforme all’orizzonte dunque si assiste a un cambio di passo: la ormai radicata malattia dei GIP sarà curata allontanando da loro la fonte del contagio e rafforzando le resistenze alla nefasta influenza dei Pubblici Ministeri con il triplicare gli effettivi della cittadella assediata dei giudici.
Si è già detto che la soluzione proposta non convince da un punto di vista tecnico e sembra profondamente errata da quello di politica giudiziaria.
A ciò va aggiunto un formidabile ostacolo di carattere organizzativo, che qui si tratta per ultimo perché va evitata la tentazione di non entrare nel merito della riforma semplicemente affermando che essa è irrealizzabile, ma che non può comunque essere trascurato: con l’attuale organico dei magistrati è impossibile pensare di destinare il triplo delle risorse umane all’organo che decide le misure cautelari.
Prevedere l’intervento di tre magistrati in luogo di uno implicherebbe necessariamente un forte rafforzamento degli organici dell’organo giudicante designato, sia esso l’ufficio GIP o il Tribunale per il Riesame (ipotesi che, trasferendo alla Corte di Appello la funzione di giudice dell’impugnazione cautelare porterebbe alla paralisi di quest’ultimo organo, notoriamente già in cronica difficoltà quasi in tutti i circondari italiani).
Teoricamente si potrebbe ovviare al problema prevedendo forti aumenti di organico: ma si tratta di una soluzione che richiede uno sforzo insostenibile dal punto di vista finanziario ed in forte contrasto con gli obiettivi del PNRR.
In ogni caso ci vorrebbero anni prima che una modifica di questo tenore possa realizzarsi ed entrare a regime, senza contare che eventuali immissioni di nuovi magistrati destinate ai soli organi sopra menzionati, ignorando i decennali problemi di carenza di organico che affliggono tutti gli altri (a cominciare dal civile) sarebbe soluzione eccentrica e prevedibilmente poco popolare.
Occorrerebbe ancora occuparsi delle incompatibilità a catena che si creerebbero coinvolgendo nella fase cautelare un numero triplo di magistrati rispetto a quello attualmente previsto.
Bati pensare che l’eventuale coinvolgimento di tre giudici della corte di appello in sede di impugnazione cautelare implicherebbe la necessità di ricorrere ad altri tre giudici della stessa corte di appello per giudicare il merito del medesimo processo dopo il primo grado, con ulteriore moltiplicazione in caso di impugnazioni cautelari plurime o con misure cautelari con più indagati (evento tutt’altro che raro).
Un utilizzo di risorse che appare del tutto incompatibile con le attuali forze della magistratura, alle prese con un arretrato cronico.
Rimane imprescindibile non abbassare la guardia nei confronti di eventuali scivolamenti di attenzione e qualità nella trattazione della libertà personale, bene su cui non possono farsi sconti.
Ma forse un aumento dell’organico dei GIP in modo da evitare che gli stessi siano sommersi dalla gestione dei carichi di lavoro e possano aumentare il tempo di meditazione ed approfondimento di ognuno dei preziosi fascicoli loro dati in gestione potrebbe raggiungere, in modo assai più veloce e senza minare il sistema processuale, gli obiettivi prefissati dal legislatore.
Oltre naturalmente ad un’attenzione continua per evitare cadute ed errori, con attività di formazione e, laddove si verifichino casi dovuti a dolo o colpa grave, con interventi disciplinari ad hoc e non “per categorie”.
In definitiva, far funzionare al meglio le teste esistenti e non moltiplicarle: l’insegnamento di Cordero sembra più vivo ed attuale che mai.
[1] Il Dubbio, cit.