Associazione italiana
fra gli studiosi del processo civile
Al signor Ministro della Giustizia On. Alfonso Bonafede
PARERE DEL CONSIGLIO DIRETTIVO DELL'ASSOCIAZIONE ITALIANA FRA GLI STUDIOSI DEL PROCESSO CIVILE
in relazione al d.d.l. di riforma del processo civile
Con il presente parere saranno sviluppate, da un lato, considerazioni di carattere generale e preliminare; dall'altro lato, riflessioni specifiche relative ai singoli articoli del progetto di legge. Ciò, peraltro, non senza avere tenuto in debita considerazione i principi enunciati dalla relazione di accompagnamento al d.d.l.
Prendendo avvio dal primo profilo, si deve evidenziare, preliminarmente ad ogni altra valutazione, come sia inutile, per non dire dannoso, intervenire ancora sulle regole del processo, quando invece è noto che i problemi, che incidono sull'efficienza della macchina della giustizia civile, emergono, quasi esclusivamente, sul piano strutturale e organizzativo. La ragionevole durata del processo - obiettivo che il legislatore delegante intende dichiaratamente perseguire - non si ottiene con interventi sulle norme, i quali potrebbero tutt'al più comportare una qualche utilità sul piano del chiarimento o della semplificazione di singoli istituti, ma non certo avere ricadute positive sul versante della celerità dei processi.
Infatti, è generalmente condiviso che la ragione dell'eccessiva durata del processo risiede non tanto nelle norme che lo regolano, quanto in fattori di carattere organizzativo, e in particolare nel rapporto assolutamente inadeguato tra il volume complessivo del contenzioso civile ed il numero dei magistrati, togati e non, sui quali esso grava. A ciò si lega anche il problema della composizione/organizzazione degli uffici e della formazione dei dirigenti. Prova ne è, a tacere d'altro, che il fattore principale di efficienza, com'è dimostrato nell'attuale assetto, è costituito dalle pratiche virtuose adottate e applicate da taluni uffici giudiziari.
Si deve ancora rilevare come l'incessante moto riformatore, che ha interessato la giustizia civile nell'ultimo decennio, non solo non ha prodotto risultati positivi in termini di durata e di efficienza del processo, ma ha comportato un senso di diffuso disagio tra gli operatori, in quanto è principio pacificamente riconosciuto che la stabilità delle regole processuali costituisce fattore primario per una più virtuosa attività degli avvocati e del giudice.
Di tutto questo, inoltre, è convinta non soltanto la generalità degli studiosi del processo civile, ma
anche la stragrande maggioranza degli avvocati, dei magistrati e più in generale degli operatori.
Sempre in termini generali, in secondo luogo, la proposta di predisporre un unico rito di cognizione dinanzi al tribunale in composizione monocratica è, probabilmente, obiettivo condivisibile. Tuttavia, suscita non poche perplessità - anche rispetto all'idoneità a perseguire l'obiettivo della ragionevole durata - la scelta ipotizzata nel progetto legislativo, che sembra contemplare un rito sommario per così dire spurio o, secondo altra definizione, un rito ordinario semplificato, destinato a governare tutte la cause (eccetto le poche affidate al collegio), a prescindere dal grado della loro complessità. In particolare, il rito immaginato nel d.d.l. rappresenta una sorta di combinazione tra l'attuale procedimento sommario di cognizione, il procedimento ordinario davanti al tribunale e il rito del lavoro; esso si caratterizza per un rigido sistema di preclusioni.
Pur nell'ottica di semplificazione delle regole e di perseguimento dell'obiettivo della ragionevole durata, è necessario assicurare la predeterminazione delle regole del processo, il quale, come afferma la Carta costituzionale, è "giusto" se "regolato dalla legge"; d'altro canto, non è irrigidendo il sistema delle preclusioni che si riescono a conciliare le esigenze della celerità con quelle legate ai diritti di difesa delle parti; un inasprimento in tal senso, viceversa, comporta il rischio di un allontanamento dell'esito del processo da quello che dovrebbe essere il suo sbocco naturale, ossia la maggior approssimazione possibile alla verità materiale. Ancora: il sistema di preclusioni anticipate e rigorose può realizzare forse un'economia endoprocessuale, ma porta con sé, quasi inevitabilmente, conseguenze negative dal punto di vista dell'economia extraprocessuale, posto che quelle modificazioni e quei mutamenti delle domande, che il meccanismo preclusivo vieta di svolgere nel corso del processo, per forza di cose, restano suscettibili di valorizzazione in successivi e ulteriori giudizi. È perduto il riferimento "alla vicenda sostanziale", che, invece, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, a partire dalla sentenza n. 12310/2015, hanno posto ad oggetto del contraddittorio delle parti e dell'accertamento giudiziale.
D'altronde, non sembra avvertita né in dottrina, né dagli operatori giudiziari, l'esigenza di un radicale mutamento dell'attuale rito di cognizione ordinaria, peraltro già semplificato con la riforma
del 2006 con risultati comunemente valutati in modo positivo, rito che oggi ha regole e principi consolidati, anche alla luce delle interpretazioni giurisprudenziali intervenute, e costituisce un punto di equilibrio tra il sistema delle preclusioni e quello imperniato sul pieno sviluppo del diritto di difesa alle parti. Forse, la sola modifica opportuna potrebbe essere costituita dal prevedere maggiore flessibilità circa le memorie e i termini di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c., in considerazione delle specificità del caso concreto.
Infine, si è ritenuto opportuno evitare di proporre modifiche e interventi diversi da quelli individuati nel d.d.l. in commento; l'unico suggerimento che si può avanzare attiene alla opportunità di un intervento legislativo, per così dire, di adeguamento periodico, che recepisca ogni anno, nella nostra materia, le novità derivanti dal diritto dell'Unione europea e dalle sentenze della Corte costituzionale.
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Passando ora alla disamina dei singoli articoli che compongono il d.d.l., appare opportuno effettuare le considerazioni che seguono.
1)Sull'art. 2 (strumenti di risoluzione alternativa delle controversie)
- In merito agli interventi de quibus: a) suscita perplessità la lettera f) ove si prevede la c.d. istruzione stragiudiziale, da reputare misura inopportuna e inutile, foriera di complicazione più che di semplificazione; b) non appare opportuna l'esclusione del ricorso obbligatorio alla mediazione in materia di responsabilità medica e di contratti bancari, finanziari e assicurativi, in considerazione anche delle previsioni specifiche della disciplina di settore; c) non convincente appare anche la previsione della negoziazione assistita facoltativa nelle controversie di lavoro.
Ciò detto, è da auspicare un intervento più incisivo, che passi dall'eliminazione dell'obbligo della mediazione di cui al d.lgs 28/201O e dalla incentivazione di forme di mediazione volontaria ovvero delegata; parallelamente o alternativamente, negli ambiti nei quali si ritenesse di dover conservare il meccanismo della mediazione obbligatoria, occorre sopprimere la rilevabilità d'ufficio del mancato esperimento e inserire una previsione che consenta alle parti di optare, in alternativa al
procedimento di mediazione, per un procedimento di negoziazione assistita. A tale riguardo, può apparire utile, da un lato, la previsione di una fungibilità trasversale e totale tra l'utilizzo dell'uno o dell'altro strumento di ADR, nel senso che, una volta che sia stato attivato l'uno, si deve considerare integrata l'eventuale condizione di procedibilità prevista in relazione all'altro; dall'altro lato, l'inserimento di strumenti di risoluzione delle controversie affidati ad organi terzi e imparziali e
dotati di specifica competenza nella materia.
2) Sull'art.3 (processo di cognizione di primo grado davanti al tribunale in composizione monocratica).
Tra le maglie della disciplina stabilita dalla disposizione in esame, debbono essere denunciate alcune criticità, in particolare:
la forma del ricorso dell'atto introduttivo: la proposta di generalizzare l'adozione del ricorso, se può essere apprezzata sul piano della semplificazione, soprattutto con riferimento al processo telematico, non sembra essere in grado di incidere realmente sulla ragionevole durata del processo; la previsione del d.d.l. - secondo cui l'udienza di prima comparizione deve essere fissata entro quattro mesi - rischia di determinare una dilatazione dei tempi rispetto al quadro attuale, nel quale, con l'utilizzo della citazione a udienza fissa, in molti casi - ad es. allorché la notifica della citazione può essere effettuata a mezzo pec - è effettivamente possibile che la prima udienza si svolga nel termine di novanta giorni dalla notifica stessa. Non possono neppure essere sottaciuti i timori circa, per così dire, la sensibilità degli uffici giudiziari ad attenersi alle indicazioni relative al termine entro cui fissare l'udienza, ritenendosi necessaria in tale ottica l'individuazione di strumenti in grado di rendere effettivo e cogente il rispetto del termine.
le preclusioni: rinviando a quanto già rilevato in precedenza, occorre ora rimarcare come sia da valutare negativamente, con riferimento in specie all'economia extraprocessuale, la previsione - lettera b, n. 5) - che limita la possibilità di precisazione e modificazione delle domande e delle eccezioni e conclusioni a quanto necessario in conseguenza delle domande ed eccezioni proposte dalle altre parti; l'esclusione dello ius variandi, oltre a porsi in netto contrasto con la più recente giurisprudenza di legittimità, non incide in senso positivo sulla semplificazione, poiché conduce a limitare la portata preclusiva del giudicato.
la fase decisoria: desta perplessità anche la previsione di cui al comma l, lettera c) [valevole, ai sensi dell'art. 4, comma l, lettera d), pure per le decisioni collegiali], che contempla una udienza finale di discussione, tenuto conto della difficoltà di individuare apposite udienze in termini ragionevoli, soprattutto allorché si tratta di causa collegiale. Non si può infine non rilevare come sia discutibile la proposta di modifica della disciplina dei rapporti tra collegio e giudice monocratico, nella parte in cui (lettera d, punto 2) non contempla la possibilità di richiesta di discussione orale dinanzi al collegio, nel caso in cui il giudice monocratico rilevi che una causa già riservata per la decisione davanti a sé debba invece essere decisa dal tribunale in composizione collegiale.
3) Sull'art. 4 (processo di cognizione di primo grado davanti al tribunale in composizione collegiale).
Pur riconoscendosi l'opportunità del ricorso a un differente criterio e metodo di individuazione dei casi in cui il tribunale decida in composizione collegiale, non convince, anche in ragione della sua genericità, la previsione volta a ridurre i casi di decisione collegiale (ferma restando l'esigenza di una razionalizzazione delle ipotesi previste dall'art. 50-bis c.p.c.); le cause particolarmente complesse - e non solo quella davanti alle sezioni specializzate - richiedono uno scambio di opinioni possibile solo nella camera di consiglio collegiale.
Inoltre non si avverte la necessità di un intervento sul rito applicabile, specie se realizzato nella direzione di un appiattimento del procedimento dinanzi al tribunale collegiale su quello davanti al tribunale monocratico.
Infine, l'intervento sull'art. 50-bis c.p.c. dovrebbe essere coordinato con la disciplina prevista per le sezioni specializzate in materia di impresa, immigrazione, nonché con il modello processuale contemplato per la tutela collettiva.
4) Sull'art.5 (processo di cognizione di primo grado davanti al giudice di pace).
È da valutare positivamente quanto stabilito alla lettera b), ossia l'eliminazione della previsione dell'obbligatorietà del tentativo di conciliazione, mentre è reputata inopportuna la proposta di cui alla lettera a), ossia di uniformare il processo dinanzi al giudice di pace al procedimento dinanzi al tribunale in composizione monocratica, ritenendosi che, per le controversie trattate e per la costituzione del giudice, l'attuale procedimento maggiormente deformalizzato sia da preferire.
5) Sull'art.6 (giudizio di appello)
Opportuna è la scelta di eliminare il c.d. filtro in appello, dunque non solo l'art. 348-bis, ma anche gli artt. 348-ter; la previsione dovrebbe essere completata mediante il riferimento all'art. 436-bis c.p.c.
Con riguardo alla lettera b), è forse da auspicare una riformulazione dell'art. 346 c.p.c. con la conseguente precisazione dei termini e dei modi per la riproposizone delle questioni e per la proposizione dell'appello incidentale, con riferimento vuoi ai casi di assorbimento, vuoi a quelli di decisione della questione. Non è agevole comprendere le conseguenze e dunque gli eventuali vantaggi di quanto previsto alla lettera c), mentre sono da valutare positivamente le modifiche in punto di inibitoria [lettera f)].
Per quanto poi concerne la lettera e), pare opportuno modificare la previsione nella parte in cui: i) attribuisce al collegio la facoltà di fissare altra udienza per la discussione anche laddove le parti non ne facciano richiesta (in evidente spregio del principio di ragionevole durata); ii) sembra subordinare il dovere del collegio di concedere alle parti richiedenti termine per note soltanto al previo esercizio della predetta facoltà, salva l'ipotesi in cui sia stato proposto appello incidentale.
6) Sull'art.7 (disposizioni per l'efficienza dei procedimenti civili).
Relativamente al processo telematica, occorre prevedere una specifica disciplina, che contempli anche i profili per così patologici; inoltre, si fa presente che l'estensione a tutti gli atti e documenti può apparire eccessiva e inopportuna per quei documenti il cui deposito è pressoché impossibile (vuoi per il numero dei documenti, vuoi per la natura degli stessi). In parte qua, allora, deve essere prevista la possibilità per il giudice di autorizzare, in presenza di giustificati motivi, il deposito cartaceo dei documenti.
7) Sull'art.8 (notificazioni).
Per quanto riguarda la lettera b) dell'articolo in esame, al fine di non penalizzare irragionevolmente la parte il cui avvocato non sia riuscito a notificare a mezzo posta elettronica, costringendo lo stesso a fare affermazioni sfavorevoli alla parte da esso assistita, si ritiene opportuno sostituire le parole «non è risultata possibile o non ha avuto esito positivo per cause non imputabili al destinatario» con le parole «non è risultata possibile o non ha avuto esito positivo per cause che potrebbero non essere imputabili al destinatario». Appare infatti irragionevole subordinare il diritto della parte ad ottenere l'effettuazione della notifica a mezzo ufficiale giudiziario alla dichiarazione di fatti verificatisi al di fuori della sua sfera di dominio, tanto più se si tratta di fatti favorevoli all'altra parte, la cui attestazione finirebbe soltanto per avvantaggiare quest'ultima.
8) Sull’art.10 (procedimento di espropriazione immobiliare)
L'intervento non è apprezzabile perché rischia di sortire effetti divergenti rispetto a quelli perseguiti, specialmente in punto di tutela del debitore debole. Infatti, la possibilità del debitore di chiedere al giudice dell'esecuzione di essere autorizzato a procedere direttamente alla vendita dell'immobile pignorato per un prezzo non inferiore al suo valore di mercato, da un lato, si presta ad essere utilizzato in modo fraudolento delle ragioni del creditore, e, dall'altro lato, potendo comportare un danno per il creditore, e in particolare per quello ipotecario, rischia di indurre il sistema bancario a restringere la concessione di mutui ipotecari, in specie prima casa, necessari invece per i cittadini meno abbienti.
9) Sugli artt. 9 (giudizio di scioglimento delle comunioni) e 11 (doveri di collaborazione delle parti e dei terzi).
Si tratta di interventi da ritenere per lo più condivisibili, nell'ottica di chiarimento e di risoluzione di aspetti discussi e discutibili, sebbene non in grado di incidere sulla durata del processo.
Bologna, 18 novembre 2019