Sommario: 1. Il volume di Bruno Capponi su Legittimità, interpretazione, merito, Saggi sulla Cassazione civile. - 2. Alcune puntualizzazioni su: funzione, compiti, procedimento. - 3. La nomofilachia e la funzione della Corte. - 4. I nuovi compiti della Corte di Cassazione. - 5. Il procedimento ex art. 380 bis c.p.c. e la logica del respingimento.
1. Il volume di Bruno Capponi su Legittimità, interpretazione, merito, Saggi sulla Cassazione civile.
Bruno Capponi ha raccolto in un volume Legittimità, interpretazione, merito, Saggi sulla Cassazione civile, ESI, 2023, i suoi più recenti scritti in argomento.
Sono molti, e alcuni sono stati pubblicati in questa rivista; io li ho seguiti (direi) uno ad uno, nel momento in cui uscivano, interessato all’argomento e a prendere atto del pensiero di un processualista che stimo e che conosco da quando eravamo ragazzi.
È un piacere quindi per me presentare il volume appena uscito ai lettori di Giustiziainsieme.
Il volume, in terza di copertina, spiega in estrema sintesi la posizione di Bruno Capponi in ordine alla Cassazione civile.
La tesi di fondo è che la Corte sta progressivamente perdendo la sua funzione di garanzia per le parti e di controllo di legalità delle decisioni dei giudici di merito per acquisire una funzione di interprete sganciata dalla decisione del caso singolo e, a volte, per acquisire una funzione di vera e propria creatrice di nuovo diritto: “Non più giudice dei casi concreti, ma giudice delle questioni astratte, che somministra principi di diritto cui dovrebbero adeguarsi i giudici di merito secondo una concezione della giurisdizione più autoritaria che in passato”; e quindi: “alla ricerca di una funzione in purezza, con i rischi di una operazione destinata a snaturare ruolo e funzione della Corte” (pag. 78/79).
Questa idea di fondo emerge un po’ in tutti gli scritti di Bruno Capponi: v’è negli scritti dedicati alla nomofilachia, La Corte di Cassazione e la nomofilachia, pag. 47 e ss; La nomofilachia tra equivoci e autoritarismi, pag. 209 e ss.; v’è, ancora, dinanzi ai dubbi che possono nutrirsi nell’affidare alla Corte nuovi compiti quando questa è già oberata di lavoro e sommersa di ricorsi, E’ opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di Cassazione?, pag. 111 e ss.; è una idea che si trova altresì negli scritti dedicati più propriamente al procedimento, Una novità assoluta per il giudizio di legittimità: il giudice monocratico nel procedimento, pag. 261 e ss., Un piccolo dubbio sul rinvio civile, pag. 229 e ss., Notarella sull’art. 372 c.p.c. e sul rispetto del contraddittorio in Cassazione, pag. 235 e ss.; e soprattutto dedicati a quelle pronunce che hanno costituito creazione di diritto più che interpretazione dello stesso, Gli orientamenti nomopoietici, l’esempio di Cass., sez. III, n. 26285/2019, pag. 243 e ss., A proposito di Cass. SS.UU. 6 aprile 2023 n. 9479; e infine è presente nei molti scritti dedicati alla motivazione, pag. 121 e ss., nonché dedicati ai formalismi che regnano (purtroppo) sovrani dinanzi alla Suprema Corte, Il formalismo in Cassazione, pag. 81 e ss., Brevità, concentrazione, non ripetizione, pag. 91 e ss.
Accanto a ciò v’è poi la trattazione di un ulteriore tema, che è quello secondo il quale la giurisdizione costituisce una risorsa limitata, con la conseguenza quindi, in una certa misura, che non è scorretto cercare di contenere il numero dei ricorsi, e soprattutto tendere a dichiararli sovente inammissibili e/o manifestamente infondati, in una logica che Bruno Capponi definisce del respingimento.
Così, non solo una nuova nomofilachia che si astrae dai casi concreti e si trasforma, in taluni casi, in nomopoiesi, ma anche formalismi e respingimenti, oggi regolati dal nuovo art. 380 bis c.p.c. di cui alla recente riforma c.d. Cartabia, d. lgs. 149/2022. A tutto ciò è dedicato il volume.
Si legge infatti nella premessa: “A questa Corte magmatica, che sembra alla ricerca perenne di una sua propria identità, sono dedicati gli scritti qui raccolti. In attesa di un possibile annus mirabilis”. (pag. 10).
2. Alcune puntualizzazioni su: funzione, compiti, procedimento.
Ora, i temi sono molti e non possono essere tutti oggetto di commento.
Si tratta allora di fare una cernita, e soprattutto di sintetizzare le varie tematiche; e io credo che le questioni di fondo siano tre:
a) si tratta in primo luogo di indagare sulla funzione della Corte di Cassazione, ovvero sul ruolo c.d. nomofilattico che le è stato assegnato dall’art. 65 del regio decreto 30 gennaio 1941 n. 112;
b) si tratta poi di esaminare i compiti che specificamente le sono attribuiti, e che secondo Bruno Capponi sono aumentati in questi anni, alcuni addirittura in via di autoattribuzione in assenza di specifica previsione normativa;
c) e si tratta infine di valutare il procedimento con il quale questi compiti sono svolti, e quindi la funzione esercitata.
A questi tre momenti dedico le brevi osservazioni che seguono.
3. La nomofilachia e la funzione della Corte.
Per affrontare il tema della nomofilachia, mi sembra preliminarmente utile riportare alcuni passi del volume: “La Corte ha due anime: una deriva dall’art. 65 ord. giud. quale frutto di una concezione statalista e accentratrice anche della giurisdizione; l’altra deriva dall’art. 111, comma 7 (originariamente, comma 2) Cost., ed è frutto di una concezione garantistica per le parti, che sanno di poter sempre contare sul controllo di legalità delle decisioni dei giudici di merito”. (pag. 279).
“Queste due anime per lungo tempo hanno camminato insieme perché la Corte, decidendo il ricorso (art. 384, comma 1, c.p.c.), affermava il principio di diritto a valere per i casi futuri. La garanzia per le parti (art. 111, comma 7, Cost.) era dunque l’occasione per far emergere la funzione nomofilattica di orientamento della giurisprudenza (art. 65 ord. giud.) che peraltro si esprimeva in pronunciamenti non costituenti un vero e proprio vincolo per gli interpreti, poiché, secondo l’opinione più accreditata, il giudice di merito, soggetto soltanto alla legge (art. 101, comma 2, Cost.) e superiorem non recognoscens (art. 107, comma 3, Cost.), ha il dovere di conoscere gli orientamenti della S.C. e di eventualmente motivare le decisioni in dissenso, ma non ha anche il dovere di uniformarsi acriticamente ai princìpi affermati dalla Corte” (pag. 280).
E tuttavia, sottolinea Bruno Capponi: “Le due anime della Corte sono destinate a entrare in conflitto qualora si voglia distaccare la funzione nomofilattica dalla funzione di garanzia……. allora la funzione della Corte rischia di scivolare fuori dal circuito francamente giurisdizionale per approdare in un contesto nuovo, dove si presuppone che il dialogo sia con la norma e non con il caso, e si presuppone anche che il frutto di un simile dialogo sia vincolante per ogni interprete (e non soltanto per le parti in lite)” (pag. 281).
In altri termini: “la Cassazione non è più o non più soltanto un giudice bensì un organo di coordinazione tra funzione legislativa e funzione giudiziaria” (pag. 78).
Il concetto è ripreso anche nelle conclusioni: “La tendenza che sta prendendo piede all’interno della Corte è così quella di fare della Cassazione non più o non soltanto un giudice bensì – come è stato scritto – un organo di coordinazione tra funzione legislativa e funzione giudiziaria, interessato assai più alla interpretazione del diritto che non alla sua applicazione in quei casi pratici che, per i tramiti delle impugnazioni, ascendono verso l’Organo di legittimità” (pag. 289).
Dunque, sulla contrapposizione di queste due anime, qualche parola deve essere spesa, anche perché, sempre con le parole di Bruno Capponi “Individuati in apicibus questi due compiti, il legislatore si è disinteressato dei dettagli” (pag. 279).
3.1. Io direi, in primo luogo, che nessuno mette oggi in discussione la funzione di nomofilachia della Corte di Cassazione, nessuno mette in discussione l’esigenza del trattamento paritario delle parti in giudizio nel rispetto dell’art. 3 Cost., e nessuno mette in discussione che una certa uniformità delle decisioni giurisdizionali sia un valore della nostra Repubblica.
Onestà intellettuale vorrebbe, però, dopo ciò, si ricordasse che mentre l’anima c.d. garantista fu voluta dai nostri costituenti e costituzionalizzata con l’art. 111 Cost, l’anima c.d. uniformista, se mi si passa questo termine, fu discussa ed espressamente bocciata in Assemblea.
Sono circa trenta anni che ricordo (senza alcun riscontro) che Piero Calamandrei, in sottocommissione, cercò di far approvare una norma di analogo contenuto all’art. 65 ord giud, ma che tale progetto trovò l’opposizione della stragrande maggioranza dei componenti, tra i quali Targetti, Bozzi, Ambrosini, Di Giovanni e Castiglia (v. La costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma, Camera dei Deputati, 1976, VIII, 1958-9).
Calamandrei veniva così messo in minoranza, ed il progetto di costituzionalizzare il principio di unicità della Corte di Cassazione e di nomofilachia non aveva seguito, tanto che lo stesso Calamandrei, nella seduta pomeridiana del 20 dicembre 1946: “dichiarava di aderire alla proposta di Targetti e di ritirare il capoverso in esame”.
Piero Calamandrei, però, successivamente, con dubbio comportamento, riproponeva il medesimo testo bocciato in sottocommissione nel plenum dell’Assemblea.
Avverso ciò prendeva la parola di nuovo Targetti, ricordando la vicenda in sottocommissione e il ritiro di quel testo da parte dello stesso Piero Calamandrei, e rimprovera il collega: “L’onorevole Calamandrei si contraddice”.
La proposta di Piero Calamandrei non aveva quindi seguito, e in Assemblea, tutto al contrario, si discuteva del solo progetto di Giovanni Leone, volto a riconoscere a tutti il diritto di accedere alla Corte di cassazione per il controllo di legalità dei provvedimenti che incidono su diritti.
Sarà quello il nuovo art. 111 Cost.
Ripeto: nessuno mette in discussione l’odierno valore della nomofilachia, però è deprimente, a mio parere, che nessuno ricordi mai questo fatto storico, e tralasci il diverso peso delle due anime della Cassazione, per dirla con le parole di Bruno Capponi.
Si riesce addirittura a leggere monografie in argomento che non trattano di questa vicenda e affermano brevemente che il principio di nomofilachia è un principio costituzionale perché vi è l’art. 3 Cost.
3.2. Ciò premesso, si tratta di ribadire che il principio di nomofilachia, seppur non messo in discussione, necessita tuttavia di talune precisazioni, ed io direi, con Bruno Capponi, quanto segue.
a) La nomofilachia, in primo luogo, non deve concepirsi quale rispetto tassativo del precedente per i giudici di merito, non può assimilarsi alla tecnica dello stare decisis, poiché ciò, oltre a comportare un evidente immiserimento della funzione giurisdizionale, ci condurrebbe a metodi che non appartengono alla nostra tradizione giuridica di civil law.
Scrive Bruno Capponi che: ”nel nostro ordinamento non esiste la cultura del precedente, ed anzi da noi si riscontra una cultura che vede il singolo giudice come l’esponente superiorem non ricognoscens di un potere orizzontalmente diffuso” (pag. 50).
Sotto questo profilo dobbiamo infatti tutti ricordarci che la magistratura, nel nostro sistema, è, e deve rimanere, un potere diffuso, così come stabilito negli artt. 106 e 107 Costituzione.
E la magistratura non sarebbe più un potere diffuso ove questa dovesse solo riprodurre l’esistente.
b) In secondo luogo l’esigenza di trattare in modo paritario tutti i cittadini non può far venir meno il principio secondo il quale i giudici sono soggetti soltanto alla legge e rispondono del loro operato secondo scienza e coscienza.
Un tempo si chiamava questo senso della giurisdizione, che, ritengo, non debba smarrirsi.
In questo quadro, è necessario che la nomofilachia non si renda nemica della pluralità e che non venga interpretata in senso rigorosamente verticale.
Possiamo e dobbiamo immaginare invece una nomofilachia che sia capace di rispettare l’indipendenza, anche interna, del giudice, e si muova e si formi in senso anche orizzontale, ovvero che riesca a trovare conferma, aggiustamento e integrazione con le motivazioni e le ragioni dei giudici del merito, che la condividono e la integrano, e alle volte, perché no?, la disattendono, se non ne sono, in scienza e coscienza, convinti.
Bruno Capponi: “Il giudice di merito ha il dovere di conoscere gli orientamenti della Suprema Corte e di eventualmente motivare le decisioni in dissenso, ma non ha anche il dovere di uniformarsi acriticamente ai princìpi affermati dalla Corte” (pag. 280).
c) In terzo luogo la nomofilachia non può trasformarsi nel potere di libera creazione del diritto, ed è altresì necessario che la Corte di Cassazione non si trasformi in un organo di coordinazione tra funzione legislativa e funzione giudiziaria, non essendo ciò contemplato da nessuna norma costituzionale e/o ordinaria.
È discutibile, infatti, che in ipotesi sempre più frequenti la Cassazione "non assicuri più l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge bensì integri la disciplina positiva con previsioni generali e astratte in alcun modo collegate con le norme che ha scrutinato” (pag. 258); e questo perché “La Cassazione è un giudice, non un legislatore di complemento ne’ un consulente giuridico ne’ un libero dispensatore di regole di comportamento indirizzate ai pratici” (pag. 259).
Con espressioni un po’ forti, il concetto è comunque chiaro: la nomofilachia non fa della Cassazione una fonte del diritto, ed è imbarazzante, al contrario, trovarsi sempre più spesso dinanzi “a decisioni che non interpretano bensì creano nuovo diritto” (pag. 299).
3.3. Dunque, in estrema sintesi, sempre per Bruno Capponi: “Le due anime della Corte debbono tornare a camminare insieme, e questa è forse la sfida più importante che attende la Cassazione nel prossimo futuro” (pag. 291).
4. I nuovi compiti della Corte di Cassazione.
V’è, poi, il tema dei compiti affidati alla Corte di Cassazione, e su ciò a me pare sia vero che, negli anni, essi siano sensibilmente aumentati.
Scrive Bruno Capponi che: “Ogni volta che il legislatore si occupa della Cassazione, finisce per attribuirle compiti nuovi” (pag. 28).
Forse non è inutile ricordarli.
4.1. Alcuni sono quelli assegnati dall’ultima riforma del processo civile.
Bruno Capponi scrive: “nel caso ultimo del d.lgs. n. 149/2022, oltre a quelli assegnati al giudice monocratico (si fa riferimento all’art. 380 bis c.p.c. di seguito trattato), nuovi compiti derivano dal rinvio pregiudiziale interpretativo (art. 363-bis c.p.c.) e dalla speciale ipotesi di revocazione introdotta all’art. 362 c.p.c., al quale è stato aggiunto un ulteriore comma in forza del quale le decisioni dei giudici ordinari passate in giudicato possono essere impugnate per revocazione, ai sensi del nuovo art. 391-quater c.p.c., quando il loro contenuto è stato dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contrario alla Convenzione ovvero a uno dei suoi Protocolli. Si tratta, a tutti gli effetti, di un’impugnazione di merito, che tuttavia il legislatore – confermando il continuo passaggio della Cassazione verso orizzonti nuovi – ha inteso attribuire al giudice di legittimità”. (pag. 28).
Dunque, nuovi compiti sono disciplinati degli artt. 362, 363 bis 380 bis e 391 quater c.p.c., e su questi, in questa sede, non aggiungerei altro, vista l’ampia letteratura della quale godono.
Sul rinvio pregiudiziale Bruno Capponi ha specificamente scritto il saggio che si trova nel volume a pagg. 111 e ss., e mi limito a tale richiamo.
4.2. Tra i nuovi compiti, inoltre, può essere annoverato anche quello disciplinato dall’art. 363 c.p.c., al quale, di nuovo, Bruno Capponi dedica un saggio (pag. 47 e ss.).
Si tratta, come è noto, della possibilità riconosciuta alla Corte di Cassazione di emanare un principio di diritto anche in assenza di domande di parte per esigenze di “interesse della legge”.
Questa possibilità, che in una certa misura allontana la Cassazione dalle parti e la trasforma, così come indica Bruno Capponi, in un giudice delle questioni non litigiose, è sempre più utilizzata dalla Corte di Cassazione, e v’è stato un caso eclatante con la recente sentenza Cass. sez. un. 6 aprile 2023 n. 9479, pronunciata infatti in un processo rinunciato (v. pag. 293 e ss.).
L’istituto può dirsi nuovo perché l’art. 363 c.p.c. subì una importante novellazione nel 2006, che ne estese l’ambito di applicazione: la norma, da quel momento, è rubricata “principio di diritto nell’interesse della legge” e non più “ricorso nell’interesse della legge”; il PG, nell’interesse della legge, può impugnare anche i provvedimenti non ricorribili in cassazione; e la Corte può pronunciare il principio di diritto anche d’ufficio quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile.
L’istituto era già considerato da Mortara al suo sorgere di “poca simpatia” e di “ripugnanza logica” (v. Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, Milano, 1923, 21-2); in origine infatti il ricorso nell’interesse della legge aveva finalità politiche, poiché le procure, fino alla nostra Repubblica, dipendevano dall’esecutivo.
Con detto istituto il potere politico, così, del quale il procuratore dipendeva, aveva la possibilità di chiedere l’annullamento delle sentenze non gradite anche se non impugnate dalle parti.
Oggi, al contrario, con l’indipendenza degli uffici delle procure dal governo, l’istituto non sembra più rispondere ad alcuna logica, se si considera che il PM è già presente nel processo ai sensi degli artt. 69 e 70 c.p.c. e può impugnare la sentenza.
La riforma del 2006, invece di sopprimere un istituto storicamente superato, decideva di rafforzarlo, così attribuendo alla Cassazione una funzione nuova che fino a quel momento non aveva avuto, e che Bruno Capponi indica asserendo che la Cassazione ha oggi perso la sua funzione di garanzia per le parti e di controllo di legalità delle decisioni dei giudici di merito per acquisire una funzione di mera interprete del diritto, anche d’ufficio, e fuori da una dimensione più strettamente contenziosa.
Scrive inoltre Bruno Capponi: “Non più decisione della controversia, bensì affermazione di un’astratta regola rivolta alla generalità degli interpreti” (pag. 59); dal che: “Va ripensata la disciplina complessiva della pronuncia nell’interesse della legge………..Un dialogo esclusivo tra Procura e Corte non appare infatti adeguato a istruire una questione……..È bene riaffermare la regola di base, secondo la quale la Cassazione enuncia principi di diritto quando decide i ricorsi, quando cioè afferma la regola del caso e, incidentalmente e conseguentemente, quella a valere per i casi futuri” (pag. 70/71).
4.3. Da segnalare, infine, il nuovo compito che si è assegnato l’Ufficio del Massimario, il quale, oramai da anni, provvede con periodiche relazioni ad esporre ed interpretare le novità legislative.
Su ciò scrive Bruno Capponi: “Del resto, non può non notarsi – ed è stato infatti notato – che le relazioni dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo, liberamente consultabili sul sito della Corte, sono sempre più orientate verso l’analisi dei nuovi testi legislativi (numerose quelle dedicate ai vari aspetti del d.lgs. n. 149/2022), piuttosto che verso la giurisprudenza della stessa Corte, come in verità dovrebbe essere secondo le istruzioni impartite dal primo presidente, che parlano di «analisi sistematica della giurisprudenza di legittimità, condotta allo scopo di creare un’utile e diffusa informazione (interna ed esterna alla Corte di Cassazione) necessaria per il miglior esercizio della funzione nomofilattica della stessa Corte» Con ciò, anche l’ufficio del Massimario e del Ruolo tende a proporsi come primo interprete delle nuove norme, a fini non soltanto interni alla Corte, quasi integrando, da corpo burocratico, quell’attività interpretativa dei testi legislativi mediante la quale la Corte vorrebbe esercitare la “nomofilachia” svincolandosi dalle sue funzioni di giudice”. (pag. 290).
4.4. Che dire di tutto questo?
Mi limito, ancora, a riportare il pensiero di Bruno Capponi: “La Corte, dal canto suo, sembra alla costante ricerca di compiti nuovi, che esaltino le sue funzioni più nobili”. (pag. 280); mentre dovrebbe essere: “di elementare evidenza che una Corte Suprema schiacciata dalla mole dei ricorsi dovrebbe pensare a limitare e selezionare i propri interventi, non certo ad acquisire compiti nuovi che si affastellano su quelli già esistenti” (pag. 280).
Si tratta di temi sui quali una riflessione è forse necessaria.
5. Il procedimento ex art. 380 bis c.p.c. e la logica del respingimento.
Quanto al procedimento, esso è oggi in gran parte regolato dal nuovo art. 380 bis c.p.c.
Si tratta di una novità dirompente, poiché, nella sostanza, la decisione in Cassazione, dopo esser passata dalla sentenza all’ordinanza, oggi passa dall’ordinanza alla proposta del singolo consigliere.
Come è noto il nuovo testo prevede che dopo la comunicazione di detta proposta, la parte debba presentare una precisa istanza per ottenere il provvedimento decisionale collegiale, e l’istanza deve essere sottoscritta dal difensore munito di nuova procura; e se poi la decisione è conforme al parere, la parte sarà automaticamente (o almeno così sembra) condannata ad ogni sanzione di cui al terzo e quarto comma dell’art. 96 c.p.c., visto che la Corte, se: “definisce il giudizio in conformità alla proposta applica il terzo e il quarto comma dell’art. 96 c.p.c.”.
Bruno Capponi evidenzia come incongruente questa nuova procedura, e rileva come: “Il provvedimento del giudice singolo è dunque una decisione vera e propria, una anticipazione di giudizio in forma sommaria (perfettamente idonea a definirlo) che dovrebbe produrre una vera e propria incompatibilità del consigliere proponente a far parte del collegio giudicante, qualora la parte, nonostante tutto, intenda richiedere una decisione nel merito del ricorso. E invece, par di capire che quello stesso consigliere che ha tentato di sbarrare la strada al ricorrente, facilmente farà da relatore nella camera di consiglio” (pag. 270).
Effettivamente, credo anch’io che il nuovo art. 380 bis c.p.c. possa dare qualche problema di conformità ai nostri principi costituzionali e comunitari, e a tal fine desidero portare l’attenzione sui suoi stessi precedenti storici.
5.1. C’era una volta, come si diceva nelle favole, l’opinamento ottocentesco.
Nicola Picardi in uno scritto relativo al periodo della prima formulazione del art. 380 bis c.p.c. (Picardi, L’ordinanza opinata nel rito camerale in Cassazione, Giusto proc. civ., 2008, 321 e ss.), osservava non a caso che: “A ben vedere non si tratta di una novità (faceva riferimento al nuovo art. 380 bis c.p.c.), ma di un meccanismo processuale che ha una lunga storia ed ha avuto applicazione significative in altre epoche”.
L’opinamento, infatti, era un antico istituto che autorizzava il giudice ad anticipare ai difensori la propria decisione (o ad esternare preventivamente i dubbi che su essa egli aveva), e ciò al fine di raccogliere la loro opinione, rinviando il deposito del provvedimento definitivo a momento successivo.
L’opinamento, in questo modo, garantiva una decisione più retta, poiché estendeva il contraddittorio, che normalmente si esercita tra le parti, anche tra le parti e il giudice; e questa estensione del contraddittorio, o se si vuole questa anticipazione del giudizio da parte del giudice, era finalizzata a contenere possibili errori della decisione, con un meccanismo analogo a quello che oggi abbiamo solo per il deposito della CTU, visto che il CTU può depositare la sua relazione finale solo dopo che ne abbia inviato alle parti una bozza, e solo dopo che abbia recepito da esse le relative osservazioni (art. 195 c.p.c.).
L’opinamento era disciplinato in alcuni nostri Stati preunitari, e Nicola Picardi ricordava le regole dello Stato pontificio, e io quelle del Granducato di Toscana (Scarselli, La Corte di Cassazione a Firenze, 1838 – 1923, Giusto proc. civ., 2012, 623 e ss.).
Scriveva Nicola Picardi che: “nella procedura rotale, prima di emanare la sentenza irretrattabile, veniva comunicata alle parti la decisio, cioè sostanzialmente un progetto di motivazione, perché queste potessero controdedurre e la Rota potesse ritornare eventualmente sulle proprie decisioni: Nella prassi forense tale istituto veniva designato opinamento o sentenza opinata”; e sottolineava ancora Nicola Picardi: “l’opinamento è appunto risposta ad un dubbio; all’atto di volontà (sentenza) si arriva più tardi, quando risulti che le parti non chinano il capo al ragionamento del giudice”.
Io invece ricordavo l’art. 779 del Motu proprio del 2 agosto 1838 di Leopoldo II di Toscana, relativo al Regolamento di procedura civile, il quale prevedeva che il relatore potesse esternare alle parti i “dubbi” emersi nel corso della Camera di consiglio, invitando le parti a fornire per iscritto “schiarimenti” nel termine di otto giorni; ricevuta la comunicazione dei dubbi, le parti potevano anche produrre nuovi documenti, sempre a chiarimento dei punti controversi, e solo al termine di questi scambi di “opinioni” tra parti e giudici veniva pronunciata la sentenza.
5.2. Orbene, come detto, l’art. 380 bis c.p.c. nel suo testo originario, ricordava detta antica disciplina, prevedendo infatti che il relatore depositasse “in cancelleria una relazione con la coincisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e diritto in base ai quali ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio”; la relazione veniva notificata alle parti e queste avevano la possibilità di depositare memorie “non oltre cinque giorni prima” e addirittura potevano “chiedere di essere sentiti”.
Poi, però, la norma veniva considerata da alcuni troppo garantista, e quindi veniva modificata.
A seguito di una prima modificazione il relatore depositava in cancelleria solo “una coincisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia”.
Poi l’art. 380 bis c.p.c. si modificava ancora: le parti ricevevano a questo punto semplicemente una comunicazione della fissazione della camera di consiglio e la memoria da depositare, sempre cinque giorni prima, non poteva più avere una funzione di effettiva replica alla posizione del relatore; inoltre le parti perdevano il diritto di “chiedere di essere sentiti”.
E si arrivava così al testo odierno ove un consigliere formula “una sintetica proposta di definizione del giudizio” alla quale non segue una decisione, è essa stessa la decisione, se la parte non ha il coraggio di avventurarsi nei rischi dell’art. 96 c.p.c.
Il mutamento è evidente: nell’opinamento il giudice era interessato alla posizione dei difensori, oggi questo interesse è scomparso; nell’opinamento la posizione del difensore era considerata un contributo ai fini della decisione, oggi la posizione del difensore è considerata un atto di abuso del processo; nell’opinamento la prima decisione in forma breve era solo un mezzo per farne una migliore in via definitiva, oggi è essa stessa la decisione finale, visto che la legge non prevede l’incompatibilità tra il giudice del parere e quello della decisione, e visto che la conformità dell’uno con l’altra fa scattare automaticamente le sanzioni di cui all’art. 96 c.p.c.
5.3. Io credo, allora, conformemente a quanto Bruno Capponi ha scritto, che l’art. 380 bis c.p.c. necessiti di una lettura costituzionalmente orientata, la quale non possa non rispettare (almeno) questi criteri:
a) si tratta di evitare che il consigliere che ha depositato la proposta possa comporre il collegio decidente nel caso di istanza di cui al 2° comma dell’art. 380 bis c.p.c.;
b) e si tratta di immaginare che la decisione conforme alla proposta non comporti automaticamente l’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 96 c.p.c., come una interpretazione meramente letterale della norma indurrebbe a fare “applica il terzo e il quarto comma dell’art. 96 c.p.c.”, ma la comporti nei soli casi nei quali, effettivamente, vi sia stato un atteggiamento difensivo da considerare abusivo.
Una esegesi costituzionalmente orientata deve infatti esclude che la richiesta di una decisione collegiale, a fronte di un parere reso da un giudice singolo, possa di per sé costituire abuso del processo; e parimenti deve escludersi che la decisione conforme al parere, di per sé, sia sempre la dimostrazione dell’esistenza di tale abuso.
La richiesta della decisione può dipendere dalle ragioni più varie: il parere del consigliere potrebbe aver trascurato fatti rilevanti, oppure orientamenti giurisprudenziali contrari esistenti, oppure contenere una motivazione del tutto insufficiente e/o incoerente, e tutto questo senza che ciò debba necessariamente comportare una differente decisione.
Quindi credo che sia necessario che la Corte di Cassazione, a fronte di ogni richiesta di decisione ai sensi del 2° comma dell’art. 380 bis c.p.c., non si limiti alla mera constatazione della conformità della decisione alla proposta, ma valuti in concreto se detta richiesta abbia i caratteri dell’abuso del processo e non sia invece giustificata da effettive esigenze di giustizia o da obiettive carenze della proposta stessa, e dia corso alle misure sanzionatorie di cui al 3° comma dell’art. 380 bis c.p.c. nelle sole ipotesi in cui la richiesta di decisione sia del tutto ingiustificata, ricordando sempre che una decisione completa e collegiale del ricorso presentato è un diritto costituzionalmente garantito ai cittadini ai sensi degli artt. 24 e 111 Cost.
5.4. Ovviamente a questo tema è infine strettamente collegato quello che Bruno Capponi definisce logica del respingimento.
Credo che niente di meglio vi sia al riguardo se non richiamare i dati statistici.
Scrive Bruno Capponi: “Secondo l’Annuario statistico 2022 (periodo 1° gennaio 2022/31 dicembre 2022 e serie storiche dal 2012 al 2022), pubblicato dall’Ufficio di statistica presso la Corte di cassazione nel gennaio 2023, le declaratorie di inammissibilità, dal 2012 al 2022, sono cresciute più di tre volte. Se nel 2012 venivano definiti con declaratoria di inammissibilità l’11,9% dei ricorsi, nel 2022 tale esito ha riguardato il 27,3% dei ricorsi. E giacché le statistiche riguardano la definizione del giudizio, e non anche le inammissibilità di singoli motivi che non precludono l’esame nel merito di altri motivi ammissibili, può affermarsi con sicurezza che l’esito dell’inammissibilità riguarda certamente più di un terzo dei motivi di ricorso per cassazione proposti, e quasi un terzo dei ricorsi. Si tratta di un numero importante, che rende chiara la variazione del rapporto tra regola ed eccezione: se, fino a poco prima del 2012, l’inammissibilità era un esito eccezionale, attualmente è un esito che si attinge almeno nel 30% dei casi. È un dato che fa riflettere di per sé, e che vieppiù colpisce se posto in relazione col potere che alla Corte compete a norma del comma 3 dell’art. 363 c.p.c.” (pag. 284).
Questa logica del respingimento non può giustificarsi sul presupposto del carico di lavoro della Corte oppure su quello dell’ignoranza degli avvocati.
Vi sono infatti ricorsi che vanno senz’altro respinti, ma il respingimento non può essere considerato un obiettivo.
Bruno Capponi, osserva al riguardo che “Ciò ha comportato l’emersione, nel tempo, di una esigenza organizzativa che ben presto si è trasformata in un ostacolo frapposto tra il cittadino e la tutela che lo Stato deve garantirgli attraverso il processo civile: la degiurisdizionalizzazione (pag. 13), e ciò, in sostanza, ha fatto sì che: “nelle impugnazioni prevale, quindi, la logica del respingimento, che abbiamo già visto propria della degiurisdizionalizzazione. È una logica perversa, che classifica come normale la possibilità che un’impugnazione non sia decisa nel merito, ma dichiarata inammissibile per difetto di prescrizioni formali” (pag. 23).
Credo che le perplessità sul punto di Bruno Capponi siano condivisibili, e non a caso questa sua posizione, sia consentito, ricorda un po’ un mio scritto di anni fa, con il quale, tra il serio e il faceto, indicavo L’Arte di respingere le domande (in Questionegiustizia), ovvero le tecniche con le quali questa logica del respingimento si concretizza, avvantaggiando il resistente sul ricorrente, e quindi infrangendo quello che dovrebbe essere il trattamento paritario delle parti nel processo.
Ancora Bruno Capponi: “Altro è il formalismo, insomma, altra la concezione del processo come trappola o labirinto: un campo minato in cui non è dato sapere con quale salvifico percorso ti salvi la pelle” (pag. 87).
Neppure il nuovo Vangelo della sinteticità e specificità degli atti sembra al riguardo salvifica.
Ricordo un ultimo passo di Bruno Capponi: “La lettera del Primo Presidente sembra dare per scontato che gli atti di parte siano lunghi e le sentenze brevi. Nonostante l’art. 132 c.p.c., opportunamente richiamato dal Primo Presidente, non sempre così è. Si tratta di argomento noto…….capita anche di leggere monografie di 600 pagine che potrebbero essere sintetizzate egregiamente in un quarto della loro estensione”. (pag. 100/102).