Il livello culturale dei giuristi che svolgono attività giudiziaria e forense influenza direttamente la qualità ed efficienza del servizio giustizia. Il tema della formazione di magistrati e avvocati è quindi un tema di interesse pubblico, non sempre adeguatamente considerato dal legislatore nella ricerca di soluzioni alle problematiche del settore. Si assiste peraltro oggi a una divaricazione tra i due corpi della magistratura e dell’avvocatura che, sia essa reale o percepita, genera disfunzioni pratiche ed inquina il dibattito. La necessità di una cultura comune è da tempo e da tutti invocata, ma la costruzione di essa necessita di una formazione comune che mostra ancora profili di inadeguatezza. Un contributo al dibattito può essere dato portando l’attenzione alla fase di selezione di magistrati e avvocati, sul presupposto che percorsi formativi comuni possono essere efficacemente strutturati solo ove finalizzati a procedimenti selettivi omogenei.
Sommario: 1. Complessità della moderna scienza giuridica e formazione del giurista moderno - 2. La formazione del giurista forense come questione di interesse pubblico - 3. Cultura e formazione comune di magistrati e avvocati - 4. Formazione e selezione, un’endiadi - 5. Genesi di una divergenza e prospettive di convergenza.
1. Complessità della moderna scienza giuridica e formazione del giurista moderno
Il diritto, scienza sociale, evolve con la società, in ragione di spinte endogene ed esogene i cui effetti si combinano. Si tratta di fenomeni dalla complessa e variegata origine e dalle molteplici implicazioni cui ci si limita qui a fare cenno al solo fine di collocare concettualmente alcune considerazioni. Sotto un primo punto di vista, da decenni si assiste ad un’evoluzione del paradigma di legalità, attraverso lo stratificarsi verticale degli ordinamenti e conseguentemente delle fonti di diversa provenienza e rango; si passa così da un concetto di legalità formale ad uno di legalità sostanziale, in nome del quale la vincolatività del diritto positivo recede rispetto alla forza precettiva dei principi. Di tali principi si arricchiscono e moltiplicano le codificazioni, che contribuiscono dall’alto all’elaborazione teorica delle nuove generazioni di diritti che si vanno affermando, tutti potenzialmente in conflitto gli uni con gli altri se non altro per la endemica scarsità delle risorse destinate ad assicurarne sotto qualsiasi forma – anche quella minimale di azionabilità in giudizio – la tutela. A ciò si accompagna, in senso inverso, lo stratificarsi della normazione primaria e secondaria e la natura tecnica della disciplina settoriale, che risponde ad una società sempre più complessa in quanto a strutture sociali ed economiche, a possibilità di interazione ed a strumenti di comunicazione. La complessità tecnica dell’ordinamento (o degli ordinamenti) è poi ulteriormente enfatizzata dalla possibilità di accesso immediato, ma frammentato e parziale, alla normativa assicurato da sempre più evoluti strumenti informatici. Sempre più centrale è allora, per il giurista, la capacità di analisi e di sistematizzazione, anche oltre l’ambito strettamente giuridico, come impone l’interazione con altre sfere, precipuamente quella economica, ma anche quella geopolitica.
Tale evolversi dello scenario teorico ed operativo di riferimento ha quindi implicazioni inevitabili in materia di formazione giuridica, che così potrebbero riassumersi: l’ampliarsi e lo sfaccettarsi della regola a favore del principio porta con sé una maggior centralità – anche in termini politici – dell’attività interpretativa; l’ipertrofia normativa rende più difficoltosa l’attività di selezione dei fatti giuridicamente rilevanti. Il giurista è così chiamato a un duplice esercizio. Da un lato deve essere portatore di una cultura di ampio respiro e di strumenti intellettuali all’altezza della delicata ed accurata opera di bilanciamento che le nuove forme di interpretazione gli richiedono; dall’altro deve essere specialista, capace di destreggiarsi nell’ipertrofia normativa, padrone di abilità e tecniche che glie lo consentano.
La pur acquisita consapevolezza che scienza e tecnica sono componenti coessenziali all’attività giuridica[1], tuttavia, difficilmente trova adeguato riscontro nella proposta formativa universitaria e post universitaria, che sconta mancanze in un senso e nell’altro e comunque fatica a concentrarsi efficacemente sui rapporti tra le due componenti, ad operare una sintesi che pacifichi questa doppia anima, nella tendenza ad ispirarsi ad altri sistemi formativi enfatizzando alternativamente la componente culturale o quella professionalizzante, pur sempre avvertendo la necessaria, costante tensione verso il polo opposto e scontando quindi una qualche forma di incompiutezza[2].
2. La formazione del giurista forense come questione di interesse pubblico
Il tema della formazione giuridica nei termini così brevemente riassunti è stato variamente approcciato, specialmente in prospettiva di analisi delle riforme degli studi universitari in materia, al fine di un inquadramento in termini filosofici e politici del ruolo del giurista[3], del suo ruolo cioè di interprete delle regole che governano le interazioni sociali, dell’inconsapevole riflesso che la cultura giuridica di chi la detiene può avere sui rapporti di potere interni alla società stessa[4]. Nell’insieme, tali studi hanno ampiamente messo in guardia rispetto ai pericoli potenziali di uno scivolamento verso un sapere sempre più tecnico – in quanto tale inaccessibile per i soggetti le cui vite pure ne risultano dominate – e sempre meno attento ai profili filosofici, storici e sociologici che governano le interazioni tra quei soggetti.
Forse marginale rispetto all’ampiezza di tali riflessioni, ma comunque naturale corollario di esse, resta il tema della preparazione del giurista come strettamente connessa alla pubblica funzione cui egli è chiamato a partecipare, come tema cioè inerente il buon funzionamento del settore giustizia, l’efficace svolgersi dell’attività giudiziaria.
Da tale punto di vista, viene in rilievo specificamente la formazione del giurista operante in ambito giudiziario e forense, la cui eventuale inadeguatezza genera disfunzioni concrete, quotidianamente sperimentabili, che in ciò hanno la propria causa e che è infruttuoso tentare di correggere intervenendo su altri fattori. Al di là di più ampie considerazioni socio-culturali, è allora opportuno interrogarsi su un modello di formazione che metta il giurista in condizioni di operare agevolmente nell’attuale scenario ordinamentale, e contestualmente, conseguentemente, metta il sistema giustizia in condizioni di funzionare.
Sia in ambito universitario che in ambito post universitario (e, verrebbe da dire, anche nell’ambito della formazione permanente), può constatarsi una generalizzata scarsa attenzione culturale per il ruolo del formatore[5], nella migliore delle ipotesi selezionato in quanto esperto dei contenuti da veicolare e non invece perché consapevole ed attento alla funzione didattica in sé. Da ciò forse si ingenera l’insufficienza dell’offerta pubblica di preparazione alle professioni giudiziarie e forensi, surclassata da proposte private che, esse si, per essere accattivanti devono essere efficaci, e dove quindi la metodologia della formazione è necessariamente al centro della proposta. Il formatore pubblico dovrebbe porsi un analogo obiettivo di efficacia, interrogarsi primariamente sul perché i giuristi forensi debbano essere formati, e solo successivamente, conseguentemente, incentrarsi sulle metodologie formative più idonee. In altri termini, inquadrare il tema della formazione dei professionisti forensi come un tema inerente il buon funzionamento della giustizia (intesa come funzione pubblica e pubblico servizio) è punto di partenza per accendere sul tema una luce critica concreta, da porre all’attenzione degli attori istituzionali, e non soltanto della comunità giuridica in seno alla quale il dibattito si è principalmente sviluppato, restando in tal modo autoreferenziale.
Le tematiche e problematiche cui si è fatto cenno, nell’impatto che hanno sul funzionamento del sistema giudiziario, sono appunto comuni ai giuristi che quotidianamente vi partecipano svolgendo attività processuale, ossia magistrati e avvocati. La riflessione sulle sfide culturali che si pongono per tali soggetti non può quindi che essere compiuta in maniera unitaria. E invece il dibattito pubblico sul buon funzionamento della giustizia è ampiamente incentrato a migliorare le performance (brutta parola quanto mai calzante) della magistratura, attraverso proposte variegate, dalle accelerazioni che ci si illude di poter imporre con riforme del rito all’ausilio che sconsolatamente si richiede a collaboratori temporanei non selezionati né formati. Manca tuttavia una analoga attenzione alle performance dell’avvocatura, come se la qualità del servizio di difesa offerto ai cittadini, pure costituzionalizzato, non fosse questione di interesse pubblico per il solo fatto di essere affidato ad un corpo di professionisti privati. Identiche perplessità desta l’attenzione mediatica riservata alle valutazioni interne dei magistrati, cui non corrisponde un’analoga preoccupazione per la valutazione degli avvocati.
La mancanza di una adeguata selezione degli avvocati ha conseguenze pervasive in termini di deontologia e professionalità, evidenziate anche dall’interno[6] e comunque sperimentabili nel quotidiano delle aule di giustizia, con ricadute più evidenti in materia civile, dove una parte dell’avvocatura ha dismesso la fondamentale funzione di filtro, la capacità di selezionare le istanze fondate da quelle che palesemente non lo sono, la capacità di orientare le controversie bagatellari o seriali verso forme alternative di risoluzione, alimentando l’ipertrofia del contenzioso più di qualsiasi altro fattore. Al tempo stesso, la diffusa scarsa attenzione per la qualità della tecnica redazionale, tale da costringere il legislatore ad inserire richiami in tal senso nel codice di procedura[7], rischia di lasciare solo il giudicante nell’attività argomentativa aggravandone sensibilmente il lavoro. Il tema della formazione si appalesa allora, anche da tale punto di vista, come centrale.
3. Cultura e formazione comune di magistrati e avvocati
Nello svolgimento del processo il ruolo dell’avvocatura è in buona misura preminente rispetto a quello della magistratura. Ciò è evidentissimo in materia civile, dove il principio dispositivo ed il regime delle preclusioni rimettono alla difesa tecnica l’impostazione processuale della causa in termini sostanzialmente vincolanti per il giudicante.
E’ quindi fondamentale che l’avvocato, ancor più del magistrato, sia in condizioni di cogliere pienamente la complessità e delicatezza della propria funzione, ed abbia le risorse culturali e tecniche, ma anche umane, per svolgerla dignitosamente. Se unitaria è – deve essere – l’impronta culturale, unitaria deve – dovrebbe idealmente essere – la formazione. L’esigenza che si impone, in termini di interesse pubblico prima ancora che in termini di evoluzione culturale, è quindi non soltanto quella di una formazione di livello superiore e di contenuto complesso e composito per magistrati e avvocati, ma anche quella di una formazione comune, o quantomeno omogenea, di queste due categorie.
Il legislatore ha mostrato consapevolezza di questa esigenza laddove, nel concepire il concorso in magistratura come concorso di secondo livello a metà degli anni 2000[8] e nel prevedere tra i titoli di accesso al concorso quello di avvocato, ha contestualmente riconosciuto un ruolo centrale alle SSPL istituite con la legge 127/1997[9]. Sebbene la normativa, per come originariamente formulata, sembrava piuttosto volta a garantire un canale privilegiato di accesso ad una data categoria (e in quanto tale è stata censurata dalla Corte Costituzionale), non era sbagliata (e infatti fu avallata dalla Corte) l’idea che una certa esperienza nell’esercizio della professione forense potesse aver contribuito a sviluppare delle capacità funzionali all’esercizio dell’attività giurisdizionale[10]. Del resto, da entrambi i lati, si tratta di inquadrare la fattispecie concreta nelle astratte categorie giuridiche, individuando gli elementi costitutivi delle pretese, selezionando conseguentemente i fatti rilevanti, e poi argomentando.
L’idea di una comunicabilità tra i due settori poteva quindi significare riconoscimento della comunanza di implicazioni nello svolgimento dell’una e dell’altra, riconoscimento della contitolarità in capo alle due categorie della funzione di assicurare la tutela in giudizio dei diritti. Presupponeva, insomma, una cultura comune. E tale cultura comune era appunto resa possibile dalle scuole superiori, astrattamente idonee allo scopo, se si considera l’iniziale previsione di un percorso giudiziario-forense come specifico e distinto rispetto a quello notarile[11], la multidisciplinarietà del consiglio direttivo[12], l’obiettivo formativo volto allo sviluppo non solo di competenze ma anche di attitudini[13]. E infatti l’istituzione delle scuole fu inizialmente salutata con grande favore, anche e soprattutto in quanto queste erano pensate come strumenti di accrescimento culturale e solo indirettamente come strumento specificamente volto al superamento del concorso[14].
4. Formazione e selezione, un’endiadi
Il fallimento delle SSPL, il loro superamento di fatto attraverso il moltiplicarsi dei corsi privati per la preparazione del concorso in magistratura da un lato, delle scuole forensi[15] dall’altro, è invece purtroppo dovuto esattamente a ciò, ossia al fatto che le scuole superiori sono state impostate in continuità con la formazione universitaria, scontandone tutte le contraddizioni e insufficienze, dovute principalmente alla lentezza con cui tale modello faticosamente si rinnova e si adegua[16], e non sembrano invece essere strutturate in modo da preparare adeguatamente al superamento della prova concorsuale e dell’esame di stato. Né potrebbero proficuamente esserlo, ad oggi, a fronte di forme di selezione macroscopicamente diverse, e in ciò potrebbe forse individuarsi il germe di tale fallimento: se la matrice culturale e attitudinale della professione di avvocato e di quella di magistrato deve essere la stessa, non soltanto serve una formazione comune bensì, ancora di più, serve una selezione ispirata a principi comuni.
Unificare la formazione senza uniformare la selezione costituisce infatti una trappola concettuale; significa pensare i due momenti come autonomi l’uno dall’altro, quasi che per superare la prova selettiva servano attitudini e conoscenze diverse rispetto a quelle che poi serviranno per svolgere la funzione. Se ciò si verifica, se la selezione risponde a logiche sue proprie avulse da quelle che hanno ispirato la formazione, vuol dire che è la selezione a dover essere rivista, non essendo idonea a scegliere correttamente i candidati in base alle specifiche capacità richieste. Specularmente, a fronte di una selezione seria, l’insufficienza della formazione al suo superamento vuol dire che ad essere ripensata deve essere la formazione stessa. In ogni caso è parziale qualsiasi discorso sull’una che non consideri anche l’altra, posto peraltro che la scelta di un dato modello di selezione è elemento capace di per sé di provocare una evoluzione dell’offerta culturale sottesa, generandone la domanda.
Del resto, pensare ad una selezione comune o quantomeno omogenea di magistrati e avvocati non significa disconoscere le peculiarità delle due professioni in quanto non osta, e anzi suggerisce, l’ipotesi percorsi di perfezionamento e completamento della formazione differenziati che dovrebbero tuttavia essere, idealmente, successivi rispetto alla selezione stessa. Si pensi alla previsione normativa del periodo di tirocinio successivo al superamento del concorso in magistratura[17], rispetto al quale al momento dell’introduzione sono state sollevate perplessità, posto che che la reintroduzione di un momento di formazione successivo alla selezione palesava sfiducia nella capacità dei titoli di accesso di garantire idoneità allo svolgimento delle funzioni[18]. Questa previsione invece, a ben vedere, è pienamente coerente con la complessità della formazione e con la specificità delle funzioni giurisdizionali, sicché pare del tutto logico che i magistrati siano dapprima selezionati in ragione di requisiti culturali ed attitudinali nonché in ragione di capacità espositive ed argomentative, e solo successivamente siano formati allo svolgimento del mestiere, attraverso un percorso che è ancora, deve essere, di ulteriore eventuale selezione laddove emergano, in concreto, profili di inidoneità sfuggiti alla procedura concorsuale.
Identico discorso potrebbe e dovrebbe farsi per l’avvocatura. Si apprezza invece fortissima l’inversione logica implicita nell’attuale modello di selezione e formazione della classe forense, in cui gli aspiranti avvocati – tutti, senza alcun filtro – sono dapprima formati al concreto svolgimento del mestiere attraverso la pratica forense, e solo successivamente selezionati, ossia valutati in termini di idoneità culturale ed attitudinale nonché di concrete capacità redazionali ed argomentative.
5. Genesi di una divergenza e prospettive di convergenza
Una parte del mondo forense da sempre resiste a prospettive di riforma dell’esame di stato in senso di maggiore selettività[19], che peraltro gioverebbero in primis alla categoria, costretta ad operare in condizioni che sono state definite in sede parlamentare di “concorrenza sleale al ribasso”[20], determinatesi anche in conseguenza dell’omologazione della professione con la soppressione della figura del procuratore imposta per uniformarsi al modello europeo ed al principio di libera circolazione. Se quella distinzione tra un’avvocatura alta ed una bassa, determinata esclusivamente da ragioni anagrafiche, era certamente un’ipocrisia da svelare[21], non meno ipocrita è un modello di professione formalmente regolamentata attraverso la necessaria iscrizione ad un albo ma, di fatto, talmente aperta da determinare un’offerta di servizi legali sovrabbondante, il cui livello non può conseguentemente essere omogeneo e tantomeno elevato. Lo stesso Guido Alpa, presidente emerito del Cnf, in occasione di un convegno sul tema tenutosi alla Sapienza di Roma nel luglio 2022 ha affermato “261mila avvocati sono un problema di mercato, di comportamenti, a proposito di deontologia, e di collocazione nell’ambito dell’attività lavorativa”[22].
Alla base di tale problematica vi sono fattori complessi che nell’economia di questo saggio non possono essere adeguatamente approfonditi, come l’esistenza di interessi di ordine politico e di ordine previdenziale a mantenere un’ampia base demografica. Ad ogni modo, difettano attualmente i presupposti per una seria riflessione su una cultura comune dei giuristi forensi, le cui strade sono rese divergenti da due modelli di selezione lontani tra loro al punto da stentare talvolta le due categorie a riconoscersi come un’unica comunità intellettuale titolare della delicata funzione di attuazione giudiziale dei diritti, il che alimenta tensioni[23] capaci di ingenerare conseguenze concrete. Il dibattito sulla separazione delle carriere, ad esempio, almeno in parte può spiegarsi in termini di antagonismo, di rapporti vissuti come dispari, di reciproca inferiorità o superiorità, comunque di alterità culturale tra le due categorie. E, del resto, da un lato c’è un corpo selezionato in modo stringente (sebbene in forme che andrebbero sotto vari profili ripensate), costantemente valutato (sebbene con modalità ed esiti opinabili) e tendenzialmente individuato, nel bene e nel male, come attore unico dell’amministrazione della giustizia, da cui dipende l’equilibrio del settore e cui, più spesso, se ne imputano i disequilibri; dall’altro c’è un corpo estremamente numeroso, non soggetto a valutazioni se non a quelle fallaci del mercato, che ha al proprio interno una componente destinata a rimanere attrice secondaria della giustizia, collocata dal lato di chi ne subisce le disfunzioni anziché dal lato – scomodo – che le competerebbe, quello di chi contribuisce a crearle e ben potrebbe, quindi, contribuire a risolverle. Se così è, evidente è il rischio di elitarismo da parte della magistratura, il pericolo che taluni suoi esponenti possano sentirsi, per il solo fatto di aver superato un concorso, investiti di un ruolo sovraordinato – anziché semplicemente complementare, altro – rispetto a quello dell’avvocatura, la cui reazione è spesso di difesa corporativa[24] a dispetto di quella componente che per prima avverte e subisce le conseguenze di questa divaricazione[25].
In questo scenario, qualsiasi forma di comunicabilità diretta tra i due settori è difficilmente immaginabile[26], posto che l’idea dell’avvocato come soggetto già formato che deve solo impratichirsi su una nuova funzione, alla base di tante proposte di scorciatoia da riservarsi a detta categoria rispetto alla serietà della selezione concorsuale[27], è non soltanto fallace ma potenzialmente pericolosa, rischiando di trascinare a ribasso la selezione dei magistrati.
Le modalità di selezione ad entrambe le professioni sono state e sono anche attualmente oggetto di riflessioni nonché interessate da riforme[28]. Tali riflessioni e tali proposte normative non eludono la considerazione che una forma di preselezione sia funzionale alla serietà della procedura selettiva stessa, osteggiata da numeri eccessivi[29], né prescindono da considerazioni di ordine democratico quanto ad ampiezza ed eterogeneità della base di partecipazione[30]. Scontano tuttavia una grave mancanza, in quanto non sono contestuali né coordinate, e neppure sembrano tenere conto le une delle altre. Una riflessione sulla formazione intellettuale comune dei giuristi forensi chiama invece direttamente in causa le istituzioni pubbliche, ma anche quelle private, di corpo, e più in generale tutte le voci anche scientifiche e mediatiche del dibattito sulla giustizia, auspicando l’assunzione di una visione meno parziale, che non si concentri solo sull’equipaggio che svuota la nave con il secchio e guardi anche alle falle dello scafo che continua ad imbarcare acqua[31]. Recuperare una prospettiva unitaria in cui si pensi, sempre, a magistratura e avvocatura come a due parti che lavorano insieme è fondamentale per la costruzione di quella cultura comune della giurisdizione che, se deve nascere nelle università, deve poi vivere nelle aule di giustizia.
[1] Per tutti, su questi temi si faccia riferimento alla emblematica distinzione tra fare e saper fare di F. Carnelutti, Clinica del diritto, in «Rivista di diritto processuale civile», (1935), I, 169, o al discorso sulla coessenzialità di scienza (orientata verso il conoscere) e tecnica (che opera sulla base del conoscere) nelle riflessioni di S. Pugliatti, La giurisprudenza come scienza pratica, in Id., Grammatica e diritto, Milano, Giuffrè, 1978, pp. 103-147.
[2] G. Resta, Quale formazione per quale giurista, in La formazione del giurista, contributi a una riflessione, a cura di Beatrice Pasciuta e Luca Loschiavo, Roma Tre Press, 2018).
[3] Tra le opere più compiute in materia può farsi riferimento al progetto finanziato dal CNR su L’educazione giuridica di Alessandro Giuliani e Nicola Picardi, sfociato in una pluralità di pubblicazioni tra gli anni ’70 e gli anni ’90 (su cui si veda F. Treggiari, L’educazione al diritto, in Alessandro Giuliani: l’esperienza giuridica fra logica ed etica, a cura di F. Cerrone– G. Repetto, Giuffrè, Milano 2012, pp. 827-844) nonché all’Osservatorio sulla formazione giuridica di Vincenzo Cerulli Irelli e Orlando Roselli, che ha prodotto numerose pubblicazioni raccolte in una collana (Collana per l’osservatorio sulla formazione giuridica, a cura di V. Cerulli-Irelli, O. Roselli, ESI, Napoli 2005-2007). Su queste ed altre, anche più recenti, iniziative, si è scritto che “Ciò che accomuna queste iniziative – tra loro evidentemente diversissime – è lo sguardo rivolto all’interno: i giuristi guardano sé stessi e riflettono su sé stessi” (B. Pasciuta, Le ragioni di una riflessione, in La formazione del giurista, contributi a una riflessione, cit.).
[4] Una ricostruzione degli studi, anche stranieri, che si sono focalizzati su tali profili si trova in M. R. Marella, Per un’introduzione allo studio del diritto: costruire le competenze di base, e G. Resta, Quale formazione per quale giurista entrambi in La formazione del giurista, contributi a una riflessione, cit.).
[5] Cfr. ancora G. Resta, cit., che richiama e fa proprie le posizioni di Calamandrei, fortemente critiche verso un ambiente accademico che relega la didattica a un ruolo secondario rispetto a quello di elaborazione scientifica, citando P. Calamandrei, Troppi avvocati (1921), ora in Id., Opere giuridiche, a cura di M. Cappelletti, vol. II, Napoli 1966, pp. 65 ss., 144
[6] Per tutti, ha posto il problema Guido Alpa in occasione di un recente convegno all’Università la Sapienza di Roma sul tema della formazione della classe forense, di cui si citerà un passaggio nel prosieguo di questo studio.
[7] Si guardi al nuovo art. 164, co. 4 e al nuovo art. 167, co. 1 c.p.c., in base ai quali i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda e le relative difese e contestazioni devono essere esposti e svolte «in modo chiaro e specifico», così come tutti gli atti del processo «sono redatti «in modo chiaro e sintetico» ai sensi del nuovo ultimo periodo del co. 1 dell’art. 121 c.p.c. Il difetto di sinteticità, ai sensi del co. 6 dell’art. 46 disp. att. c.p.c., non determina la nullità dell’atto «ma può essere valutato dal giudice ai fini della decisione sulle spese del processo». Si sofferma su questi profili F. Cossignani, Riforma Cartabia. Le modifiche al primo grado del processo di cognizione ordinario, in questa Rivista, sottolineando la differenza tra atti caratterizzati da “un alto grado di pedanteria e, ancora di più, qualora la pedanteria tracimi, come talvolta accade nei testi prolissi, in argomentazioni inutilmente arzigogolate, se non addirittura contraddittorie, ovvero in narrazione di fatti irrilevanti”, da censurare ai sensi delle norme richiamate, e “semplice sviluppo di una pluralità di argomentazioni concorrenti e/o l’allegazione di una lunga serie di fatti secondari utili a rafforzare le proprie tesi”, valutazione inevitabilmente casistica rispetto alla quale desta perplessità la previsione di un potere del Ministro di definire con decreto «i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti», come previsto dal nuovo art. 46, co. 5, disp. att. c.p.c.
[8] L. 25 luglio 2005, n. 150, art. 2, comma 1, lett. b); d.lgs. 5 aprile 2006, n. 160, art. 2, confermato da l. 24 ottobre 2006, n. 269, e l. 30 luglio 2007, n. 111.
[9] Che, ai commi 113 e il 114 , ha delegato il governo all'emanazione di decreti legislativi per la disciplina dell'accesso alla magistratura, nonché per la formazione di notai e avvocati , da cui è originato il d.lgs. 17 novembre del 1997, n. 328
[10] P. Carluccio; R. Finocchi Ghersi, in Giornale Dir. Amm., 2011, 1, 75, e G. Di Chiara, in Dir. Pen. e Processo, 2010, 11, 1285, note a Corte cost. Sent., 15 ottobre 2010, n. 296, nota a Corte cost. Sent., 15 ottobre 2010, n. 296, con cui la Corte ha censurato l’irragionevolezza della scelta legislativa di limitare la possibilità di presentarsi al concorso agli iscritti agli albi che non abbiano riportato sanzioni disciplinari, non essendo il requisito di iscrizione di per sé idoneo a testimoniare il possesso di determinati requisiti, in quanto requisito esclusivamente formale, ben diverso dall’anzianità di iscrizione inizialmente ipotizzata, e discriminatorio rispetto ai soggetti titolari della mera abilitazione da avvocato ma, per qualsiasi ragione, non iscritti o cancellati, ed ha in tal senso riscontrato profili di contrasto con gli artt. 3, 51 e 104, comma 1, Cost.
[11] D.m. 21 novembre 1999, n. 537, art. 7
[12] D.m. 21 novembre 1999, n. 537, art. 5 “Il consiglio direttivo”, che ai sensi del successivo art. 6 programma le attività didattiche, “è composto di dodici membri, di cui sei professori universitari di discipline giuridiche ed economiche designati dal consiglio della facoltà di giurisprudenza; due magistrati ordinari, due avvocati e due notai scelti dal consiglio della facoltà di giurisprudenza, nell'ambito di tre rose di quattro nominativi formulate rispettivamente dal Consiglio superiore della magistratura, dal Consiglio nazionale forense e dal Consiglio nazionale del notariato” programma le attività didattiche (art. 6)
[13] D.m. 21 novembre 1999, n. 537, all. 1.
[14] G. Diotallevi, Il Regolamento Istitutivo Delle Scuole Forensi – Commento, in Dir. Pen. e Processo, 2000, 7, 800, sottolinea che le SSPL, nonostante il numero chiuso abbia indirettamente un effetto preselettivo rispetto ai partecipanti al concorso (finanche di dubbia costituzionalità), non costituiscono un segmento della procedura concorsuale, bensì assicurano che l’accesso al concorso stesso sia riservato a titolari di un titolo di studio superiore,. Ne fa quindi un tema culturale, accogliendo con favore il fatto che “finalmente” non tutto sia rimesso alla formazione iniziale e permanente del CSM.
[15] Si tratta delle scuole curate dagli ordini professionali (art. 29, comma 1, lett. c della l. 31 dicembre 2012, n. 247; art. 3 del D.P.R. 101/1990).
[16] Il fenomeno è fatto ampiamente fatto oggetto di riflessione. Sul punto, per tutti, oltre agli altri lavori già citati in nota si rinvia al contributo di A. Costanzo, Spunti per una nuova formazione comune per le professioni legali, in questa Rivista, ed alla bibliografia ivi citata.
[17] L. 24 ottobre 2006, n. 269, artt. 18 e ss.
[18] G. Finocchiaro, L'accesso in magistratura nella nuova legge italiana sull'ordinamento giudiziario, in Riv. dir. proc. 2009, 1491 e ss., e Dei tirocini formativi e dell'"ufficio per il processo", in Riv. dir.proc. 2015, 4-5, 961 e ss.
[19] A. Dondi, Il regolamento istitutivo delle scuole forensi – Commento, in Dir. Pen. e Processo, 2000, 7, 800, ricorda che contestualmente all’emanazione della legge Bassanini bis fu un presentato un d.d.l. (disegno Mirone) volto a strutturare l’esame di stato analogamente al concorso in magistratura, proposta seguita da un referendum tra i praticanti volto a manifestare il proprio dissenso. G. Diotallevi, Il regolamento istitutivo delle scuole forensi – Commento, in Dir. Pen. e Processo, 2000, 7, 800 cita invece di iniziative che, per evitare le disparità di trattamento operate nei vari distretti tra i concorrenti all'esame di avvocato, tenderebbero ad escludere completamente la necessità di un concorso per l'abilitazione all'esercizio della professione forense.
[20] Tale è definita la condizione del mercato nel settore nella relazione di accompagnamento al d.d.l. Zanettin, n. 179/2022, avente ad oggetto “Modifiche alla legge 31 dicembre 2012, n.247, in materia di accesso alla professione forense”.
[21] E che invece il d.d.l. appena citato mira in certa misura a ripristinare, ipotizzando una differenziazione tra figure operanti in ambito forense.
[22] Riporta le dichiarazioni di Alpa F. Spasiano, Formare legali e giudici, Cnf e Scuola dell’avvocatura indicano il futuro, in www.ildubbio.news. Interessante anche il discorso di A. Dondi, Il regolamento istitutivo delle scuole forensi, cit., che pure si sofferma sulla correlazione tra numeri e qualità (di formazione, di servizio reso, di condizioni di esercizio), e prospetta il numero chiuso in giurisprudenza come parziale soluzione. Interessanti anche le osservazioni relative al codice deontologico forense italiano del 1997, cui mancherebbe secondo l’autore lo spessore normativo para-procedurale presente nei modelli di altri ordinamenti, fra tutti quello statunitense.
[23] Tra le tante dichiarazioni dai toni conflittuali, si vedano quelle del direttore della rivista online Il Dubbio, che nell’ambito del dibattito di cui si darà conto nella nota che segue si riferisce alla magistratura – laddove questa osa prendere parola riguardo alle condizioni dell’avvocatura in Italia – come al “nemico che ascolta”. Ne dà atto F. Spasiano, La mia provocazione a difesa del ruolo e del prestigio dell’Avvocatura, in www.ildubbio.news.
[24] In tal senso va l’atteggiamento di quell’avvocatura che si concentra sugli interessi della categoria – o, indifferentemente, di chi ambisce ad entrarvi – più che agli interessi dell’utenza, che a quella categoria si rivolge. Emblematico è l’intervento dell’avv. Vincenzo Di Maggio, riportato da F. Spasiano, Formare legali e giudici, Cnf e Scuola dell’avvocatura indicano il futuro, cit., per cui “non posso non convenire con chi colpevolizza la governance rivelatasi incapace di dare risposte convincenti o a interpretare le esigenze dei giovani e, a volte, addirittura frustrarne le aspirazioni in nome di una selezione che ha, al contrario, provocato una voragine, per esempio, nel fabbisogno statale dei medici”. L’incongruità del riferimento alla professione medica, che ha problemi inversi rispetto all’avvocatura in termini di quantità di professionisti sul mercato, svela l’ipocrisia di un discorso che attacca la selezione in quanto tale, non sussistendo alcuna ragione per doverla temere se non in quanto “frustrante” per le aspettative dei giovani praticanti. Col forte rischio di frustrazione, tuttavia, delle legittime aspettative dell’utenza (incolpevole e priva di strumenti di discernimento) che a dei professionisti non selezionati si rivolge per la soluzione dei propri problemi. In ciò si apprezza, in effetti, un punto di contatto molto forte con la professione medica, che impone di preferire sempre le esigenze della selezione su qualsiasi altra.
[25] Emblematico il dibattito sulla ri-abilitazione svoltosi nel 2021 in seno alla comunità forense sulla rivista online il Dubbio, ben riassunto nello scambio tra un avvocato, Corrado Carrubba, e il direttore Davide Varì, che allo sfogo e alla provocazione del primo (“continuo a ritenere che il numero dei professionisti operanti oggi in Italia sia almeno eccessivo […] il tema esiste. Ed esistono gli effetti deteriori che cagiona o che contribuisce a cagionare. […] Vogliamo tutti, anziani e giovani, garantire la qualità dell’Avvocatura? Ha diritto una persona ad essere certa di affidare i propri diritti, talvolta la propria vita, alla difesa di un soggetto selezionato che abbia, non solo che abbia avuto in passato, adeguata capacità ed esperienza? Se è si, come credo fermamente e so di essere in buona compagnia, allora troviamo e potenziamo mezzi e strumenti: abilitazione rigorosa all’esito di un vero e proprio percorso selettivo magari condiviso con i futuri magistrati, formazione professionale permanente seria, obbligatoria, verificabile (ad esempio non comprendo perché dopo 25 anni di professione si debba esserne esenti), vigilanza attenta e continua degli Ordini sugli iscritti anche sotto il profilo deontologico, un rinnovato ruolo di impulso, proposta, orgogliosa difesa del ruolo e prestigio dell’Avvocatura”) ha risposto lapidariamente “non possiamo far finta che fuori da queste stanze vi sia chi pensa di sfruttare la discussione dialettica tra avvocati in modo pretestuoso. Basti dare un’occhiata all’articolo di ieri di Piercamillo Davigo il quale, in modo ossessivo, torna a ripetere che il problema della giustizia è dato dall’eccessivo numero di avvocati.”. Riporta questo scambio F. Spasiano, La mia provocazione a difesa del ruolo e del prestigio dell’Avvocatura, cit.
[26] Sebbene vi siano state numerose iniziative normative che, nel tempo, hanno variamente modulato profili di contatto tra le due professioni, soprattutto nella fase di formazione. A titolo esemplificativo, l’art. 41, lett. b), comma 6, l. 31 dicembre 2012, n. 247, già prevedeva che il tirocinio forense potesse essere svolto per un anno presso un ufficio giudiziario; l’art. 73, d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (“decreto del fare”), ha introdotto il tirocinio presso gli uffici giudiziari riservato ai neolaureati in possesso di determinati requisiti di merito, inizialmente previsto come titolo per l’accesso al concorso con previsione espunta in sede di conversione (l. 9 agosto 2013, n. 98), nonché previsto come un anno di pratica forense o un anno di SSPL, come titolo di preferenza nei concorsi pubblici, come titolo di accesso alla carica di giudice di pace; il tirocinio è stato poi ridisciplinato dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni in l. 11 agosto 2014, n. 114
[27] Tale sembra ad esempio essere la prospettiva in cui fu presentato il disegno di legge d’iniziativa governativa del 22 marzo 2000, in materia di aumento dell’organico della magistratura di mille unità e di riforma della disciplina del concorso, in cui era prevista, tra l’altro, una forma di reclutamento riservato per il 10% dei posti ad avvocati con almeno 5 anni di esercizio della professione, da selezionarsi sulla base di tre prove scritte ed anonime. Tale d.d.l. mirava ad introdurre un sistema di reclutamento parallelo, da un lato gli uditori giudiziari selezionati mediante il concorso, dall’altro i magistrati di tribunale, selezionati tra gli avvocati mediante l’introducenda selezione. La relazione al d.d.l. parla di una “opportunità di ventilazione esterna”, ispirata al modello francese, che presenta tuttavia con il nostro differenze tali da rendere inopportuna qualsiasi importazione acritica di istituti. Ancor più estrema la proposta di un concorso straordinario per mille magistrati da reclutarsi esclusivamente nei ranghi dell’avvocatura (proposta di legge n. 6851 A.C. XIII, Bonito, Carboni, Cesetti; Finocchiaro Fidelbo, Leoni, Lucidi, Olivieri, Parrelli, Siniscalchi). Dà atto di queste iniziative G. Diotallevi, Il Regolamento Istitutivo Delle Scuole Forensi, cit.
[28] La riforma del concorso in magistratura di cui alla legge n. 71/2022 («Deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura») sarà approfondita in un prossimo autonomo contributo su questa Rivista. Si faccia intanto riferimento a D. Mercadante, La riforma dell'ordinamento giudiziario e il concorso in magistratura: progressi, dubbi, questioni aperte, in Questione Giustizia. Quanto alla riforma dell’esame da avvocato, si fa riferimento al d.d.l. Zanettin, di riforma della legge professionale forense e delle modalità di accesso alla professione, attualmente in Commissione Giustizia, la cui relazione di accompagnamento contiene soltanto un fugace riferimento ai “valori costituzionali che sono alla base della professione forense e della giurisdizione”.
[29] Sulla inidoneità della preselezione a ridurre i numeri e quindi rendere più celere la selezione, sul presupposto che risposte idonee a far fronte a questa esigenza sarebbero legittime purché efficaci, si è concentrata la giurisprudenza amministrativa, massicciamente adita a seguito dell’esperienza concorsuale che prevedeva lo svolgimento di una prova preselettiva (per tutte, v. C. Stato, ad. plen., 20 dicembre 1999). Il CSM ha enfatizzato il ruolo delle SSM proprio rispetto alla funzione di filtro (CSM delibera del 27 gennaio 2000).
[30] Temi che pure sono stati segnalati dalla dottrina. Si veda R. Caponi, La formazione postlaurea nelle professioni legali: situazione attuale e prospettive, in Foro Italiano, 2006, vol. 129 n. 11, 369 ss, che individua le due principali criticità del nostro sistema nella difficoltà di sostentamento dei giovani laureati in giurisprudenza (tema che in altri sistemi, quale quello tedesco, è in carico alle finanze pubbliche) e nella difficoltà di trovare una pratica forense realmente formativa.
[31] Sia consentito rinviare, per ulteriori considerazioni nello stesso senso che in parte esulano dall’oggetto di questo scritto, al mio Giustizia civile e ingiustizie, in questa Rivista.