GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    "Il Braccialetto elettronico” e protezione vittima di violenza di genere  di Maria Monteleone

    "Il Braccialetto elettronico” e protezione vittima di violenza di genere

    di Maria Monteleone 

    Il carattere emblematico della vicenda giudiziaria, oggetto delle Ordinanze del Gip, consente alcune riflessioni sulla protezione della vittima di violenza di genere e domestica, tema centrale nell’azione di contrasto, soprattutto nella fase cautelare del procedimento penale.

    Il caso all’attenzione degli inquirenti presenta, infatti, i tratti tipici di molti casi di “ordinaria violenza domestica”: una donna che subisce dal convivente abituali aggressioni fisiche, morali e psicologiche; bambini che vi assistono, restandone essi stessi vittime; un uomo, disoccupato, con precedenti penali, assuntore di alcol e stupefacenti, che si difende sostenendo che è “geloso…che vuole bene alla donna”!

    Il giudice ha ritenuto l’allontanamento dalla casa familiare, con  contestuale divieto di avvicinamento alla vittima, ai sensi dell’art. 282-bis c.p.p., misura idonea a contrastarne la pericolosità,  prevedendo – provvidenzialmente - la sorveglianza ed il monitoraggio con il c.d. “braccialetto elettronico”.

    Nel volgere di poco tempo, tuttavia, il giudizio sulla pericolosità sociale dell’indagato si è rivelato inadeguato, tanto che, a seguito della violazione delle indicate prescrizioni, è stato tratto nuovamente in arresto nella flagranza del delitto di maltrattamenti in danno della convivente, e raggiunto dalla più grave misura della custodia cautelare in carcere. 

    Lo svolgimento dei fatti, come rappresentati negli stessi provvedimenti del giudice, evidenziano una “escalation” di violenza tipica di queste forme criminali, ed è ragionevole valutare che, nel caso, l’imposizione del c.d. “braccialetto elettronico”, abbia verosimilmente scongiurato il rischio di un nuovo femminicidio.

    Il dispositivo di sorveglianza e controllo imposto all’indagato, cui il giudice ha fatto ricorso quale “modalità nuova di applicazione di misure cautelari preesistenti”[1], previsto dall’art. 275-bis c.p.p., ha fatto ingresso nel nostro sistema processuale oltre 20 anni orsono (D.L. 24 novembre 2000, n. 341, convertito, con modificazioni, dalla Legge 19 gennaio 2001, n. 4), allo scopo dichiarato di ridurre il numero delle persone detenute in carcere, tanto che ne era originariamente prevista l’applicazione soltanto per gli arresti domiciliari e per la “detenzione domiciliare” (art. 47-ter, comma 4-bis, L. 354/75 sull’Ordinamento Penitenziario)[2].

    Per le peculiarità tecniche che lo contrassegnano, si è rivelato nel tempo mezzo determinante  nel  contrasto al “rischio di letalità”, cui sono esposte molte donne vittime di violenza di genere e domestica.

    Ed infatti, sebbene, tra problematiche interpretative e non risolte difficoltà operative, abbia a lungo tradito le aspettative che aveva suscitato,  nel 2013 la sua applicabilità è stata estesa (ad opera della L. 15 ottobre 2013, n. 119, emanata in esecuzione della Convenzione di Istanbul)[3], dapprima alla misura cautelare dell’allontanamento dall’abitazione familiare (art. 282-bis c.p.p.) e successivamente - con la legge n. 69/2019 - al “divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa” (art. 282-ter c.p.p.).

    La nuova, prospettata, opportunità di utilizzo di questo dispositivo di monitoraggio e sorveglianza dell’indagato - particolarmente ampia se si ha riguardo al numero dei reati previsti nel comma 6 dell’art. 282-bis c.p.p. - riveste specifico rilievo nei casi in cui ricorra la pregnante necessità di proteggere una persona offesa “preventivamente individuata”, come tale “candidata” ad essere nuovamente vittima dello stesso indagato.

    Questi i motivi per cui anche la stessa potenziale vittima è richiesta di prestare la propria collaborazione, dotandosi di un dispositivo che monitora il rispetto del divieto di avvicinamento entro un raggio spaziale delineato, allertando le forze dell’ordine e la stessa vittima, nel caso di  violazione[4].

    La descritta modalità di controllo, non è, in effetti, applicata quanto sarebbe opportuno, anche rispetto alle sue odierne potenzialità, come confermano i dati disponibili, secondo i quali, attualmente, i dispositivi elettronici attivi sono complessivamente 4.595, e quelli c.d. anti-stalking, che consentono di monitorare il rispetto delle distanze dalla potenziale vittima, sono 850[5].

    Eppure, come conferma anche il caso in esame, l’impiego di detto dispositivo merita di essere riconsiderato, e ciò nonostante il perdurare di alcune problematiche operative, connesse – essenzialmente - ai tempi ed alle formalità  necessari per la sua attivazione[6].

    Se è pur vero che, nell’adozione di una misura cautelare, il giudice deve ispirarsi al principio del minimo sacrificio per la libertà personale dell’autore del delitto, tuttavia, quando procede per delitti caratterizzati dall’abitualità e dalla ripetitività delle condotte (il che si verifica quasi esclusivamente nei delitti di violenza di genere e domestica), esso è chiamato a valutare la natura ed il grado delle esigenze cautelari, procedendo ad una scelta "individualizzata, attribuendo rilievo specifico anche alla relazione “personale” tra l’autore e la sua vittima, “come tale spesso candidandosi ad essere nuovamente vittima dello stesso autore del reato per cui si procede”[7].

    In queste ipotesi, il ricorso alle modalità di controllo mediante mezzi elettronici, può risultare fondamentale per la tutela e la protezione della stessa vittima.

    Riguardo all’operatività della disposizione che le prevede – l’art. 275-bis c.p.p. – i giudici delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione[8] hanno ritenuto che, a seguito della modifica legislativa di tale norma, ad opera della L. n. 10/2014[9], sono stati ribaltati i termini della valutazione del giudice in ordine all’applicazione di questa speciale forma di controllo: “Mentre prima  della novella l’operatività dei meccanismi di cui all’art. 275-bis era subordinata alla circostanza che il giudice li ritenesse “necessari”, nella nuova formulazione della norma, essi devono essere sempre ordinati a meno che si ritengano non necessari, in relazione al grado ed alla natura delle esigenze da soddisfare …..”, tanto da auspicare che i giudici si impegnino in un “adeguato sforzo motivazionale … avendo “l'obbligo di spiegare le ragioni per le quali intendano ricorrere alla misura tradizionale piuttosto che a quella elettronicamente monitorata”.

    Il monito assume un rilievo del tutto particolare, laddove il giudice ritenga di applicare una delle misure cautelari previste dagli artt. 282-bis e 282-ter c.p.p. le quali, in ragione del richiamo in esse contenuto alle modalità di controllo previste dall’art. 275-bis, si deve  ritenere che impongano sempre l’applicazione della misura,  a meno che il giudice ritenga "non necessario il monitoraggio elettronico del sottoposto, ma in tale caso è necessario un rafforzato obbligo motivazionale in relazione al grado ed alla natura delle esigenze da soddisfare nell'ipotesi specifica”[10].

    Proprio la richiamata valutazione (e la conseguente esplicitazione nelle motivazioni) costituisce elemento cruciale nell’azione di contrasto alla violenza di genere e domestica, e postula un’adeguata specializzazione nei giudici, condizione necessaria che garantisce anche conoscenze dei principi sovranazionali, da tenere sempre presenti nelle valutazioni da operare, anche in sede cautelare.

    Centrale, al riguardo, è la Direttiva 2012/29/UE sulle “Norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato”, che riconosce a tutte le vittime il “diritto alla protezione” e, pur facendo salvi i diritti della difesa, “richiede agli Stati membri di assicurare che sussistano misure per proteggere la vittima e i suoi familiari da vittimizzazione secondaria e ripetuta, intimidazioni e ritorsioni, compreso il rischio di danni emotivi o psicologici…”.

    In questo contesto, secondo i giudici di legittimità[11] “La lettura delle norme interne alla luce delle indicazioni fornite dalla Direttiva è un obbligo che incombe sul giudice nazionale dato che le direttive, anche dopo la loro attuazione, costituiscono atti normativi di indirizzo che orientano l’interpretazione delle norme interne. Spetta al giudice nazionale dare alla legge adottata per l’attuazione della direttiva, in tutti i casi in cui il diritto nazionale gli attribuisce un margine discrezionale, una interpretazione ed una applicazione conformi alle esigenze dell’unione”.

    Ma vi è un’ulteriore riflessione che merita svolgimento, ed attiene  alla protezione delle vittime di violenza di genere e domestica che scaturisce dai principi previsti dalla Convenzione di Istanbul[12]. Dopo aver affermato - art. 2 - che le Parti “presteranno particolare attenzione alla protezione delle donne vittime di violenza di genere”,  la Convenzione precisa, al successivo art. 18, che bisogna “proteggere tutte le vittime da nuovi atti di violenza”; circa lo svolgimento dell’azione giudiziaria, non solo richiede espressamente una cooperazione “tra le autorità giudiziarie ed i pubblici ministeri”, ma sottolinea, anche, che le misure devono “essere basate su una comprensione della violenza di genere, e concentrarsi sulla sicurezza della vittima”.

    Il legislatore convenzionale richiede, altresì (artt. 50 e seg. ), che “le autorità incaricate dell’applicazione della legge affrontino in modo tempestivo e appropriato tutte le forme di violenza”, che offrano “una protezione adeguata e immediata alle vittime ….” che siano valutati “il rischio di letalità, la gravità della situazione e il rischio di reiterazione dei comportamenti violenti, al fine di gestire i rischi e garantire, se necessario, un quadro coordinato di sicurezza e di sostegno”.

    Tutto questo richiede, come accennato, un giudice specializzato[13] capace, quindi, di procedere tempestivamente ad una corretta valutazione di tutti gli elementi  del caso concreto, in grado di effettuare valutazioni e giudizi prognostici complessi, sin dall’acquisizione della “notitia criminis”, di individuare gli indici di rischio cui può essere esposta la persona offesa - a volte anche nella sua stessa inconsapevolezza -, e di applicare misure cautelari  adeguate a fermare l’aggressore, garantendo la sicurezza personale della sua vittima[14].

    Giudici “formati” nella rilevazione del rischio di letalità - cui sia eventualmente esposta la vittima - i quali, nell’individuazione della misura cautelare idonea, in relazione alle “esigenze cautelari” di cui all’art. 274 c.p.p., procedano nella prospettiva concreta indicata dai Giudici della Corte Europea dei Diritti dell’uomo con la sentenza Talpis[15], nel cui testo si legge che “in materia di violenza domestica, il compito di uno Stato non si esaurisca nella mera adozione di disposizioni di legge che tutelino i soggetti maggiormente vulnerabili, ma si estenda ad assicurare che la protezione di tali soggetti sia effettiva”, e che “l'inerzia delle autorità nell'applicare tali disposizioni di legge si risolve in una vanificazione degli strumenti di tutela in esse previsti”.

    Nell’esposizione delle problematiche tipiche della fase cautelare del procedimento penale, occorre considerare che il legislatore italiano, nel dare attuazione alle norme convenzionali e alla citata Direttiva europea, a decorrere dal 2009,[16] è intervenuto con modifiche legislative riguardanti il ruolo ed il contributo che la persona offesa può prestare per favorire la sua stessa protezione, attraverso il rafforzamento degli obblighi informativi per la vittima, ma anche prevedendo che essa possa fornire un suo contributo nello stesso procedimento cautelare.

    Tra le più significative disposizioni, l’art. 282-quater c.p.p., che rende obbligatoria la comunicazione anche alla persona offesa dei provvedimenti applicativi della misure cautelari di cui agli artt. 282-bis e 282-ter, e l’art. 90-ter c.p.p., introdotto dal D.Lgs. n. 212/2015, che amplia gli obblighi di comunicazione con riguardo all’evasione e alla scarcerazione del violento.

    Ruolo centrale è stato assegnato alle disposizioni dell’art. 299, comma 2-bis, c.p.p., che, attraverso ripetuti interventi normativi (a decorre da quelli introdotti con la legge n.119/2013, di esecuzione e ratifica della Convenzione di Istanbul), mirano ad assicurare una effettiva possibilità di partecipazione della vittima all’incidente cautelare.

    Il percorso ha avuto un significativo potenziamento con la recente legge n. 69 del 2019, che ha rafforzato gli obblighi informativi anche nei confronti del difensore della vittima - “ove nominato” – con riguardo sia all’applicazione delle indicate misure cautelari (art. 282-quater c.p.p.), sia ai casi di evasione o scarcerazione dell’autore di violenza (art. 90-ter c.p.p.), ovvero all’ipotesi di revoca o sostituzione delle misure cautelari (art. 299 c.p.p.).

    Trattasi di obblighi informativi dei quali non va sottovalutata la rilevanza, perché assolvono ad una funzione fondamentale, essendo “volti ad assicurare alla persona offesa, attraverso la presentazione di memorie ex art. 121 cod. proc. pen., uno strumento per offrire ulteriori elementi di conoscenza che, presumibilmente, possono essere desunti solo da un rapporto diretto tra vittima e aggressore[17].  

    Pertanto, come rilevato in altra pronuncia dai giudici di legittimità[18], il diritto di ricevere le notifiche di cui all’art. 299, comma 3, c.p.p. nei casi di delitti commessi con violenza alla persona, è fondato sul rischio di “recidiva personale” per la vittima.

    In altri termini, ricorrendo un rischio “personale”, candidandosi la vittima ad essere nuovamente vittima dello stesso autore del reato per cui si procede, la particolare relazione intercorrente tra autore e vittima, giustifica il sacrificio del diritto dell’indagato ad una rapida definizione dell’incidente cautelare a vantaggio del diritto della persona offesa a fornire il suo contributo alle decisioni in tema di libertà.

    In questo ambito normativo e giurisprudenziale, è fondata la considerazione  di carattere generale per la quale le persone offese  da questa  particolare tipologia di reati, hanno assunto un ruolo nuovo e diverso nel processo penale, dovendosi  prendere atto che esse non sono presenti  per vantare un mero diritto al risarcimento dei danni, quindi pretese di natura economica - che pure sussistono ed hanno spesso un rilievo non secondario -, ma innanzi tutto per essere salvaguardate dal rischio di reiterazione di aggressioni  violente ad opera di uno stesso soggetto, ben individuato.

    Quanto esposto legittima alcune ulteriori riflessioni sul caso  all’attenzione del giudice che ha adottato i provvedimenti esaminati.

    Innanzi tutto, il percorso giudiziario, in merito ai tempi di risposta del sistema, non si è rivelato adeguato; una prima denuncia della donna (risalente a diversi mesi prima dell’arresto dell’indagato), non risulta abbia avuto un seguito di rilievo, dopo un primo intervento delle forze di polizia presso l’abitazione del nucleo familiare, su richiesta della donna, atteso che, nella relativa annotazione, si legge che la donna “presentava evidenti escoriazioni ed ematomi sul corpo….riconducibili ad una lite con il compagno alla presenza dei figli”!

    È evidente la “confusione”, non certo lessicale, tra “lite” e “violenza”, che non dovrebbe appartenere ad un operatore di polizia giudiziaria  “specializzato”, tanto più che era anche emerso come la donna ed i bambini fossero stati costretti più volte ad allontanarsi dall’abitazione per sottrarsi alle aggressioni dell’uomo violento. 

    È stata pericolosamente ridotta al rango di “lite”, una grave forma di violenza domestica, mettendo sullo stesso piano la vittima e l’aggressore.

    In sintesi: una violenza domestica non “letta”, non individuata, malgrado presentasse, fin da subito, i tratti caratteristici di questa forma criminale; l’escalation della violenza, la sua ripetitività, caratterizzata da gravi minacce di morte alla vittima-donna.

    L’indagato, a ben considerare, presentava, sin dall’inizio, tutti i caratteri del soggetto affetto da pericolosità “specifica”, come può esserlo chi, alla presenza dei suoi tre bambini, usa sistematicamente violenza nei confronti della loro madre, non lavora, abusa di alcol e di stupefacenti,  vive con i proventi del lavoro della convivente, ha precedenti penali e giudiziari e, per di più, si dichiara “geloso”, così rientrando nei parametri del “potenziale femminicida”.

    Si consideri – in proposito – il dato statistico. Dall’indagine condotta dalla Commissione di Inchiesta del Senato sul femminicidio[19], l’analisi relativa ai 197 femminicidi commessi in Italia nel 2017/2018, riguardo agli autori dei delitti, ha rivelato che poco meno della metà degli assassini - il  46,4% -  non svolgeva alcuna attività di lavoro, mentre il 60% delle donne uccise dall’ex convivente lavorava, il 32,3 % degli uomini aveva precedenti penali o giudiziari, più di un quarto (il 27,1%) era dipendente da alcol, droghe, psicofarmaci o altre sostanze[20].

    La fattispecie in esame conferma, lo si ripete, l’esigenza, imprescindibile, di una valutazione di tipo “specialistico” da parte del magistrati, fin dall’immediatezza dell’acquisizione della notizia di reato, affinché la protezione della vittima non sia affidata al caso, alle intuizioni, più o meno fortuite o “felici”, dell’inquirente di turno[21].

    Si consideri, anche, che, nel caso, un “ruolo” determinante nelle diverse fasi della vicenda delittuosa è stato svolto da persone “vicine” alla donna, in particolare da compagni di lavoro che avevano assistito a precedenti aggressioni e minacce e, certamente, uno di essi è stato “provvidenziale” nel proteggerla nell’ultima aggressione, quella che ha determinato la carcerazione dell’indagato.

    Questa volta, una persona presente ai fatti non è rimasta “indifferente”, probabilmente ha contribuito a salvarle la vita, a conferma che la violenza - anche contro una donna - non deve mai essere considerata un fatto privato.

    I rilievi ci fanno riflettere sul diritto alla vita di una persona, tutelato proprio dall’art. 2 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dall’Italia con L. n. 848/1955; i giudici della Corte Europea, nella citata sentenza Talpis, hanno ritenuto che questo diritto, oggetto di violazione ad opera dell’Italia, non può dipendere da mere coincidenze favorevoli: un giudice che applica correttamente lo strumento di controllo elettronico, una persona vicina alla vittima che non rimane  indifferente alla sua aggressione.

    Bisogna garantire un sistema, anche normativo, che assicuri -sempre ed in ogni fase del procedimento - la possibilità del concreto ed effettivo esercizio di tutti i diritti riconosciuti alla vittima, il primo dei quali è evidentemente quello alla vita.

    Si ritengono, pertanto, maturi i tempi per garantire nel processo penale, a tutte le persone offese da questi delitti, una difesa tecnica, che deve essere obbligatoria ed effettiva, proprio in ragione delle diverse specificità – oggettive e soggettive - ampiamente richiamate, che rendono queste persone in condizione di “particolare vulnerabilità”, soprattutto quelle affettivamente e psicologicamente dipendenti dall’autore dei reati (art. 90-quater c.p.p.).

    Difesa tecnica e specializzata, dunque, che assuma, dall’avvio del procedimento, le iniziative necessarie alla tutela della vittima vulnerabile, per la garanzia di una corretta tutela dei suoi diritti, nell’esercizio dei poteri processuali già indicati, nella prospettiva tracciata dall’art. 56 della Convenzione di Istanbul, che richiede “un'adeguata assistenza, in modo che i loro diritti e interessi siano adeguatamente rappresentati e presi in considerazione”.

    Ricordando, infine, i moniti dei giudici della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, contenuti nella sentenza Talpis: “i diritti dell’aggressore non possono prevalere sui diritti alla vita ed alla integrità fisica e psichica delle vittime”,  ma anche che gli inquirenti devono procedere con serietà ed attenzione, poiché “la mancanza di diligenza pone inevitabilmente in dubbio la buona fede degli inquirenti agli occhi dei denuncianti, perpetuandone le sofferenze”.

     

    [1]  In tal senso Cass. Sez. U, Sentenza n. 20769 del 28/04/2016 Cc. (dep. 19/05/2016) Rv. 266651.

    [2] Il comma 4-bis, aggiunto dall'articolo 17, comma 1, del D.L. n. 341/2000, è stato successivamente abrogato dall'articolo 3, comma 1, lettera f), del D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla Legge 21 febbraio 2014, n. 10.

    [3] Al riguardo si veda: Cass. Sez. U., Sentenza n. 20769 del 28/04/2016 Cc. (dep. 19/05/2016) Rv. 266651 – 01, nella quale, dopo avere evidenziato la sostanziale disapplicazione della disciplina di questo istituto, il giudice di legittimità ha espressamente auspicato il potenziamento di questa strategia da parte degli organi politici ed amministrativi coinvolti al fine di aumentarne la disponibilità .

    [4] Ci si riferisce al superamento delle iniziali riserve di diverse vittime donne a dotarsi  del dispositivo in grado di rilevare la presenza dell’aggressore nelle vicinanze, generando, nel caso di violazione, allarme immediato al centro elettro di monitoraggio, strumento  che necessariamente costituisce una limitazione della  privacy.

    [5] I dati sono stati acquisiti presso la competente struttura del  Ministero dell’interno. In argomento ulteriori elementi di valutazione sono contenuti nelle risposte a due interpellanze parlamentari, la prima del 13712/2019 (n.2-00599) e la seconda del 15/1/2021 (n.2-01022). In particolare in quest’ultima il Ministero dell’interno ha riferito che al 31/12/2020 i braccialetti attivi erano 4215 .

    Non è disponibile il dato sulle misure cautelari previste dagli artt. 282 bis e 282 ter, che sono in esecuzione ad aprile 2022  per i delitti di violenza di genere e domestica. Il dato statistico disponibile è quello pubblicato dal Ministero della Giustizia, secondo il quale nel 2018 sono state adottate complessivamente  86.697 misure cautelari e che gli allontanamenti dall’abitazione familiare –ex art. 282 bis c.p.p.- sono stati 3158.

    [6] Ci si riferisce ai tempi di attivazione dei sistemi di monitoraggio previsti che sono: 10 e 4 gg. a seconda delle concrete modalità di comunicazione tra i dispositivi elettronici di sorveglianza ed il centro elettronico di monitoraggio, a seconda che debba avvenire attraverso la rete radiomobile mediante utilizzo della SIM o con linea fissa.   

    [7] In argomento vedi: Sez. 2, Sentenza n. 17335 del 28/03/2019 Cc. (dep. 19/04/2019) Rv. 276953.

    [8] Vedi: Sez. U, Sentenza n. 20769 del 28/04/2016 Cc.  (dep. 19/05/2016 ) Rv. 266651.

    [9] La legge n. 10/2014, di conversione del D.L. n.146/2013, ha sostituito nel primo periodo del comma 1 dell’art. 275-bis in parola la locuzione “se lo ritiene necessario” con l’espressione “salvo che le ritenga non necessarie”.

    [10] C.f.r Cass. Sez. Unite 28/4/2016, n. 20769, cit.

    [11] Cass., Sez. 2, Sentenza n. 17335 del 28/03/2019, cit.

    [12] Legge 27 giugno 2013, n. 77, Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l'11 maggio 2011. (13G00122) (GU Serie Generale n.152 del 01-07-2013).

    [13] Al riguardo si veda la Delibera del Consiglio Superiore della Magistratura  del 9 maggio 2018 “sulle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica”,  e  la recente Delibera del 08/11/2021 prot. 20227/2021, sui “risultati del monitoraggio sull’applicazione delle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica”.

    [14] In questo contesto occorre prendere atto che, a fronte di chiare e specifiche indicazioni della legislazione Convenzionale internazionale, sulla necessità che la materia sia trattata da magistrati specializzati, siamo ben lontani da questo traguardo, come risulta dal “Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria” del 17/6/2021 della Commissione Parlamentare di inchiesta del Senato sul femminicidio e dalla citata delibera del CSM dell’8/11/2021 prot. 20227/2021. Se, infatti, il 90 % circa delle procure hanno adottato un sistema organizzativo che prevede la trattazione in via esclusiva della materia da parte di sostituti specializzati, in nessun tribunale del nostro Paese è prevista un’analoga organizzazione per gli uffici del Gip, che tuttavia, nel nostro ordinamento processuale svolge un ruolo fondamentale fino dall’avvio del procedimento penale.

    [15] Corte Europea Diritti dell’uomo - Provvedimento del 02/03/2017, Numero del Ricorso: 41237/14. Caso: TALPIS contro ITALIA. 

    [16] Ci si riferisce al D.L. 23/272009 n.11 convertito nella L. 23/4/2009 n. 38 contenente misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”.

    [17]  In argomento si vedano: Sez. 2, Sentenza n. 43353 del 14/10/2015 Cc. (dep. 27/10/2015) Rv. 265094  e Sez. 6, Sentenza n. 6717 del 05/02/2015 Cc. (dep. 16/02/2015) Rv. 262272.

    [18]  Cass. Sez. , Sentenza n. 17335 del 28/03/2019 Cc. (dep. 19/04/2019) Rv. 276953 - 01.

    [19] Relazione della Commissione di inchiesta sul femminicidio su: “La risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia. Analisi delle indagini e delle sentenze . Il biennio 2017-2018”.

    [20] Una dettagliata ed interessante analisi statistica dei femminicidi avvenuti in Italia nel 2017/2018 si trova nel capitolo II della Relazione della Commissione di inchiesta citata nella nota precedente.

    [21] Una dettagliata ed interessante analisi statistica dei femminicidi avvenuti in Italia nel 2017/2018 si trova nel capitolo II della Relazione della Commissione di inchiesta citata nella nota precedente.


    Edipo, la giustizia e le relazioni familiari di Rita Russo

    Edipo, la giustizia e le relazioni familiari di Rita Russo [*]

    Sommario: 1. La vicenda di Edipo - 2. La violenza  familiare e la negazione  della identità personale - 3. Una riflessione sulla giustizia.

    1. La vicenda di Edipo

    Il fascino delle tragedie greche si mantiene inalterato attraverso i secoli perché consente a ciascun lettore o spettatore di esplorare, ad ogni singola rappresentazione o lettura, significati sconosciuti e nuovi.

    La tragedia, del resto, è uno specchio che riflette l’uomo, nel suo essere – come diceva Aristotele – animale sociale; ogni diversa umanità, ogni diversa società trova in essa rappresentati, se ha la volontà di fermarsi a guardare con occhio critico, le sue vicende, le sue pecche e le conseguenze degli errori che commette. Aristotele, nella Poetica, scrive che la tragedia “mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni”. La tragedia indica quindi un percorso di catarsi, intesa non in senso mistico, ma come razionalizzazione delle passioni: questo è il grande passo compiuto dalla civiltà greca, che tramite le sue produzioni intellettuali, la poesia, il teatro, la filosofia, la legislazione e l’istituzione dei tribunali, costruisce l’uomo moderno, razionale, che   pone sé stesso quale misura di tutte le cose.

    Nell’Edipo re di Sofocle assistiamo alla rappresentazione drammatica delle vicende di una famiglia, anzi di due famiglie – perché Edipo ha una famiglia biologica da lui sconosciuta ed una famiglia legale che occulta le sue vere origini – ove si producono veleni che, generati nel microcosmo familiare, inquinano per osmosi anche la società.

    Una drammatica e potente rappresentazione di una storia oscura e violenta, che travolge Edipo, eroe dell’intelligenza piuttosto che della forza, ma eroe solo, che aspira ad agire razionalmente in un contesto familiare e sociale che si muove invece su linee irrazionali, scatenando una  tempesta di eventi ingovernabili.

    Edipo è un eroe  dalla personalità complessa:  in cerca di verità  sulla propria identità e sul proprio destino, capace di grandi gesti di pietà filiale come lasciare gli agi della vita a Corinto per non danneggiare i genitori, acuto a sufficienza per sciogliere l’enigma della Sfinge, ma anche tanto cieco da non cogliere gli indizi sulle proprie origini; a volte generoso ed a volte intemperante e, alla fine della storia, spietato con se stesso e con la propria famiglia, nel  rivelare una verità che tutti gli consigliano di tenere nascosta: fiat iustitia et pereat mundus.

    Nella tragedia sono rappresentate relazioni familiari disfunzionali, avvelenate da due tossine che ancora oggi interessano le famiglie contemporanee: la violenza e la menzogna.

    Dalla famiglia queste tossicità si estendono alla società, che nella tragedia è afflitta  dalla peste a causa di un evento, l’omicidio di Laio re di Tebe prima di Edipo, il cui autore è rimasto per lungo tempo sconosciuto; evento che tuttavia non è altro che un singolo anello di una lunga catena di violenze familiari, ritenute lecite, anzi giustificate.

    L’assassino di Laio è lo stesso Edipo, suo figlio, che dopo averlo ucciso, sposa la madre, Giocasta, e diviene re (tyrannos) di Tebe,  da inconsapevole autore di un esecrando doppio delitto, il parricidio e l’incesto. Edipo non sa che Laio e Giocasta sono i suoi genitori, perché entrambi hanno deciso di sopprimerlo alla nascita per salvaguardare il regno ed il potere, un infanticidio che non sembra pesare sulla coscienza di Giocasta, la quale anzi, più tardi, si vanterà con Edipo di avere in tal modo sventato la profezia; ma la tragedia puntualmente avviene, così come predetta, nonostante il tentativo dei protagonisti di evitarla. Tutti loro si macchiano di hybris, la superbia che viene punita dagli dei, perché cercano di governare gli eventi, ma ciecamente, senza conoscere fatti ed antefatti. Edipo, salvato da un pastore, è  stato affidato ad un coppia di genitori adottivi, i sovrani di Corinto, che  si guardano bene da rivelargli la verità sulle sue origini, e quindi, una volta appresa la profezia, si allontana da Corinto per non uccidere colui che crede suo padre e non sposare colei che crede sua madre. Non accetta però di avere perduto il suo rango e la sua identità sociale e quando per via incontra Laio, che procede regalmente sul suo carro con la scorta  di servi, reclamando a colpi di scudiscio la precedenza su Edipo che viaggiava da “semplice pedone”, lo uccide ed uccide anche la scorta del re; per assicurarsi la impunità del precedente delitto, diremmo oggi noi, codice penale alla mano.

    La violenta fine di Laio ha radici nel suo stesso passato, altrettanto violento. Laio, infatti, è stato maledetto per avere rapito e violentato un giovane uomo; ha poi violentato la sua stessa moglie, Giocasta, che voleva astenersi dai rapporti coniugali per non generare il futuro assassino del padre; quando nasce Edipo gli buca e lega le caviglie, stigma di solito riservato agli schiavi, e lo consegna, o meglio lo fa consegnare da Giocasta, ad un servo, perché lo uccida. Il bambino viene privato così dapprima della sua identità sociale e  del suo status familiare e poi- almeno nelle intenzioni dei genitori- della vita. 

    I genitori adottivi di Edipo, dal canto loro, sebbene accoglienti e affettuosi, non si dimostrano molto più rispettosi dei diritti di Edipo. Quando costui li interroga, dopo aver sentito dire che egli è “figlio falso”, negano scandalizzati: e negando segnano il destino di Edipo, ed in fondo anche il loro, perché il giovane lascerà la città dove era stimato e rispettato, per evitare di agire contro coloro  che crede i suoi genitori.

    In altre parole, Edipo proviene da una famiglia biologica violenta e cresce in una famiglia adottiva dove le relazioni sono insincere: i sovrani di Corinto l’hanno adottato perché non possono avere figli, ma egoisticamente preferiscono mentire, a se stessi prima che al figlio, e accettano la separazione piuttosto che rivelare le origini, che peraltro, per quanto a loro conoscenza, sono umili, perché il bambino gli è stato consegnato marchiato come uno schiavo.

    2. La violenza  familiare e la negazione  della identità personale.

    Spogliata dai suoi risvolti mitologici, la storia di Edipo è una storia che ancora oggi si ripete, almeno in parte, per molti bambini dell’età contemporanea.

    In primo luogo, la storia si ripete  per i bambini vittime di abusi e abbandono morale e materiale da parte dei genitori, atti illeciti  che le istituzioni contrastano con molta fatica, e non sempre efficacemente, anche perché la consapevolezza che i bambini sono portatori di  diritti  ed interessi propri, che appartengono a loro stessi e non al gruppo familiare, è una conquista relativamente recente.

    I Tribunali e le Corti sono  congestionati da processi  di minori non riconosciuti dal padre che faticano ad ottenere lo status e da processi che riguardano figli che, seppure riconosciuti, sono stati  privati dell’assistenza morale e materiale dei genitori. Molti di loro reclamano il risarcimento del danno, che tuttavia non è mai integralmente riparativo dell’offesa subìta, perché l’essere  privati del supporto dei genitori, prestazione infungibile ed incoercibile, ha conseguenze non sempre rimediabili.

    Il tempo del minore è un tempo breve e prezioso, in cui la personalità si forma, e per formarsi in maniera armonica necessita di un sound enviroment, come ha precisato la Corte europea dei diritti dell’Uomo in data 6 luglio 2010 (Neulinger e Shuruk c. Svizzera), affermando che  l’interesse del minore  comprende tanto l’interesse a  mantenere regolari rapporti con entrambi i genitori quanto l’interesse a crescere in un ambiente sano, stabile ed affidabile. Il bambino ha diritto di vivere nella propria famiglia salvo che questa sia assolutamente inadeguata ed ha diritto  ad essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. È questo lo “statuto dei diritti dei figli”, enunciato dall’art 315 bis, che costituisce una conquista recente, poiché introdotto nel codice civile  nel 2012, dalla legge n. 219.

    Dall’epoca in cui Sofocle scriveva della vicenda di Edipo (presumibilmente nel 425 a.C. o poco dopo) ad oggi, sono trascorsi ventiquattro secoli, durante i quali si è tramandata  senza incertezze l’idea che le esigenze dei figli sono recessive rispetto a quelle dei genitori; fino a non molto tempo fa si riteneva che l’interesse della famiglia fosse superiore e prevalente su quello dei singoli individui che la compongono. Soltanto da una trentina d’anni si parla di diritti del bambino e di interesse del minore, da quando nel 1989 è stata firmata la Convezione di new York sui diritti del fanciullo, ratificata in Italia nel 1991, attuata molto lentamente nella legislazione nazionale, con interventi dapprima parziali (la legge sull’affidamento condiviso nel 2006, la riforma della legge sull’adozione dei minorenni nel 2001) e infine con la riforma della filiazione avvenuta nel 2012.

    La prospettiva si è  in un certo senso rovesciata, poiché oggi si parla non più di interesse superiore della famiglia, ma di superiore o prevalente interesse del minore, perpetrando così un errore di fondo, quello di applicare alla famiglia la regola del conflitto, da dirimere individuando una parte vincente ed una soccombente, anziché promuovere la cultura della mediazione.

    L’interesse del minore che deve tenersi in considerazione non è superiore, cioè prevalente su qualsiasi altro interesse, ma  il migliore (best interests of the child), quello che tra più scelte possibili garantisce il suo benessere psicofisico.

    La cultura del conflitto tra diritti dei genitori e diritti dei figli, rappresentata nella vicenda di Edipo dal parricidio/regicidio consumato dal protagonista e poi da lui stesso tenuto ai suoi danni (“chi ha assassinato l’altro, può inventare l’attentato a me”), non può che contribuire a innescare la spirale della violenza.

    Ed infatti, i Tribunali e le Corti, civili e penali, sono congestionati  anche da processi che riguardano bambini che sono o sono stati vittima di violenza, agita da uno o da entrambi i genitori, anche nella forma della violenza assistita.

    Le violenze familiari sono sempre vicende oscure, in cui non è facile definire il ruolo dei protagonisti: spesso è incerto se le donne, mogli e madri  che, come Giocasta, sono a loro volta vittime di violenza da parte del marito o del compagno, siano  esse stesse autrici della violenza sui minori oppure conniventi, ovvero vittime di una  ulteriore forma di violenza  quale  è l’essere costrette al silenzio su ciò avviene a danno dei figli.

    Anche il minore sul quale la violenza non è agita direttamente, ma che viene esposto ad assistere alla violenza esercitata da uno dei genitori sull’altro, è da considerare vittima di violenza; ed anche questa è una conquista relativamente recente, poiché solo nel 2013 è stata introdotta, quale circostanza aggravante comune dei delitti contro la vita l’incolumità e la libertà, la presenza del minore, e l’aggravante ad effetto speciale prevista  dell’art 572 c.p. e cioè l’aumento di pena fino alla metà se il fatto è commesso in presenza di un minorenne, è stata definitivamente configurata nel 2019 (dalla legge n. 69, codice rosso).

     Il minore vittima di violenza, diretta o assistita, è un soggetto fortemente a rischio di divenire a sua volta una adulto violento, in una sorta di ciclo perpetuo dell’abuso che vede riproporre gli stessi schemi comportamentali appresi da una generazione all’altra, sia esso il ruolo  dell’aggressore che della vittima;  si tratta di quella trasmissione intergenerazionale della violenza  di cui la vicenda di Edipo è un esempio.

    Edipo stesso, infatti, da vittima di violenza si trasforma in autore di violenza (“son malvagio e figlio di malvagi”): dapprima perché reagisce in modo spropositato – e sarà lui stesso ad ammetterlo davanti a Giocasta – ad un diverbio per una questione di precedenza, uccidendo l’offensore e tutta la sua scorta, tranne un servo che riesce a fuggire e che più tardi rivelerà i fatti; in seguito, nel momento in cui scopre il suo duplice delitto, punendo ferocemente se stesso, anche oltre il suo stesso editto, con il quale aveva prescritto l’esilio, ma non anche l’accecamento. Non solo: egli abbandona i figli maschi al loro destino, raccomandando al cognato/zio di prendersi cura solo delle figlie femmine. I due figli di Edipo, maledetti dal padre  come “incestuosa stirpe”, saranno a loro volta violenti, muovendosi guerra ed uccidendosi a vicenda.

    Soltanto Antigone, beneficiata da un ultimo gesto di affetto paterno, proverà ad interrompere la spirale della violenza, con un atto di  solidarietà e di pacificazione, che la rende un simbolo, nei secoli a venire, non solo della libertà di coscienza, ma anche di quella pietas che vuole la riparazione del torto piuttosto che la vendetta.

    La famiglia di Edipo non è inquinata soltanto dalla violenza, ma anche dalla menzogna. Ad Edipo viene negato più volte il diritto ad avere consapevolezza delle proprie origini. In primo luogo, dal padre  biologico,  che prima di mandarlo a morte, gli buca e lega le caviglie, per rendere irriconoscibile la sua origine legittima e nobile. Edipo  diventa così figlio di nessuno, al più di uno schiavo, tanto che egli stesso crede, quando il messo gli rivela che era stato abbandonato, di essere di stirpe servile e di ciò non si preoccupa, pensando che forse Giocasta arrossirà della “bassa nascita”, ma non lui, che si reputa figlio della Fortuna che gli è stata propizia, con il sottinteso orgoglio di essere homo faber fortuna sui, perché è arrivato al trono grazie alla sua sapienza e non alla sua ascendenza. Ad Edipo viene negata la consapevolezza della sua identità personale e l'accesso alle origini anche dai suoi genitori adottivi, che, quando lui li interroga per la prima volta, negano, ardenti di sdegno, che Edipo sia un “figlio falso”; gli viene negata la verità anche dal dio, perché l’oracolo, inetto a far venire alla luce alcunché di utile, non risponde alla sua domanda se non ambiguamente, profetandogli il parricidio e l’incesto, ma restando volutamente  silente sulla vera identità dei suoi genitori.

    Anche questa è una storia contemporanea, che interessa ancora oggi i figli adottivi, nonché  coloro la cui identità giuridica e sociale  è stata scissa dalla identità biologica.

    Soltanto nel 2001 la legge sull'adozione dei minorenni è stata modificata per riconoscere il diritto del figlio adottivo ad essere informato di tale  condizione, in primo luogo dai genitori, che “vi provvedono nei modi e termini che essi ritengono più opportuni”, e il diritto di accedere alle informazioni che riguardano la sua origine e l'identità dei  genitori biologici.

    Non si tratta però di un diritto perfetto, perché è esercitabile soltanto al raggiungimento dei 25 anni – e qui sembra essere sfuggita al legislatore l'antinomia di stabilire una età ben più alta di quella in cui si consegue la piena capacità di agire – ed inoltre l'accesso deve essere consentito dal Tribunale per i minorenni, il quale deve valutare che esso “non comporti grave turbamento all'equilibrio psico-fisico del richiedente”. Anche in questo caso sembra essere sfuggita al legislatore l'incongruenza di prevedere che un Tribunale per i minorenni valuti l'impatto della conoscenza sull'equilibrio psicofisico di una persona ampiamente maggiorenne e quindi – si suppone – in grado di decidere da sé se può o non può sostenere il peso della rivelazione delle proprie origini. La norma è congegnata in così aperta contraddizione con il principio di autodeterminazione, da lasciare il dubbio che essa serva a proteggere non già l'interesse del figlio adottivo ma l'interesse dei genitori.

    Inoltre essa conteneva, nella sua originaria formulazione, un divieto rigoroso di accesso alle origini nel caso di bambino nato da parto anonimo. Il divieto è parzialmente caduto soltanto pochi anni fa, dopo che la nostra Corte costituzionale nel 2013,  con la sentenza n. 278, sulla scia di quanto affermato nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell'Uomo (Godelli c. Italia), ha affermato – con una sentenza manipolativa – che il figlio nato da parto anonimo ha diritto a far interpellare la madre attraverso una procedura riservata, per chiedere se essa vuole rinunciare all’anonimato. Tuttavia, per rendere effettivo il diritto all'interpello, si è reso necessario anche l’intervento delle sezioni unite della Corte di Cassazione, adite con ricorso nell’interesse della legge ai sensi dell’art 363 c.p.c., le quali nel 2017 con la sentenza n. 1946 hanno affermato che, ancorché il legislatore non abbia introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile nella volontà contraria della madre.

    Non diverse problematiche riguardano i figli i nati da procreazione medicalmente assistita, ai quali i genitori intenzionali  consegnano una identità giuridica in tutto o in parte scissa dalla identità biologica e che non possono andare alla ricerca delle loro origini se le banche dati dei donatori di gameti sono anonime. Per questo, nel 2019, il Consiglio di Europa, con una raccomandazione, ha auspicato la rinuncia all’anonimato per tutte le future donazioni di gameti negli Stati membri, senza però alcun effetto retroattivo sul diritto di accesso alle banche dati  già sigillate dall’anonimato.

    3. Una riflessione sulla giustizia.

    La giustizia di Edipo è una giustizia ancora connotata da forti elementi di irrazionalità: la discrezionalità con la quale il re decide se indagare o meno; quando decide di indagare lo fa  sotto la spinta potente della collettività ferita, che reclama le difese dal male, ma anche per paura che il regicidio si ripeta a suo danno; l’uso della tortura sul testimone, la punizione feroce che non ferma la spirale della violenza perché vendetta reclama vendetta. Una giustizia intransigente, che nella spettacolarità della punizione cerca di far dimenticare  il colpevole ritardo con il quale si è mossa.

    Il dialogo tra Giocasta ed Edipo rivela una idea di giustizia servente al potere: il neonato viene soppresso per evitare non soltanto il parricidio, ma anche e soprattutto il regicidio; quando però il re viene effettivamente assassinato non si procede ad alcuna indagine, perché nel frattempo un altro re, più giovane e più capace, ha preso il suo posto. Il testimone  dell’omicidio, infatti, riesce a tornare a Tebe ed a parlare con la regina, ma vedendo che Edipo ha preso il potere, chiede di essere allontanato e a ciò Giocasta acconsente  senza porsi – e porre al testimone – troppe domande; del resto anche lei ha tutto da guadagnare nello scambio tra uno sposo e re anziano, gravato da una maledizione che gli impedisce di generare figli e di farli sopravvivere, ed uno sposo giovane, re sapiente che scioglie gli enigmi e padre prolifico.

    Nella generazione successiva assistiamo allo scontro tra Creonte ed Antigone, che invece  rappresenta le tensioni di una società che cerca di  stabilire regole di base che leghino tutti, anche il re e la sua famiglia, e di verificarne nel tempo la loro validità. Edipo era un tyrannos, termine che originariamente non aveva alcuna accezione negativa, ma indicava solo colui che  governava accentrando in sé i poteri legislativi, giudiziari e militari. Ed infatti Edipo decide, prima ancora di avere individuato il colpevole e sentito la sua storia, solo in base alla configurazione della fattispecie, quale sarà la punizione (l’esilio) con una norma ad hoc, nata sul momento; in seguito inquisisce, e poi nel momento in cui individua il colpevole, lo punisce, divenendo carnefice di sé stesso. Creonte invece, per quanto nei secoli sia stato indicato come uno spietato tiranno, è molto meno tyrannos di Edipo: è un uomo di governo che crede nella necessità di rispettare la legge, senza eccezioni (“saprò rendere prospera la città con queste leggi”). Creonte ha ereditato, dopo la morte di Edipo e la sanguinosa guerra tra i suoi due figli, una situazione di governo difficilissima, ed è un convinto assertore della necessità di rispettare le regole, senza le quali la polis, la comunità organizzata, non può funzionare. Antigone invece crede che la legge degli uomini debba cedere il passo di fronte ai valori della pietas e della solidarietà familiare (“leggi divine, non scritte, incrollabili”).

    La vicenda di Antigone e Creonte rappresenta la contrapposizione dialogica tra lo ius positum e i valori (o secondo altre letture,  lo ius naturale).

    Creonte ritiene che lo ius positum sia immutabile e che vincoli anche il re e la sua famiglia; per questa ragione impedisce ad Antigone di seppellire il fratello, anche se la vicenda riguarda i suoi nipoti e, di riflesso, anche suo figlio Emone, fidanzato di Antigone; per questo punisce Antigone quando disobbedisce alla legge. Questa soggezione alla legge scritta, che non ammette eccezioni per coloro che detengono il potere, costituisce un passo avanti rispetto alle vicende della generazione precedente, dove il re decide se perseguire o non perseguire e quando l’omicidio di un altro re, dove una regina può tranquillamente suggerire di troncare una inchiesta e di insabbiare la verità, quando si rivela pericolosa per la famiglia reale.   

    Alla fine della storia, poi, si fa un'ulteriore passo avanti e cioè si ammette che anche lo ius positum può essere cambiato quando quella regola non è più  condivisa dalla società, che parteggia per Antigone e la ritiene degna di essere coperta d’oro; la democrazia richiede che la legge, pur se promulgata dal sovrano, sia approvata dalla collettività (“città non è quella ove uno solo può”). La pietà per i defunti, ritenuta minusvalente da Creonte, quasi fosse solo il portato della emotività di una donna, si rivela invece un potente collante naturale tra le persone, e quindi utile  a mantenere la società compatta; da qui il ripensamento – sia pur tardivo – di Creonte.

    Se fossimo in una favola  di Esopo, si potrebbe dire che la morale della storia – o una delle tante che se ne può trarre – è il riconoscimento  della necessità di trovare un punto di equilibrio tra la vincolatività della regola e la possibilità di cambiarla quando si rivela non più utile al funzionamento della società, anzi dannosa.

    Vi è anche un’altra felice intuizione nella tragedia di Sofocle.

    La famiglia è rappresentata come il nucleo fondante della società organizzata: non solo perché il potere si trasmette per via familiare,  ma anche perché i veleni che si producono all’interno della famiglia contaminano la società, cagionando una epidemia che non può essere vinta se non con un atto di giustizia.

    Ciò dovrebbe indurci a riflettere sull'importanza della giurisdizione in materia di famiglia e minori, molto spesso ritenuta di second'ordine, gestione di interessi piuttosto che tutela dei diritti, salvo il caso in cui si discuta, più che dei diritti della persona, della ripartizione dei grandi patrimoni.

    Invece, ora come allora,  ci ritroviamo spettatori di tragedie che testimoniano come i veleni nascono nelle formazioni sociali più piccole (i nuclei familiari) e da qui si trasmettono alla formazione sociale più grande (la  polis, o comunità organizzata) che le contiene.

    L’unico strumento che può arrestare la diffusione del veleno è una giustizia efficacemente amministrata, non soltanto punitiva, ma anche riparativa, e che intervenga con la dovuta tempestività.

    Nella storia di Edipo manca un soggetto terzo che affermi i diritti dell'individuo all'interno del nucleo familiare: nessuno impedisce a Laio e Giocasta di mandare a morte Edipo, nessuno impedisce ai sovrani di Corinto di mentirgli sulle sue origini. L'oracolo del dio, che tutti – e quindi anche Edipo – consultano per sapere cosa fare nei passaggi incerti dell’esistenza, non è un organo di giustizia, perché non è tenuto a rispondere, o meglio risponde ciò che vuole, senza alcuna altra spiegazione, senza rispettare alcuna regola, se non quella dell’enigma.

    La giustizia invece deve parlare una lingua chiara, comprensibile a tutti, attenersi a regole predeterminate e soprattutto rispondere, in tempo utile e in modo completo, alle istanze di chi la interroga.

    La società contemporanea ha trovato il punto di equilibrio  faticosamente cercato dai protagonisti dell’Edipo re e di Antigone nella separazione dei poteri, nella istituzione di una giustizia imparziale ed indipendente  e soprattutto nel consenso espresso dalla collettività a trascrivere alcuni valori fondamentali nelle Costituzioni (o in altre Carte dei valori). Valori che ispirano la legislazione positiva  e che al tempo stesso ne costituiscono il limite e la prova di resistenza, perché la ricerca dell’ordinamento giusto, o più semplicemente dell’ordinamento adeguato a garantire il regolare funzionamento di una società organizzata, è un ricerca mai conclusa, che ogni generazione trasmette alla successiva.

      [*] Il testo è la rielaborazione dell’intervento tenuto al convegno “Camminando tra miti ed attualità”, organizzato da CAMMINO (Camera minorile per la persona, le relazioni familiari e i minorenni), Siracusa, 3 luglio 2022.

    ​Il “codice rosso”: quando la legge diventa propaganda  di Marco Imperato

    Il “codice rosso”: quando la legge diventa propaganda  di Marco Imperato

    La legge 69 del 2019 (il c.d. Codice Rosso), in vigore dallo scorso 9 agosto, è l’ennesimo intervento del legislatore che si occupa  del fenomeno della violenza domestica e di genere.

    Sono introdotte numerose novità di natura sostanziale, a cominciare dall’ennesimo aumento delle pene edittali e dall’introduzione di nuove figure di reato: diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate (cd. revenge porn), deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, costrizione o induzione al matrimonio e la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.

    La norma manifesto dell’intero provvedimento, tuttavia, è quella che stabilisce l’obbligo di assumere informazioni dalla persona offesa e da chi ha presentato denuncia entro 3 giorni dall’iscrizione nel registro delle notizie di reato.

    Il vero intento della regola, sintomatica di profonda sfiducia verso la magistratura, è quello di esercitare pressione sulle Procure affinché garantiscano l’ascolto delle vittime in tempi strettissimi: da un’eventuale violazione del termine, infatti, non deriverebbe alcuna sanzione processuale e l’unica conseguenza effettiva sarebbe solo un procedimento disciplinare a carico del Pubblico Ministero inadempiente. Questo monito non credo contribuirà in alcun modo a garantire un servizio migliore; anzi, toglie serenità a chi deve valutare quotidianamente moltissimi fatti potenzialmente delicati ma ciascuno diverso dall’altro (e se io fossi una vittima o un indagato ci terrei molto alla serenità dell’autorità giudiziaria…).

    L’ urgenza presunta ex lege per casi tra loro eterogenei (maltrattamenti e atti persecutori di qualsiasi gravità, violenze sessuali, lesioni aggravate di vario tipo) è incongrua e illogica perché costringe a trattare allo stesso modo e con analoga urgenza situazioni che dovrebbero consentire scelte e valutazioni differenziate.

    Sarebbe come pretendere di diminuire i tempi di attesa al Pronto Soccorso solo stabilendo che tutti i malati vanno trattati con codice rosso (appunto…) e quindi massima priorità: è lapalissiano che senza aumentare le risorse a disposizione non vi potranno essere miglioramenti, ma si rischierà soltanto di ingolfare ancor di più il lavoro di chi deve gestire l’emergenza, senza alcun beneficio per le vittime in sala d’attesa.

    Si tratta di scelte che non rispondono a logiche di funzionalità ma a strategie di propaganda.

    La legge si preoccupa anche della formazione degli operatori ma non bastano enunciati generici; in questa materia l’esperienza è necessaria e la sfida sarebbe garantire un approccio adeguato anche da parte delle forze dell’ordine più “periferiche”, baluardo indispensabile nel Paese dei centri medio-piccoli (due terzi degli italiani vivono in comuni da meno di 50.000 persone), ma a cui è difficile chiedere una gestione professionale quando manca loro la possibilità stessa di specializzarsi. Senza dimenticare la difficoltà a districarsi in una giungla di novità legislative compulsive in cui si disorientano anche gli operatori giuridici più esperti.

    Soprattutto agli operatori di prima linea sarebbe di aiuto un quadro normativo chiaro, stabile e semplificato, per aiutarli ad orientarsi nelle prime decisive scelte dell’indagine e nelle indicazioni da dare alla vittima al primo contatto.

    Per gestire in modo più razionale l’emergenza del fenomeno, nella Procura Bologna si è data disposizione di utilizzare un protocollo di valutazione del rischio denominato SARA (Spousal Assault Risk Assessment), che consente di dare maggiore uniformità ed oggettività alla verifiche di rischi e priorità, ma non si potrà mai prescindere da esperienza, sensibilità personale e contesto culturale.

    In questo quadro, la previsione dell’audizione automatica e immediata della vittima entro 3 giorni (spesso la seconda audizione, perché in molti casi l’indagine scaturisce da una denuncia\querela) rischia per un verso di essere inutile perché ripetitiva, per altro verso di risultare dannosa, perché si traduce nella c.d. vittimizzazione secondaria della persona offesa, cui ogni rievocazione delle condotte subite può provocare sofferenza ulteriore. Tanto è vero che nel recente passato la scelta legislativa era stata di segno opposto, mirando ad un’audizione unica della vittima, mediante la previsione dell’incidente probatorio per le persone offese dei medesimi reati per cui oggi si pretende invece un (secondo) ascolto frettoloso e senza contraddittorio.

     Mi occupo di violenza domestica e di genere ormai dal 2004 e ho spesso ritenuto essenziale risentire le vittime di questi reati, ma non di rado è opportuno farlo solo dopo aver ampliato il ventaglio di conoscenze del contesto mediante altre indagini (così da saper porre anche le domande giuste); quando non emergono immediati ed evidenti elementi di rischio sarà anzi utile procedere ad una nuova audizione almeno dopo qualche settimana e non immediatamente.

    Chi si occupa di queste vicende sa bene quanto fluide e instabili siano queste situazioni e quindi volta per volta va verificato l’andamento della vicenda e anche se vi siano dei cambiamenti nell’approccio della persona offesa. Eventuali ripensamenti della vittima non sono sempre determinanti o affidabili, potendo a volte essere il segnale anzi di situazione di vulnerabilità e paura, ma nemmeno possono essere ignorati: la persona che subisce dei maltrattamenti non va spremuta ma accompagnata, con un lavoro e un’attenzione che non sono mai meramente investigativi ma che devono farsi carico del contesto concreto.

     Ancora una volta il profilo che manca in questa iniziativa legislativa è la prevenzione (non potendosi ritenere tale la mera previsione di misure di prevenzione in senso tecnico): ci si illude di risolvere un fenomeno così complesso e radicato concentrandosi solo sui sintomi e sulle conseguenze, senza fare alcuna seria riflessione o investimento sulle cause culturali, sociali ed economiche.

    Si è di fatto investito il procedimento penale anche di funzioni preventive, che possono essere svolte dai nostri Uffici solo in casi specifici e comunque solo in presenza di gravi indizi di colpevolezza e concrete esigenze cautelari. Questo approccio non solo è inadeguato, ma complica le cose nel momento in cui il processo penale pone (giustamente e inevitabilmente) standard molto alti dal punto di vista probatorio e delle garanzie.

     Se vogliamo davvero invertire la tendenza che vede questi fenomeni crescere inesorabilmente (e con loro crescono i costi umani e sociali della violenza), le vere sfide da affrontare sono al di fuori del processo penale:

    -          Prevenzione culturale che rimetta al centro la donna, la sua dignità e indipendenza nella società e all’interno dei nuclei familiari 

    -          Sostegno alle pari opportunità come primo passo di emancipazione delle donne (la fragilità economica è un fattore non secondario nel rafforzare situazioni di maltrattamento e abuso)

    -          Forte campagna di informazione ed educazione per aiutare a riconoscere e prevenire gli abusi e per rendere le vittime consapevoli dei propri diritti

    -          Sostengo alle famiglie e alle comunità

    -          Politiche di integrazione in particolare verso il mondo dell’immigrazione, nel quale spesso la condizione femminile è ancor più vulnerabile e isolata

    -          Sostegno dopo il processo: cosa ne è della vittima una volta terminata la misura cautelare o emessa la sentenza?

    Tutto questo poi deve trovare alla fine un sistema giustizia complessivamente credibile ed efficace, perché le vittime devono poter riporre fiducia nelle forze dell’ordine, nella magistratura e nella capacità delle istituzioni di non lasciarle da sole.

    Nel contrasto alle violenze domestiche e di genere bisogna uscire dall’eterna emergenza di una stagione di propaganda, per avviare una percorso di serio investimento in cultura e risorse, affinché le regole già esistenti siano conosciute ed applicate con effettività e al contempo si diffonda consapevolezza di quanto sia prioritario proteggere le donne e sostenere la loro piena emancipazione e realizzazione.

     

    La violenza sulle donne basata sul genere: riflessioni - rimedi - prassi condivise e nuove forme di tutela di Sebastiana Ciardo

    La violenza sulle donne basata sul genere: riflessioni - rimedi - prassi condivise e nuove forme di tutela di Sebastiana Ciardo

    Sommario: 1. La violenza delle donne basata sul genere: riflessioni generali - 2. Definizione ed analisi dei dati - 3. Strumenti di giustizia preventiva - 4. Prospettive di riforma - 5. Conclusioni.

    1. La violenza sulle donne basata sul genere: riflessioni generali

    Nella giornata del 25 novembre, che celebra il triste fenomeno della violenza di genere, si sono susseguite manifestazioni, riflessioni, articoli, analisi statistiche, proteste che inducono a riflettere su un aspetto che lascia a dir poco sgomenti: negli ultimi anni il panorama normativo, giudiziario e repressivo si è via via sempre più arricchito anche grazie al fondamentale apporto del diritto eurounitario e delle convenzioni internazionali[1], ma allora perché il numero delle donne uccise aumenta di anno in anno, come ci ha ricordato ieri il Primo Presidente della Corte di Cassazione in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario alla presenza del Presidente Mattarella? Perché il fenomeno sta diventando una sorta di “genocidio” senza che alcuno strumento, tra quelli previsti, possa arginarne la drammaticità?

    La notizia di cronaca che quasi quotidianamente ci riporta un fatto di sangue a danno di una donna provoca un senso di profonda impotenza e rabbia, in ognuno di noi operatori della giustizia, perché non siamo riusciti, ancora una volta, ad ideare ed apprestare alcuna tutela effettiva a quella povera vittima tale da prevenirne la morte insensata.

    I dati drammatici emergono dal rapporto pubblicato dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza: “nel periodo 1° gennaio – 7 novembre 2021 sono stati registrati 247 omicidi, con 103 vittime donne di cui 87 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 60 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner. Analizzando gli omicidi del periodo sopra indicato, rispetto a quello analogo dello scorso anno, si nota un lieve decremento (-2%) nell’andamento generale degli eventi (da 251 a 247), con le vittime di genere femminile che mostrano un aumento più significativo, passando da 97 a 103 (+6%). I delitti commessi in ambito familiare/affettivo mostrano una leggera crescita (+2%), passando da 124 a 127; le vittime di genere femminile, da 83 nel periodo 1° gennaio - 7 novembre 2020, arrivano a 87 nell’analogo periodo dell’anno in corso (+5%). Stesso incremento (+5%) per le donne vittime di partner o ex che passano da 57 a 60”. [2]

    I dati drammatici ci pongono di fronte ad una valutazione di inevitabile “inefficienza” dell’apparato di repressione. Siamo chiamati a comprendere e capire quali siano le falle del sistema, dove si annidi in misura preponderante il pericolo, quali siano le fonti di maggiore rischio ed avviare una seria analisi dei dati, raccolti da organismi di elevata professionalità, allo scopo di modulare meglio e in maniera più efficace gli interventi.

    2. Definizione ed analisi dei dati

    Per comprendere meglio un fenomeno gli analisti ci insegnano che è necessario, in primo luogo, definirlo enucleandone i contorni e, in secondo luogo, esaminarne gli effetti anche se drammatici per prevenirne, nel futuro, le ulteriori manifestazioni.

    La Convenzione di Istanbul fornisce una precisa definizione di tutte le forme di violenza contro le donne: per violenza nei confronti delle donne, si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata;

    la violenza domestica designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima; il termine “genere”  si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini; la violenza contro le donne basata sul genere designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale o che colpisce le donne in modo sproporzionato.

    Questa ampia definizione racchiude e connota il fenomeno nel senso più ampio, ricomprendendo tutti i fatti di sangue consumati ai danni di una donna ma anche tutte le altre forme di “assoggettamento” ad un potere altrui, esercitato su una persona appartenente all’altro “genere”, che può estrinsecarsi in forme di gravi condizionamenti economici, psicologici, sessuali all’interno di un nucleo familiare.

    Definire la violenza consente di individuarla tempestivamente e di distinguerla dalla conflittualità tra persone di sesso diverso che, per quanto esasperata e connotata da particolare intensità emotiva, si distingue dalla violenza e deve essere fronteggiata con gli strumenti processuali apprestati dall’ordinamento per ogni forma di disgregazione familiare.

    Nel corso di un importante incontro di studi organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura [3], che ha visto la partecipazione di magistrati con funzioni di giudici della famiglia e minorili, penali, pubblici ministeri ordinari e minorili, svolto in forma laboratoriale, all’esito del quale sono state elaborate proposte di linee guida di coordinamento tra tutti gli uffici giudiziari coinvolti nella trattazione di casi di violenza, è stata predisposta una scaletta di indici sintomatici identificativi dell’uno e dell’altro fenomeno: la conflittualità presuppone sempre una situazione interpersonale basata su posizioni di forza (economica, sociale, relazionale, culturale) simmetriche. L’assenza di simmetria determina uno squilibrio di relazione e, quindi, in presenza di violenza non si può parlare di conflitto. Non si può confondere il conflitto con l’azione/reazione personale anche giudiziaria della parte che rivendica tutela e che si trovi in una situazione di squilibrio. Indici sintomatici di una violenza, che si consuma spesso all’interno del nucleo familiare, sono: gestione tirannica delle risorse economica; ludopatia, alcooldipendenza e tossicodipendenza; assenza di responsabilizzazione e di collaborazione all’interno della famiglia; denigrazione e svilimento nelle scelte familiari; isolamento dal mondo sociale ed affettivo (familiari, amici); gelosia eccessiva; rifiuto alla richiesta di separazione; la persona offesa non si presenta a rendere dichiarazioni anche se citata, dopo avere denunciato.

    L’importante studio condotto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, istituita al Senato e presieduta dall’on. Valente [4], ha consentito di raccogliere ed analizzare dati estrapolati dai numerosi procedimenti esaminati nei diversi distretti giudiziari e i risultati   fanno emergere una serie di importanti informazioni che possono essere così sintetizzati:

    a) i femminicidi avvengono in comuni di ogni dimensione e si distribuiscono in modo proporzionale alla popolazione residente;

    b) le vittime più numerose si collocano tra le giovanissime o anziane, a dimostrazione della maggiore condizione di fragilità in cui in una parte dei casi si trova la donna rispetto all’uomo;

    c) il 35,5% delle donne vittime di femminicidio risulta non occupata (29 disoccupate, 18 pensionate, 15 inattive, e 8 studentesse), mentre il 39,6% risulta occupata (78 su 197).

    Il dato più significativo mostra che più della metà delle 197 donne vittime di femminicidio (113 su 197, il 57,4%) sono state uccise dal proprio partner (inteso come marito, compagno, fidanzato, amante) il quale nel 77,9% dei casi (88 su 113) coabitava con la donna; il 12,7% (25) sono state uccise, invece, dall’ex partner e, nei casi in cui è il partner a commettere il femminicidio, in 4 coppie su 10 sono stati riscontrati, negli atti dei fascicoli esaminati, segnali di rottura dell’unione, in particolare nel 4,4% dei casi la coppia era separata di fatto, nel 9,7% la separazione era in corso e nel 23,9% la donna aveva espresso la volontà di separarsi. Nella maggioranza dei casi, dunque, la rottura dell’unione non è emersa dagli atti neanche come intenzione della vittima.

    Drammatiche, infine, sono le modalità cruente con le quali sono state perpetrati gli omicidi: il 28% delle donne sono state uccise con modalità efferate, la più frequente è l’accoltellamento (32%), seguono l’uso di armi da fuoco (25%) e di oggetti contundenti usati per picchiare/colpire la donna con lo scopo di provocarne la morte. Tra gli oggetti usati, che sono stati rilevati, nel 54% dei casi risultano: spranghe, tubi o pestelli di ferro, bastoni, martelli, asce, pietre, mazza da baseball, bottiglia di vetro, batticarne.

    Dagli atti dell’inchiesta condotta dalla Commissione ancora emerge la profonda solitudine nella quale versa la donna maltrattata che denuncia poche volte gli abusi subiti, tant’è che il 63% (123 su 196) delle donne uccise non aveva riferito a nessuna persona o autorità le violenze pregresse subite dall’uomo, a riprova della difficoltà incontrata nel cercare aiuto e la inefficienza delle istituzioni nell’apprestare una rete di tutele adeguata[5].

    La sintesi delle informazioni così enucleata mostra un dato comune: il fulcro delle violenze è certamente rinvenibile all’interno dei nuclei familiari e trova tragico epilogo nell’assenza di un sistema di rete idoneo a prevenire e tutelare la vittima.

    La recente Risoluzione adottata dal Parlamento Europeo il 6 ottobre 2021[6] pone al centro dei considerando e delle raccomandazioni indirizzate agli Stati una riflessione evoluta dei rapporti tra le coppie disgregate, ove la prioritaria esigenza deve essere quella di tutelare la possibile vittima di violenza, in ogni sua forma, ed anche i rapporti genitoriali, gli affidamenti dei minori e la regolamentazione delle relazioni tra ex partners deve essere modulata con un’attenzione particolare verso la prevenzione, anche se questo potrebbe determinare una limitazione della bigenitorialità nei confronti del genitore violento. È chiaramente detto, dopo avere rammentato la preminenza del superiore interesse del minore, “che la violenza da parte del partner è chiaramente incompatibile con l'interesse superiore del minore e con l'affidamento e l'assistenza condivisi, a causa delle sue gravi conseguenze per le donne e i minori, compreso il rischio di violenza successiva alla separazione e di atti estremi di femminicidio e infanticidio; sottolinea che, al momento di stabilire le modalità per l'attribuzione dell'affidamento e i diritti di accesso e visita, la protezione delle donne e dei minori dalla violenza e l'interesse superiore del minore devono essere di primaria importanza e dovrebbero prevalere su altri criteri; pone pertanto l'accento sul fatto che i diritti o le richieste degli autori o dei presunti autori dei reati durante e dopo i procedimenti giudiziari, anche per quanto riguarda la proprietà, la vita privata, l'affidamento dei minori, l'accesso, i contatti e le visite, dovrebbero essere determinati alla luce dei diritti umani delle donne e dei minori alla vita e all'integrità fisica, sessuale e psicologica e orientati al principio dell'interesse superiore del minore; sottolinea pertanto che la revoca dei diritti di affidamento e di visita del partner violento e l'attribuzione dell'affidamento esclusivo alla madre, se questa è stata vittima di violenza, possono rappresentare l'unico modo per prevenire ulteriori violenze e la vittimizzazione secondaria delle vittime; evidenzia che l'attribuzione di tutte le responsabilità genitoriali a tale genitore deve essere accompagnata da meccanismi di compensazione pertinenti, ad esempio prestazioni sociali e l'accesso prioritario a servizi di assistenza collettiva e individuale” (art. 9). Tale indicazione costituisce una svolta nel sistema dei valori e degli interessi fino ad ora enucleati dal legislatore europeo, anche di carattere culturale, nel senso che, seppur il sistema delle relazioni debba essere tale da salvaguardare l’interesse del minore ad intrattenere rapporti costanti ed intensi con entrambi i genitori, tale esigenza può essere sacrificata o posticipata se ciò serva ad apprestare tutela alla possibile vittima di violenza. Ma la chiave di lettura delle importanti raccomandazioni di matrice europea deve essere quella per cui il genitore “violento” ha anche carenze educative e di accudimento del figlio, tali da minare la sua competenza genitoriale e da incidere in senso negativo sul sano ed equilibrato sviluppo psico-fisico del minore.

    3. Strumenti di giustizia preventiva

    Il solco tracciato dal legislatore europeo individua due obiettivi, a mio avviso, prioritari ed ineludibili: a) costituire e far funzionare un sistema vero ed efficiente di rete e di coordinamento; b) intervenire con efficacia nella fase di immediata disgregazione del vincolo affettivo, mettendo immediatamente in protezione la donna ogni qualvolta emergano anche solo potenziali indici di violenza.

    Rispetto al primo segmento di azioni, gli interventi devono essere tali da consentire, a tutti gli operatori che, in qualche modo e a vario titolo, siano entrati in contatto con la vittima, di interagire e relazionarsi costantemente sì da costruirle attorno una “protezione” vera e garantista. Ciò imporrà il costante scambio di informazioni, di relazioni, un controllo continuo e costante tra i servizi, la polizia giudiziaria, i magistrati della Procura ordinaria e minorile nel caso in cui siano coinvolti minori, il giudice della famiglia se è già pendente un procedimento di separazione o di affidamento, il giudice minorile, il tutto in tempi assolutamente ridotti e celeri.

    La cura della tempistica deve necessariamente costituire l’obiettivo riformatore essenziale. Non possono essere tollerati più ritardi nello scambio di informazioni né nella somministrazione di protezione immediata e, sul punto, si potrebbe concepire l’utilizzo di nuovi strumenti informatici adeguati con la creazione di una rete che consenta a tutti gli operatori un costante dialogo e scambio di informazioni.

    Le Linee Guida del CSM del 2018[7], hanno individuato una metodologia di lavoro tra uffici ispirata all’esigenza di specializzazione, di coordinamento tra magistratura civile, penale e requirente, di maggiore conoscenza dei procedimenti spesso paralleli relativi ad una stessa situazione di fatto, di coordinamento istruttorio anche per evitare “vittimizzazione processuale” secondaria, di maggiore coerenza nell’esito dei procedimenti penali e di quelli relativi all’affido dei figli minori, ancorché, alla luce degli esiti della Commissione di inchiesta e della nuova Risoluzione del Parlamento Europeo si imporrebbe un aggiornamento delle Linee Guida, per molti versi generiche, non sempre efficaci e in molti uffici rimaste inattuate.

    La seconda azione deve necessariamente investire il giudice della famiglia, competente a regolamentare i rapporti tra ex coniugi/partners e ad adottare provvedimenti in materia di affidamento dei figli, oggetto di particolare attenzione anche da parte del legislatore europeo.

    Il ruolo centrale rimane l’affidamento dei figli e ogni provvedimento adottato deve presupporre in primo luogo, l’individuazione rapida degli indici di violenza e la completa informazione del Giudice su tutti gli elementi già in possesso di altre autorità, con l’ausilio del Pubblico Ministero, specializzato ed attivo che veicoli i dati necessari nel processo.

     In secondo luogo, il Giudice deve attivare i propri poteri officiosi conducendo un’istruttoria serrata su tutti gli aspetti rilevanti della vicenda che ha contrassegnato i rapporti di quella coppia, ciò allo scopo di accertare o di negare la violenza allegata.

    In questa fase preliminare, è necessario adottare provvedimenti di affidamento dei minori compatibili con un’allegazione di violenza, evitando ogni forma di contatto tra i partners, anche con affidamenti esclusivi alla madre e/o con il coinvolgimento dei servizi o di soggetti estranei che favoriscano gli incontri, se possibile.

    In terzo luogo, ogni intervento deve essere rapido: i tempi processuali devono necessariamente essere compatibili con le esigenze di tutela nella consapevolezza che il ritardo, nelle fasi iniziali della disgregazione dei vincoli affettivi, quando la emotività, la rabbia e le rivendicazioni possono raggiungere livelli elevatissimi ed esasperati, costituisce una fonte pericolosa che alimenta la violenza.

    4. Prospettive di riforma

    Su ciascuno dei punti indicati è necessario intervenire, perché gli apparati giudiziari e normativi non sono ancora pienamente adeguati a fornire risposte efficienti di tipo preventivo.

    Un interessante progetto organizzativo “pilota”, adottato al Tribunale di Terni[8], ha previsto alcune soluzioni di tipo organizzativo e metodologico, nel senso dianzi indicato, laddove, in presenza di allegazioni di violenza, i singoli procedimenti sono trattati rapidamente, ricevendo una “corsia preferenziale” sui quali vengono svolti i seguenti adempimenti: 

    - apposizione di elementi distintivi sulla copertina del fascicolo cartaceo per una rapida identificazione dello stesso come procedimento con allegazioni di violenza domestica;

    - fissazione della prima udienza di comparizione delle parti con urgenza rispetto agli altri procedimenti in materia (in un lasso di tempo che va da un minimo di 15 giorni - per assicurare la regolare citazione dell’altra parte – ad un massimo di 60 giorni);

    - attivazione di poteri officiosi da parte del giudice assegnatario del procedimento per acquisire, già dalle prime fasi del procedimento, gli atti dei procedimenti penali, eventualmente pendenti, anche in fase di indagine (ove ostensibili), con diretta richiesta al Pubblico Ministero (interveniente necessario nei procedimenti in oggetto), e con sollecitazione rivolta al P.M. di presenziare in udienza ovvero di proporre proprie memorie ai sensi dell’art. 72 c.p.c.. Queste richieste vengono formulate, per i casi più gravi, già nel decreto di fissazione dell’udienza ovvero all’esito della prima udienza di comparizione delle parti;

    - attivazione di poteri officiosi da parte del giudice civile assegnatario per acquisire, già nelle prime fasi (con richiesta contenuta nel decreto di fissazione dell’udienza o all’esito della prima udienza), gli atti dei procedimenti eventualmente pendenti dinanzi al Tribunale per i minorenni;

    - adozione di misure necessarie per evitare la c.d. vittimizzazione secondaria assicurando, nei casi di maggiore gravità (per esempio in ipotesi di presenza  di misure cautelari nell’ambito di paralleli procedimenti penali), la presenza della  forza pubblica nell’udienza civile, ovvero assicurando le necessarie cautele per evitare la contemporanea presenza nel medesimo contesto di entrambe le parti (ad esempio prevedendo la comparizione delle parti in orari differenziati ovvero lo svolgimento dell’udienza con modalità di collegamento da remoto tramite l’applicativo TEAMS);

    - valutazione a confronto delle dichiarazioni delle parti sui fatti di violenza già dalla prima udienza di comparizione, stimolando il contraddittorio sulle affermazioni contrastanti;

    -  attenzione ad evitare qualunque forma di invito alla mediazione familiare;

    - attivazione già dalle prime fasi del procedimento, e comunque prima dell’adozione dei provvedimenti provvisori (per esempio prima dell’emanazione dei provvedimenti presidenziali) dei poteri officiosi del giudice al fine di verificare, il fumus circa la fondatezza delle allegazioni di violenza (per esempio disponendo l’escussione quali informatori di soggetti che possano aver assistito ovvero possano riferire sui fatti di violenza; acquisendo documenti presso uffici pubblici o Forze dell’Ordine intervenute, pur in assenza di procedimenti penali pendenti);

    - ascolto diretto dei minori da parte del giudice procedente già dalle prime fasi del procedimento e comunque prima dell’adozione dei provvedimenti presidenziali o provvisori;

    - formulazione di richieste ai responsabili del Servizio Sociale o di quesiti ai CTU che tengano in considerazione la presenza di potenziale violenza domestica, per evitare anche in tali contesti forme di vittimizzazione secondaria, ovvero accertamenti incompleti proprio in ragione della mancata considerazione di eventuali agiti violenti.

    - applicazione dei contenuti della “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, cd. Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia con la legge del 27 giugno 2013, n. 77, in particolare: dell’art. 31 nel quale è previsto che “al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, devono essere presi in considerazione gli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione” e che devono essere adottate misure necessarie per garantire che l'esercizio dei diritti di visita o di custodia dei figli non comprometta i diritti e la sicurezza della vittima o dei bambini; dell’art. 48 che vieta la mediazione familiare in presenza di violenza domestica.

    Infine, la recentissima Legge delega per la riforma del processo civile n. 206/2021 pubblicata nella G.U. il 9.12.2021, all’art. 23 lett b), testualmente prevede, nella parte relativa alla riforma del rito avente ad oggetto il contenzioso familiare e minorile, che il governo, nell’adottare i decreti delegati, “in presenza di allegazioni di violenza domestica o di genere siano assicurate: su richiesta, adeguate misure di salvaguardia e protezione, avvalendosi delle misure di cui all’articolo 342 -bis del codice civile; le necessarie modalità di coordinamento con altre autorità giudiziarie, anche inquirenti; l’abbreviazione dei termini processuali nonché specifiche disposizioni processuali e sostanziali per evitare la vittimizzazione secondaria. Qualora un figlio minore rifiuti di incontrare uno o entrambi i genitori, prevedere che il giudice, personalmente, sentito il minore e assunta ogni informazione ritenuta necessaria, accerta con urgenza le cause del rifiuto ed assume i provvedimenti nel superiore interesse del minore, considerando ai fini della determinazione dell’affidamento dei figli e degli incontri con i figli eventuali episodi di violenza” [9]

    5. Conclusioni e riflessioni

    Le indicazioni provenienti dal legislatore europeo ed italiano tentano di individuare un sistema serrato di interventi nella consapevolezza che l’apparato di norme repressive, seppur necessario, non abbia consentito di prevenire né di ridurre l’escalation di violenza e di femminicidi sempre più drammatica, inevitabilmente acuita dall’emergenza pandemica, dalla forzata convivenza e dalla depressione economica. Ed allora, sarà necessario ripensare l’intero sistema organizzativo, nella convinzione che solo una rapida ed efficace tutela preventiva e “protettiva”, anche di tipo culturale e sociale, potrà servire a fronteggiare nel miglior modo possibile questo orrendo crimine[10].

    L’ultima riflessione deve essere riservata alla formazione: solo operatori informati e formati possono comprendere ed agire in maniera efficace ed efficiente, manovrando nel modo corretto gli strumenti offerti dal legislatore e dal sistema organizzativa, la realtà quotidiana lo impone senza che ogni intervento sia più rinviabile.

     

    [1] Tra le fonti più importanti, si rammentano: Convenzione di Istanbul 11 maggio 2011, ratificata in Italia con legge 27 giugno 2013, n. 77 ed entrata in  vigore nel mese di agosto del 2014; Risoluzione del parlamento europeo del 26 novembre 2009; Convenzione per l’eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione delle Donne (Cedaw), adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1979 e ratificata in Italia con la legge n.132 del 1985; Direttiva 2012/29/UE: norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato recepita ed attuata con il decreto legislativo n.212 del 2015; in ultimo, la Risoluzione del Parlamento europeo del 6 ottobre 2021 sull'impatto della violenza da parte del partner e dei diritti di affidamento su donne e bambini.

    [2] Relazione del Dipartimento della Pubblica Sicurezza - Direzione centrale della polizia criminale - Servizio analisi criminale pubblicato nel mese di novembre 2021.

    [3] Corso P19040 tenuto a Scandicci il 13-15 maggio 2019

    [4] Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere (Istituita con deliberazione del Senato della Repubblica del 16 ottobre 2018e prorogata con deliberazione del Senato della Repubblica del 5 febbraio 2020)

    [5] Solo il 35% (69 su 196) aveva parlato della violenza con una persona vicina, il 9% (18 su 196) si era rivolta ad un legale per chiedere consiglio, e il 15% (29 su 196) aveva denunciato/querelato precedenti violenze o altri reati compiuti dall’autore ai suoi danni.

    [6] Risoluzione del Parlamento europeo del 6 ottobre 2021 sull'impatto della violenza da parte del partner e dei diritti di affidamento su donne e bambini (2019/2166)

    [7] Delibera del Consiglio Superiore della Magistratura del 9 maggio 2018

    [8] Progetto Pilota per la rilevazione e la trattazione dei procedimenti di famiglia che presentino allegazioni di violenza domestica – novembre 2020

    [9] LEGGE 26 novembre 2021, n. 206. Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della  disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata.

    [10] Definito da Papa Francesco, nell’omelia tenuta durante la me

    ​Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria

    Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria [1]

    di Maria Monteleone

    Analisi delle indagini condotte presso le Procure della Repubblica, i Tribunali Ordinari, i Tribunali di Sorveglianza, il Consiglio Superiore della Magistratura, la Scuola Superiore della Magistratura, il Consiglio Nazionale Forense e gli Ordini degli Psicologi.[2] 

    Sommario: Premessa - 1. Le Procure della Repubblica - 1.1. Il quadro emerso dai dati - 1.2 Le differenze tra diversi gruppi di Procure - 1.3. Osservazioni conclusive - 2. I Tribunali ordinari - 2.1. Il quadro emerso dai dati - 2.3. Osservazioni conclusive - 3. I Tribunali di sorveglianza - 3.1. Osservazioni conclusive - 4. La formazione degli operatori - 4.1. La Magistratura - 4.2 - L’avvocatura - 4.3. Gli Psicologi - 5. Conclusioni.

    1. Premessa

    Il “monitoraggio sulla concreta attuazione della Convenzione di Istanbul” costituisce uno dei compiti della Commissione parlamentare d'inchiesta sul femminicidio, per queste ragioni l’attività di indagine   non poteva che prendere le mosse  dall’esame della realtà giudiziaria, partendo da dati certi,  al fine di rilevare  con quali modalità  il nostro Paese  contrasta il fenomeno della violenza di genere e domestica.

    Non è un caso che la stessa Convenzione dedichi una specifica disposizione - l’art. 11 alla “raccolta dati e ricerca”,  impegnando gli Stati firmatari ad effettuare  rilevazioni statistiche sul fenomeno, per consentirne una conoscenza reale, ma anche  per  verificare l’efficacia delle misure adottate, le tendenze delle varie forme di violenza, stimolare la cooperazione.

    In effetti , quando nel 2019 la Commissione di inchiesta ha attenzionato questo aspetto specifico, non si poteva neppure prevedere cosa –in breve tempo- sarebbe accaduto e quale rilievo il suo esito avrebbe assunto.

    Ci si riferisce non tanto alla modifica del quadro normativo conseguente all’entrata in vigore della L.n.69/2019, quanto  alla diffusione pandemica del Covid 19 , che per molteplici  ragioni ha prodotto gravi effetti sia sulla diffusione dei delitti di violenza domestica che sulla capacità di  reazione e di contrasto dell’ attività giudiziaria.

    Per questi motivi  si ha ragione di ritenere che  l’esito dell’indagine svolta assuma un rilievo ancora maggiore , in questo particolare momento storico, nel quale il nostro Paese è impegnato nello studio di interventi e modifiche legislative sulla giustizia ed ha in valutazione piani di investimenti finanziari che non possono non riguardare anche questo specifico settore.

    I principi indicati  dalla Convenzione di Istanbul  come “qualificanti” nell’azione di contrasto alla violenza domestica e di genere sono:

    a) la specializzazione di tutti gli operatori;

    b) adeguati meccanismi di cooperazione efficace tra tutti gli organismi statali competenti, comprese "le autorità giudiziarie, i pubblici ministeri e le autorità incaricate dell’appli­cazione della legge";

    c) la possibilità di monitorarne l’applicazione attraverso una effettiva rilevazione statistica e la conseguente valutazione dei dati rivelatori del fenomeno.

     La Commissione ha quindi ritenuto importante accertare, attraverso la verifica della qualità della risposta giudiziaria ad alcune specifiche problematiche, “se” e “come”

     i principi fondamentali della stessa Convenzione abbiano assunto concreto rilievo traducendosi nella realtà operativa.

    Come è evidente l’interesse non è meramente conoscitivo e valutativo dell’attuazione della Convenzione stessa ma anche  prodromico alla formulazione di conseguenti rilievi e proposte anche operative.

    Per queste ragioni sono stati acquisiti i dati riguardanti alcuni aspetti maggiormente qualificanti dell’atti­vità di alcuni uffici giudiziari più importanti, proprio  in quanto sintomatici del grado di efficacia dell’azione di contrasto; nello stesso tempo l’attenzione si è focalizzata sul tema centrale della "formazione" e della "specializzazione" dei diversi protagonisti dell’attività di contrasto: i magistrati, gli avvocati ed i consulenti tecnici (nello specifico gli psicologi).

    Sulla base di questionari appositamente redatti, le indagini hanno riguardato le Procure ed i Tribunali Ordinari, i Tribunali di Sorveglianza, il Consiglio Superiore della Magistratura, la Scuola Superiore della Magistratura, il Consiglio Nazionale Forense e gli Ordini degli Psicologi ed hanno focalizzato l’atten­zione sul triennio 2016-2018.[3]

    1. Le Procure della Repubblica

     Gli uffici più direttamente coinvolti nell’azione di contrasto alla violenza di genere e domestica, per le funzioni inquirenti attribuite dall’ordinamento giudiziario, sono le Procure della Repubblica, uffici competenti, insieme agli organi di polizia giudiziaria, nell’assicurare l’intervento dello Stato nella immediatezza della commissione dei reati e nel conseguente svolgimento delle attività di indagine. Per questo motivo un’attenzione particolare è stata rivolta all’esame degli aspetti più qualificanti dell’attività investigativa e dell’organiz­zazione delle Procure.

    Si sono dapprima evidenziati come determinanti i temi della effettiva specializzazione dei pubblici ministeri e delle modalità di assegnazione dei relativi procedimenti.

    Si è inoltre verificato “se e quanto” sia diffusa la coscienza della complessità della materia e la conoscenza della specificità dei reati tipici, ed anche “se e quanto” siffatta consapevolezza si sia tradotta in modelli organizzativi idonei a garantire competenza e tempestività nella trattazione dei procedimenti. Ciò in coerenza anche con i principi di efficienza ed effettività dell’intervento giudiziario.

    Ci si è poi concentrati sull’accertamento del grado di coinvolgimento degli esperti (quasi esclusivamente psicologi) chiamati a prestare la loro attività anche nel procedimento penale, e quindi ci si è soffermati sulla verifica del ruolo agli stessi riservato, su quanto siano diffusi ed omogenei i comportamenti più virtuosi: modalità di scelta dell’esperto, adozione di quesiti standard oggetto dell’incarico, elaborazione dello stesso con altri interlocutori istituzionali.

    La carenza o la inidoneità di tali elementi, infatti, contribuisce a rendere concreto il rischio di inadeguatezza della risposta giudiziaria, con conseguenti ulteriori effetti negativi per le vittime vulnerabili, con particolare riguardo alla inderogabile esigenza di garantirne l'effettiva protezione.

    Dall’analisi degli esiti dell’indagine emerge una situazione molto variegata tra i diversi Uffici di Procura. Come verrà  esposto in seguito, è stato possibile individuare gruppi di Procure che si trovano in stadi diversi di consapevolezza e azione. Un percorso di cambiamento è stato comunque avviato, sebbene ancora largamente incompleto.

    Emerge, nel complesso, una insufficiente consapevolezza della complessità della materia, sicchè  solo un significativo cambiamento culturale consentirà un salto di qualità nell'azione degli uffici.

    È fondamentale fare in modo che i comportamenti virtuosi, pur presenti, non restino episodici e strettamente dipendenti dall’iniziativa personale e che le best practices, oggi troppo frammentate e isolate, possano svolgere, se adeguatamente supportate, un importante ruolo di "traino" per gli altri uffici giudiziari.

    Si delinea, quindi, la necessità di una doppia strategia: da un lato un percorso di tipo culturale che porti alla condivisione della complessità e della rilevanza della materia; dall’altro, la messa a punto di azioni ed interventi strutturali, anche di tipo ordinamentale e regolamentare, che siano coerenti ed adeguati.

    I segnali positivi che emergono nelle Procure appartenenti ai gruppi più "virtuosi" assumono una grande rilevanza in quanto potrebbero svolgere un ruolo di impulso per le altre Procure meno preparate, ma anche per i Tribunali Ordinari, nei quali, come si vedrà la situazione complessiva appare più critica.

    1.1. Il quadro emerso dai dati

    Come  riferito la rilevazione si riferisce al triennio 2016-2018, il tasso di risposta, molto alto, è stato pari al 98,6% (138 Procure su 140).

    Su un totale di 2.045 magistrati requirenti, il numero di quelli assegnati a trattare -nel 2018-  la materia specializzata della violenza di genere e domestica, è pari a 455, ovvero il 22% del totale. Tuttavia, come si evince dai dati, non necessariamente i magistrati specializzati si occupano soltanto della materia della violenza di genere e domestica e, viceversa, non necessariamente detti procedimenti sono sempre assegnati a magistrati specializzati. Inoltre, la situazione risulta molto variabile tra i diversi Uffici.

    Nel 10,1% delle Procure (14 su 138), tutte di piccole dimensioni, non esistono magistrati specializzati nella materia e questo implica che i procedimenti sono assegnati a tutti  i sostituti indistintamente.

    Nel 90 % (124 su 138) delle Procure, invece, è stato costituito un gruppo di magistrati specializzati che tratta la materia della violenza di genere contro le donne, tuttavia insieme ad altre materie riguardanti i cosiddetti "soggetti deboli o vulnerabili".

    Solo una minoranza degli uffici, pari al 12,3% (ovvero 17 su 138, di cui 10 di piccole, 4 di medie e 3 di grandi dimensioni) segnala l’esistenza di un gruppo di magistrati specializzati esclusivamente nella violenza di genere e domestica, ma ciò non esclude che, soprattutto nelle piccole Procure, essi trattino anche procedimenti di altre materie.

    Dove esiste un gruppo di magistrati che si occupa – con le altre o esclusivamente – della materia della violenza di genere e domestica, ovvero nel 90% delle Procure, ci si dovrebbe aspettare che i procedimenti in materia vengano assegnati necessariamente a magistrati specializzati, tuttavia non è sempre così. Infatti nel 20% delle Procure nelle quali esiste un gruppo di magistrati specializzati, non sempre i procedimenti in materia di violenza di genere e domestica sono assegnati a detti magistrati.

    Ciò significa che i responsabili della organizzazione degli uffici giudiziari non hanno ancora raggiunto una adeguata consapevolezza della particolare complessità che la trattazione della materia della violenza di genere e domestica richiede, tanto che il 62% delle Procure dichiara di equipararla alle altre materie nella distribuzione dei carichi di lavoro tra i magistrati.

     Questo dato appare rilevante, in quanto il mancato riconoscimento della complessità della materia potrebbe contribuire all’innescarsi di circoli viziosi: non adeguatezza ed efficienza della risposta giudiziaria, non tempestività dell’inter­vento, aggravio/sbilancia­men­to nel carico di lavoro a svantaggio dei magistrati specializzati, con il rischio concreto di una disaffezione nei confronti della materia e di un disincentivo a trattarla.

    Strettamente connesso è il tema del ruolo svolto, anche nella fase delle indagini preliminari, dai consulenti tecnici, figure professionali rappresentate, nella quasi totalità dei casi, dagli psicologi. Tali figure nel tempo hanno assunto in questa materia una rilevanza sempre maggiore che si esplica non soltanto nello svolgimento di accertamenti di tipo specialistico (accertamento tecnico o perizia), ma anche nella funzione di "ausilio" alla polizia giudiziaria, al Pubblico Ministero o al difensore, nella raccolta di informazioni da minorenni o persone offese in condizione di "particolare vulnerabilità", con diretti riflessi sull’assun­zione della prova dichiarativa (testimonianza) nel procedimento penale.

    Significativi sono i deficit nel loro impiego nello svolgimento delle consulenze psicologiche sui minori, e in primis il fatto che la nomina non avviene sempre sulla base dell’accertamento di una effettiva specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica.

    Il 25% delle Procure sceglie i CTU sempre e soltanto tra quelli iscritti all’Albo dei periti del Tribunale, albo che non contiene una sezione o un elenco di esperti specializzati nella materia, né prevede che tale competenza sia verificata in sede di richiesta di iscrizione all’albo stesso.

    Inoltre, è ancora troppo poco diffusa l’adozione di "quesiti standard" nel conferire incarichi ai consulenti nella materia della violenza di genere e degli abusi sui minorenni. Questa scelta pare auspicabile, in primo luogo perché è garanzia di omogeneità nell’azione giudiziaria (e ciò è particolarmente significativo negli uffici di medie e grandi dimensioni), in secondo luogo perché consente di assicurare, soprattutto in un settore così complesso, una corretta individuazione dell’oggetto dell’inca­rico e, quindi, di garantire, al meglio, il rispetto dei confini tra l’accer­tamento peritale e la funzione giurisdizionale riservata al magistrato.

    Solo il 18% degli uffici (25 Procure su 138) ha adottato un quesito standard e soltanto l’11% (15 su 138) – come pure richiesto – lo ha inviato alla Commissione.

    Dove pure si ricorre a quesiti condivisi, solo in casi marginali (10 su 25) questi sono stati elaborati con il contributo di altri interlocutori del processo (ad esempio gli stessi specialisti o gli ordini professionali) come invece sarebbe auspicabile.

    Complessivamente, quindi, soltanto il 7% degli Uffici ha adottato un quesito standard redatto dalla Procura con l’utile e importante contributo degli specialisti e di altre figure professionali.

    Da una valutazione dei quesiti trasmessi (in totale 15 Uffici) emerge che in più di un quarto di essi (4 su 15) si profilano aspetti problematici circa il loro contenuto, potendosi prospettare il possibile rischio di uno sconfinamento dal ruolo assegnato dalla legge alla consulenza tecnica a scapito del corretto esercizio della funzione giurisdizionale.

    1.2 Le differenze tra diversi gruppi di Procure

    L’analisi multivariata dei dati ha evidenziato un panorama fortemente variegato, all’interno del quale emergono stadi diversi di consapevolezza di azione che si esprimono in cinque raggruppamenti di Procure.

    Dei gruppi individuati, due - di piccole dimensioni - risultano fortemente contrapposti: il più virtuoso, che si colloca in uno stadio avanzato nel processo di adeguamento a standard di efficienza, e quello più critico, composto da Procure in cui tale processo deve ancora essere avviato.

    Nell’ambito intermedio si colloca quasi l’80% delle Procure suddivise in tre gruppi di diverse dimensioni, ognuno dei quali si caratterizza per alcuni elementi positivi ed altri più critici.

    Il gruppo più virtuoso include il 12% delle Procure (16 su 138) accomunate sia da un’elevata attenzione alla materia della violenza di genere e domestica – che riesce anche a tradursi in azione tramite l’assegnazione della materia a magistrati specializzati - sia da un elevato grado di omogeneità dell’intervento giudiziario all’interno della stessa Procura, assicurato anche attraverso l’adozione di quesiti standard.

    All’interno del gruppo, l’87,5% delle Procure assegna sempre i procedimenti in materia di violenza di genere e domestica a magistrati specializzati e ben l’81% ricorre ad un quesito standard nella nomina dei CTU, sebbene in nessun caso tale quesito sia stato redatto con l’utile contributo di altre figure professionali (ad es. psicologi ).

    Alcuni segnali positivi si riscontrano sul fronte della selezione dei CTU, poiché solo nel 19% delle Procure di questo gruppo la scelta dei CTU cade sempre tra quelli iscritti all’albo dei periti del tribunale, nel 50% ciò avviene solo a volte, ma soprattutto nel 31% di queste Procure i CTU non sono mai selezionati solo se iscritti all’albo, segnale di una particolare attenzione al requisito della specializzazione.

    Si evidenzia che il processo che dovrebbe portare dalla consapevolezza della particolare complessità della materia alla garanzia di un effettivo bilanciamento dei carichi di lavoro tra i magistrati è ancora ad uno stadio iniziale per tutti i gruppi individuati, pur con differenti gradualità tra gli stessi.

    Nel gruppo più virtuoso, si attesta al 44% la quota di Procure che dichiara di tenere conto della particolare complessità della materia nella distribuzione dei carichi di lavoro, mentre nel restante 56% la materia della violenza di genere e domestica è equiparata a tutte le altre.

    All’estremo opposto si colloca un gruppo ancora lontano dall’avvio del processo di cambiamento, non solo culturale, nei confronti della materia della violenza di genere e domestica. Il gruppo racchiude il 10% delle Procure (14 su 138) - tutte di piccole dimensioni - che evidenziano forti criticità su tutti i fronti, tra cui il più grave è rappresentato dalla sostanziale mancanza di attenzione nei confronti della materia specializzata.

    In queste Procure non esistono, infatti, magistrati specializzati in violenza di genere e domestica e i procedimenti della materia vengono equiparati agli altri al momento della loro assegnazione e nella distribuzione del carico di lavoro tra magistrati. A ciò si aggiunge, da un lato, la mancanza di uniformità interna segnalata anche dall’assenza di quesiti standard nell’affida­mento delle consulenze tecniche e, dall’altro, un’attenzione più bassa della media nei confronti della specializzazione dei CTU.

    Tra questi due estremi, si osservano tre ulteriori gruppi.

    Un primo gruppo intermedio, il più numeroso, include il 42% delle Procure (58 su 138) qualificate per "attenzione alle professionalità ma con qualche ritardo nella uniformità dell’azione interna". Il gruppo si caratterizza, infatti, per una forte attenzione alla specializzazione e alla professionalità di tutti gli attori in campo - dai magistrati agli psicologi - ma si rivela ancora in ritardo sul processo di uniformità dell’azione dell’ufficio.

    I connotati positivi di questo gruppo, in ogni caso, sono molto significativi poiché garantiscono un elevato grado di competenza nella trattazione dei casi di violenza di genere e domestica: il 98% di queste Procure assegna sempre i procedimenti in materia a magistrati specializzati e soltanto l’1,7% seleziona i CTU sempre dal­l’Albo dei periti del tribunale.

    Si rileva, poi, un secondo gruppo intermedio - poco numeroso (6%, 9 su 138) - che si caratterizza per la "elevata omogeneità nell’azione ma il non adeguato bilanciamento nei carichi di lavoro".

    In questi uffici risulta acquisita la buona prassi del ricorso ad un quesito standard "di qualità", ovvero redatto in collaborazione con figure professionali competenti in materia, segnale, questo, di un particolare avanzamento nel processo di uniformità interna.

    Il gruppo appare inoltre caratterizzato da una buona consapevolezza dell’impor­tanza della specializzazione dei magistrati, tanto che il 78% degli appartenenti al gruppo riesce ad assegnare sempre i procedimenti in materia di violenza di genere e domestica a magistrati specializzati.

    Tuttavia, gli elementi virtuosi messi in atto non riescono a tradursi in un bilanciamento del carico di lavoro dei magistrati che tenga conto della complessità della materia, aspetto che si prospetta centrale per fare un salto in avanti nel percorso di efficienza ed effettività nel contrasto ai fenomeni criminosi in esame.

    Vi è, infine, un terzo gruppo intermedio di uffici che si connota per la "scarsa consapevolezza della specializzazione". Il gruppo risulta abbastanza consistente in quando comprende il 30% delle Procure (41 su 138).

    In esso prevalgono comportamenti che denotano un ritardo nel percorso positivo intrapreso dai componenti dei cluster più virtuosi. Nello specifico, si tratta di uffici che non hanno ancora acquisito una sufficiente consapevolezza dell’importanza della specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica, tanto che soltanto la metà di essi ne affida la trattazione a magistrati specializzati.

    Inoltre, si riscontra una tendenza all’utilizzo dell’albo dei periti per la scelta dei CTU: ciò avviene nel 56% delle Procure del gruppo, a fronte di una media del 25%. Nessuna delle Procure del gruppo ricorre ad un quesito standard nella nomina dei CTU, segnale, questo, di ritardo anche sul fronte dell’uniformità interna.

    1.3 Osservazioni conclusive

    L’analisi multivariata ha consentito di ricomporre un panorama di comportamenti frammentati da parte delle Procure.

    Un processo di adeguamento e aggiornamento richiesto dalla necessità di un efficace contrasto alla violenza di genere e domestica è stato avviato negli uffici inquirenti che evidenziano, però, stadi diversi di avanzamento in un quadro caratterizzato da non poche criticità.

    Emerge infatti un ampio numero di Uffici nei quali occorre investire risorse – sia di personale che di mezzi - per consentire alle procure di raggiungere migliori standard operativi, così che possano anche assumere un importante ruolo propulsivo per gli altri uffici giudiziari con effetti anche nei successivi gradi di giudizio.

    È fondamentale rimarcare l’esigenza che sia effettiva la perequazione dei carichi di lavoro e che le migliori modalità operative sperimentate dagli uffici di Procura più virtuosi non restino loro patrimonio esclusivo, né rimangano una esperienza locale ed occasionale, strettamente connessa alla attenzione e sensibilità dei singoli uffici, ma diventino "strutturali" e condivise.

    Un ruolo molto rilevante può essere svolto in questo senso dal Consiglio Superiore della Magistratura.

    In questo contesto è decisivo interrogarsi sulla compatibilità  con le disposizioni della Convenzione di Istanbul che richiedono la specializzazione di tutti gli operatori - quindi anche dei magistrati - delle vigenti disposizioni[4] secondo le quali (fatta eccezione solo per gli uffici di più ridotte dimensioni) è fatto divieto ai magistrati, anche a chi ricopre le funzioni di Pubblico Ministero, di rimanere in servizio nel medesimo gruppo di lavoro – quindi anche quello specializzato nella violenza di genere e domestica – per più di dieci anni

     2. I tribunali ordinari

     Uno dei temi centrali nella Convenzione di Istanbul è quello della "cooperazione inter istituzionale", tanto che vi è (articolo 15) l’espresso incoraggiamento ai legislatori dei Paesi firmatari ad inserire tale materia nella formazione, al dichiarato fine di consentire una gestione globale e adeguata degli orientamenti da seguire nei casi di violenza, ed è anche posto a carico degli Stati (articolo 18) l’obbligo di garantire "adeguati meccanismi di cooperazione efficace tra tutti gli organismi statali competenti, comprese le autorità giudiziarie, i pubblici ministeri, le autorità incaricate dell’applica­zione della legge".

     Detta cooperazione riguarda, ovviamente, anche l’ambito e le competenze interne alla giustizia, cioè quella civile, penale e minorile.

     Per queste ragioni si è posta l’attenzione a come il tema della unicità della giurisdizione assuma rilievo nei nostri Tribunali, e specificamente nelle cause civili davanti al tribunale ordinario, per verificare se e in che misura la violenza domestica e di genere emerga e quanto venga presa in considerazione nelle decisioni dei giudici, al fine anche di accertare, attraverso un focus sui rapporti tra la giurisdizione penale e quella civile, quale considerazione e quale rilievo le siano riservati nei casi di nuclei familiari in cui è agita la violenza domestica.

    Attraverso i questionari ci si è concentrati, in particolare, sulla verifica di quanto la violenza nelle relazioni familiari emerga nelle cause civili, quanto sia conosciuta, quanta importanza assuma nell’attività istruttoria e quale rilievo abbia nelle decisioni dei giudici. In sintesi: quale sia la risposta che viene data in questo settore, con una attenzione specifica al ruolo svolto dai CTU nominati dal giudice ed ai rapporti con il procedimento penale eventualmente pendente tra le stesse parti.

    Non può sfuggire come la violenza – sia fisica che psicologica- nelle relazioni familiari, sia tema che pone in stretta correlazione le cause civili in materia con i procedimenti penali - instaurati o da instaurarsi - tra le medesime persone della relazione familiare portata all’attenzione del giudice civile.

    E’  stato quindi  analizzato il flusso delle informazioni tra le due autorità giudiziarie e sulla coerenza dei provvedimenti adottati dai diversi giudici competenti, in funzione anche della effettiva protezione delle persone più vulnerabili, siano esse minorenni che maggiorenni.

    Di questa esigenza si è fatto carico il legislatore che, con la legge n. 69 del 2019, ha introdotto nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale l’obbligo di trasmettere determinati atti del procedimento penale a quello civile nei casi in cui si proceda per determinate ipotesi di reato (articolo 64 bis).

    L’ambito dei rapporti tra le diverse autorità giudiziarie e la ripartizione delle rispettive competenze presenta profili molto complessi che coinvolgono anche fondamentali principi costituzionali.

    Sempre in tema di unicità della giurisdizione, è parso centrale anche evidenziare il ruolo svolto dal Pubblico Ministero nel processo civile, riguardo al quale – come è noto – l’articolo 70 del codice di procedura civile prevede che "deve intervenire a pena di nullità […] nelle cause matrimoniali, comprese quelle di separazione personale dei coniugi".

    Per ragioni più che evidenti, pare essenziale che questi debba essere un magistrato specializzato nella violenza di genere e domestica, come pure si ritiene fondamentale una nuova e significativa riconsiderazione del ruolo che effettivamente può e deve svolgere anche nelle indicate cause civili.

    Si è quindi considerato di rilievo l’accertamento di quanto sia effettivo il suo intervento nelle cause civili di separazione ed in quelle riguardanti i minorenni, nella veste di "parte pubblica", chiamata a garantire effettività di tutela e protezione di tutti gli interessi in gioco, ma soprattutto (sebbene non solo) dei minori eventualmente coinvolti in relazioni familiari caratterizzate da violenza, concorrendo, in tal modo, ad assicurare che in tutte le decisioni – anche in sede civile – si tenga nel debito conto effettivamente e concretamente del "superiore interesse del minore", come richiesto anche dalla normativa internazionale.

    Si tratta, indubbiamente, di un tema complesso e di non facile soluzione che coinvolge anche profili organizzativi di rilievo; tuttavia deve considerarsi come, in questo momento storico, meriti la massima attenzione, potendo incidere significativamente sulla qualità della risposta giudiziaria alla violenza domestica e di genere, ancor più ove coinvolga soggetti minorenni.

    Un altro aspetto che soprattutto negli ultimi anni, con l’espandersi della violenza domestica, ha assunto una importanza non trascurabile è quello del ruolo riservato nelle medesime cause civili al Consulente tecnico d'ufficio (CTU) nominato dal giudice civile, quasi sempre un esperto in psicologia, con particolare riferimento alle modalità con le quali è scelto e, non certo da ultimo, al ruolo che nella realtà gli viene attribuito e che concretamente svolge.

    Il codice di procedura civile (articolo 61) prevede che la consulenza tecnica di ufficio sia disposta quando il giudice ritiene necessario "farsi assistere per il compimento di singoli atti o per tutto il processo da uno o più consulenti di particolare competenza tecnica", e quanto al compito affidatogli l’articolo 62 del codice di procedura civile precisa che questi "compie le indagini che gli sono commesse dal giudice".

    Il ricorso a questo istituto è sostanzialmente riservato alle cause di separazione giudiziale e a quelle riguardanti i figli, che sono caratterizzate da relazioni interpersonali familiari particolarmente complesse e conflittuali e/o nelle quali sono agite condotte di violenza.

    Da qui il rilevante e significativo interesse a conoscere chi siano i professionisti "dotati di particolare competenza tecnica" ai quali il Giudice ricorre in questi casi, se e come viene valutata la loro competenza tecnica ed anche specialistica, come si procede alla loro nomina, quale l’incarico conferito, ed anche quale rilevanza assumano sulla decisione del giudice le conclusioni della CTU.

    Si comprende, pertanto, come sia centrale il tema dei criteri con i quali il giudice individua il consulente da nominare. Se di norma la scelta deve avvenire tra le persone iscritte negli appositi albi istituiti presso ogni tribunale, purtuttavia è evidente che parimenti dovrebbe essere garantita l’esigenza che  essa ricada sul consulente che possieda non solo una professionalità generica adeguata, ma anche una specializzazione nella materia da trattare.

    In questo contesto assume significativa importanza il contenuto del quesito formulato da ciascun giudice, che è oggetto dell’incarico, e anche le modalità attraverso le quali sia elaborato ed individuato.

    È rilevante, infatti, accertare se esso sia stato condiviso tra i magistrati del medesimo ufficio, se sia eventualmente frutto di una elaborazione partecipata con gli stessi esperti o figure specializzate, o se, invece, sia individuato dal singolo giudice. In quest'ultimo caso c'è il rischio di una qualche sottovalutazione della complessità della materia, specie se il giudice in questione non possieda una specializzazione sufficiente nella materia della violenza di genere e domestica.

    Si tratta, all’evidenza, di aspetti complessi e problematici perché coinvolgono direttamente il ruolo giurisdizionale riservato al magistrato, il suo rapporto con l’accertamento tecnico, ancora più pregnante di significati e di conseguenze nella materia della famiglia e delle persone, soprattutto ove coinvolga soggetti minorenni.

    Riflessioni del tutto specifiche si impongono riguardo all’"ordine di protezione contro gli abusi familiari" (articolo 342 bis del codice civile), provvedimento attribuito alla competenza del giudice civile che nelle intenzioni del legislatore era chiaramente finalizzato a contrastare la violenza nelle relazioni familiari.

    Complessivamente, l’analisi ha evidenziato una sostanziale "invisibilità" della violenza di genere e domestica nei tribunali civili, nei quali la situazione appare più critica e arretrata rispetto a quella emersa nelle Procure. Elementi positivi si affiancano a elementi negativi, ma sono questi ultimi, nel complesso, a pesare di più.

    2.1. Il quadro emerso dai dati

    La rilevazione si riferisce al triennio 2016-2018. Il tasso di risposta, molto alto, è stato pari al 99% (130 Tribunali su 131).

    Nel 95% dei Tribunali non vengono quantificati i casi di violenza domestica emersi nelle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio e in quelle sui provvedimenti riguardo ai figli, come pure non sono quantificate quelle in cui il Giudice dispone una Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU) nella materia.

    Ciò attesta una sostanziale sottovalutazione della materia, per lo più invisibile nei Tribunali. Il che può destare preoccupazione ove si consideri che generalmente l’intervento del CTU riguarda le cause civili nelle quali le relazioni familiari e genitoriali sono più complesse e difficili, soprattutto se coinvolgono minorenni.

    Il 95% (124 su 130) dei Tribunali non è in condizione di indicare in quante cause[5] il Giudice abbia disposto una CTU.

    L’esame dei 27 quesiti trasmessi dai Tribunali ha consentito di rilevare alcune significative circostanze circa l’oggetto dell’incarico al CTU e, quindi, il contenuto delle "indagini" che il Consulente è incaricato di svolgere e la sfera di "operatività" che gli viene attribuita. I quesiti riguardano, prevalentemente, tre temi: l’accerta­mento delle capacità genitoriali delle parti, la natura delle "indagini" che sono "commesse" al CTU e gli accertamenti di natura psicologica.

    In 18 quesiti, l’incarico al CTU è espressamente finalizzato alla valutazione della "capacità genitoriale" delle parti: in alcuni casi l’incarico è formulato in termini più generici, in altri più dettagliati, quale, ad esempio, anche quello di "accertare le competenze genitoriali delle parti attraverso diagnosi psicologica", "la capacità di ciascuno, di svolgere il proprio ruolo genitoriale in modo da garantire una crescita sana ed equilibrata del figlio", ovvero "di realizzare, mantenere e consolidare la unità genitoriale nei riguardi dei minori".

    In 20 quesiti, il Giudice ha delegato al CTU il compimento di varie attività di indagine, tra le quali anche l’esame degli atti e documenti, l’ascolto delle persone, l’acquisizione di ogni informazione utile anche presso uffici pubblici, le visite domiciliari, gli accessi nelle strutture scolastiche e colloqui con gli educatori e gli insegnanti, ma anche deleghe molto più ampie quali "compiuto ogni necessario accertamento... compiute tutte le indagini del caso, estese anche ai rispettivi ambiti familiari".

    Ancora più considerevole il contenuto di alcuni quesiti che attengono ad aspetti di natura squisitamente tecnica, quali "procedere alla valutazione della personalità dei genitori in funzione dell’accertamento della loro capacità di svolgere la funzione genitoriale", "valutare il profilo psicologico di ciascun genitore, valutare "le sue vicende familiari", effettuare "ogni accertamento necessario sotto l’aspetto fisico, psichico, morale ed ambientale [al fine di accertare] se la parte presenti disturbo del comportamento o nei tratti della personalità o disturbi di identità".

    L’analisi qualitativa dei quesiti evidenzia molte "criticità" delle "indagini" oggetto dell’incarico al consulente. Tali criticità destano gravi riserve se correlate ai dati acquisiti presso i Tribunali e sopra riportati riguardo alle modalità di scelta dei CTU, al profilo della loro professionalità, alla mancata verifica di una formazione in materia forense e di una specializzazione nella materia della violenza domestica.

    Peraltro le criticità evidenziate e le problematicità che ne conseguono hanno trovato riscontro nell’esito degli accertamenti presso gli Ordini degli psicologi (di cui si dirà in seguito) dove sono emerse carenze nella formazione degli psicologi nel campo della violenza di genere e domestica, riconducibili anche alla mancanza di una specializzazione mirata e continuativa.

    Nel panorama descritto non mancano alcuni uffici che si connotano in termini positivi - quanto meno sotto il profilo metodologico - in quanto contestualizzano l’incarico esplicitando dettagliatamente le ragioni della scelta istruttoria nella singola causa, delineando il perimetro nel quale il CTU deve operare e le finalità dello specifico incarico.

    Quanto rilevato indica chiaramente che nei Tribunali civili si ritiene sufficiente che il Consulente possieda una professionalità di tipo generico e che non sia considerato né rilevante né tantomeno essenziale che egli possieda anche una specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica.

    La circostanza è molto significativa se si considera che il ricorso a questo strumento è sostanzialmente riservato alle ipotesi che evidenziano situazioni altamente conflittuali o violente, che meriterebbero una elevata e specifica competenza da parte di tutti gli attori del processo.

    Criticità si riscontrano anche riguardo il profilo dei rapporti tra procedimento penale e civile, tant’è che soltanto nel 31,5% dei Tribunali (41 su 130) vengono sempre acquisiti atti e/o provvedimenti del procedimento penale che riguarda le stesse parti della causa civile nei casi di violenza domestica.

    I dati evidenziano anche che l’acquisizione di tali atti non assicura che essi siano sempre oggetto di valutazione da parte del CTU. Infatti, solo nel 76% dei Tribunali che dichiarano di acquisirli sempre, gli atti sono generalmente conosciuti e presi in considerazione dai CTU nell’espleta­mento dell’incarico, percentuale che scende al 61% nei Tribunali in cui gli atti sono acquisiti solo a volte.

    Altro aspetto di sicuro interesse e rilievo è il ruolo del Pubblico Ministero nelle cause civili.

    L’esito dell’indagine sul ruolo del Pubblico Ministero nelle cause civili evidenzia che il flusso delle informazioni tra civile e penale non avviene quanto sarebbe necessario: troppo poco il Pubblico Ministero viene informato dal giudice civile nei casi di violenza e troppo poco il Pubblico Ministero, benché informato, si attiva intervenendo nella causa civile. A ciò si aggiunga che, nei limitati casi in cui interviene, non sono state riferite – sebbene richieste – le modalità con le quali ciò avviene.

    Particolarmente preoccupante appare quanto dichiara l’11% dei Tribunali (14 su 130) in riferimento al fatto che il Pubblico Ministero non sia mai stato informato nei casi in cui sono emerse situazioni di violenza domestica

    Tuttavia, anche nei casi in cui il Pubblico Ministero ha avuto conoscenza di una situazione di violenza domestica, quindi violenza agita nelle relazioni familiari e di convivenza, tale circostanza non determina necessariamente un suo intervento nella causa civile, anzi, nel 9% dei Tribunali il Pubblico Ministero, benché informato, non è intervenuto in nessun caso, nel 32% è intervenuto solo a volte, mentre nel 58% è intervenuto tutte le volte che è stato informato.

    Complessivamente quindi, la partecipazione del Pubblico Ministero nelle cause civili nelle quali emergono situazioni di elevata conflittualità e di violenza domestica – evenienze che renderebbero auspicabile il suo intervento a tutela soprattutto dei minori – sembra essere occasionale e non adeguata.

    A ciò si aggiunga il fatto che il 60% dei Tribunali non ha risposto alla richiesta della Commissione di esplicitare le modalità dell’eventuale intervento del Pubblico Ministero nella causa civile, sebbene la domanda fosse stata riferita soltanto ai casi in cui si era precedentemente dichiarato che tale intervento fosse avvenuto ("sempre" o "a volte").

    Preso atto, altresì, che la maggior parte dei Tribunali non è in grado di riferire in cosa consista la partecipazione del Pubblico Ministero in dette cause civili, trovano conferma le difficoltà nelle relazioni tra processo civile e processo penale.

    In tale contesto, con riguardo specifico al tema del coordinamento tra le istituzioni, si è posta attenzione ad alcune forme di collaborazione istituzionale e, in particolare, alla eventuale adozione di linee guida, accordi o protocolli che regolino i rapporti tra gli uffici interessati.

    Dall’indagine emerge che soltanto il 25% dei Tribunali (32 su 130) ha dichiarato di applicare linee guida, protocolli o accordi di collaborazione nella materia della famiglia, della violenza di genere e/o domestica, e soltanto 20 Tribunali li hanno allegati alle risposte ai questionari, come richiesto dalla Commissione.

    Per converso è positivo il fatto che alcuni Tribunali si siano resi interpreti della rilevanza di siffatte problematiche (anche a seguito di interventi del Consiglio Superiore della Magistratura con Delibere e Risoluzioni in materia) e hanno realizzato virtuose forme di collaborazione con altri organismi ed attori del processo (Ordini degli Avvocati, Ordini degli Psicologi e Centri Antiviolenza) che hanno condotto alla redazione di utili linee guida, protocolli o accordi. In questo ambito si segnalano le best practices dei Tribunali di Benevento, Bologna, Enna, Macerata, Palermo e Roma.

    Nel panorama del contrasto alla violenza di genere e domestica nel processo civile, un istituto che ha sostanzialmente disatteso le aspettative è quello degli "ordini di protezione" che - durante il triennio 2016-2018 - ha avuto scarsa rilevanza.

    In primo luogo, infatti, solo in 35 Tribunali (pari al 27%) esiste un registro sulle richieste degli "ordini di protezione contro gli abusi familiari" e, di questi, solo 21 sono stati in grado di quantificare gli ordini di protezione richiesti e adottati nei tre anni di riferimento.

    Complessivamente, i 21 Tribunali hanno dichiarato di aver richiesto 125 ordini di protezione nel 2016, 127 nel 2017 e 149 nel 2018.

    Ancora meno le richieste accolte: 40 nel 2016, 53 nel 2017 e 68 nel 2018.

    In ogni caso, il 93% degli ordini adottati nel 2018 (96% nel 2017 e 89% nel 2016) sono stati emessi a carico di un uomo.

    L’esperienza concreta dei Tribunali riguardo agli "ordini di protezione" non è incoraggiante e sconta probabilmente le difficoltà di adattamento del processo civile alle tematiche della violenza domestica che storicamente erano riservate al procedimento penale, e che, di fatto, richiederebbero una concreta collaborazione tra giudice ordinario civile, Pubblico Ministero ed anche giudici minorili.

    L’analisi multivariata[6] ha dato come esito la suddivisione dei 130 Tribunali ordinari in quattro gruppi omogenei internamente, ma differenziati tra loro rispetto ai comportamenti adottati nel trattamento della materia della violenza di genere e domestica.

    A differenza di quanto è emerso per le Procure, nessun gruppo (o cluster) di Tribunali è caratterizzato da soli comportamenti virtuosi.

    Emergono, infatti, tre elementi negativi che accomunano tutti i gruppi, il primo dei quali è la diffusa impossibilità di nominare CTU che possiedano una specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica, tanto che in nessun gruppo la quota di Tribunali che riesce "sempre" o "nella maggioranza dei casi" a nominare CTU specializzati supera il 27%.

    Un secondo elemento che accomuna tutti i cluster è l’arretratezza nel processo per uniformare l’azione interna, evidenziata dal carente ricorso ad un quesito standard nella nomina del CTU nelle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e di cessazione degli effetti civili del matrimonio e di provvedimenti riguardo ai figli. La percentuale di Tribunali che adotta un quesito standard oscilla nei quattro gruppi tra il 18% e il 37%.

    Terzo e ultimo elemento negativo comune è la scarsa applicazione di linee guida, protocolli o accordi di collaborazione nella materia della famiglia e/o della violenza di genere e domestica che regolino i rapporti tra civile, penale e minorile[7]. In nessun cluster è prevalente la quota di Tribunali che ha adottato almeno una misura tra quelle citate.

    I quattro gruppi si distinguono tra loro riguardo alla prevalenza di comportamenti positivi o negativi: in due gruppi prevalgono quelli positivi e in due quelli negativi. Ogni gruppo, comunque, è contraddistinto da proprie specificità che di seguito si descrivono nel dettaglio.

    Quanto ai due gruppi che presentano diversi elementi positivi, il primo è composto da pochi Tribunali (11 su 130, pari all’8,5%), che possono definirsi "attenti alla materia e coerenti nell’azione". E si caratterizza per il particolare riguardo riservato alla materia, soprattutto per lo sforzo – rilevante poiché molto raro nel complesso – di monitorare il fenomeno attraverso la quantificazione delle cause[8] nelle quali sono emerse situazioni di violenza domestica[9] e nelle quali è stata disposta la consulenza tecnica di ufficio[10].

    Elevato è il coinvolgimento del Pubblico Ministero da parte del Giudice civile: nel 91% dei Tribunali del gruppo il Pubblico Ministero è stato sempre informato nei casi in cui sono emerse situazioni di violenza domestica. D’altro canto, è caratteristica del gruppo anche un’elevata partecipazione del Pubblico Ministero alla causa civile.

    Un ulteriore elemento che si può considerare positivo, se posto a confronto con gli altri gruppi, va ravvisato nel fatto che "solo" il 45,5% dei Tribunali del gruppo dichiara di nominare i CTU soltanto se iscritti all’albo dei periti (dato medio: 75%).

    Appare critico, invece, il comportamento di questi uffici rispetto alla acquisizione degli atti dal procedimento penale a quello civile nei casi in cui siano emerse situazioni di violenza domestica: solo il 9% ha dichiarato che ciò avviene sempre[11].

    Inoltre, il grado di uniformità dell’azione interna ai Tribunali del gruppo è basso: solo il 18% adotta un quesito standard nella nomina dei CTU e solo il 18% regola i rapporti tra civile, penale e minorile con l’applicazione di almeno una linea guida/protocollo/accordo di collaborazione.

    Per quanto attiene alla specializzazione dei CTU, solo il 27% - dato modesto sebbene superiore alla media - afferma di riuscire sempre o nella maggioranza dei casi[12] a nominare CTU specializzati in materia di violenza di genere e domestica.

    Il secondo gruppo in cui prevalgono le caratteristiche positive su quelle negative si caratterizza per il fatto che vi è un "buon coordinamento tra penale e civile", e racchiudendo il 40% dei Tribunali ordinari (52 su 130), risulta il più numeroso.

    Nel complesso, questi uffici appaiono i più avanzati nella gestione del rapporto tra le diverse attività giudiziarie, che non si ferma al piano formale, ma si traduce in uno scambio concreto che coinvolge tutti gli attori in campo, infatti positivo è il coinvolgimento e l’intervento del Pubblico Ministero nella causa civile[13], e frequente l’acquisizione degli atti del procedimento penale nella causa civile[14], e soprattutto detti atti sono generalmente conosciuti e presi in considerazione dai CTU nell’espletamento dell’incarico.

    Inoltre, per quanto riguarda il coordinamento tra penale, civile e minorile, nel 42% dei Tribunali del cluster è applicata almeno una linea guida/protocollo/accordo di collaborazione, quota incoraggiante sebbene  comunque minoritaria nel cluster stesso.

    Come in tutti gli altri gruppi, si evidenzia un modesto ricorso all’adozione di quesiti standard nella nomina dei CTU e una bassa professionalità specifica dei CTU in materia di violenza di genere e domestica.

    Particolarmente critico l’aspetto della selezione dei CTU, che avviene sempre tra quelli iscritti all’albo dei periti nell’86,5% dei tribunali appartenenti al gruppo.

    Sintomatico della "invisibilità" della violenza di genere e domestica emersa complessivamente dall’indagine è il fatto che nessuno dei Tribunali del gruppo si è rivelato in condizione di indicare quanti casi di violenza domestica sono emersi nel triennio 2016-2018 nelle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio e quelle sui provvedimenti riguardo ai figli, come anche nessuno disponeva del dato relativo al numero delle cause nelle quali il Giudice ha disposto la Consulenza Tecnica di Ufficio nella materia.

    I due gruppi restanti, che racchiudono nel complesso poco più del 50% dei Tribunali, si caratterizzano per la netta prevalenza di comportamenti critici, infatti nessuno dei Tribunali appartenenti ai due gruppi si dichiara in grado di quantificare le cause in cui è emersa violenza di genere e domestica, né quelle nelle quali il Giudice ha disposto una consulenza tecnica d’ufficio con riferimento al triennio 2016-2018.

    Tutto questo evidenzia una grave lacuna informativa, che impedisce oggettivamente di conoscere le dimensioni del fenomeno e, quindi, di potere effettuare le valutazioni conseguenti.

    In entrambi i gruppi, inoltre, il doppio flusso informazione-intervento che dovrebbe coinvolgere il Giudice civile e il Pubblico Ministero non avviene quanto auspicato e solo sporadici Tribunali all’interno dei due gruppi dichiarano di applicare almeno una linea guida/protocollo/accordo di collaborazione per regolare i rapporti tra civile, penale e minorile.

    Tra i due, il gruppo che si colloca in uno stadio meno arretrato è costituito dal 31,5% dei Tribunali (41 su 130) e si connota per un atteggiamento migliore rispetto alla media, seppur minoritario anche in questo cluster, rispetto all’adozione dei quesiti standard (37% a fronte di una media del 29%) e alla selezione dei CTU[15].

    Il cluster più critico, composto dal 20% dei Tribunali (26 su 130), è invece ancora lontano dall’avvio di percorsi che consentano di migliorare la risposta giudiziaria alla violenza domestica e di genere attraverso una corretta lettura della violenza stessa e l'utilizzo di modalità operative - anche in collaborazione con le altre istituzioni interessate - necessarie per contrastarla.

    2.3. Osservazioni conclusive

    La situazione, come sopra rappresentata, evidenzia complessivamente uno stato in cui gli aspetti critici sono senz’altro prevalenti, fatte salve pochissime eccezioni.

    Preoccupa il fatto che non sia possibile rilevare quali e quante siano le cause in cui emergono situazioni familiari nelle quale si agisce la violenza, così come la mancanza di qualsiasi garanzia che nelle nomine del CTU sia assicurata sempre la professionalità e la specializzazione necessarie, come pure appare critica la tipologia delle indagini delegate da alcuni giudici.

    In tale contesto si prospetta il rischio che l’attività ed il ruolo del CTU sconfinino, anche solo in parte, nell’area delle competenze riservate al Giudice.

    Non mancano però segnali incoraggianti. I Tribunali ordinari appaiono divisi in due "macro gruppi" della stessa dimensione.

    Nel primo si collocano quelli caratterizzati da alcune scelte positive, che andrebbero però incoraggiate e messe a regime, così da compiere un salto di qualità e migliorare la risposta giudiziaria alla violenza domestica e di genere. Nel secondo gruppo si collocano quei Tribunali in situazione più arretrata e, quindi, critica rispetto alla condivisione di comportamenti e modalità operative adeguate ed efficaci, funzionali ad assicurare un efficace contrasto e protezione delle vittime.

    È necessario supportare i Tribunali che stanno attuando degli sforzi virtuosi, incoraggiandoli a proseguire in tal senso, e - soprattutto - è auspicabile che le buone prassi adottate ed i modelli organizzativi positivamente sperimentati diventino patrimonio comune sia attraverso interventi efficaci ed operativi anche del Consiglio Superiore della Magistratura,  sia attraverso azioni positive che assicurino una effettiva formazione e specializzazione dei magistrati.

    3. I Tribunali di sorveglianza

    La Commissione ha ritenuto importante verificare se e quanto, nella concessione dei benefici penitenziari, i Tribunali di Sorveglianza valutino la specificità del trattamento penitenziario di detti condannati e, soprattutto, quale rilievo sia dato all’inderogabile esigenza di protezione delle vittime.

    La prospettiva nella quale ci si muove è che sia necessaria, anche durante la fase dell’esecuzione penale, una piena sensibilizzazione, anche culturale, ed una adeguata formazione di tutti gli operatori coinvolti, non disgiunte dalla consapevolezza della specifica pericolosità sociale dei condannati.

    Ci si riferisce, in particolare, al tema centrale del rischio di recidiva specifica che li caratterizza, strettamente connesso, da un lato, alla abitualità delle condotte criminose, e, dall’altro, anche al rapporto personale-familiare-affettivo tra l’autore della violenza e la persona offesa, che spesso si viene a trovare in una condizione di "particolare vulnerabilità" proprio a causa  della violenza subita.

    È noto anche che, per le caratteristiche proprie di questa forma di violenza, soprattutto nei casi in cui le condotte si siano protratte per molto tempo e con ripetitività, l’autore non sempre acquisisce piena consapevolezza del disvalore dei suoi comportamenti, spesso non si ritiene colpevole, non comprende la condanna e difficilmente modifica le proprie condotte.

    In questo contesto  la concessione dei benefici penitenziari, dal "permesso premio" alla "semilibertà", non può prescindere da un fondato accertamento che essi non mettano a rischio la sicurezza delle persone offese dal reato.

    Per tali ragioni si è ritenuto importante verificare se e con quali modalità le indicate problematiche assumano rilievo davanti alla magistratura competente, quanto incidano sulle richieste del condannato di accedere a misure di esecuzione penale esterna, ed anche quanto si tenga conto dell’evolu­zione dei rapporti del condannato con la vittima, ivi compreso l’accerta­mento del loro stato al momento della decisione del Tribunale.

    In sintesi, appare centrale conoscere le modalità con le quali la magistratura di sorveglianza valuta il rischio di recidiva specifica ai fini della concessione dei benefici previsti dalla legge n. 354 del 1975.

    L’analisi dei dati pervenuti ha evidenziato, nel complesso, una scarsa attenzione all’esigenza di protezione delle vittime di violenza domestica e di genere.

    Il quadro emerso dai dati, che  fanno riferimento alla quasi totalità (27 su 28) dei Tribunali di Sorveglianza che hanno risposto all’indagine, evidenzia come soltanto in un numero limitatissimo di Tribunali di Sorveglianza vi sia la buona prassi rappresentata dal coinvolgimento anche delle vittime nell' istruttoria finalizzata alla concessione dei benefici penitenziari: ciò  conferma la mancanza di una seria e concreta valutazione della loro esposizione a pericolo connessa alle decisioni che riguardano la concessione delle misure alternative alla detenzione.

    Il 26% (7 su 27) dei Tribunali di Sorveglianza non acquisisce mai notizie e informazioni dalle persone offese, il 63% (17 su 27) afferma che non è sempre possibile acquisirle e solo l’11% (3 su 27) dichiara di acquisire sempre tali informazioni (Figura 14).

    Alla richiesta di indicare quali atti e documenti sono presi in considerazione per valutare il rischio di recidiva specifica, soprattutto se la condanna attiene a delitti caratterizzati da abitualità delle condotte, il 22% dei Tribunali (6 su 27) non ha risposto alla domanda.

    In ogni caso si segnalano alcune significative, e condivisibili, esperienze riguardo alle modalità attraverso le quali l’esigenza prospettata assume rilievo nella realtà giudiziaria, in quanto risulta che alcuni Tribunali di sorveglianza:

    "verificano i rapporti con la vittima anche successivi alla condanna" (Torino);

    "valutano anche il contesto familiare e sociale nel quale il condannato dovrebbe rientrare" (Roma);

    "ascoltano anche il congiunto (il coniuge) ove la difesa del condannato asserisca il completo superamento della conflittualità familiare" (Trento);

    "valutano le risultanze circa i rapporti con la vittima" (Brescia);

    "valutano l’attuale rapporto con la vittima del reato ed anche il luogo in cui abita la vittima stessa" (Genova);

    "valutano i rapporti attuali con la persona offesa" (Lecce);

    Inoltre, alcuni Tribunali (Roma, Genova, Lecce, Sassari, Trento e Trieste) riferiscono che l’attenzione del Giudice è rivolta in vario modo a valutare il profilo criminologico del condannato, mentre uno (Sassari) precisa di monitorare anche la sua condotta successiva al reato.

    Per quanto attiene al rischio di recidiva specifica, la Commissione ha ritenuto di dover rilevare il grado di attenzione riguardo ad una categoria particolare di soggetti, cioè dei minorenni vittime di violenza sessuale.

    Si è, quindi, ritenuto utile acquisire i dati sull’applicazione e l’esecuzione delle "misure di sicurezza personali" previste dall’articolo 609 nonies del codice penale quali "l’imposizione di restrizioni dei movimenti e della libera circolazione", "il divieto di avvicinarsi a luoghi frequentati da minori", "il divieto di svolgere lavori che prevedano un contatto abituale con minori" e anche l’obbligo di informare le forze dell’ordine sui propri spostamenti, misure che, come è noto, devono essere eseguite dopo l’espiazione della pena detentiva.

    Durante il triennio 2016-2018, soltanto nel 26% dei Tribunali (7 su 27) è stata eseguita almeno una delle misure previste dalla citata disposizione per i condannati per violenza sessuale.

    Va comunque registrato un incremento nell’applicazione di dette misure di sicurezza che passano da 3 nel 2016 a 21 nel 2018.

    3.1. Osservazioni conclusive

    I profili delle persone in stato di detenzione per reati di violenza di genere e domestica si caratterizzano per una particolare pericolosità sociale. Pertanto, appare di estrema importanza che, nella concessione dei benefici penitenziari - dal "permesso premio" alla "semilibertà" - i magistrati di Sorveglianza considerino prioritaria la protezione della persona offesa.

    Preoccupa che in sede di valutazione delle richieste del condannato di ammissione ai benefici previsti dalla legge n. 354 del 1975 il tema non sia centrale e che non sempre venga accertato lo stato dei suoi rapporti con la vittima, tanto che in un quarto dei Tribunali di Sorveglianza non vengono mai acquisite notizie ed informazioni dalle persone offese.

    Anche nella fase esecutiva della pena non si può abbassare la guardia ed è necessario un impegno costante perché le buone prassi adottate da alcuni Tribunali di Sorveglianza diventino un patrimonio comune, proprio perché l’autore di delitti di violenza domestica e di genere presenta tratti caratteristici del tutto tipici, sia riguardo alle condotte che alla personalità, ed entrambi detti tratti si riflettono sulla sua pericolosità sociale condizionandola significativamente.

    Analogamente a quanto già evidenziato per le Procure ed i Tribunali Ordinari, è necessario assicurare circolarità delle buone prassi e delle migliori linee operative sperimentate in alcuni uffici più virtuosi, non disgiunte da adeguati interventi nella formazione dei giudici e degli operatori penitenziari.

     4. La formazione degli operatori

    La formazione degli operatori è tema centrale nella Convenzione di Istanbul e sebbene il nostro Paese se ne sia fatto interprete in una recente disposizione normativa – articolo 5 della legge n. 69 del 2019 - riguardo soltanto alla formazione degli “operatori di polizia”, è di tutta evidenza come non possa non riguardare tutti i professionisti che hanno competenze nell’attività di contrasto alla violenza domestica e di genere.

     

    In particolare la Convenzione, nella disposizione sulla “formazione delle figure professionali” (articolo 15) richiede agli Stati di “fornire e rafforzare” la formazione delle figure professionali che si occupano sia delle vittime che degli autori di violenza di genere e domestica, come pure di incoraggiare e inserire nella formazione la materia della “cooperazione coordinata e inter istituzionale”.

     

    Nell'analisi della effettiva operatività nel nostro Paese di questi principi è apparso importante ed utile la verifica di come siffatto obbligo sia stato attuato riguardo soprattutto alle figure più direttamente coinvolte nel processo: magistrati, avvocati e psicologi. Una parte dei questionari è stata pertanto focalizzata proprio sull' approfondimento di questa tematica.

    4.1. La Magistratura

    Riguardo alla magistratura l’offerta formativa appare, nel complesso, piuttosto carente.

    Le magistrate sono risultate più interessate alla materia della violenza di genere e domestica, più sensibili a questo tema e  più impegnate nella formazione, come attesta la maggiore partecipazione ai corsi di aggiornamento professionale.

    Quanto all’offerta formativa della Scuola Superiore della magistratura è risultato che nel triennio 2016-2018 sono stati organizzati soltanto 6 corsi di aggiornamento in materia di violenza di genere e domestica, di cui 2 rivolti sia al settore civile che penale, e 4 esclusivamente al settore civile.

    Le  magistrate hanno frequentato i corsi formativi in numero di gran lunga superiore ai colleghi uomini: in media, nel triennio analizzato, il 67% dei partecipanti sono donne, a fronte dei una proporzione di donne in magistratura pari al 52%.

    Significativo il fatto che le principali problematiche affrontate dalla Scuola Superiore della Magistratura abbiano privilegiato il settore civile, quindi quello delle separazioni, dei divorzi e dei provvedimenti riguardo i figli.

    L’offerta di formazione appare, così, piuttosto scarsa, soprattutto riguardo al settore penale.

    Peraltro, il numero limitato dei magistrati partecipanti che esercitano funzioni giudicanti potrebbe essere sintomatico di una insufficiente attenzione e specializzazione del Giudice, a cui è fondamentale porre rimedio, e ciò con riguardo a tutti i gradi del giudizio, quindi anche all’appello, se si vuole che l’azione di contrasto sia efficace ed effettiva in tutte le fasi processuali.

    La circostanza è del tutto coerente con quanto sopra riferito circa l’esito dell’indagine riguardo agli uffici di Procura e dei Tribunali Ordinari che ha consentito di rilevare come le Procure siano più attente alla specializzazione ed abbiano anche raggiunto, in numero significativo, standard qualitativi importanti, mentre non può dirsi lo stesso per i giudici, per i quali i dati qualificanti della specializzazione sono meno diffusi.

    Oltre ai 6 corsi erogati a livello centrale, la Scuola Superiore della Magistratura segnala che, nel triennio 2016-2018, sono state anche realizzate 25 iniziative formative a livello distrettuale – cioè locale - sul tema della violenza di genere, che hanno visto il coinvolgimento di circa il 13% dei magistrati (1.198 presenze su una media di 8.891 magistrati nel triennio).

    Tenuto conto del fatto che i dati acquisiti riguardano un periodo anteriore alla emergenza sanitaria determinata dalla pandemia Covid-19, non può non rilevarsi come nell’aggiornamento e nella specializzazione dei magistrati il ruolo più incisivo – ma ancora limitato - sia effettivamente svolto dalla formazione decentrata: 13% di magistrati partecipanti a fronte del 5% che hanno frequentato i corsi organizzati e svolti dalla scuola centrale.

    Si tratta di una evidenza molto significativa ed importante che indica chiaramente il netto interesse dei magistrati per l’aggiornamento in sede locale, ascrivibile non solo a ragioni di tipo logistico ma, verosimilmente, anche al maggiore interesse per l’offerta formativa delle sedi distrettuali.

    Appare quanto mai auspicabile una estensione della offerta formativa anche attraverso una doverosa sensibilizzazione di tutti i magistrati, soprattutto uomini, ancora di più se delegati a trattare la materia specialistica, particolarmente ove esercitino funzioni di Giudice per le indagini preliminari, quindi di Giudice che svolge un ruolo di essenziale rilievo in un doveroso raccordo con il Pubblico Ministero nella fase delle indagini preliminari (è, ad esempio, competente ad emettere le misure cautelari, ad autorizzare le intercettazioni telefoniche, a disporre l’incidente probatorio speciale per l’ascolto delle vittime) e che per tale ragione non può non essere “specializzato”.

    Analoghe le considerazioni per la figura del Giudice per la udienza preliminare, che, frequentemente, è il Giudice nei riti alternativi, la cui mancata specializzazione appare  non pienamente in linea con i principi della Convenzione di Istanbul.

    4.2. L'Avvocatura

    Per quanto attiene agli Avvocati, sulla base dei dati forniti dal Consiglio Nazionale Forense, deve prendersi atto che si dispone di informazioni piuttosto generiche, purtuttavia sintomatiche di una carenza di offerta formativa in materia, e, quindi, di una insufficiente attenzione al tema della violenza di genere e domestica.

    Infatti si riferisce che dal 2016 al 2018  sono stati organizzati in tutto il Paese "più di 100 eventi in materia di violenza di genere e domestica, che vi hanno partecipato oltre 1.000 avvocati", (su un totale di 243.000 circa), di cui oltre l’80% donne, ed in maggioranza civiliste.

    In tre anni, dunque, lo 0,4% degli avvocati ha partecipato ad eventi formativi in materia di violenza di genere e domestica, per l’80% donne.

    Pa6.re evidente che i dati riferiti siano sintomatici di scarsa sensibilità della classe forense, soprattutto maschile, per il fenomeno della violenza di genere e domestica, e come prevalga nella richiesta ed attenzione formativa il settore civile nel quale pure sono largamente protagoniste le donne avvocate.

    Inoltre, alla domanda circa l’istituzione di elenchi di avvocati specializzati nella materia il Consiglio ha riferito che sono pochi gli elenchi istituiti, come pure gli sportelli dedicati alla materia aperti presso i Consigli degli Ordini professionali. Anche nel caso dell’avvocatura si rilevano iniziative individuali meritorie ed utili che necessiterebbero di sostegno per essere valorizzate, strutturate e estese imprimendo una svolta culturale già ad iniziare dai percorsi di studio ed universitari.

    4.3. Gli Psicologi

    Evidenti criticità si registrano, quanto alla formazione, anche riguardo agli psicologi, e ciò sia per quanto attiene alla formazione, sia riguardo alla costituzione di gruppi di lavoro mirati sull’attività di consulenza giuridico-forense nell’ambito della violenza di genere e domestica.

    I dati acquisiti sono sintomatici di una generalizzata sottovalutazione circa la necessità che gli psicologi, ove svolgano attività di consulenza e peritale nel processo, sia civile che penale, possiedano anche una formazione di tipo specialistico forense ed anche competenze adeguate ove operino nella materia della violenza di genere e domestica.

    Le buone prassi e linee guida, pur esistenti, sono poche e frammentarie e sembra emergere, a livello nazionale, una doppia carenza nella formazione degli psicologi, che pare espressione della mancanza di una visione globale e condivisa del ruolo di questo professionista e della ineludibile necessità della sua specializzazione.

    Le risposte ai quesiti specifici sugli eventi formativi e di aggiornamento hanno rivelato una limitata attenzione al tema, considerato che poco meno della metà degli Ordini regionali - 8 su 18 - ha dichiarato di non avere mai organizzato eventi formativi nella materia specializzata.

    Nel complesso, il numero degli eventi formativi organizzati si rivela piuttosto basso, atteso che nel 2016, in tutto il Paese, sono stati 8, nel 2017 e 2018 sono stati 24 per ciascun anno. Peraltro, soltanto 3 Ordini hanno organizzato almeno un evento in tutti e tre gli anni.

    Merita di essere menzionata la circostanza che soltanto la metà degli Ordini - 9 su 18 - ha organizzato dei gruppi di lavoro mirati sulla materia della violenza di genere e domestica.

    Con riguardo specifico ai profili di consulenza giuridico-forense, in riferimento alle problematiche, indubbiamente molto rilevanti, circa le perizie e le consulenze tecniche svolte dagli psicologi, si deve evidenziare che solo 5 dei 9 Ordini hanno organizzato gruppi di lavoro mirati sulle attività di consulenza giuridico–forense, e che 4 di essi non hanno mai trattato questa materia.

    Due gli Ordini risultati più virtuosi i quali, oltre ad essere stati più attenti alla materia, hanno organizzato sia eventi formativi che di aggiornamento, ed hanno anche organizzato gruppi di lavoro mirati sugli aspetti specifici e qualificanti dell’attività giuridico-forense.

    Conclusivamente, anche per gli psicologi deve prendersi atto di una generalizzata carenza di sensibilità ed attenzione per la formazione degli operatori di ciascun settore, ed anche di una significativa sottovalutazione del ruolo che gli psicologi hanno nel tempo assunto nel settore specifico e quanto tutto questo incida sulla efficacia, effettività e tempestività della risposta giudiziaria alla violenza domestica e, soprattutto alla protezione delle vittime, molte delle quali in condizioni di "particolare vulnerabilità" in quanto minorenni.

    5. Conclusioni

    La Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio  nella cornice sovranazionale dei principi della Convenzione di Istanbul - più volte ricordati - ha ritenuto importante verificare quanto il nostro Paese abbia aderito agli impegni rivolti agli stati firmatari (articolo 4) ad “adottare le misure legislative e di altro tipo necessarie per promuovere e tutelare il diritto di tutti gli individui, e segnatamente delle donne, di vivere libere dalla violenza, sia nella vita pubblica che privata”, ed anche (articolo 5) ad essere diligenti nel “prevenire, indagare, punire i responsabili”.

    È proprio con riguardo a questo obbligo di “diligenza” nell’attività preventiva e repressiva che la Commissione non poteva non considerare l’impor­tante monito dei Giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo - nella sentenza “Talpis c. Italia” del 2 marzo 2017- ad operare affinché i meccanismi di protezione previsti nel diritto interno funzionino in pratica e non solo in teoria, e che soprattutto nelle cause in materia di violenza domestica i diritti dell’aggressore non possano prevalere sui diritti alla vita ed alla integrità fisica e psichica delle vittime.

    In un contesto così delineato, e nel difficile percorso intrapreso dal nostro Paese di adeguamento alla normativa convenzionale, la Commissione ha focalizzato alcuni aspetti più qualificanti, quali: la specializzazione degli operatori, ed in particolare dei magistrati, degli avvocati e degli psicologi nonché le formule organizzative adottate e ritenute idonee a garantire immediatezza ed efficacia all’intervento giudiziario.

    Ne è emersa una realtà multiforme ed allo stesso tempo complessa.

    Il contesto nel quale operano gli uffici giudiziari è obiettivamente difficile, gli operatori non sono formati quanto sarebbe necessario , segno – anche ma non solo – di mancanza di investimenti che hanno determinato gravi carenze anche strutturali, soprattutto di personale e mezzi che ne hanno significativamente condizionato l’efficienza.

    È parsa anche scarsa la consapevolezza, in chi opera nel settore, della necessità di adeguare i propri standard operativi alle mutate esigenze, nonché della esigenza di una effettiva cooperazione e collaborazione interistituzionale, presupposti ineludibili perché il contrasto alla violenza domestica e di genere sia effettivo ed efficace.

    È doveroso sottolineare che, accanto a indubbi aspetti critici, si registrano importanti progressi nel percorso indicato, come attesta lo sforzo compiuto da una parte - purtroppo ancora minoritaria - della magistratura, più evidente per quella inquirente, la quale interpreta il proprio ruolo con modalità organizzative più aderenti alle mutate esigenze investigative. Tutto ciò avviene – comunque – in un quadro complessivo di evidenti difficoltà e resistenze, anche di natura culturale.

    Non ci si può certo ritenere soddisfatti della realtà così come rappresentata dalle indagini condotte, ma è anche innegabile che sia in atto un grande sforzo messo in campo da alcuni uffici giudiziari più virtuosi che possono – auspicabilmente – essere trainanti per tutti gli altri, purché sostenuti anche da adeguate iniziative di tipo organizzativo, e supportati nel percorso di formazione e specializzazione di chi ha il compito di assicurare in tutto il territorio nazionale uniformità e coerenza dell’azione giudiziaria.

    Occorre anche sottolineare la mancanza di consapevolezza della esigenza –non rinviabile  – di attuare forme di collaborazione e cooperazione tra tutti gli organi e le figure istituzionali coinvolte, sempre in una prospettiva comune: combattere la violenza, soprattutto in ambito domestico.

    Non vi è dubbio che le maggiori  criticità siano state rilevate per quanto riguarda la formazione specifica sui temi della violenza di genere e domestica nell’ambito dell’at­tività forense ed in quella dei consulenti tecnici, psicologi in particolare: ciascuno nel proprio ambito e nell’esercizio delle proprie competenze ha evidenziato mancanza di attenzione e di sensibilità per il tema della violenza di genere e domestica, soprattutto nella formazione e nell’aggiornamento professionale.

    Sia gli avvocati che gli psicologi hanno soltanto avviato un percorso di sensibilizzazione alle tematiche indicate e sono in grave ritardo nella specializzazione dei professionisti.

    L’esito delle indagini svolte segnala, perciò, una sostanziale difficoltà, anche di tipo culturale, nella conoscenza del fenomeno.

    Ciò comporta - da parte di tutto il sistema – -una sottovalutazione dei fenomeni di violenza di genere e domestica, che non viene "letta" correttamente. 

    Per queste ragioni può affermarsi che vi è ancora molto da fare perché si possa ritenere che il nostro "sistema Paese" sia davvero democratico in quanto garantisce  alle donne di essere libere da ogni forma di violenza.

    Se è vero che la fotografia della realtà giudiziaria che emerge dai dati dei questionari segnala che il percorso di adeguamento ai principi della Convenzione di Istanbul appare solo avviato, sono anche molteplici le buone prassi e le collaborazioni interistituzionali che hanno consentito un decisivo passo in avanti nella tutela delle donne vittime di violenza di genere.

    Il legislatore, pertanto, in costante raccordo con tutte le istituzioni e gli ordini professionali  coinvolti, ha il dovere di rafforzare e mettere " a sistema" i modelli positivi emersi, come pure  di implementare le misure normative già vigenti, al fine di garantire  a tutti i soggetti coinvolti l'accesso agli strumenti processuali e la  formazione necessaria per una corretta lettura ed un efficace e tempestivo  contrasto della violenza di genere e domestica.

    Non bisogna  commettere l’errore di addebitare la responsabilità delle situazioni negative emerse alla responsabilità di questo o di quell’operatore o della singola categoria professionale con una operazione politico-mediatica piuttosto diffusa.

    Non si farebbe una operazione di verità e non sarebbe utile ai nostri fini.

    La realtà degli uffici  giudiziari rappresenta come  i magistrati e tutti  gli operatori che ne fanno parte comprese le forze dell’ ordine, operano con i mezzi e le strutture che hanno  a loro disposizione, e poi, certamente nell’ambito di dette disponibilità assume rilievo anche la preparazione, professionalità e specializzazione dei singoli.

    Quindi vanno individuate -con attenzione e tempestività- le reali cause della situazione rappresentata se si vogliono trovare le soluzioni corrette che portino il nostro Paese su standard qualitativi adeguati  che certamente può e merita  di raggiungere.

    E’ anche il momento storico perché tutto questo trovi attuazione considerato che  la pandemia da Covid 19 , che ha causato una “escalation”  nei fatti di violenza di soprattutto domestica, ha aggravato la condizione già difficile di tante donne,  soprattutto di quelle più vulnerabili, più fragili sul piano economico.

    E’ il momento di dare alla parola “resilienza” il significato proprio: mettiamo le donne vittime di violenza nelle condizioni  di potere essere resilienti, cioè di potere fare fronte in maniera positiva ad eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità.

    Per questo vorremmo contare sulla “resilienza “ dei governanti , di  tutti coloro che sono competenti e responsabili,  perché  l’impegno nella ripresa del nostro Paese si trasformi in una reale  opportunità anche per le vittime di questa intollerabile e antistorica forma di violenza.

    L’esito dell’indagine della Commissione di inchiesta sul femminicidio, nei limiti  della delibera istitutiva, può costituire un utile incentivo ad impegnarsi –anche economicamente-  perché  la Convenzione di Istanbul,  non resti solo un “manifesto” di buoni propositi.

    [1] Intervento di Maria Monteleone alla Sala Zuccari del Senato del 17 luglio 2021per la presentazione della “Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria” approvata all’unanimità dalla Commissione di Inchiesta sul femminicidio del Senato il 17/6/2021.

    [2] Il Rapporto è stata curato da Maria Monteleone, Linda Laura Sabbadini e Marina Musci, collaboratrici della Commissione ai sensi dell’articolo 23 del Regolamento interno, sulla base di una indagine statistica condotta attraverso specifici questionari  inviati agli uffici giudiziari ed ai  Consigli degli Ordini Professionali interessati.

    [3] I questionari sono stati richiesti nel dicembre 2019 tramite un'applicazione informatica e la raccolta dei dati si è conclusa nel 2020.

     [4] Art. 19 co. 2 bis del d.l. 160/2006 (Ordinamento giudiziario) e Regolamento del CSM del 13/3/2008.

    [5] Ci si riferisce alle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e di cessazione degli effetti civili del matrimonio e di provvedimenti riguardo ai figli.

    [6] Nello specifico, è stata effettuata un’Analisi delle Corrispondenze Multiple (ACM) e, successivamente, una cluster analysis gerarchica ascendente sulle prime due dimensioni fattoriali, che spiegano complessivamente il 39% della varianza dei dati.

    [7] Nello specifico, ci si riferisce a rapporti tra I) Giudice civile e Giudice minorile, II) Giudice civile e Pubblico Ministero ordinario, III) Giudice civile e Giudice minorile e IV) Giudice civile e Pubblico Ministero minorile.

    [8] Ci si riferisce alle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio e quelle sui provvedimenti riguardo ai figli (art. 337 ter del codice civile).

    [9] Ciò avviene nel 64% dei Tribunali del gruppo, a fronte di una media del 5,4%.

    [10] Ciò avviene nel 54,5% dei Tribunali del gruppo, a fronte di una media del 4,6%.

    [11] Si ricorda che il periodo temporale di riferimento dell’indagine è il triennio 2016-2018, antecedente alla legge 69/2019 che ha introdotto l’obbligo di trasmettere determinati atti dal procedimento penale a quello civile nei casi in cui si proceda per determinate ipotesi di reato.

    [12] Ci si riferisce alle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio e quelle sui provvedimenti riguardo ai figli (art. 337 ter del codice civile).

    [13] Infatti, l’86,5% (dato medio: 51%) dei Tribunali del cluster dichiara di aver sempre informato il P.M. nei casi in cui sono emerse situazioni di violenza domestica e, il 69% (dato medio: 41%) ha dichiarato che il P.M., quando informato, è intervenuto sempre.

    [14] Ciò avviene nel 58% dei Tribunali del gruppo, a fronte di una media del 31,5%.

    [15] Selezione che avviene sempre tra quelli iscritti all’albo dei periti nel 61% dei Tribunali appartenenti al cluster, a fronte dei una media del 75%.



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