GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    CEDU e cultura giuridica italiana. 7)  La CEDU e i processualcivilisti .

    CEDU e cultura giuridica italiana. 7) La CEDU e i processualcivilisti .

    CEDU e cultura giuridica italiana.

    7) La CEDU e i processualcivilisti

    Roberto Giovanni Conti  intervista

     

    Paolo Biavati, ordinario di diritto processuale civile presso l’Università di Bologna

    Giorgio Costantino,  ordinario di diritto processuale civile presso l’Università Roma3

    Elena D’Alessandro, ordinaria di diritto processuale civile presso l’Università diTorino

     

     

    1. Le domande. 2. La scelta del tema. 3. Le risposte. 4.Le conclusioni. 5.L’intervista in pdf.

     

    Le domande.

    1) Qual è, a Suo giudizio, il futuro dei rapporti fra giudice nazionale e Corte di Strasburgo?

    2) L’autonomia e indipendenza della giurisdizione nazionale da ogni altro potere dello Stato in che misura è assimilabile a quella dei giudici incardinati nella Corte edu?

    3) Quali sono, a suo giudizio, le sfide che attendono la Corte Edu nel prossimo futuro, con particolare riferimento alla gestione dei ricorsi diretti ed al margine di apprezzamento? E quali quelle che si porranno al giudice nazionale, dopo l'entrata in vigore del Protocollo n.16 annesso alla CEDU?

     

    La scelta del tema.

    Roberto Giovanni Conti

    E venne la volta dei processualcivilisti sul tema CEDU.

    La riforma dell’art.111 Cost. in tema di giusto processo costituisce la conferma plastica di quanto la Convenzione europea dei diritti dell’uomo avrebbe potuto incidere sul sistema processuale interno all’indomani della novella introdotta in Costituzione sulle ali dell’art.6 CEDU.

    La viva voce di tre studiosi del processo civile è dunque sembrata necessaria per fare il punto sul già fatto e sulle prospettive che la piena attuazione della CEDU e della giurisprudenza della Corte europea possono rappresentare per studiosi e, soprattutto, operatori pratici del diritto.

    Un approfondimento, quest’ultimo, da mettere in parallelo con le precedenti interviste ai due giudici della Corte edu italiani non più in carica ed alle risposte che i giuristi avvocati (civilisti) e gli europeisti-internazionalisti e costituzionalisti hanno già offerto ai lettori – D. Cerri, P. Regina, M.G. Ruo, La parola agli Avvocati civilisti sul ruolo della CEDU; G. Raimondi e V. Zagrebelsky, La CEDU vista dai suoi giudici ; M. Castellaneta, A. Di Stasi e A. Tancredi,  La CEDU e l’Accademia europeista-internazionalista; A. Anzon, L. Cassetti, A. Guazzarotti, Carta costituzionale e CEDU. Tutto risolto? –.

     

    Le risposte.

    1) Qual è, a Suo giudizio, il futuro dei rapporti fra giudice nazionale e Corte di Strasburgo?

     

     Paolo Biavati

    Sono particolarmente grato al Consigliere Roberto Conti per avermi voluto coinvolgere in questa iniziativa, così interessante e innovativa.

    Certo, cominciamo con una domanda difficile: difficile, perché il quadro politico ed istituzionale europeo è in rapida evoluzione, portando oggi alla ribalta problemi che appena pochi anni fa non sussistevano, ma che, al contempo, potranno forse venire altrettanto rapidamente sostituiti da nuove sfide.

    Ci può forse aiutare uno sguardo retrospettivo. Ora, il dialogo con la Corte Edu si è sviluppato, nella prassi giudiziaria, con molto ritardo rispetto all’entrata in vigore della convenzione europea (allo stesso modo in cui la dottrina processualistica ha a lungo ignorato il tema). Probabilmente, le domande di indennizzo per la non ragionevole durata dei processi hanno costituito il motivo per generare un’attenzione che prima mancava: in qualche modo, mi sembra che le difficoltà del nostro sistema siano state – paradossalmente – il fattore che ha messo in moto un dialogo virtuoso.

    Oggi, il riferimento alla convenzione e alla giurisprudenza della Corte è comune nella prospettiva del giudice nazionale e probabilmente questo atteggiamento è destinato a incrementarsi, anche per effetto dell’applicazione del Protocollo n. 16. Su quest’ultimo aspetto, svilupperò qualche considerazione rispondendo alla terza domanda. Colgo l’occasione, tuttavia, per rilevare come nella fase di discussione del disegno di legge di ratifica (mentre scrivo, tuttora in corso) si siano manifestate perplessità, specialmente in chiave di rispetto della disciplina costituzionale e del ruolo decisivo della Consulta. Ora, a mio avviso, si tratta di perplessità non condivisibili, perché un impiego virtuoso delle possibilità (peraltro, limitate) offerte dal Protocollo avrebbe solo l’effetto di migliorare la qualità della tutela e di istituire un canale prezioso di cooperazione.

    Nella mia ottica, molto dipenderà dalla progressiva presa di coscienza di magistrati e avvocati dell’esistenza di una rete – se così mi posso esprimere – di protezione dei diritti fondamentali a molteplici livelli, sia pure distinguendo con precisione le singole fonti e le non identiche (per quanto fortemente convergenti) previsioni di tutela. Molto può fare l’Università, formando gli operatori di domani.

    Non ho la sfera di cristallo, ma posso immaginare che l’azione della Corte Edu sarà tanto più percepita ed apprezzata, quanto più verrà a toccare profili di immediato rilievo interno. Non vi è dubbio, ad esempio, che chi si occupa di espropri e indennizzi (sia sul versante civile che su quello amministrativo) ha maggiore familiarità con la giurisprudenza di Strasburgo, proprio per l’importanza di tante decisioni europee nell’orientare la legislazione interna.

     

    Giorgio Costantino

    Ciascuna e tutte le disposizioni processuali debbono essere conformi agli artt. 3, 24 e 111 Cost., all’art. 47 della «Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea» (richiamata dall’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea, quale modificato dal Trattato di Lisbona, ratificato con l. 2 agosto 2008, n. 130), e all’art. 6 della «Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» (CEDU), ratificata con l. 4 agosto 1955, n. 848.

    Ne consegue che, almeno sulla carta, questo è il migliore dei mondi possibili, perché non è mai esistito, nella storia dell’umanità, un momento ed un luogo nei quali fosse riconosciuto a tutti, cittadini e non cittadini, senza distinzione di sesso, razza, religione o altro, il diritto alla tutela effettiva e ad un processo giusto, ad ottenere «tutto quello e proprio quello che si avrebbe diritto a conseguire alla stregua del diritto sostanziale» (G. Chiovenda).

    In questo contesto, non è necessario il richiamo di Antigone alle «leggi non scritte». È la rivincita di Creonte per l’affermazione completa del diritto positivo. Se il mugnaio di Saint Souci poteva sperare che vi fossero giudici a Berlino, oggi chiunque non solo gode delle garanzie appena indicate, ma, se queste sono negate anche dal legislatore nazionale, può trovare tutela a palazzo della Consulta, alla Corte del Lussemburgo ed alla Corte di Strasburgo.

    Se si volge lo sguardo al passato, questa constatazione può generare soddisfazione e gratitudine per il patrimonio di valori che le generazioni precedenti hanno trasmesso. Se si volge lo sguardo al presente, essa può generare sconforto, perché l’esperienza mette in evidenza le profonde contraddizioni tra i principii ed i valori formalmente riconosciuti e la realtà effettuale. Se si volge lo sguardo al futuro, tuttavia, può stimolare l’impegno a contribuire al superamento di queste contraddizioni e all’affermazione effettiva dei principii recepiti dalle menzionate disposizioni generali.

    L’osservanza dei principii e dei valori deducibili dalla Costituzione della Repubblica Italiana, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo costituisce un doveroso criterio interpretativo di ogni testo normativo nazionale, europeo, statale, regionale, convenzionale, primario o secondario. La conformità delle disposizioni processuali alla Costituzione, al diritto dell’Unione Europea e alla Convenzione sui diritti dell’uomo è garantita, rispettivamente, dalla Corte costituzionale, dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea (Corte UE) e dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).

    La compresenza di più testi normativi contenenti le garanzie fondamentali e la coesistenza di più corti deputate a garantirne l’osservanza ne implica il coordinamento.

    Ai sensi del novellato art. 111 Cost., il processo, per essere «giusto», deve essere «regolato dalla legge», deve svolgersi «nel contraddittorio tra le parti», «in condizioni di parità», «davanti a un giudice terzo …» e «… imparziale»; e si è anche stabilito che «la legge ne assicura la ragionevole durata».

    Le garanzie scolpite in questa disposizione e, comunque, già deducibili dal sistema, coincidono con quelle previste dall’art. 6 della Convenzione sui diritti dell’uomo, assunto a modello per la riforma costituzionale.

    Non vi è contraddizione tra i principii ed i valori previsti in materia di giustizia dalla Costituzione della Repubblica Italiana, quelli affermati della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e quelli riconosciuti dalla Convenzione sui diritti dell’uomo.

    Secondo la Corte di cassazione (Cass., sez. un., 26 gennaio 2004, n. 1339), i criterii per la qualificazione e per la liquidazione del danno da durata irragionevole del processo ai sensi dell’art. 2 l. 24 marzo 2001, n. 89, sono quelli indicati dalla CEDU: poiché tale disposizione rinvia alla Convenzione e l’interpretazione di questa è affidata alla Corte di Strasburgo, occorre recepire i canoni interpretativi della giurisprudenza della Corte internazionale.

    Per quanto riguarda i rapporti tra Costituzione e Convenzione sui diritti dell’uomo, tra Corte costituzionale e CEDU, la Corte costituzionale ha ribadito che, nell’ordine delle fonti, la norma fondamentale (la Gründnorme) [Grudnorm]è la Costituzione italiana. Ad essa devono adeguarsi tutte le altre disposizioni, quale che sia il rango di esse. Ne consegue che un eventuale conflitto tra norme della Unione Europea e principii costituzionali o tra disposizioni convenzionali e i secondi, sul piano del diritto positivo, non può che essere risolto a favore dei valori fondanti la Repubblica, anche se resta aperta la questione sul piano istituzionale e politico.

    In riferimento alla normativa in tema di espropriazione per pubblica utilità, dopo un’ampia premessa, diretta a collocare nel sistema le disposizioni convenzionali, la Corte (Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 349) ha concluso nel senso che essa «e la Corte di Strasburgo hanno in definitiva ruoli diversi, sia pure tesi al medesimo obiettivo di tutelare al meglio possibile i diritti fondamentali dell’uomo. L’interpretazione della Convenzione di Roma e dei Protocolli spetta alla Corte di Strasburgo, ciò che solo garantisce l’applicazione del livello uniforme di tutela all’interno dell’insieme dei Paesi membri. A questa Corte, qualora sia sollevata una questione di legittimità costituzionale di una norma nazionale rispetto all’art. 117, primo comma, Cost. per contrasto – insanabile in via interpretativa – con una o più norme della CEDU, spetta invece accertare il contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana».

    Sennonché, la sintonia tra le corti, salutata con entusiasmo dagli studiosi e dagli operatori, è venuta meno con successive pronunce della Corte costituzionale, in relazione ad una complessa vicenda relativa alla responsabilità degli Stati per i crimini di guerra.

    L’immunità degli Stati è stata negata «in presenza di comportamenti … che, in quanto lesivi dei valori universali di rispetto della dignità umana che trascendono gli interessi delle singole comunità statali, segnano il punto di rottura dell’esercizio tollerabile della sovranità»: così Cass. 29 maggio 2008, n. 14201.

    Nell’ambito della medesima vicenda relativa al risarcimento dei danni provocati dai crimini di guerra commessi dalle truppe tedesche e, in particolare, alla ammissibilità dell’esecuzione sui beni di uno Stato estero, riconosciuta dalla Cassazione, questa affermazione non è stata, tuttavia, condivisa dalla Corte internazionale di giustizia.

    Con la sentenza del 3 febbraio 2012, infatti, la Corte dell’Aja, ha rilevato che «nessuna limitazione all’immunità dello Stato fondata sulla gravità della violazione o sul carattere imperativo della norma violata figura nella convenzione europea, in quella delle Nazioni Unite o nel progetto di convenzione interamericana» e che, «allo stato attuale del diritto internazionale consuetudinario, uno Stato non viene privato dell’immunità per la sola ragione che esso è accusato di violazioni gravi del diritto internazionale dei diritti umani o del diritto internazionale dei conflitti armati».

    La Corte di cassazione ne ha, quindi, preso atto ed ha negato la giurisdizione «in relazione alla domanda risarcitoria promossa nei confronti dello Stato straniero con riguardo ad attività iure imperii, anche se lesive dei valori fondamentali della persona o integranti crimini contro l’umanità»: Cass. 21 febbraio 2013, n. 4284.

    Con l. 14 gennaio 2013, n. 5, è stata ratificata la Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni, fatta a New York il 2 dicembre 2004, e sono state dettate «norme di adeguamento dell’ordinamento interno».

    Sennonché, Corte cost. 22 ottobre 2014, n. 238, ha dichiarato costituzionalmente illegittimi l’art. 3 della legge di ratifica e l’art. 1 l. 17 agosto 1957, n. 848 (Esecuzione dello Statuto delle Nazioni Unite, firmato a San Francisco il 26 giugno 1945), «nella parte in cui obbliga il giudice italiano ad adeguarsi alla pronuncia della Corte internazionale di giustizia (CIG) del 3 febbraio 2012, che gli impone di negare la propria giurisdizione in riferimento ad atti di uno Stato straniero che consistano in crimini di guerra e contro l’umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona».

    Secondo la Corte, «il totale sacrificio che si richiede ad uno dei principi supremi dell’ordinamento italiano, quale senza dubbio è il diritto al giudice a tutela di diritti inviolabili, sancito dalla combinazione degli artt. 2 e 24 della Costituzione repubblicana, riconoscendo l’immunità dello Stato straniero dalla giurisdizione italiana, non può giustificarsi ed essere tollerato quando ciò che si protegge è l’esercizio illegittimo della potestà di governo dello Stato straniero, quale deve ritenersi in particolare quello espresso attraverso atti ritenuti crimini di guerra e contro l’umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona». La stessa questione è stata, poi, dichiarata inammissibile per mancanza di oggetto da Corte cost. 3 marzo 2015, n. 30.

    A questa sentenza ha fatto seguito l’art. 19 bis, frettolosamente aggiunto in sede di conversione del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. in l. 10 novembre 2014, n. 162.

    La decisione ha aperto un vivace dibattito sui rapporti tra la Costituzione e le convenzioni internazionali e tra la Corte costituzionale e le corti internazionali.

    La pronuncia del giudice delle leggi è stata richiamata anche da Cass. 28 ottobre 2015, n. 21946, nell’ambito di una controversia tra gli Stati Uniti e l’Iran relativa all’esecuzione in Italia di un provvedimento di condanna del secondo al risarcimento dei danni per la morte di una cittadina americana in Israele.

    Il problema trascende i confini nazionali.

    Analoghi problemi sui rapporti tra le corti suscita il parere rilasciato dalla Corte UE il 18 dicembre 2014 sulla adesione della Unione Europea alla Convenzione sui diritti dell’uomo.

    La Corte del Lussemburgo ha concluso: «L’accordo sull’adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali non è compatibile con l’articolo 6, paragrafo 2, TUE, né con il Protocollo (n. 8) relativo all’articolo 6, paragrafo 2, del Trattato sull’Unione europea sull’adesione dell’Unione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali».

    In realtà, ogni questione relativa alle conseguenze dei conflitti tra norme della Unione Europea e principii costituzionali o tra disposizioni convenzionali e i secondi, ovvero tra le corti competenti ad interpretare e ad applicare questi testi, se si presta ad una soluzione piana ed agevole sul piano formale, resta aperta sul piano istituzionale e politico ed implica che siano esplicitati i giudizi di valore, senza nasconderli dietro considerazioni formali.

     

    Elena D’Alessandro

    Anche io ringrazio il Consigliere Roberto Conti per essersi fatto promotore di questa bella iniziativa e per avermi coinvolto.

    Con riferimento alla domanda postami, penso che, nel prossimo futuro, saranno sempre più frequenti i momenti in cui il giudice nazionale - sia esso di merito ovvero di vertice - per decidere una controversia dinanzi a lui pendente, dovrà fare applicazione della giurisprudenza della Corte Edu. A fortiori dopo che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea - la quale, come noto, ha lo stesso valore dei Trattati e, perciò, può giustificare la disapplicazione del diritto nazionale contrastante in nome della primauté del diritto eurounitario - ha chiarito che, ogni qualvolta vi sia coincidenza tra i diritti protetti dalla Carta e quelli tutelati dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (di seguito: CEDU), tali garanzie debbono essere interpretate tenendo conto della giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

    Ciò che, tuttavia, nell’ambito di questa relazione sembra destinato a mutare significativamente in un futuro prossimo, se e quando il Protocollo n. 16 annesso alla CEDU entrerà in vigore anche per l’Italia, è il rapporto tra la Corte di Strasburgo e i giudici nazionali di vertice (mi riferisco, essenzialmente, alla Corte di cassazione e al Consiglio di Stato e lascio volutamente da parte, per il momento, la Corte costituzionale).

    Ad oggi, infatti, la Corte Edu è essenzialmente percepita come “il controllore” della conformità del contenuto di una decisione nazionale, e del processo che l’ha prodotta, alle garanzie sancite dalla CEDU.

    Se e quando il Protocollo n. 16 entrerà in vigore, il rapporto tra giudice nazionale di ultima istanza e Corte di Strasburgo non sarà più soltanto tra “controllato” e “controllore”; un rapporto in cui la Corte Edu ha il compito di verificare ex post se il giudice nazionale ha bene applicato la giurisprudenza di Strasburgo sulla CEDU.

    Piuttosto, vi sarà spazio per un dialogo preventivo finalizzato a prevenire la formazione di giudicati nazionali lesivi di diritti fondamentali protetti dalla CEDU. L’obiettivo appare particolarmente significativo, specie in materia civile, considerato che, a differenza di altri ordinamenti europei, al momento in Italia non esiste uno strumento processualcivilistico in grado di rimediare alla perpetrata violazione della CEDU tramite la rimozione del giudicato nazionale, tutte le volte in cui la tutela risarcitoria non sia idonea a compensare la parte che abbia subito la lesione di uno diritti fondamentali garantiti dalla CEDU.

    In particolare, sembra che un dialogo preventivo tra le corti nazionali di vertice e la Corte di Strasburgo sia in grado di centrare l’obiettivo sopra richiamato nei casi in cui si abbia a che fare con una questione interpretativa di una normativa nazionale, in relazione alla sua compatibilità con la CEDU, su cui non esista pregressa giurisprudenza della Corte di Strasburgo, quante volte la normativa nazionale sia suscettibile di una interpretazione conforme alla CEDU e quante volte il giudice nazionale di vertice decida di recepire la posizione della Corte Edu espressa nel parere preventivo.

    Quando, invece, il dialogo preventivo con la Corte di Strasburgo confermi che non è possibile una interpretazione conforme alla CEDU, sarà necessario che la Corte costituzionale si inserisca in questo dialogo, affinché, per il tramite dell’art. 117 Cost., sia espunta dall’ordinamento italiano la normativa. che la Corte di Strasburgo reputa contrastante con le garanzie convenzionali (qui ipotizzando, per semplicità, che la Consulta concordi con il punto di vista del giudice sovranazionale). Soltanto così potrà essere prevenuta la formazione di giudicati nazionali contrastanti con la CEDU.

    Poiché la richiesta di parere preventivo di cui al Protocollo n. 16 è facoltativa e non obbligatoria per le Corti di vertice – se e quando il Protocollo entrerà in vigore per l’Italia – spetterà ai giudici nazionali approfittare cum grano salis di questa nuova opportunità di dialogo. A mio avviso non v’è dubbio sul fatto che Corte di Cassazione e Consiglio di Stato, che già hanno mostrato tanta sensibilità nei confronti di queste tematiche con la stipula dei rispettivi protocolli d’intesa con la Corte di Strasburgo (un analogo protocollo, come noto, è stato siglato anche dalla Corte Costituzionale), sapranno approfittare dell’occasione bilanciando, con la consueta saggezza, e caso per caso, i pro e i contra di questo nuovo strumento. Uno dei prezzi da pagare per dialogare preventivamente con la Corte di Strasburgo, è infatti            quello della sospensione del giudizio di legittimità nazionale, con consequenziale allungamento della già non celere tempistica processuale italiana, specie in materia civile. Per questo motivo e prima facie viene da dire che ha senso sospendere il giudizio nazionale quando non esista una pregressa giurisprudenza di Strasburgo e quando la normativa interna sia astrattamente suscettibile di una interpretazione conforme alla CEDU.

     

    2) L’autonomia e indipendenza della giurisdizione nazionale da ogni altro potere dello Stato in che misura è assimilabile a quella dei giudici incardinati nella Corte edu?

     

     Paolo Biavati

    Il tema dell’indipendenza – mai esaurito, come ben sappiamo, anche sul piano interno – si colora di toni specifici quando lo si esamina nell’ottica delle corti internazionali e, nel caso specifico della Corte Edu.

    La credibilità di un giudice internazionale, tanto più in questi momenti in cui il nazionalismo rialza la cresta, si misura anche dalla percezione sociale della sua indipendenza dalle posizioni politiche e valoriali espresse dal governo dello Stato che lo ha nominato.

    Le norme, come noto, non mancano di rimarcare i requisiti di indipendenza delle personalità prescelte per il delicato compito di giudice Edu (a partire dagli artt. 21 e 22 della Convenzione). Mi sembra, tuttavia, che sarebbe molto utile rafforzare la trasparenza dei percorsi di nomina.

    Nel sistema interno, l’accesso alla magistratura è diffuso e regolato da modalità pubbliche e l’indipendenza è un bene più da tutelare nel corso della carriera che non da verificare quando il singolo magistrato entra a fare parte dell’ordine giudiziario. Invece, nelle corti internazionali, la scelta è pur sempre un atto discrezionale, che ricade su una figura professionale molto formata, con un ampio curriculum alle spalle e rispetto alla quale l’indipendenza può già costituire oggetto di una verifica retrospettiva. Il profilo dei rapporti con la politica, in questo senso, non è irrilevante.

    Ora, la mia sensazione è che il procedimento di nomina dei giudici Edu non sia aperto alla lettura dell’opinione pubblica, così come lo è, ad esempio, quello dell’elezione dei giudici costituzionali italiani di nomina parlamentare. Molto gioverebbe al riconoscimento sociale delle pronunce di Strasburgo la consapevolezza delle qualità dei candidati e dei criteri che ne conducono alla selezione.

    Per non rischiare di essere frainteso, voglio precisare che da molti anni conosco ed apprezzo l’attuale giudice italiano della Corte e che ritengo si sia trattato di un’eccellente scelta. Ciò che voglio dire è che la stessa opportunità di valutazione dovrebbe essere offerta ai cittadini, che troppo spesso ignorano sia il procedimento che il relativo esito.

    Si è autorevolmente detto che la conferma dell’indipendenza (e della conseguente imparzialità) dei giudici si riscontra nel momento della motivazione. La motivazione, nel caso delle corti supreme, non serve ad una impossibile verifica impugnatoria, ma all’essenziale funzione di dare conto a tutti delle modalità di esercizio del potere giurisdizionale: in definitiva, è un atto di democrazia. Questo è tanto più vero nelle sedi internazionali, dove la tentazione di ricondurre le decisioni alla collocazione geopolitica dei singoli componenti le corti è certamente più forte.

    L’espressione “lawfare” è entrata da tempo nel lessico dei giuristi ed esprime, a mio avviso, l’esatto contrario della garanzia di indipendenza: quando si ha l’impressione che la giurisdizione sia piegata al raggiungimento di determinate finalità politiche, si attua una reazione di delegittimazione, con rischi di gravi deviazioni. La consapevolezza dell’indipendenza dei giudici internazionali (perché il loro percorso di nomina è limpido) rafforza, al contrario, la fiducia dei cittadini e l’accettazione sociale delle loro decisioni. 

    Motivazione e trasparenza, a mio avviso, dovrebbero accompagnare più da vicino anche il meccanismo di nomina dei giudici Edu, a tutto vantaggio della risonanza pubblica della tutela dei diritti fondamentali che scaturisce dalle loro pronunce. 

     

    Giorgio Costantino

    I giudici della CEDU sono eletti dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa dalle liste dei tre candidati proposti da ciascuno Stato. Sono eletti per un mandato non rinnovabile di nove anni. Hanno il compito di interpretare la Convenzione di Roma e i Protocolli.

    Il loro potere deriva dalla Convenzione.

    Ai sensi dell’art. 1, comma 2, Cost., «La sovranità appartiene al popolo …» e, ai sensi dell’art. 101, comma 1, Cost., «La giustizia è amministrata in nome del popolo». Sennonché, ai sensi del successivo capoverso, «I giudici sono soggetti soltanto alla legge».

    La giurisdizione dei giudici nazionali costituisce esercizio di sovranità, nei confini segnati dalla legge.

    La contraddizione non è nuova. Basti ricordare che «mandare vel non mandare jurisdictionem est in arbitrio proconsulis». I rapporti tra papato ed impero sono stati caratterizzati dai contrasti sull’esercizio della giurisdizione. Wallenstein, ricevendo feudi in pagamento delle campagne della guerra dei Trent’anni, pretendeva fosse esclusa la possibilità dell’appello all’imperatore. Leonardo Sciascia, nel Consiglio d’Egitto, ha descritto mirabilmente la questione.

    L’antinomia tra gli artt. 1, secondo comma, e 101, primo comma, Cost., da una parte, e 101, secondo comma Cost., dall’altra, assumono rilevanza anche nella prospettiva della tutela giurisdizionale civile: per un verso, il processo «giusto» deve offrire tutte le garanzie previste dalla Costituzione e dalle convenzioni internazionali; per altro verso, i controlli sulla correttezza della decisione non possono che essere interni al processo e, quindi, il provvedimento «giusto» è quello non più impugnabile (A. Segni, Della tutela giurisdizionale dei diritti, in Comm. del c.c. a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1959, sub art. 2909).

    Prescindendo dal diritto di critica, è insindacabile, al di fuori del processo, vuoi l’attività di interpretazione di norme di diritto, vuoi quella di valutazione del fatto e delle prove.

    Dispongono in tal senso vuoi l’art. 2, comma 2, l. 13 aprile 1988, n. 117, novellata dalla l. 27 febbraio 2015, n. 18, sulla responsabilità civile dei magistrati, vuoi l’art. 2, comma 2, d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, sulla responsabilità disciplinare.

    Nel vigente sistema costituzionale, l’esercizio della giurisdizione da parte di tutti i giudici (ordinari e speciali, togati ed onorari), che devono essere precostituiti dalla legge, autonomi ed indipendenti, implica la soggezione soltanto alla legge, cosicché l’interpretazione di questa e la valutazione dei fatti e delle prove possono essere valutate soltanto nel processo, che deve essere «giusto».

    L’autonomia e l’indipendenza della magistratura, affinché i giudici possano esercitare la sovranità sullo stesso piano degli altri poteri dello Stato e trasformare in norme i testi legislativi implicano che sia garantito et quidem garantito effettivamente lo svolgimento dei processi.

    Il tema «governo della magistratura», pertanto, non riguarda soltanto il ruolo di quest’ultima rispetto agli altri poteri dello Stato; investe il problema del ruolo della medesima, quale custode della legalità nel quadro costituzionale; richiama la nota questione «quis custodiet custodes?».

    Il che conduce il discorso al nodo più complesso, perché il potere politico è regolato dalla logica della appartenenza, mentre questa deve (o dovrebbe) essere estranea all’«ordine» giudiziario.

    Parafrasando la nota affermazione di Voltaire, il potere politico dovrebbe dire alla magistratura: «odio quello che fai, ma difenderò fino alla morte il diritto di farlo e ti fornirò i mezzi per farlo».

    Il che non sempre avviene, cosicché occorre riconoscere che anche la questione dei rapporti tra la magistratura nel suo complesso e gli altri poteri dello Stato, al pari di quella dei confini della giurisdizione, è una questione aperta, che si presta ad essere correttamente esaminata in riferimento alla concreta disciplina del processo.

    Soltanto in questo ambito, infatti, si può verificare l’effettivo funzionamento delle garanzie fondamentali della giurisdizione.

    La possibilità di errore è fisiologica; lo strumento per evitarli è il processo, affinché il giudizio sia il frutto di un percorso predeterminato dalla legge; gli strumenti per porvi rimedio sono le impugnazioni.

    I giudici devono essere «autonomi» ed «indipendenti».

    Ai sensi dell’art. 111, comma 2, Cost., il processo deve svolgersi «davanti a un giudice terzo e imparziale»; e, ai sensi dell’art. 25, comma 1, Cost., «nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge». L’art. 47 della «Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea», a sua volta, riconosce a ciascuno il diritto «a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice», che deve essere «indipendente e imparziale» e «precostituito per legge». L’art. 6 della «Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali», infine, quello «a che la sua causa sia esaminata … da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge».

    La precostituzione del giudice, l’autonomia e l’indipendenza del singolo magistrato, sono garanzie che operano nel processo: l’esercizio del diritto di azione e del diritto alla difesa implica che il giudice sia precostituito per legge, che sia autonomo, che sia indipendente.

    Ma occorre anche orientare l’attenzione sulla autonomia e sulla indipendenza della magistratura nel suo complesso.

    In base alla Costituzione della Repubblica italiana, le garanzie della autonomia e della indipendenza della magistratura ordinaria risiedono nella previsione del Consiglio Superiore della Magistratura di cui all’art. 104 Cost. e nella riserva a questo organo costituzionale, ai sensi dell’art. 105 Cost., del potere di regolare, «secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati».

    L’autogoverno dei giudici ordinari, l’inamovibilità e l’assenza di ogni relazione gerarchica costituiscono le garanzie costituzionali della autonomia e dell’indipendenza della magistratura.

    La l. 25 luglio 2005 n. 150, con la quale è stata realizzata la riforma dell’ordinamento giudiziario, ha attribuito al Consiglio superiore della magistratura i compiti previsti dall’art. 2. Il Presidente della Repubblica aveva rinviato al Parlamento il testo della legge ed aveva rilevato che i «poteri del consiglio superiore risultano — in palese contrasto con il dettato costituzionale — sensibilmente ridimensionati, in quanto il sistema delineato nella legge delega colloca al centro di ogni procedura concorsuale la scuola superiore della magistratura, struttura esterna al consiglio superiore, e apposite commissioni, anch’esse esterne allo stesso consiglio»; e le disposizioni della legge delega ed ora dei decreti delegati sottopongono «sostanzialmente il Consiglio superiore della magistratura a un regime di vincolo che ne riduce notevolmente i poteri definiti nel citato art. 105 Cost.». La legge 25 luglio 2005 n. 150, tuttavia, è stata nuovamente approvata con modifiche meramente formali. Interventi correttivi dei decreti delegati sono stati introdotti dalla l. 30 luglio 2007, n. 111.

    Al potere esecutivo, per il tramite del ministro della giustizia, spetta, ai sensi dell’art. 110 Cost., il potere di regolare l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Dal 1° settembre 2015, competono al ministero della giustizia anche la manutenzione e la gestione degli immobili destinati agli uffici giudiziari, già attribuiti ai comuni dalla l. 24 aprile 1941, n. 392, e modificata dall’art. 1, comma 526, l. 23 dicembre 2014, n. 190.

    Il governo della magistratura è bicefalo.

    L’osservanza delle garanzie fondamentali della giurisdizione e l’efficienza della tutela giurisdizionale dipendono, per un verso, dalla applicazione delle garanzie del «giusto» processo e, per altro verso, dalla sintonia tra l’organo di autogoverno e il potere esecutivo, tra il «potere» giudiziario e quello esecutivo.

    Anche al fondo dei rapporti tra potere giudiziario e potere politico, tra giudici nazionali e corti internazionali vi sono scelte di lavoro che è opportuno siano esplicitate.

     

    Elena D’Alessandro

    L’autonomia e l’indipendenza dei giudici incardinati nella Corte di Strasburgo e di quelli incardinati nella giurisdizione nazionale italiana sembrano assimilabili, pur nella loro diversità. Ambedue i giudici non possono svolgere un’altra attività professionale, men che meno quella politica, durante il loro incarico.

    Vero è, però, che i giudici nazionali entrano in ruolo per concorso mentre quelli della Corte EDU sono nominati dagli Stati, benché la procedura sia coadiuvata e monitorata dalle istituzioni di Strasburgo (v. il Report on the process of selection and election of judges of the European Court of Human Rights – CDDH, (2017) R88addI, dell’11 dicembre 2017).

    Il fatto che ogni Stato nomini un proprio giudice nazionale potrebbe indurre a ritenere che tale giudice non sia in posizione di totale indipendenza dal proprio “mandante”, tant’è che, ad esempio in base a quanto stabilito dalla CEDU, egli non può svolgere il ruolo di giudice unico per decidere sulla inammissibilità dei ricorsi individuali proposti contro tale ordinamento.

    Giusto prendere una siffatta precauzione, tuttavia, l’esperienza di autorevoli giudici italiani presso la Corte di Strasburgo dimostra che sovente le cose non stanno così, almeno con riferimento all’Italia. Scrive infatti Vladimiro Zagrebelsky nel bel saggio intitolato “Nove anni come giudice italiano a Strasburgo“, pubblicato sul numero speciale 1/2019 di Questione giustizia: “L’essere il «giudice nazionale» italiano non mi pare che abbia inciso in modo significativo, nel senso di differenziare il mio lavoro da quello degli altri colleghi. Su un punto preliminare ed essenziale, voglio dire che io ho potuto svolgere il mio lavoro in totale indipendenza, senza subire alcuna forma di pressione, richiesta, influenza da parte governativa italiana (il mio mandato si è svolto in un tempo che ha visto più governi susseguirsi, di diverso colore). Ciò non significa che le posizioni che ho assunto siano rimaste per me senza conseguenze e reazioni in Italia”.

    Per evitare ogni tipo di tentazione, il mandato dei giudici nominati non è rinnovabile.

    D’altra parte la presenza di un giudice nazionale per ogni Stato membro del Consiglio di europea, e la presenza di un giudice eletto nello Stato che è parte del giudizio (dopo che la controversia ha superato il vaglio di ammissibilità) serve ad assicurare che il diritto di quell’ordinamento sia ben interpretato ed inteso – funzione che può essere svolta anche mediante la stesura di una dissenting o concurring opinion – e non già a rendere imparziale l’organo giudicante.

    La medesima funzione, in riferimento al Protocollo n. 16, è svolta dalla previsione secondo cui “Il collegio e la Grande Camera, indicati ai paragrafi precedenti, comprendono di pieno diritto il giudice eletto per l’Alta Parte contraente cui appartiene l’autorità giudiziaria che ha richiesto il parere”(art. 2, par. 3).

    Strasburgo si dimostra attenta all’imparzialità di giudizio dei propri giudici anche con riferimento al rapporto con i mass media e social media. Ad esempio, la Rule 281 (d) delle Rules of Court pubblicate il 3 giugno 2019 prevede che un giudice della Corte Edu non possa svolgere la propria attività in riferimento a nessun caso per cui abbia espresso pubblicamente la propria opinione mediante mezzi di comunicazione di massa, per scritto o in qualunque altra maniera, in modo da compromettere la propria imparzialità. Su questo versante l’ordinamento CEDU è sensibile come e quanto (sicuramente non meno del) l’Italia.

     

    3) Quali sono, a suo giudizio, le sfide che attendono la Corte Edu nel prossimo futuro, con particolare riferimento alla gestione dei ricorsi diretti ed al margine di apprezzamento? E quali quelle che si porranno al giudice nazionale, dopo l'entrata in vigore del Protocollo n.16 annesso alla CEDU?

     

    Paolo Biavati

    Rispondere a questa domanda significa gettare uno sguardo sul futuro e fare delle ipotesi.

    Il punto fondamentale è fissare un equilibrio fra la natura di merito delle sentenze della Corte di Strasburgo e la tendenza, che talora emerge, ad assumere, invece, un ruolo di nomofilachia europea, in concorso (se non in concorrenza) con la Corte di giustizia dell’Unione.

    Che la Corte Edu, quando decide un ricorso diretto, si pronunci sulla concretezza della violazione dei diritti fondamentali verificata nel caso di specie, è profilo che non va mai dimenticato. Pensando alla materia del processo civile, la Corte ha ripetutamente condannato l’Italia a versare indennizzi per l’irragionevole durata dei giudizi, ma non ha mai dettato – né avrebbe potuto – disposizioni volte a modificare il nostro ordinamento nazionale. Allo stesso tempo, queste pronunce mettono spesso in luce che la violazione accertata nel caso specifico è frutto, in realtà, di una insufficienza del sistema.

    Il lavoro interpretativo della Corte, nel corso degli anni, è spesso andato oltre l’approccio del caso concreto e ha generato indicazioni che hanno costituito, come ben noto, materia di fruttuoso dialogo con le altre corti supreme: nel caso italiano, con la Corte costituzionale e la Corte di Cassazione.

    La tensione fra i due momenti – quello della decisione del caso e quello dell’enunciazione di un profilo interpretativo della convenzione – trova, poi, un singolare momento di incontro quando la Corte declina i principi in maniera adeguata alle situazioni storiche, culturali e sociali dei singoli Stati membri della convenzione: vale a dire, quando applica il margine di apprezzamento.

    Tentando, allora, di fare una prognosi sul prossimo futuro della giurisprudenza della Corte, a me sembra che il contesto politico suggerisca una delicata attenzione alle peculiarità nazionali e, quindi, una sottolineatura del ruolo di Corte del merito. La fase attuale dell’integrazione europea, caratterizzata dal presentarsi di forti tentazioni sovraniste, sembra indurre ad evitare forzature interpretative e a cogliere invece (ovviamente, laddove possibile) le legittime caratteristiche dei singoli Paesi coinvolti.

    Ciò non significa che la Corte debba arretrare sul piano delle indicazioni interpretative e sull’orientamento da dare ai giudici nazionali nella tutela dei diritti fondamentali. Anzi: l’accelerazione che (forse) potrebbe mancare sul terreno dei ricorsi diretti, potrebbe invece prodursi se il Protocollo 16 riuscirà a radicarsi nella prassi giurisprudenziale.

    L’importanza del Protocollo 16 non può essere misurata sui pochissimi casi di prima applicazione. Non solo occorre attenderne la ratifica italiana, ma, come ogni nuovo istituto, deve trovare progressivamente cittadinanza dinanzi alle magistrature nazionali. Non si dimentichi che per il primo (ed isolato caso) di rinvio pregiudiziale a Lussemburgo si dovettero attendere alcuni anni dopo la firma dei trattati di Roma.

    Come accennavo nella risposta alla prima domanda, nel corso del dibattito sulla ratifica del Protocollo sono emerse perplessità, a mio avviso non del tutto giustificate.

    Non è certo questa la sede per un esame approfondito del tema, ma nella prospettiva delle sfide, che la domanda pone, mi pare utile sottolineare due aspetti.

    Il primo. A ben guardare, con il parere previsto dal Protocollo, il giudice nazionale non chiede alla Corte Edu l’enunciato di un dettato a valenza normativa (come nel caso del rinvio pregiudiziale a Lussemburgo, che, piaccia o no, è istituto molto diverso), ma una valutazione circa la violazione o meno di un diritto fondamentale previsto dalla Convenzione in un caso specifico. Il parere non è vincolante, perché non può esserlo: si tratta di una valutazione di merito o di qualificazione giuridica del fatto, che dovrà essere filtrata dal giudice di legittimità nell’ambito dei suoi poteri, con esiti non automatici.

     Il secondo. Certo, vi è il rischio che chiedere un parere a Strasburgo allunghi i tempi del processo. Tuttavia, imputare alla Corte Edu (che, da parte sua, nei primissimi casi, non ha indugiato) il ritardo di qualche mese in un giudizio che potrebbe orientare tante decisioni successive è del tutto ingeneroso, se paragonato alla massa di ritardi causati dalle disfunzioni organizzative del sistema. Inoltre, spetterà al giudice interessato (fra quelli abilitati a richiedere il parere) di operare virtuosamente, in modo da percepire la rilevanza della questione (anche su istanza di parte) e richiedere il parere nella fase immediatamente successiva all’introduzione del giudizio, senza attendere il momento decisorio.

    Al giudice nazionale sarà consegnato, quindi, uno strumento potenzialmente molto utile: la sfida consisterà nel saperlo maneggiare in modo appropriato.

     

    Giorgio Costantino

    L’ultimo quesito comprende diverse domande. Le risposte richiedono un esercizio di memoria.

    Il diritto di azione e ad un giusto processo, oggetto di un antico ed acceso dibattito, è definitivamente riconosciuto ed affermato dagli artt. 24, comma 1, 113 Cost., 6 CEDU e 47 della Carta dei diritti fondamentali dei cittadini dell’Unione Europea.

    La violazione di tale diritto per effetto di disposizioni di legge ordinaria comporta la cancellazione di queste ultime, ai sensi dei principii deducibili dalla Carta fondamentale della Repubblica, ovvero la loro disapplicazione, ai sensi di quelli deducibili dal Trattato istitutivo della Unione Europea, ovvero l’applicazione di sanzioni nei confronti degli stati contraenti, ai sensi di quelli affermati dalla CEDU.

    La violazione del diritto ad una tutela effettiva e ad un giusto processo obbliga anche lo Stato a riparare il danno.

    Tra i requisiti del diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva e giusta, quello che ha suscitato e suscita un ampio e vivace contenzioso risarcitorio è quello alla «durata ragionevole». Questo requisito è stato anche utilizzato dalla giurisprudenza in funzione di soluzioni innovative, soprattutto nell’ambito dei giudizi di impugnazione. Le vivaci reazioni a questo indirizzo ne hanno consentito il superamento. Il principio della ragionevole durata è soltanto una delle garanzie fondamentali del processo; in base ad esso, non possono essere sacrificate le altre.

    Sul piano strettamente positivo, l’art. 111, comma 2, Cost. si chiude con l’affermazione per la quale «la legge ne assicura la ragionevole durata». Il testo riprende l’art. 6 CEDU: «Toute personne a droit à ce que sa cause soit entendue équitablement, publiquement et dans un délai raisonnable»: mentre l’art. 111, comma 2, ha quale soggetto «la legge», la norma convenzionale attribuisce direttamente il diritto all’indennità. Ne consegue che, mentre in base all’art. 6 della Convenzione è possibile dolersi della irragionevole durata dei processi civili, quali che ne siano le cause, la lettera dell’art. 111, comma 2, consente soltanto di denunziare le norme di legge inidonee ad assicurarne la «ragionevole durata». Le questioni di legittimità costituzionale sollevate in base a tale disposizione e relative alla disciplina del processo civile non trovano accoglimento innanzi alla Corte, secondo la quale l’esercizio della funzione giurisdizionale risulta estraneo alla tematica del buon andamento della p.a.: quale espressione di un diffuso orientamento v. Corte cost. 4 febbraio 2000, n. 30.

    La prima condanna dell’Italia per violazione dell’art. 6 CEDU e, in particolare, del diritto alla durata ragionevole del processo era stata emanata dalla Corte di Strasburgo con la sentenza 25 giugno 1987, Capuano.

    Il caso sottoposto alla CEDU riguardava una controversia relativa all’aggravamento di una servitù di passaggio dalla terrazza di un appartamento sul mare, acquistato per il prezzo di settecentomila lire, alla spiaggia. La domanda era stata proposta il 10 gennaio 1977; dopo molte traversìe, tra le quali la morte del difensore, il mutamento del giudice, i ritardi e la rinnovazione della consulenza tecnica, la causa era stata decisa il 20 luglio 1983; proposto appello, al 29 aprile 1986, l’impugnazione non era stata ancora decisa. Ma il 21 dicembre 1980, la sig.ra Capuano si era rivolta alla Commissione. Dichiarato ricevibile il ricorso, la Corte condannò lo Stato italiano al pagamento di otto milioni di lire.

    Quella sentenza fu seguita da «valanghe di condanne» (G. Gaja, 1994). La CEDU venne investita dal «problème italienne» (Pres. Wildhaber, Rel. inaug. CEDU 2000). Nel 1999 furono aperti 3652 fascicoli e l’Italia fu condannata a risarcimenti per oltre sei milioni di euro. Il fenomeno venne qualificato come un «marchio d’infamia» e come «la Caporetto della storia giudiziaria» (P.G. La Torre, Rel. inaug. Cass. 2000).

    La legge n. 89 del 2001 venne frettolosamente approvata in attuazione dell’art. 13 CEDU, per il quale «ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente sono stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale».

    L’idea per la quale i panni sporchi è meglio lavarli in casa non ha avuto successo: le risorse necessarie al pagamento delle indennità avrebbero potuto e potrebbero essere più utilmente utilizzate per il miglioramento del servizio giustizia.

    La l. 24 marzo 2001, n. 89, è stata ripetutamente modificata, per limitare le conseguenze economiche della sua applicazione, che si sono rivelate disastrose: all’art. 55 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134, ha fatto seguito l’art. 1, co. 777°, l. 28 dicembre 2015, n. 208.

    In base alle ultime modifiche, il diritto all’equa riparazione è subordinato all’esperimento di rimedi preventivi. In particolare, alla introduzione del giudizio nelle forme del procedimento sommario di cognizione ovvero alla richiesta di passaggio a questo dal rito ordinario; nelle cause sottratte alla applicazione del procedimento sommario di cognizione, alla proposizione di istanza di decisione a seguito di trattazione orale ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c.; nel processo amministrativo, alla presentazione di un’istanza di prelievo.

    Sennonché, Corte cost. 6 marzo 2019, n. 34, ha dichiarato illegittima tale ultima previsione. Appare ragionevole prevedere che la medesima sorte possa essere riservata alle altre.

    La previsione legislativa avrebbe anche potuto e potrebbe ragionevolmente essere ritenuta sottratta al «margine di apprezzamento», per il quale gli stati contraenti dispongono di spazi di discrezionalità nell’ambito dei principii espressi dalla Convenzione.

    Il Giudice delle leggi ha preceduto una decisione della CEDU ed ha scongiurato il rischio di sanzioni.

    Per la soddisfazione del credito per l’equa riparazione, inoltre, l’art. 5 quinquies, comma 2 e 3, l. 24 marzo 2001, n. 89, ha stabilito che, per l’esecuzione del «pignoramento» o del «sequestro», occorre notificare un atto al Ministero della giustizia ovvero al «funzionario delegato del distretto in cui è stato emesso il provvedimento giurisdizionale posto in esecuzione».

    In realtà, non si tratta di un atto di esecuzione del «pignoramento» o del «sequestro»: non è un atto di pignoramento mobiliare, perché manca l’individuazione dei beni ad opera dell’ufficiale giudiziario; né è un atto di pignoramento presso terzi, perché unico destinatario è l’ente debitore. L’atto notificato non deve essere depositato nella cancelleria del giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 543, ult. cpv., c.p.c.; non deve essere formato un fascicolo dell’esecuzione; non deve essere designato il giudice dell’esecuzione. Non può essere emesso un provvedimento di assegnazione ex art. 553 c.p.c. Non è possibile l’intervento di altri creditori ai sensi dell’art. 499 c.p.c., né una domanda di sostituzione ex art. 511 c.p.c.

    Nonostante il richiamo alle «disposizioni del libro III, titolo II, capo II del codice di procedura civile», contestuale alla previsione della sottrazione dei fondi alla esecuzione forzata, l’atto mediante il quale dovrebbe essere eseguito il «pignoramento» non è il primo atto di un processo esecutivo; si tratta di una mera intimazione di pagamento.

    Il ritardo nel pagamento delle indennità per equa riparazione per la durata irragionevole dei processi costituisce un problema: il tentativo di applicare sanzioni interne è stato seccamente (e giustamente) respinto dalla corte d’appello di Milano: App. Milano, 13 febbraio 2012, (in Foro it., 2012, I, 909).

    La CEDU, tuttavia, ha condannato l’Italia per i ritardi; ha ritenuto che «il diritto ad un tribunale garantito include il diritto all’esecuzione di una decisione giudiziaria definitiva e obbligatoria e che l’esecuzione di un giudizio deve essere considerato come facente parte integrante del processo ai sensi dell’articolo 6»; che «se è ammissibile che un’amministrazione possa aver bisogno di un certo lasso di tempo per procedere ad un pagamento, questo lasso di tempo non dovrebbe generalmente superare i sei mesi a contare dal momento in cui la decisione di indennizzazione sia divenuta esecutiva»; che «un’autorità dello Stato non potrebbe usare come pretesto la mancanza di risorse per non onorare un debito fondato su una decisione di giustizia» (CEDU, 21 dicembre 2010, Gaglione).

    Non appare, quindi, infondato il sospetto che l’art. 6 d.l. 8 aprile 2013, n. 35, conv. in l. 1 giugno 2013, n. 64, sia stato un maldestro tentativo di sottrarsi al pagamento, al pari della previsione della necessità di esperire i rimedi preventivi.

    In questo contesto, nel quale il legislatore nazionale ha scelto di lavare in casa i panni sporchi mediante espedienti di dubbia utilità, l’applicazione del Protocollo 16 potrebbe contribuire a svelare i vestiti dell’imperatore e a manifestarne la nudità.

    La possibilità di «presentare alla Corte delle richieste di pareri consultivi su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli» presenta il rischio di ingolfare la CEDU e di realizzare una ulteriore «Caporetto» della giustizia italiana, come quella denunciata dal Procuratore Generale della Cassazione nel 2000. Implica la possibilità di rivelare l’incongruenza dei rimedi interni via via escogitati e di esplicitare le scelte di valore, richiamate in risposta alle prime domande.

    «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt. 7, 21-29) e, in riferimento, a ciascuna delle domande di questa intervista, chi contribuisce a rendere effettiva la tutela giurisdizionale dei diritti, affinché, mediante il processo, si possa ottenere «tutto quello e proprio quello che si avrebbe diritto a conseguire alla stregua del diritto sostanziale».

     

    Elena D’Alessandro

    La sfida più grande che attende la Corte Edu nel suo prossimo futuro attiene al suo ruolo. La scelta di inserire un filtro di inammissibilità dei ricorsi diretti, rischia di far perdere al ricorso a Strasburgo la caratteristica di strumento a disposizione dei singoli per far valere la violazione di un diritto garantito dalla CEDU. C’è la possibilità che il ricorso diretto si trasformi in uno strumento avente mera funzione nomofilattica, con scelta discrezionale dei ricorsi da decidere, sul modello delle Corti supreme americane o inglesi e ciò, in particolare, per il tramite della condizione di irricevibilità di cui all’art. 34 (2b) della CEDU che consente di dichiarare inammissibile un ricorso essenzialmente identico a uno precedentemente esaminato dalla Corte non contenente fatti nuovi.

    In altri termini, sembra che la sfida che attende la Corte Edu consisterà nel centrare un obiettivo di efficienza senza che il ricorso individuale cessi di essere uno strumento a disposizione del singolo, perché la funzione nomofilattica trae linfa vitale dallo ius litigatoris e perché il singolo che sia pregiudicato da una decisione giudiziale contrastante con le garanzie della CEDU deve poter mantenere il diritto di chiedere tutela a Strasburgo, anche se il suo caso non apporta novità alcuna alla giurisprudenza di Strasburgo. Sarà la prassi a dimostrare se il Protocollo n. 16, avente anche un dichiarato intento deflattivo (in quest’ottica è giustificata la corsia preferenziale riservata a questo strumento) riuscirà a risolvere il problema causato dalle forche caudine del giudizio di inammissibilità, benché si tratti di richiesta facoltativa e, se resa, non vincolante.

    Forse, per valorizzare lo ius litigatoris basterebbe allargare le maglie della nozione di “fatti nuovi”. Tuttavia  – se ne è consapevoli – si tratta di un difficile bilanciamento di valori, una sfida importante per la Corte EDU.

    Passi importanti nella direzione della tutela dello ius litigatoris sono stati compiuti recentemente, come quello di motivare la declaratoria di inammissibilità, in modo che il singolo ricorrente possa comprendere le ragioni del diniego e, se possibile, porvi rimedio, ovvero quella di ridurre il più possibile il margine di discrezionalità in capo al giudice unico che decide della inammissibilità. Molto utile, in tal senso, appare la pubblicazione della Practical Guide on Admissibility Criteria aggiornata al 30 aprile 2019, attualmente, però non ancora disponibile in tutte le lingue ufficiali degli Stati siglatari della CEDU.

    Per quanto riguarda, invece, le sfide che si porranno al giudice nazionale dopo l'eventuale entrata in vigore del Protocollo n.16 annesso alla CEDU, quelle più significative, fin da ora immaginabili, come già anticipato, riguarderanno l’individuazione dei criteri in base ai quali stabilire se e quando chiedere il parere preventivo, inclusa la questione relativa al se possano esservi margini per una teoria dell’acte claire, ossia se un precedente parere facoltativo, reso in riferimento ad un diverso ordinamento, possa essere utilizzata per chiarire il dubbio, evitando così la sospensione del giudizio interno.

    Inclusa la questione del coordinamento tra il parere preventivo, il rinvio pregiudiziale ex art. 267 Trattato FUE e la pregiudizialità costituzionale. A noi sembra che il parere preventivo – qualora il giudice nazionale di ultima istanza decida di percorrere quella via – dovrà essere richiesto prima di formulare un eventuale rinvio pregiudiziale ex art. 267 Trattato FUE, in ragione di quanto stabilito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e qui già richiamato, ossia che, qualvolta vi sia coincidenza tra i diritti protetti dalla Carta e quelli tutelati dalla CEDU, tali garanzie debbono essere interpretate tenendo conto della giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Allo stesso modo, per le motivazioni già espresse rispondendo al quesito n.1, sembra che, se del caso, il parere preventivo dovrà essere richiesto prima di sollevare un eventuale dubbio di costituzionalità e mi conforta il fatto che A. Ruggeri, Protocollo 16 e identità costituzionale, Rivista di diritti comparati 1/2020, p. 17, abbia già espresso analoga opinione).

    Vi sarà poi la sfida pratica che consisterà nello scrivere la richiesta di parere preventivo. Un aiuto in tal senso è già offerto dalle Guidelines approvate dalla Corte il 18 settembre 2017. Dalle Guidelines si evince che si tratterà di una sfida anche per le cancellerie delle corti di vertice, posto che la richiesta di parere – a differenza di quanto si verifica per il rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 Trattato FUE – dovrà essere accompagnata da una traduzione in inglese o francese, con consequenziale necessità di un apposito budget a ciò dedicato.

    Infine, vi sarà la sfida consistente nel dare alle parti del giudizio nazionale la possibilità di esprimersi sul tenore del parere non vincolante reso dalla Corte Edu, per evitare l’adozione di soluzioni di terza via.

     


    4. Le conclusioni

     

    Roberto Giovanni Conti

    Ricco di suggestioni il compendio di risposte fornite da Elena D’Alessandro, Paolo Biavati e Giorgio Costantino, tutte tenute unite da un fil-rouge che sembra collegato al ruolo e all’efficacia che il Protocollo n.16 annesso alla CEDU – sul quale sia consentito, il rinvio a R. Conti, Chi ha paura del protocollo 16 –e perché?, in Sistema penale (www.sistemapenale.it), 27 dicembre 2019 – potrà giocare nel sistema interno di protezione dei diritti fondamentali.

    Già, le risposte non sembrano tradire alcuna incertezza sulla necessità ed opportunità di una pronta ratifica del detto Protocollo, a dispetto dei dubbi e preoccupazioni che un buon numero degli auditi innanzi alle Commissioni parlamentari hanno esternato e delle quali si è già dato conto a margine delle precedenti interviste già ricordate al punto 1 di questa intervista.

    Ora,  le voci a favore della sua approvazione, di recente autorevolmente ribadite dal Primo Presidente della Corte di Cassazione nel corso dell’intervento svolto in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2020, trovano nelle risposte che precedono un ulteriore importante tassello, arricchendosi piuttosto i temi d’indagine sui passaggi successivi alla necessaria e indilazionabile ratifica ed esecuzione del Protocollo, tutti  collegati al quomodo e al quando della richiesta di parere preventivo ed ai suoi rapporti con gli altri strumenti di dialogo  fra le Corti che sono già in campo (questione di legittimità costituzionale, rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia).  

    In questa prospettiva il Prof. Costantino individua, in effetti, una situazione paradisiaca correlata alla convergenza delle Carte circa la necessità che le disposizioni processuali siano tutte orientate alla salvaguardia dei diritti fondamentali, pur non mancando di guardare con attenzione alle  distonie che, invece, presenta il mondo reale, malgrado l’esigenza di informare l’interpretazione del dato interno ai valori costituzionali, convenzionali e della Carta dei diritti fondamentali dell’UE che si occupano del giusto processo. Distonie che attecchiscono in relazione alla non precisa sovrapponibilità delle Carte e, soprattutto, per l’autonomia che ciascuna Corte mantiene rispetto all’individuazione della portata, in concreto, di un diritto fondamentale.

    Lo spostamento del baricentro dalle fonti alle Corti sembra ancora una volta rappresentare un dato “di sistema” ineliminabile in astratto, al punto da non potere essere risolto “per legge” come la vicenda dell’immunità dello Stato estero per crimini contro l’umanità ricordata dal Prof. Costantino ha dimostrato.

    Queste distonie fra Carte e Corti trovano, del resto, all’interno di tali Carte un qualche ancoraggio che conduce la Prof.ssa D’Alessandro ad ipotizzare un sempre più ampio ricorso alla CEDU nei giudizi civili, collegato al rinvio che la Carta UE dei diritti fondamentali opera alla CEDU quando vi sia coincidenza tra i diritti protetti dalla Carta e quelli tutelati dalla Convenzione.

    Ma se così sarà, non ci si potrà sottrarre dall’affrontare in termini precisi il tema della rilevabilità per la prima volta in sede di legittimità di una questione connessa alla violazione di un parametro convenzionale e/o alla sua rilevabilità ex officio. Questioni che nel settore civile non sembrano essere ancora state oggetto di specifica analisi –cfr., volendo, R. Conti, Il rilievo della CEDU nel “diritto vivente”: in particolare, il segno lasciato dalla giurisprudenza “convenzionale” nella giurisprudenza dei giudici comuni; id., Contrasto fra norma interna e CEDU: fra rilevabilità ex officio e controllo diffuso di convenzionalità –.

    Le risposte offerte fissano dunque i punti cardinali delle future riflessioni in campo dogmatico e chiameranno presto i giudici a riflettere operativamente sulle modalità da utilizzare quando e se  decideranno  di maneggiare la richiesta di parere preventivo.

    Si ha infatti la sensazione che ogni conclusione o scelta in proposito non potrà fare a meno di muovere da una prospettiva che guarda ai rapporti fra le fonti e fra le Corti, come di recente ha del resto puntualmente ricordato Antonio Ruggeri nello scritto menzionato dalla Prof.ssa D’Alessandro- A.Ruggeri, Protocollo 16 e identità costituzionale

    Emerge, anzitutto, la consapevolezza che uno strumento di natura sostanzialmente processuale qual è quello della richiesta di parere preventivo da parte delle Alte Corti celi, nemmeno sottotraccia, la sua valenza politica e sostanziale  se si pone lo sguardo al ruolo della Corte edu nella protezione dei diritti fondamentali.

    La pur messa in evidenza situazione di non completa affermazione del canone del giusto processo all’interno della Corte edu, tra l’altro collegata alla riduzione dello spazio di operatività dei ricorsi individuali sui quali si è soffermata Elena D’Alessandro – e in precedenza Vladimiro Zagrebelsky nell’intervista già ricordata al punto 1 – dimostra come lo strumento del parere preventivo  si ponga come crocevia del ruolo stesso della Corte edu, oberata di ricorsi e ben  desiderosa di attivare un meccanismo destinato a depotenziare la via di Strasburgo, risolvendo i possibili disallineamenti in una fase dialogica a stretto contatto con il giudice nazionale di ultima istanza.

    Quanto utilizzare tale strumento e come utilizzarlo?

    Sul tema le proposte che in questa sede sono state esposte vanno dall’idea di favorirne l’uso quando in gioco c’è la possibilità di un’interpretazione convenzionalmente orientata possibile da parte del giudice nazionale, invece prediligendo la via diretta all’incidente di costituzionalità quando prognosticamente dovesse risultare insanabile sul piano ermeneutico il contrasto fra protezione convenzionale e tutela interna. In linea di principio tale soluzione sembra appagante, pur non considerando il vantaggio che il giudice costituzionale potrebbe comunque avere nel decidere un giudizio in cui si discute della costituzionalità della legge sulla base del parere già reso dalla Corte edu, proprio in relazione al fatto che i rapporti tra gli ordinamenti, anche per effetto del principio fondamentale di apertura, risultano essere di parziale e tendenziale integrazione e di mutua cooperazione (A. Ruggeri, Protocollo 16, cit.,7).

    Certo, in questo caso potrebbe essere lo stesso giudice costituzionale, ove lo dovesse ritenere utile, ad attivare la richiesta di parere – nella prospettiva auspicabile che tale strumento possa essere utilizzato anche dalla Corte costituzionale, come parrebbe emergere dal testo in discussione in sede parlamentare –. Resta comunque il fatto che la scelta sull’an della richiesta di parere da parte del giudice nazionale di ultima istanza dovrebbe presupporre vuoi l’assenza di giurisprudenza convenzionale sulla controversia all’esame del giudice nazionale, vuoi l’ipotetico contrasto fra l’indirizzo convenzionale già manifestatosi e il quadro normativo interno per come interpretato dal giudice nazionale, al quale va ricondotta in via esclusiva il potere dovere di interpretare il diritto nazionale. Vuoi, infine il caso che il giudice sia puramente e semplicemente insicuro circa il retto significato della disposizione convenzionale.

    Sarebbe in tale ultimo caso il giudice nazionale a prospettare il contrasto e a porlo direttamente all’esame della Corte, magari rappresentando l’esigenza di un revirement della Corte edu rispetto ai profili dalla stessa già affrontati magari in diverso contesto e senza avere preso in considerazione la specificità del caso.

     Certo, l’alternativa fra esigenza di definire il caso e necessità di ottenere una risposta valevole in funzione del c.d. ius constitutionis è evidente.

    Per un verso, come ha osservato il Prof. Biavati, la natura casistica delle decisioni della Corte edu sembra spingere per un uso accorto e limitato dello strumento, avuto anche riguardo agli aspetti connessi alla durata del relativo procedimento.

    Per altro verso, la stessa funzione nomofilattica svolta dai giudici di ultima istanza nazionali (funzione ricoperta in generale dalla Corte di Cassazione (art.65 ord. giud.) e dalle altre giurisdizioni apicali nei rispettivi ambiti di appartenenza) coniugata alla tendenza della Corte edu ad universalizzare i propri precedenti in relazione al ruolo di interprete autentico del significato dei diritti protetti dalla Corte edu sembra spingere verso soluzioni che guardano alla valenza lato sensu “nomofilattica” dello strumento e, dunque, alla possibilità di intercettare posizioni della Corte edu capaci di giocare un peso su questioni “di sistema”.

     Per tale ragione l’idea di prediligere l’intervento delle Sezioni Unite o dei corrispondenti organi interni delle altre giurisdizioni nella scelta di interloquire in via preventiva con la Corte edu, utilizzando il canone della questione di particolare rilevanza in modo da sollecitare comunque l’intervento delle sezioni semplici potrebbe forse costituire un giusto contemperamento alle rispettive esigenze. Non andrebbe, del resto dimenticato che l’interlocutore a livello di Corte non è qualsiasi sezione della Corte edu ma necessariamente e unicamente la Grande Camera, la quale decide se consentire o meno la risposta. Il che dimostra che l’interlocuzione è e deve essere ai massimi livelli e che un filtro interno sia necessario. Ciò che, d’altra parte, non sminuirebbe in alcun modo il ruolo delle sezioni semplici in sede di proposizione dell’ordinanza interlocutoria, comunque prevedendo un vaglio preliminare – da parte del Primo Presidente della Corte di Cassazione e, successivamente,  – da parte dell’organo in posizione di maggiore autorevolezza all’interno della giurisdizione di ultima istanza.

    Non mancano certo per il futuro i punti di approfondimento ulteriore, collegati alle modalità di attivazione della richiesta, alla possibilità di interlocuzione delle parti sulla richiesta stessa o, in fasce discendente, al contenuto del parere eventualmente rilasciato dalla Corte edu, alla doppia pregiudizialità fra rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia e richiesta di parere preventivo (sui quali v., già A. Ruggeri, Protocollo 16, cit.).

    Punti che i giudici dovranno affrontare facendosi, a parere di chi scrive,  promotori di incontri con la dottrina in via preventiva, proprio al fine di meglio calibrare e riflettere su pro e contra delle possibili soluzioni in astratto prospettabili.

    Né va dimenticato che già oggi la Corte Edu, nell’ambito della Rete dalla stessa creata con le Corti supreme nazionali che vi hanno aderito, ha sperimentato un meccanismo di collegamento fra giudici nazionali e Corte di Strasburgo volto a favorire la conoscenza della giurisprudenza rilevante rispetto ai casi all’esame delle Corti. Si tratta di uno strumento già in un’occasione sperimentato dalle Sezioni unite civili della Corte di cassazione attraverso la predisposizione di un breve resoconto della causa con la richiesta di notizie in merito alla giurisprudenza della Corte Edu, al quale la Divisione della Corte Edu competente, sotto la supervisione del giureconsulto, ha fornito risposte esaurienti.

    Particolarmente interessanti le risposte fornite sul tema dell’autonomia e dell’indipendenza dei giudici della Corte edu ed alle distonie che pure si rinvengono, a livello costituzionale, fra l’esigenza di ancorare l’autonomia della giurisdizione ai confini segnati dalla legge piuttosto e quella di una guarentigia assoluta che riconduce l’esercizio della giurisdizione direttamente al popolo.

    Come che sia, rimane la necessità di offrire ai giudici europei una cappa di protezione consistente che li metta al riparo da influenze provenienti dai Paesi di origine. Ciò vale, d’altra parte, anche in sede di scelta del giudice, a riguardo della quale il Prof. Biavati ha insistito sulla necessità di prevedere un ricorso sempre più accentuato alla motivazione sulle designazioni dei giudici da parte dei singoli Stati. Il pendolo fra la necessità di approntare strumenti incisivi a tutela dell’indipendenza del giudice europeo e quella di vederlo comunque parte del contenzioso nel quale è parte lo Stato che lo ha indicato è comunque destinato a rimanere sempre in movimento.

    Resta, ultimo ma non per ultimo, il tema della ragionevole durata del processo che, come ricordato, ha costituito una delle principali fonti di innesco rispetto alla piena comprensione dell’importanza e del ruolo della Cedu e del suo giudice nell’ordinamento interno.

    Una storia, quella del délai raisonnable che è ben lungi dal considerarsi terminata se solo si consideri, in aggiunta a quanto ricordato dal Prof. Costantino, la recente presa di posizione delle Sezioni unite civili in ordine ai rapporti fra giudizio di cognizione e fase esecutiva ai fini della proposizione del ricorso Pinto- Cass. S.U. 23/07/2019, n. 19883 (in uno ad altre coeve su ricorsi analoghi: nn. 19884, 19885, 19886, 19887 e 19888 della stessa data, nonché 20404 del 26/07/2019, con commento, su questa rivista, di F. De Stefano, La cronica anomalia della via italiana dei rimedi ai tempi della Giustizia (in margine a Cass. Sez. U. 23/07/2019, n. 19883): il “Pinto al cubo”-.

    Vicenda che, ancora una volta, sembra spostare il baricentro dalle Carte alle Corti – nel caso di specie, Corte costituzionale, Corte edu e Sezioni Unite della Corte di Cassazione – in un continuo e forse perenne tentativo di convergenza fra posizioni che trova nelle fattispecie esaminate il terreno di elezione sul quale formarsi ed attecchire, magari in tempi non sempre ragionevoli.

    Ora, la domanda che potrebbe assalire il lettore, al termine di queste riflessioni, è abbastanza prevedibile se si riflette sul fatto che la pluralità di strumenti di dialogo fra le Corti, nazionali e sovranazionali,  sembrerebbe rendere concreto il pericolo che ciascuna Corte faccia prevalere l’istinto della primazia sulle altre nella decisione ad essa riservata.

    Ma non sempre, come ha efficacemente sottolineato di recente Antonello Cosentino scrutinando le relazioni fra le Corti nazionali e sovranazionali all’indomani di alcune importanti pronunce della Corte costituzionale – Doppia pregiudizialità, ordine delle questioni, disordine delle idee. Qualche chiosa alle pronunce della Corte costituzionale nn. 20, 63, 112 e 117 del 2019, in corso di pubblicazione su Questione giustizia – il disordine è un male.  

    Vi è, infatti, un certo spazio che può essere dedicato proficuamente agli esercizi di dialogo intelligente, permanente, di “ascolto” e ri-ascolto  da parte dei giudici. Ascolto che non riguarderà, qui, solo l’accusa, la difesa, le parti, i terzi interessati laddove è possibile, e i componenti del collegio , come ha ricordato la Presidente della Corte costituzionale nella recente Prolusione in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico presso l’Università Roma tre,  ma anche quegli altri giudici che sono chiamati a contribuire e a fabbricare il diritto del caso concreto, in una prospettiva che guarda, così, ad un diritto aperto e plurale, piuttosto che all’affermazione di un diritto chiuso e uno.

     



     

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