DE ROBBIO: Alcune settimane fa è stato depositato un disegno di legge costituzionale che modifica profondamente il Titolo IV della Seconda parte della Costituzione, quello dedicato alla Magistratura. Oltre alla separazione delle carriere, sono previste la creazione di due distinti CSM, la modifica della composizione di entrambi con parificazione dei componenti laici e di quelli togati, il divieto per lo stesso CSM di esprimere pareri in materia di riforma della Giustizia, l’abrogazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’abolizione della norma che distingue i magistrati solo per funzioni e tante altre modifiche destinate a mutare profondamente non solo l’assetto della magistratura ma anche il rapporto tra questa e gli altri poteri dello Stato.
Il disegno di legge è stato accolto da veementi critiche da parte dell’ANM e, più recentemente, degli esponenti di Area DG nel corso del congresso tenutosi a Palermo alla fine di settembre.
La nostra rivista ha pensato di proporre, sotto forma di doppia intervista, un momento di confronto e riflessione tra il professor Giorgio Spangher, professore di procedura penale, ex componente del Comitato Direttivo della Scuola Superiore della Magistratura e da sempre attento osservatore del mondo della giustizia, de Eugenio Albamonte, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, ex Presidente ANM ed ex Segretario di Area DG. Il confronto è stato esteso altresì ad alcuni temi attualmente al centro del dibattito politico-giudiziario.
(prima domanda) Il disegno di legge costituzionale presentato dal Governo modifica quasi tutte le norme della Costituzione dedicate alla magistratura. Presentato come un provvedimento idoneo a restituire efficienza ad un sistema cronicamente in difficoltà nel fornire adeguate risposte alla domanda di giustizia, è stato indicato dall’organo di rappresentanza dei magistrati come un tentativo di alterare profondamente il principio di separazione dei poteri riconducendo il potere giudiziario sotto il controllo di quello esecutivo. Qual è la verità tra queste due interpretazioni e come giudicate le linee generali del provvedimento in discussione in Parlamento?
ALBAMONTE: Le riforme ordinamentali, soprattutto quelle che incidono sui principi costituzionali che governano la magistratura, non hanno alcun riverbero sull’efficienza della giustizia, sui tempi dei processi, sulla qualità delle decisioni e sulla loro effettività. Riguardano, invece, la ridefinizione dei rapporti tra i poteri dello Stato che la Costituzione ha disegnato in modo da creare un adeguato equilibrio tra prerogative, responsabilità e controlli. Alterare questo equilibrio è molto pericoloso per la tenuta dell’intero sistema. Rischia di sbilanciarlo in favore di uno dei poteri consentendogli di esondare e sottrarsi ai controlli, diventando onnipotente.
SPANGHER: Non credo che queste preoccupazioni siano fondate. È vero proprio il contrario. Credo che per molti anni la politica, cioè, l’esecutivo sia stato subordinato al potere giudiziario, subendone le iniziative processuali, non tutte fondate, con ricadute significative sulla vita del paese, ma anche sotto il profilo normativo, subendo le richieste di adeguamento legislativo.
Proprio alcuni più recenti episodi, mi hanno indotto a riflettere sulla necessità che la politica rivendichi il suo ruolo e la magistratura debba limitarsi alla sua funzione. Sotto questo aspetto il ruolo della procura nazionale antimafia, del pubblico ministero europeo, costituiscono un tema di riflessione in tema di separazione dei poteri.
Il discorso si salda con i profili più strettamente processuali, del giusto processo, connessi alle modalità con le quali il procuratore della repubblica esercita il suo ruolo nel processo, diciamo accusatorio.
L’attuale C.S.M. a livello costituzionale è frutto della ricaduta del sistema inquisitorio codificato dagli artt. 13 e segg. Cost., dove si parla di carcerazione preventiva e di autorità giudiziaria.
In altri termini il discorso ordinamentale, C.S.M. compreso, va adeguato alle modifiche strutturali del ruolo del p.m. nel giusto processo.
Non vale il principio della comune cultura della giurisdizione che se valesse, assegnerebbe al p.m. gli stessi poteri e le stesse decisioni del giudice. Ciò non è: il p.m. è parte; il giudice terzo.
Sul punto le opinioni prospettate sono diverse da questa. I giudici – sottovoce – ad esempio, ritengono che la separazione rafforzerebbe ancora di più di quanto sia adesso i pubblici ministeri.
Se i p.m. fossero subordinati all’esecutivo si porrebbe un problema a livello europeo.
In ogni caso non capisco come ciò possa avvenire in un C.S.M. modulato su quello esistente per i giudici, con le stesse garanzie di autonomia e indipendenza, disciplinato dalla Costituzione e presieduto dal Capo dello Stato.
DE ROBBIO (seconda domanda): La separazione delle carriere è la bandiera e il cardine di tutte le riforme della giustizia messe in cantiere dall’attuale maggioranza governativa. Un’attenzione difficilmente giustificabile sulla base dei numeri (nel 2023 ci sono stati 9 trasferimenti da pubblico ministero a giudice e solo 1 in senso inverso) e evidentemente frutto di un’opzione culturale che vuole allontanare i magistrati inquirenti dalla giurisdizione. Quali sono a vostro avviso le ragioni della volontà di procedere ad una revisione costituzionale in tal senso e cosa pensate delle norme che la prevedono nel d.d.l? Esiste il rischio che questa riforma porti all’assoggettamento del pubblico ministero all’esecutivo o chi paventa questo pericolo lo fa, come ha riferito di recente il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, “perché non vuole la separazione delle carriere per altri motivi?”
ALBAMONTE: La separazione delle carriere è stata da sempre la bandiera di una parte dell’avvocatura e del mondo politico, sventolata nel tentativo di ridimensionare il potere, sia formale che sostanziale, esercitato dalla magistratura requirente. Sarebbe una riforma priva di effetti sulla qualità della giustizia e sulla sua efficienza e non inciderebbe di certo sull’esercizio della funzione giudicante, che già adesso non subisce alcuna interferenza o limitazione, al di là degli slogan e delle affermazioni apodittiche ed indimostrate dei sostenitori della riforma. Nel perseguire il progetto non si tiene in considerazione il fatto che i poteri conferiti dalla legge al PM sono strettamente dimensionati con riferimento all’esercizio delle funzioni. Conseguentemente meno poteri equivarrebbero ad una minore capacità di accertamento dei fatti di reato e, in ultima analisi, ad un minore contrasto alle attività criminali. Questo non vuol dire che talvolta i poteri requirenti non siano stati utilizzati in modo sbagliato o persino eccedente i parametri di legalità formale. Ma questa è una patologia che deve essere trattata con severità. Patologia che rischierebbe di diffondersi in una categoria di magistrati requirenti sganciati dai giudicanti e più facilmente condizionabili dalla logica del perseguimento del risultato anche a scapito del rispetto delle regole processuali.
SPANGHER: Ribadendo quanto appena detto, in tema di sistema, non voglio attribuire finalità recondite e di potere alla opposizione della magistratura alla riforma.
Se ci fossero, non sarebbero decisive, in una materia che sottende questioni di principio sul sistema costituzionale dei poteri, delle funzioni e dei ruoli.
DE ROBBIO (terza domanda): Oltre alla duplicazione (con la creazione di un CSM dei giudici ed uno dei PM), il CSM è interessato da un’ulteriore importante previsione: la parificazione del numero dei componenti laici con quello dei componenti togati. Qual è a vostro avviso la ragione di questa previsione e cosa ne pensate?
ALBAMONTE: La modifica della composizione del CSM, attraverso la parificazione dei componenti laici a quelli eletti dai magistrati, è finalizzata ad alterare profondamente la struttura costituzionale dell’organo per come è stata disegnata dalla Costituzione. Una composizione paritaria determinerà inevitabilmente un ruolo di maggior peso della componente politica che diventerà sempre decisiva nell’assunzione delle determinazioni consigliari. Quelle di indirizzo e quelle di gestione. Quindi un governo autonomo molto meno autonomo e più etero determinato dalla politica. Peraltro, già da molto tempo il Parlamento si è orientato nello scegliere non avvocati o giuristi insigni ma parlamentari in carica, talvolta con incarichi di governo, o ex parlamentari. Questa torsione fa sì che la componente laica, anziché farsi portatrice della cultura dell’accademia e dell’avvocatura, diventa espressione di specifici valori, istanze ed interessi che sono propri della politica, dei partiti e, prevalentemente del Governo che ne esprime la maggior parte. Né credo che questa modifica possa arginare il c.d. potere delle correnti all’interno del CSM. Infatti le vicende della consiliatura attuale evidenziano come si sia determinata una forte e stabile saldatura tra un gruppo della magistratura associata e la componente laica espressa dal Governo. Questa dinamica non è certo caratterizzata dalla riduzione del peso della specifica corrente ma, all’opposto, dal suo rafforzamento e predominio sulla vita e su tutte le scelte del Consiglio. Non sicuramente un passo avanti verso la trasparenza e l’autorevolezza delle delibere assunte con tali modalità.
SPANGHER: Non sono favorevole ad una eventuale modifica di questo tenore, considerate le dinamiche che si determinerebbero dentro il C.S.M., anche al di là del possibile preponderante peso che avrebbero i laici, anche alla luce della modalità della loro elezione parlamentare, seppur temperata – solo parzialmente – dal quorum richiesto per la loro elezione. Già ora emerge collateralismo (politico-culturale) tra la componente laica e quella togata.
DE ROBBIO (quarta domanda) : È previsto il divieto per il CSM di rendere pareri in tema di giustizia. La concentrazione dell’organo di autogoverno ai soli compiti di alta burocrazia della giustizia è un vantaggio o uno svantaggio?
ALBAMONTE: Credo sia uno svantaggio, innanzitutto per il legislatore. Infatti i pareri del CSM sulle riforme in materia di giustizia sono sempre stati orientati ad evidenziare le aporie dei testi in discussione, i rischi di contrasto con altre leggi e con la Costituzione, i problemi di coordinamento con la normativa preesistente, l’impatto delle nuove norme sull’organizzazione giudiziaria. Normalmente i pareri sono molto analitici nelle motivazioni giuridiche prospettate e hanno suggerito modifiche e correttivi che, talvolta, adottati dal Parlamento in sede di approvazione, hanno migliorato le norme poi introdotte. Privare il CSM di questa prerogativa vuol dire quindi impoverire il percorso legislativo di un valido contributo. Questo riguarderebbe in modo ancor più incomprensibile le riforme dell’Ordinamento giudiziario le quali norme devono poi essere applicate prevalentemente dal CSM. Non vi è dubbio che il Consiglio sia il principale luogo di studio, oltre che di applicazione, dell’Ordinamento giudiziario ed elidere la possibilità di un contributo sulle leggi di modifica sarebbe estremamente dannoso oltre che contraddittorio.
SPANGHER: Il Consiglio Superiore della Magistratura vive di “stagioni” nei rapporti tra magistratura e politica. A parte la considerazione che l’art. 10 della l. del 1958, sembrerebbe indicare che il C.S.M. riferisca a richiesta del Ministro, la norma sembrerebbe limitare l’intervento consigliare alle ricadute organizzative e non, invece, interferire con le scelte che ne costituiscono la premessa anche se il confine tra le due situazioni non è e non può essere stretto. Ad un osservatore attento come lo sono stato nel periodo 2002 – 2006, le differenze a volte sono macroscopiche e configura il C.S.M. come organo di opposizione politica e non solo tecnico-organizzativa.
Per chiarire il punto, venendo all’attualità: una cosa è la prospettazione delle conseguenze della ipotizzata riforma della prescrizione sul funzionamento degli uffici della Corte d’appello, altra l’opposizione all’iniziativa parlamentare e forse governativa.
Escluderei iniziative in relazione a possibili ipotesi riformatrici, non ancora materializzatesi.
Peraltro, il tema trova ampia tutela nelle c.d. audizioni davanti alle Commissioni parlamentari che costituiscono la sede istituzionali per evidenziare la problematicità delle iniziative riformatrici.
DE ROBBIO (quinta domanda) Ha ancora senso il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale data l’impossibilità attuale per gli uffici di procura di occuparsi di tutte le notizie di reato? Quali sono i rimedi per restituire effettività all’articolo 112 della Costituzione o in alternativa che ricadute avrebbe la sua sostanziale abrogazione?
ALBAMONTE: Il principio di obbligatorietà dell’azione penale discende direttamente da quello di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Abolirlo ci porterebbe fuori dal perimetro disegnato dalla Costituzione al fine di garantire la parità dei diritti dei cittadini. La sua effettività è condizionata dalle risorse destinate alla Giustizia che spetta al Governo e al Ministro della Giustizia approntare e mettere a disposizione. Quello che è avvenuto è invece che, a fronte di un carico di lavoro sempre crescente, determinato dalla continua introduzione di reati e dall’appesantimento del rito penale, le risorse, anziché essere proporzionalmente incrementate, sono state ridotte. Questo fa sì che non sia sempre possibile trattare nei tempi dovuti tutte le notizie di reato che gravano sugli uffici requirenti. Per risolvere il problema non si deve abdicare al principio, si devono invece incrementare le risorse o ridurre i reati e semplificare le procedure. È come se a fronte dell’inidoneità del sistema sanitario ad offrire servizi adeguati anziché potenziarlo si decidesse di abolire il diritto costituzionale alla salute. E lo stesso esempio si potrebbe fare per il diritto alla casa, al lavoro, all’istruzione ecc. Un paradosso inaccoglibile.
SPANGHER: Ritengo che il principio di obbligatorietà dell’azione penale vada presidiato e non condivido una riforma che rinvii alla legge le individuazioni di casi e modi del suo esercizio.
Ritengo maggiormente significativa una previsione di criteri di priorità per i quali il Parlamento possa indicare, con maggiore incisività, di quanto ora previsto, i contenuti. Il tema è complesso perché la criminalità non è distribuita omogeneamente, così come le risorse giudiziarie e amministrative, nei vari uffici di procura. Gioverebbe all’obbligatorietà una maggiore trasparenza e controllo nel suo esercizio da parte dei pubblici ministeri.
DE ROBBIO (sesta domanda): Quanto può spingersi a vostro parere un giudice nell’interpretazione della legge che è chiamato ad applicare?
ALBAMONTE: Uno dei temi ricorrenti nel dibattito pubblico sulla giustizia è collegato alla frequente accusa, rivolta ai giudici, di sostituirsi al legislatore attraverso l’attività di interpretazione c.d. “creativa” del diritto. A mio giudizio si tratta di una accusa infondata. L’interpretazione delle norme è dettata da canoni stringenti ai quali i magistrati si attengono con scrupolo. Tra questi canoni vi è quello di conformità delle norme ai principi costituzionali e al diritto sovranazionale. Spesso è proprio questo il tema della critica. Si vorrebbe che il magistrato si attenesse al testo letterale della normativa nazionale e trascurasse la sua conformità ai sistemi normativi sovraordinati alla legge ordinaria. D'altronde questo tema non è soltanto italiano e le stesse tensioni si ritrovano in altre democrazie occidentali (e a dire il vero anche in sistemi che difficilmente potremmo ritenere sostanzialmente democratici) ma sempre quando i relativi Governi sono sostenuti da forti maggioranze e pertanto, proprio grazie a tali investiture, sono portati a superare la cornice nell’ambito della quale soltanto si può esercitare la legislazione, a ritenersi completamente svincolati da qualsiasi limite. Non sono quindi i magistrati ad esondare dall’ambito del loro potere ma spesso sono i Governi a tentare di forzare i principi costituzionali e a disattendere le norme sovranazionali che invece ne condizionano il potere in modo insuperabile.
Al fianco di tale dinamica ne ritroviamo spesso un’altra, che è diretta conseguenza della cattiva tecnica di drafting delle leggi. Tanto più il legislatore è generico ed impreciso tanto più inconsapevolmente concede spazi interpretativi al giudice. Salvo poi accusarlo di supplenza.
Credo che una maggiore cultura del diritto da parte di chi governa e di chi legifera (sempre più spesso lo stesso Esecutivo) sarebbe necessaria, al fine di superare questo corto circuito nocivo per il corretto equilibrio dei poteri costituzionali.
SPANGHER: il tema è complesso perché il superamento del principio del giudice “bocca della legge”, si riconnette alla più generale crisi della legalità, intesa come primato della legge, determinato dalla pluralità delle fonti, spesso ispirate e sorrette da principi e valori, nonché dalla presenza di normative secondarie, non ultimi i protocolli, le intese, le best practices, le softlaw, variamente intersecate e inserite nei percorsi ricostruttivi di situazioni processuali e sostanziali, accentuati da ritardi dell’intervento del legislatore da una normativa alluvionale, contraddittoria, variamente lacunosa e “ambigua”. Si tratta di dati noti agli operatori di giustizia, mentre si accentuano le istanze di certezza e prevedibilità delle decisioni, non ultime delle quali, al di là di quelle esistenti, potrebbe trovare posto il c.d. rinvio pregiudiziale e l’adesione dell’Italia al protocollo 16 della Cedu.
Tra i valori, tuttavia, che il giudice non potrebbe porre a fondamento delle sua interpretazione, potendosi configurare come una invasione di campo cioè quella della funzionalità del sistema (Battistella, Galtelli, Bajrami, per citare esempi direi eclatanti), che seppur anticipatori, di modifiche normative variamente estrinsecatisi, rappresentano una attività di supplenza che deroga alla funzione nomofilattica della Cassazione, pur nel contesto di una possibile interpretazione estensiva, ma non estesa.
DE ROBBIO (settima domanda : I magistrati hanno diritto di esprimere pubblicamente la loro opinione su qualsiasi tema o devono tenere conto delle refluenze che le manifestazioni del loro pensiero possono avere sulla immagine di imparzialità che sono tenuti a trasmettere?
ALBAMONTE: Il tema dell’essere ed apparire imparziali è stato portato al centro del dibattito a causa di recenti accese polemiche suscitate da esponenti di Governo. Nella vicenda della collega Apostolico, giudice della sezione di Protezione Internazionale del Tribunale di Catania, si è cercato di suggerire una sua presunta parzialità di giudizio non dall’esame delle motivazioni dei suoi provvedimenti ma da suoi comportamenti estranei all’esercizio delle funzioni e assunti da privata cittadina, quali la partecipazione a manifestazioni pubbliche del tutto legittime e pacifiche. Ritengo che ciò sia un grave errore. Il nostro sistema normativo prevede che l’unico strumento di verifica circa la terzietà del giudizio sia la motivazione del provvedimento. Cercare riscontri altrove ci porta al di fuori del sistema, in una terra di nessuno dove non sono fissate regole formali che limitino la libertà di manifestazione del pensiero del magistrato (che gode degli stessi diritti sociali, civili e politici degli altri cittadini) ovvero che limitino la ricerca, nella sfera privata, di comportamenti del magistrato che, pur essendo assolutamente legittimi, possono essere portati a testimonianza di una sua pretesa faziosità. Mi sembra ovvio che tutto ciò ha poco a che fare con la civiltà giuridica che dovrebbe costituire il terreno di confronti tra le istituzioni e tra queste ed i cittadini.
SPANGHER: Discorso anche questo complesso. Ritengo che un self restraint sia necessario sia nei comportamenti sia nelle esternazioni. A me piace il riferimento all’”opacità” che, per effetto del comportamento non necessariamente suscettibile di valutazioni disciplinari, il giudice manifesta nel luogo dove esercita la sua funzione.