GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La cronica anomalia della via italiana dei rimedi ai tempi della Giustizia

    La cronica anomalia della via italiana dei rimedi ai tempi della Giustizia (in margine a Cass. Sez. U. 23/07/2019, n. 19883): il “Pinto al cubo” di Franco De Stefano 

    Sommario : 1. Inquadramento del problema - 2. La fattispecie all’esame delle Sezioni Unite - 3. La soluzione delle Sezioni Unite - 4. Le molte luci delle sentenze del 2019 -5. Qualche considerazione conclusiva.

    1. Inquadramento del problema.

    Ancora una volta, come un ulteriore capitolo di una vera e propria saga giudiziaria, i giudici devono intervenire nel sistema dei rimedi ai tempi della Giustizia in Italia, con una pronuncia molto articolata e che si sforza di adeguare il variegato e complesso quadro nazionale ai principi generali costantemente elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo.

    Gli interventi  normativi e giurisprudenziali sul tema denotano una linea di tendenza propria del nostro Paese: poiché era divenuto insostenibile un sistema che lo esponeva al triste primato di trasgressore cronico del diritto fondamentale alla ragionevolezza dei tempi del processo (pure solennemente consacrato tra i pilastri di una moderna società democratica all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo ed ora pure dalla Costituzione nazionale e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), si è adottata dapprima una normativa (la legge c.d. Pinto, 24 marzo 2001, n. 89) che, in linea con la stessa giurisprudenza convenzionale, almeno tentasse di offrire una riparazione pecuniaria alla violazione di quel diritto, quale livello minimale di tutela di quello.

    Negli anni successivi, diventata sempre più gravosa l’entità degli esborsi richiesti per l’incapacità di intervenire sulla struttura del sistema e quindi sulle cause della sua sinistrosità, sono poi intervenuti un incessante lavorio di elaborazione giurisprudenziale ed alcuni rilevanti correttivi normativi, tali da rendere estremamente complesso l’effettivo conseguimento di quella riparazione pecuniaria, perfino introducendo modalità di esecuzione od ottemperanza delle relative condanne che si risolvono in autentici privilegi dello Stato-debitore. 

    Nel settore si è assistito allora, per una infelice Heterogonie des Zwecke, la proliferazione delle azioni giudiziarie dovute al ritardo: la maggior parte degli sforzi per tentare di ovviare ai ritardi nella Giustizia ha causato un incremento del contenzioso e quindi dei tempi, visto che l’Italia ha generato le cause per ritardi … sulle cause per ritardi, spesso non essendo riuscita a contenere i tempi neppure di queste ultime, a dispetto della chiarezza quasi aritmetica dei relativi presupposti e della semplicità della condotta di adempimento delle conseguenti condanne. 

    A dimostrazione poi che al peggio non c’è mai limite, al “Pinto-bis” (un … Pinto al quadrato) si è aggiunto oramai il “Pinto-ter” (per insistere nell’analogia con l’elevazione a potenza: un … Pinto al cubo): cioè le cause per ritardi nei procedimenti per conseguire la riparazione sul ritardo nella definizione dei procedimenti per l’irragionevole durata del processo – civile o penale o amministrativo – per così dire di merito od originario. In questo complessivo desolante contesto, la fatica degli interpreti è chiamata a dedicarsi ad individuare gli effetti, sovente distorti, della persistente condizione di inadempienza dello Stato italiano.

    2. La fattispecie all’esame delle Sezioni Unite.

    È quanto è accaduto nella fattispecie portata all’esame delle Sezioni Unite, in dottrina individuata come ipotesi di “Pinto-ter”, siccome riferita ad un procedimento ex lege Pinto per l’irragionevole durata di un precedente procedimento (il c.d. “Pinto-bis”) ai sensi della stessa legge relativo ad un originario procedimento sempre per irragionevole durata del processo originario. È evidente come quest’ultimo resti ormai sullo sfondo, perduto nelle nebbie del tempo, quale causa ultima o peccato originale ancora inespiato.

    In particolare: 

    a) la ricorrente propone, in uno ad altri, un primo ricorso ex lege Pinto nell’ottobre del 2005 alla Corte d’appello di Roma: che è definito con decreto di parziale accoglimento del giugno del 2007, seguito da sentenza della Corte di cassazione del luglio 2008 (tanto rilevandosi da Cass. 19/12/2012, n. 23453);

    b) la ricorrente propone poi, il 29/09/2010, alla Corte d’appello di Perugia altro ricorso ex lege Pinto per fare valere l’eccessiva durata del primo procedimento Pinto: il quale è dapprima dichiarato inammissibile dalla corte territoriale (con provvedimento 19/12/2011, secondo quanto risulta dalla stessa Cass. n. 23453/12) e poi accolto, con decisione nel merito, dalla Corte di cassazione con sentenza 19/12/2012, n. 23453 (e condanna del Ministero a pagare € 1.125, oltre interessi dalla domanda e spese di lite);

    c) invano notificato (il 03/03/2013) il titolo esecutivo al Ministero, la ricorrente intima (in data 11/12/2013) precetto, cui fa seguire procedimento di esecuzione mobiliare presso il Tribunale capitolino, conclusosi con ordinanza di assegnazione divenuta definitiva il 17/07/2014;

    d) sul presupposto che tale secondo procedimento ex lege Pinto si fosse protratto ininterrottamente dal 29/09/2010 al 17/07/2014 (e quindi per oltre tre anni), nel febbraio del 2015 la ricorrente adisce di bel nuovo la Corte d’appello, ora di Firenze, per fare valere l’irragionevole durata di quello;

    e) la corte fiorentina, dapprima con decreto e poi all’esito dell’opposizione, rigetta la domanda, sostanzialmente perché, pur considerando unitariamente le fasi di cognizione ed esecuzione, dal computo della durata del processo doveva essere espunto il periodo in cui il privato, vittorioso nel giudizio di cognizione, era rimasto inerte senza notificare il precetto (cioè, nella specie, il periodo tra la pronuncia della condanna, del 19/12/2012, fino al dì 11/11/2013, data di notificazione dell’intimazione); in tal modo, il processo doveva qualificarsi durato anni due, mesi nove e giorni 28, ma l’eccedenza rispetto al periodo da considerare ragionevole (due anni, mesi sei e cinque giorni) era di soli mesi tre e giorni 23 e, così, non indennizzabile, escludendo l’art. 2 bis della L. n. 89/2001 l’indennizzabilità delle frazioni di anno non superiori a sei mesi;

    f) la ricorrente chiede la cassazione del relativo decreto, pubblicato il 19/10/2015, con il primo dei cui due motivi sostenendo la necessità di considerare, per il computo della durata complessiva del processo ed a carico della convenuta Amministrazione, unitariamente tutto l’intervallo tra l’inizio del procedimento ex lege Pinto e la conclusione del procedimento di esecuzione reso necessario dall’inadempimento, ivi compreso il termine di 120 giorni (di 120 gg. dalla notifica del titolo esecutivo di cui all’art. 14 d.l. n. 669/1996, conv. dalla l. n. 30/1997, nel corso del quale il danneggiato non poteva notificare l’atto di precetto).

    Alle Sezioni Unite l’ordinanza interlocutoria 15/01/2019, n. 802, seguita a precedente di rimessione alla pubblica udienza (Cass. ord. 06/09/2017, n. 20835), ha rimesso un’articolata questione di massima di particolare importanza relativa al rapporto fra fase di cognizione e di esecuzione ai fini del riconoscimento dell’indennizzo ex lege Pinto: e cioè se, alla luce - da un lato - della sentenza delle S.U. n. 27365 del 2009 e - dall’altro - della giurisprudenza della Corte EDU e della Corte costituzionale, la durata del processo esecutivo, promosso in ragione del ritardo dell’Amministrazione nel pagamento dell’indennizzo dovuto in forza del titolo esecutivo, costituito dal decreto di condanna pronunziato dalla Corte di Appello ai sensi dell’art. 3 della legge n. 89 del 2001 ed azionato appunto nelle forme del processo esecutivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata irragionevole del processo per equa riparazione e, più in generale, se la durata del processo esecutivo, promosso per la realizzazione della situazione giuridica soggettiva di vantaggio fatta valere nel processo presupposto con esito positivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata ragionevole dello stesso processo presupposto.

    Dagli snodi argomentativi dell’ordinanza di rimessione si ricava come siano stati coinvolti differenti problemi ricostruttivi: a) se il ritardo da parte dello Stato nel pagamento dell’indennizzo ex lege Pinto costituisce un autonomo diritto azionabile unicamente innanzi alla CTEDU ove eccedente i sei mesi e cinque giorni o esso può essere fatto valere anche ai sensi della Legge Pinto; b) se, quando il debitore è lo Stato, il processo di cognizione e quello di esecuzione possono essere valutati come un unico processo ai fini della ragionevole durata senza il rispetto di alcun termine; c) se e quale rilevanza abbia, ai fini del termine di sei mesi e cinque giorni concesso alla P.A. per l’adempimento spontaneo, quello di 120 gg. di cui dall’art. 14 del d.l. n. 669 del 31 dicembre 1996, conv. dalla legge n. 30 del 28 febbraio 1997; d) il momento temporale in cui il processo esecutivo può considerarsi introdotto (dalla notifica del titolo esecutivo, del precetto o del pignoramento); e) l’equiparabilità del processo di ottemperanza a quello esecutivo e la valutabilità unitaria ai fini della ragionevole durata.

    Le questioni, al di là dell’apparente aridità del suo tecnicismo, involgono diversi principi fondamentali dell’ordinamento, affrontati dalle Sezioni Unite con ampiezza e ricchezza di argomentazioni: quale premessa di grande momento, l’esigenza di interpretazione della normativa nazionale in senso convenzionalmente orientato; un primo, sui rapporti tra giudizio di cognizione e processo di esecuzione in generale quali presupposti indefettibili dell’effettività della tutela dei diritti; un secondo, sulla peculiare responsabilità dello Stato debitore; un terzo, sulla legittimità del sistema di indennizzi Pinto in relazione ai tempi di adempimento.

    3. La soluzione delle Sezioni Unite.

    La sentenza 23/07/2019, n. 19883 (in uno ad altre coeve su ricorsi analoghi: nn. 19884, 19885, 19886, 19887 e 19888 della stessa data, nonché 20404 del 26/07/2019), che è intervenuta sulla materia a definire la questione di massima di particolare importanza appena ricordata, si preoccupa di ricostruire il quadro giurisprudenziale, riferito sia alle Corti nazionali che a quella europea dei diritti dell’Uomo.

    3.1. L’interpretazione convenzionalmente orientata.

    La premessa, quanto meno in tema di violazione del diritto fondamentale espressamente codificato nell’art. 6 della Convenzione, è l’esigenza di una puntuale trasposizione dei principi elaborati a sua interpretazione dalla Corte di Strasburgo, sia pure senza un’automatica valutazione di recessività delle peculiarità nazionali: risultando appunto obiettivo della nomofilachia nazionale la conformazione di un sistema di protezione del diritto alla ragionevole durata del processo destinato progressivamente ad armonizzarsi con la disciplina concretamente declinata dall’art. 6 CEDU e dal diritto vivente della Corte EDU. Infatti, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo s’impone ai giudici italiani per quanto riguarda l’applicazione della legge n. 89/2001, sia pur senza considerare sempre subalterne e recessive le caratteristiche e peculiarità del rimedio interno, adottato nell’ambito del margine di apprezzamento riservato allo Stato che decida di approntare un rimedio di ordine generale volto all’eliminazione di una violazione convenzionale di natura strutturale; margine di apprezzamento che, tuttavia, non può mai andare a detrimento dell’effettività del rimedio. Ancora, il carattere vincolante per l’interprete nazionale è riconosciuto alle pronunce della Corte di Strasburgo anche in caso di cancellazione dal ruolo, se non altro quando questa ha avuto luogo a seguito di dichiarazione di riconoscimento della violazione da parte dello Stato convenuto.

    Infatti, per la stessa Corte di legittimità e per la Corte costituzionale, la funzione del giudice nazionale è quella di cooperare attivamente, anche attraverso l’interpretazione convenzionalmente orientata, alla protezione dei diritti fondamentali, dialogando con la giurisprudenza delle Corti costituzionali e sovranazionali in modo da offrire il livello più elevato possibile di protezione dei diritti fondamentali.

    3.2. L’unitarietà del processo.

    Quanto alla fattispecie in esame, si fa allora espresso riferimento all’elaborazione come finalmente consolidata dalla Corte europea con la sua sentenza 14/09/2017 in causa Bozza c. Italia, resa il 14 settembre 2017, la quale ha ribadito con forza, quasi richiamando all’ordine le corti italiane che si erano discostate dalle precedenti conclusioni convenzionali, la necessaria unitarietà del processo nelle sue fasi di cognizione ed esecuzione: e tanto, in estrema sintesi, in base all’indefettibilità della seconda a garanzia dell’effettività della tutela giurisdizionale.

    Al riguardo, le Sezioni Unite ricostruiscono un iter articolato. Con le pronunce del 2009 si era fatta leva sull’autonomia strutturale e funzionale del giudizio di cognizione rispetto al processo di esecuzione ed a quello di ottemperanza per sancirne una distinta rilevanza ai fini del sistema Pinto; ma, all’esito della successiva evoluzione interpretativa, nel 2014 ci si è fatti carico della contraria impostazione della Corte europea, per giungere ad una diversa conclusione, sull’unitarietà delle due “fasi” della cognizione e dell’esecuzione (od ottemperanza) in quanto consequenziali e complementari in un unitario, benché articolato e complesso, processo volto a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale: con la conseguenza che, in caso di ritardo della P.A. nel pagamento delle somme riconosciute in forza di decreto di condanna “Pinto” definitivo, l’interessato, mancato il versamento delle somme spettanti entro il termine dilatorio di mesi sei e giorni cinque dalla data in cui il provvedimento è divenuto esecutivo, ha diritto - sia che abbia esperito azione esecutiva per il conseguimento delle somme a lui spettanti, sia che si sia limitato ad attendere l’adempimento spontaneo della P.A. - ad un ulteriore indennizzo commisurato al ritardo nel soddisfacimento della sua pretesa eccedente al suddetto termine nonché, ove intrapresa, all’intervenuta promozione dell’azione esecutiva; indennizzo, che, tuttavia, può essere fatto valere esclusivamente con ricorso diretto alla CTEDU (in relazione all’art. 41 della Convenzione EDU) e non con le forme e i termini dell’art. 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001, la cui portata non si estende alla tutela del diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive.

    E tuttavia, nel 2016 le stesse Sezioni Unite intervennero nuovamente, introducendo, quale condizione per la considerazione unitaria del processo di esecuzione e del retrostante giudizio di cognizione, l’avvio del primo entro il termine decadenziale di sei mesi dalla definitività del provvedimento che aveva concluso il secondo: in mancanza di attivazione della fase esecutiva nel termine di decadenza previsto dall’art. 4 l. 89/2001 non era quindi possibile sommare, ai fini dell’individuazione della ragionevole durata del processo, il tempo occorso per la definizione della fase di cognizione, potendosi invece profilare un’irragionevole durata del processo unicamente per la durata della fase esecutiva. E tanto per la necessità di preservare la certezza delle situazioni giuridiche e di evitare l’esercizio del credito indennitario in maniera abusiva.

    La peculiarità dell’ultimo intervento, quello del 2019, sta allora in ciò, che esso intende porsi in continuità col precedente del 2014 e correggere o ridefinire quello del 2016: visto che, quanto meno nel sistema degli indennizzi Pinto, dove a rivestire la qualità di debitore è lo Stato medesimo, si afferma ora – al contempo – che l’unitarietà del processo sempre sussiste, ma che comunque che non è indennizzabile ai fini della legge Pinto, bensì soltanto in sede convenzionale e quindi con separato ricorso alla Corte di Strasburgo, il ritardo tra la conclusione del giudizio di cognizione e l’inizio del processo esecutivo (correttamente individuato nel pignoramento, a differenza del decreto impugnato, che lo collocava all’atto del precetto). 

    3.3. L’inadempienza dello Stato debitore.

    Di grande rilievo è l’adesione ai passaggi argomentativi della già richiamata sentenza CtEDU in caso Bozza, in convinto e sostanziale loro recepimento: 

    - sulla sussistenza di un obbligo incondizionato, per gli Stati contraenti, di assicurare che ciascun diritto rivendicato trovi la sua effettiva realizzazione, pur variando la portata di tale obbligo in funzione della qualità della parte debitrice; sulla differenza tra debitore-privato e debitore-pubblica amministrazione; 

    - sulla responsabilità dello Stato contraente, nel primo caso e cioè in ipotesi di privato debitore, soltanto per difetto di diligenza richiesta od ostruzionismo nell’apprestamento dell’assistenza necessaria affinché il diritto rivendicato trovi la sua effettiva realizzazione; 

    - sulla ben più pregnante responsabilità nel secondo caso, in ipotesi cioè in cui ad essere condannato o identificato come debitore sia lo Stato (o comunque una pubblica amministrazione ad esso riconducibile, soggettivamente od oggettivamente in ragione della funzione concretamente svolta), visto che il privato creditore non dovrebbe essere costretto ad avviare un procedimento distinto per ottenerne l’esecuzione forzata, potendo anzi essere sufficiente la notifica regolare all’autorità nazionale interessata o che siano espletati alcuni adempimenti processuali di natura però meramente formale.

    Del resto, la stessa giurisprudenza di Strasburgo esclude la legittimità di una giustificazione della non esecuzione di una sentenza contro un ente pubblico con la carenza di fondi; ammette un ritardo nell’esecuzione, purché non vanifichi l’essenza del diritto protetto; ancora, la più appropriata forma di ristoro nel caso di inesecuzione è che lo Stato garantisca la piena esecuzione delle sentenze ineseguite, mentre causa disagio, ansietà e frustrazione la protratta inesecuzione di una sentenza definitiva.

    Quale principio di civiltà di grande importanza si rileva quindi che lo Stato deve sempre e comunque adempiere le proprie obbligazioni, senza costringere il privato pure ad azioni esecutive una volta conseguito il titolo in sede di cognizione. I debiti dello Stato (e della pubblica amministrazione a quello riconducibile) vanno (o andrebbero …) quindi sempre pagati e per di più in modo automatico.

    3.4. Legittimità del sistema di indennizzi Pinto in relazione ai tempi di adempimento.

    Nonostante il carattere generale delle affermazioni della sentenza CtEDU Bozza in punto di unitarietà delle fasi di cognizione e di esecuzione, con conseguente sconfessione del diverso approdo delle Sezioni Unite del 2016, la pronuncia del 2019 applica quelle conclusioni, rivedendo quest’ultimo precedente, esclusivamente per il sistema di indennizzi Pinto. Fermo quindi l’approdo del 2016 – di per sé contrario alla giurisprudenza di Strasburgo – sulla ricostruzione secundum eventum (ovvero voluntatem actoris, con istituzionalizzazione in sede processuale di una sorta di condizione si voluero che desta qualche perplessità) della unitarietà o meno delle due fasi, almeno quando debitore condannato è lo Stato ed almeno quando il titolo della condanna è un decreto ex lege Pinto l’unitarietà non può essere messa in discussione.

    L’unitarietà delle due fasi non esclude però la necessità di isolare, dal contesto dell’indennizzo ex lege Pinto ed in relazione al concreto contenuto della disciplina nazionale da questa posta, il periodo tra la definitività del provvedimento di condanna e l’inizio del procedimento esecutivo: periodo che fonda sì un diritto della parte vittoriosa ad un indennizzo, ma per la condotta renitente della controparte e non per la pendenza in sé del procedimento giurisdizionale e quindi per una mancanza dello Stato nell’approntamento di una tutela efficace, tanto che, per tale intervallo, in difetto di previsioni normative specifiche nella l. 89/2001, ogni ragione è rimessa esclusivamente alla cognizione della Corte europea (si vedano le sette sentenze delle SS.UU. del 2014, riprese e confermate al punto 9.37 della sentenza del 2019, in richiamo di CtEDU 21/12/2010, Gaglione e a. c. Italia, che ne ha riconosciuto la ricorribilità immediata innanzi alla Corte di Strasburgo in ragione di € 200 à forfait, senza dovere proporre un autonomo giudizio in ambito interno).

    Pertanto, unitario è il procedimento, ma non tutto il tempo dal suo inizio alla sua conclusione rileva ai fini dell’indennizzo ex lege Pinto, dovendo, dalla durata indennizzabile, detrarsi quello tra la conclusione del giudizio di conclusione e l’inizio del processo esecutivo (o del giudizio di ottemperanza): ciò che, una volta correttamente individuato quest’ultimo ai sensi dell’art. 491 cod. proc. civ. con il pignoramento, esclude la rilevanza, sempre ai fini della legge Pinto, sia del termine dilatorio normalmente riconosciuto al debitore pubblico per pagare (di sei mesi e cinque giorni), sia di quello di 120 giorni imposto dalla disciplina speciale (di cui all’art. 14 d.l. 669/1996 cit.).

    4. Le molte luci delle sentenze del 2019.

    Con amarezza si constata quante risorse vanno profuse nell’elaborazione di un sistema assai complesso di tutela dai ritardi nella Giustizia, che si fa sempre più intricato e complicato, ad allontanare o rendere sempre più difficile il conseguimento di quella tutela, pure limitata al solo ed insufficiente momento risarcitorio: e va riconosciuto alle pronunce delle Sezioni Unite 19883 e ss. del 2019 di avere contribuito in direzione di una maggiore effettività di quella tutela, con la riaffermazione di importanti principi generali, che pure non si sarebbero mai voluti rimessi in discussione.

    Alla tendenziale linea di continuità con le pronunce del 2014, quelle del 2019 affiancano la peculiarità di discostarsi almeno in parte dall’arretramento del 2016 e di ripristinare così la conclusione sull’unitarietà delle due fasi, di cognizione ed esecuzione in ragione della reciproca interdipendenza ed indefettibilità, sia pure con riguardo allo speciale caso di creditore nei confronti dello Stato per ottenere l’indennizzo per irragionevole durata di altro precedente processo, ai sensi della legge Pinto.

    La conclusione ha l’indubbio pregio di riallineare, quanto meno nella tematica dell’equa riparazione ex lege Pinto, la giurisprudenza nazionale a quella convenzionale, come pure quello di ribadire la missione della prima di comprimaria consapevole però della tendenziale sovraordinazione della seconda in tema di tutela di diritti fondamentali oggetto della Convenzione.

    Ma ha, ancora, l’indubbio pregio di ribadire concetti importanti, che nell’attuale contesto storico paiono perfino rimessi in discussione, cioè l’assoluta indefettibilità della tutela esecutiva (con la preziosa precisazione dell’equiparazione, ai fini dell’effettività della tutela del diritto, al processo esecutivo pure del giudizio di ottemperanza) e l’insostenibilità dell’inottemperanza dello Stato alle proprie obbligazioni.

    È bene che sia stato ribadito come tale soggetto (ad esso ricondotto ogni ente definibile come amministrazione pubblica e cioè partecipe dell’esercizio di pubblici poteri), proprio per la sua posizione nell’ordinamento giuridico, sia più di ogni altro tenuto ad adempiere puntualmente le proprie obbligazioni, ad evitare l’insanabile contraddizione della violazione delle regole da parte di quei soggetti investiti della potestà – e quindi del potere, ma anche del dovere, istituzionale – di farle rispettare.

    Va quindi salutato con estremo favore l’intervento del 2019: dal quale non ci si poteva attendere di più, per il concreto ambito della controversia devoluta alle Sezioni Unite.

    Del resto, critiche molto più radicali potevano essere mosse al precedente approdo del 2016, di rimessione dell’unitarietà delle due fasi alla volontà della parte: approdo in forza del quale finiva elusa la limpida nettezza del principio, per il quale non solo le obbligazioni si rispettano ma soprattutto lo Stato le rispetta senza bisogno di altri oneri per il malcapitato suo creditore; approdo giustificato in nome della preponderante necessità di ovviare a timori evidentemente inveterati e radicati in un autentico malcostume nazionale, essendo state invocate le esigenze della certezza del diritto e del contrasto agli abusi. 

    Eppure, probabilmente già in quella sede la cristallina chiarezza della conclusione convenzionale sulla necessaria unitarietà delle fasi di cognizione e di esecuzione avrebbe potuto essere mantenuta, visto che gli abusi o i ritardi nell’attivazione della tutela esecutiva (o di ottemperanza) avrebbero potuto trovare adeguata prevenzione, con l’esclusione dei relativi periodi, in applicazione dei principi generali di non riconoscimento del danno ascrivibile alla condotta del danneggiato o di limitazione di quello in caso di concorso della sua condotta colposa.

    5. Qualche considerazione conclusiva.

    Un passo in avanti importante, dunque, ad opera delle pronunce del 2019, sulla strada del superamento dell’arretramento del 2016 rispetto alle conclusioni della giurisprudenza di Strasburgo.

    Anche i primi commenti, dando doverosamente atto alle pronunce del 2019 di essersi mantenute entro i limiti della giurisprudenza convenzionale e del pregresso quadro normativo e giurisprudenziale nazionale, hanno auspicato, ma appunto de iure condendo, sanzioni più stringenti ed efficaci di quella, irrisoria perché contenuta nella forfetaria liquidazione in 200 euro e per di più dinanzi alla Corte di Strasburgo, che attualmente ne risulta applicabile in caso di protrazione dell’inerzia dello Stato inadempiente oltre il termine di sei mesi e cinque giorni per l’esecuzione spontanea del decreto in tema di indennizzo ex lege Pinto.

    La conclusione è, comunque, non precisamente consolante: nella perdurante attesa di un Godot inteso quale efficace intervento sulle ragioni del fenomeno, ingentissime risorse – normative ed interpretative e quindi processuali – sono profuse nell’elaborazione sempre più intricata e complessa – quando non propriamente contorta – di un sistema volto a ristorarne almeno in parte le conseguenze negative, per di più afflitto da una cronica insufficienza di risorse finanziarie.

    Anziché intervenire sulla struttura del sistema per tentare di impedire gli effetti del dissesto, si agisce quindi per contingentare e limitare quanto dovuto dallo Stato, incapace di realizzare un sistema Giustizia adeguato, per indennizzarli. 

    Se si concede il parallelo, è come se, dinanzi ad una rete stradale accidentata e fonte di innumerevoli gravi incidenti, la maggior parte degli sforzi sia dedicata non a rifare la rete stradale in modo che gli incidenti più non si verifichino, ma a regolare i risarcimenti, predeterminandoli e contenendoli, ma pure rendendo sempre più arduo, per il danneggiato loro creditore, conseguire effettivamente quel solo pecuniario ristoro. 

    È come preferire all’impegno di una riforma strutturale del sistema, probabilmente ritenuta fuori portata, la rassegnata accettazione della necessità di fronteggiare alla meno peggio il risarcimento talvolta poco più che simbolico delle sue inefficienze.

    È tipica della realtà nazionale un’elaborazione raffinatissima, quasi sterminata, di casistiche e fattispecie, l’introduzione di termini decadenziali, impedimenti e cautele, di distinguo, di caveat, di eccezioni, di precisazioni, che rendono il soggetto creditore, danneggiato dalla violazione da parte dello Stato del suo diritto fondamentale alla ragionevole durata del processo, protagonista di un’autentica avventura giudiziaria – verrebbe da dire quasi un “Camel Trophy®” giudiziario – al cui esito sperare di imbattersi nella favolosa Arca o nel Vello d’Oro di un obolo ottriato a compensazione di ogni danno derivato dalla stessa cronica ed insanabile inadempienza dello Stato. 

    Eppure, nonostante tutto, la ricchezza delle elaborazioni e la sensibilità di tanti tra gli operatori e gli interpreti ancora consentono di confidare nello Stato di diritto e nella loro capacità di impegnarsi efficacemente per esigerne e conseguirne la realizzazione, nel quadro dell’effettività di una tutela multilivello dei diritti fondamentali affidata sempre più ad un proficuo dialogo tra le Corti di volta in volta coinvolte. In questa consapevolezza e con questo impegno, da rinnovare giorno dopo giorno, occorre mantenere costante l’attenzione di ognuno.

     

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