In tema di decreto legge 92 del 4 luglio 2024 “Carcere Sicuro” si veda anche D.L. 92/2024 “Carcere Sicuro”, note sparse ad una prima lettura: nulla di straordinario, poco di necessario, scarsamente urgente di Ezio Romano, pubblicato il 9 luglio 2024.
Il decreto legge 4 luglio 2024 n. 92 “Carcere sicuro” e le attese del mondo penitenziario
di Fabio Gianfilippi
Sommario: 1. Una premessa sul contesto di gravissime criticità in cui versano gli istituti penitenziari - 2. Le nuove assunzioni di personale, una buona notizia - 3. Le novità in tema di liberazione anticipata: criticità e rischi - 4. L’incremento nel numero delle telefonate dei detenuti: un problema di fonti - 5. Il punto e virgola nel 41-bis e la giustizia riparativa - 6. L’albo delle strutture residenziali e le difficoltà di reinserimento sociale. - 7. La semplificazione del “rito semplificato” ex art. 678 co. 1-ter ord. penit.
1. Una premessa sul contesto di gravissime criticità in cui versano gli istituti penitenziari.
Il 4 luglio 2024 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto-legge n. 92, varato dal Governo e comunicato con il nome di “Carcere sicuro”, in vigore dal 5 luglio 2024. Si legge nei “ritenuti” che precedono l’articolato che, tra l’altro, è stata considerata la straordinaria necessità ed urgenza, essenziali per giustificare l’uso dello strumento prescelto, in interventi relativi all’incremento del personale che opera negli istituti penitenziari, volti ad un loro miglior funzionamento, e in disposizioni della legge penitenziaria con finalità di razionalizzazione di alcuni benefici e regole di trattamento e di semplificazione delle procedure di concessione.
In effetti all’interno del decreto-legge si leggono anche disposizioni di tipo diverso, in materia di giustizia civile e penale, che esulano dal perimetro penitenziario e che non saranno considerate nel breve commento che segue.
Il mondo penitenziario affronta da tempo una condizione di crisi strutturale che, più volte segnalata anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con gravi condanne nei confronti del nostro Paese, ha visto nel tempo susseguirsi tentativi di riforme, con esiti parziali rispetto agli obbiettivi immaginati, ed interventi più o meno emergenziali, volti a tamponare, soltanto a tratti, le condizioni di sovraffollamento grave delle strutture.
Dall’inizio dell’anno si è inoltre registrato un numero elevatissimo di suicidi tra le persone detenute, indice di un malessere diffuso che, pur nella necessità di differenziare le situazioni personali, tutte diverse, lascia chi si occupa di carcere di fronte ad un senso di condiviso scoramento.
Agli occhi del magistrato di sorveglianza, che entra periodicamente in carcere e parla con gli operatori penitenziari e con tante persone detenute, appaiono infinite necessità e tante possibili strade per migliorare la quotidianità penitenziaria. Più di ogni altra prospettiva tecnica, sembra però urgente intervenire per ridurre la distanza tra interno ed esterno, tra i detenuti e le famiglie sui territori, e per instaurare un rinnovato patto di fiducia tra persone in esecuzione penale e istituzioni, che ritrovi nell’art. 27 co. 3 Cost. il faro cui guardare, pur nelle difficoltà quotidiane.
Se infatti prevale un sentimento di resa, rispetto a condizioni di invivibilità cui si sa che nessuno metterà mano, se prevale l’idea che le risposte delle istituzioni tarderanno ad arrivare e saranno di tipo burocratico, se i contatti con gli operatori si fanno mera occasione per mettere in ordine moduli, il carcere diviene uno spazio oscuro e opprimente, dove l’aria è irrespirabile e non si è più in grado di discernere con lucidità se vi sono strade sicure per sopravvivergli.
In questa temperie il decreto-legge è stato lungamente atteso, richiesto da più parti e accompagnato da una significativa attenzione mediatica, quanto meno in rapporto al consueto generale disinteresse che si riscontra quando si parla del mondo del carcere. Presentato da alcuni mezzi di comunicazione come un tentativo di risposta a quei drammatici problemi che sopra si enunciavano, si offre al lettore come un intervento normativo decisamente diverso, che risponde ad alcune necessità del carcere, ma che non sembra poter incidere sulla situazione gravissima in cui il mondo penitenziario si trova, o almeno non poterlo fare in tempi rapidi, come la stagione estiva, tra le più crudeli dell’anno dal punto di vista intramurario, consiglierebbe.
2. Le nuove assunzioni di personale, una buona notizia.
I primi 4 articoli del decreto-legge sono dedicati alla previsione di incrementi significativi nelle assunzioni nel Corpo di Polizia penitenziaria, nonché tra i dirigenti penitenziari, ed ancora prevedono lo scorrimento di graduatorie per vice commissario e vice ispettore di Polizia penitenziaria, con la medesima finalità, e dettano disposizioni in materia di formazione degli agenti.
Chi frequenta gli istituti penitenziari sa bene quanto gravi siano le scoperture di personale di Polizia penitenziaria e quanto di frequente si impongano turni di lavoro davvero estenuanti e sacrifici personali che vanno ben al di là dell’ordinario, soprattutto in contesti in cui sovraffollamento e condizioni degradate delle strutture saturano di tensione la quotidianità penitenziaria. Dunque sembrano una buona notizia questi incrementi che, tuttavia, non riguardano, almeno in questa sede, anche altre figure professionali gravemente carenti, eppure insostituibili. Ci si riferisce agli operatori giuridico – pedagogici, ma anche agli psicologi e ai mediatori culturali. Figure queste che, ove maggiormente presenti, potrebbero contribuire in modo sensibile al miglior vivere all’interno delle strutture, a beneficio dell’intera comunità penitenziaria.
Allo stesso modo, dove l’art. 4 prevede, per comprensibili esigenze di accelerazione nell’arrivo sul campo dei nuovi agenti, una riduzione della durata della formazione fino ad un minimo portato a soli tre mesi, si comprende bene la finalità, ma ciò rischia di pregiudicare una fase delicatissima in cui si formano lavoratori cui si consegna un’opera fondamentale come quella della gestione della quotidianità delle persone detenute e l’incontro con i loro bisogni. Molte volte si è ben detto come la formazione della Polizia penitenziaria sia un momento cruciale, ma ciò non può che accadere in un tempo congruo, sol che si sia davvero consapevoli che non sono tanto i numeri a fare la differenza in un servizio, soprattutto impegnativo e umanissimo, come quello di cui parliamo, ma la preparazione umana e professionale di chi lo rende.
3. Le novità in tema di liberazione anticipata: criticità e rischi.
Una particolare centralità hanno gli interventi in materia di liberazione anticipata contenuti nell’art. 5 del decreto-legge. In questi mesi si erano evocati, proprio al fine di ridurre il problema del sovraffollamento, provvedimenti normativi volti ad incrementare il numero di giorni concedibili per ogni semestre di pena espiata, passandoli dagli attuali quarantacinque a sessanta, o addirittura a settantacinque. Nulla di tutto ciò è considerato nel decreto-legge che, piuttosto, interviene modificando le modalità e le tempistiche per l’ottenimento del beneficio, con dichiarati scopi di semplificazione e di maggior chiarezza nei confronti dei destinatari. Sotto questo profilo una sommaria lettura del complesso intervento non sembra consentire univoci pronostici di successo né rispetto al primo, né rispetto al secondo degli obbiettivi che ci si prefiggeva.
Nell’art. 656 cod. proc. pen. si introduce, in un nuovo co. 10-bis, la previsione che impone al pubblico ministero, al momento dell’emissione dell’ordine di esecuzione, di completarlo con uno specchietto, ad uso del condannato, nel quale sia già quantificata semestre per semestre la riduzione di pena che potrà essergli riconosciuta, in funzione della partecipazione al trattamento eventualmente dimostrata. Nulla dunque viene automaticamente concesso al condannato, ma gli si consente di prefigurarsi gli effetti positivi di una sua condotta improntata al rispetto delle regole e alla cooperazione al trattamento. In effetti, chi frequenta il carcere sa che questo genere di calcolo è tra le prime rassicuranti operazioni che ogni condannato fa per sé. Indubbiamente utile è però che ciò possa leggersi in modo tecnico, ma è evidente come il nuovo testo imponga un onere molto serio alle Procure della Repubblica, anche in considerazione della necessità di rivedere il computo al sopravvenire abituale di provvedimenti di cumulo, che tengano conto di frammenti eventuali di presofferto, o al riconoscimento di periodi di fungibilità. La disposizione, per altro, non dice se questo specchietto promemoria debba essere redatto anche per tutti gli ordini di esecuzione già emessi, in assenza di una norma di diritto intertemporale. Certamente ciò dovrà accadere, comunque, almeno alla prima modifica degli stessi, per qualsiasi ragione.
Ciò che cambia più sensibilmente è però che si passerà da un regime di concessione della liberazione anticipata sostanzialmente a istanza di parte, ad una residualità di tale opzione, in favore di una concessione d’ufficio che dovrebbe avvenire, da parte del magistrato di sorveglianza, o in corrispondenza di una istanza di misura alternativa o di altro beneficio penitenziario, o in prossimità del fine pena. Soltanto in questi momenti il magistrato di sorveglianza dovrà valutare se effettivamente nei semestri maturati sino a quel punto l’interessato abbia partecipato all’opera rieducativa condotta nei suoi confronti, cristallizzando l’accoglimento, o il rigetto, in relazione a uno o più semestri, sempre salvo il reclamo al Tribunale di sorveglianza. Sino a quel punto il condannato non avrà dunque alcuna certezza che il fine pena sperato si stia avvicinando effettivamente. Permane in una condizione di attesa, e di fatto perde quella relazione periodica con il magistrato di sorveglianza, che gli consente di vedersi riconosciuto che sta camminando su una buona strada intramuraria.
Residua la possibilità di chiedere la valutazione al magistrato di sorveglianza, anche a prescindere dai momenti indicati, ma con l’obbligo di illustrare l’interesse particolare ad ottenere la liberazione anticipata, a pena di inammissibilità. Nella Relazione accompagnatoria per i lavori del Senato si fa a questo proposito l’esempio dello scorporo del cumulo, rispetto al quale aver interamente espiato le quote di pena legate a reati di 4-bis, anche mediante la concessa liberazione anticipata, comporta conseguenze che legittimerebbero la richiesta dell’interessato. In effetti nella legge penitenziaria sono previsti effetti importanti, anche in materia di colloqui visivi e telefonici, e non solo di accesso ai benefici penitenziari, in relazione alle diverse tipologie di reato in espiazione, con conseguente interesse del condannato ad ottenere al più presto la decisione da parte del magistrato di sorveglianza.
Tanto nel caso di valutazione officiosa legata all’accesso alle misure alternative, quanto in quella collegata al fine pena, è prevista una finestra di novanta giorni antecedenti al momento in cui matura la quota di pena o la data del fine pena (al netto degli sconti di pena, ove meritati) in cui davanti al magistrato di sorveglianza si incardina la procedura per la valutazione della liberazione anticipata. Si tratta di uno spazio assai breve, in cui al di là dei vari possibili intoppi istruttori, è probabile che una decisione intervenga a ridosso della data sperata, o più probabilmente dopo.
Rispetto alle misure alternative, comunque, l’avvenuta concessione anche tempestiva non potrà significare certezza della fissazione di una udienza dinanzi al Tribunale di sorveglianza nelle stesse tempistiche, poiché ordinariamente quegli uffici sono specialmente gravati, e trascorreranno molti mesi in più prima di poter trattare in udienza l’istanza. Nel caso del fine pena, invece, si porrà il problema sia di un provvedimento che giunge più lentamente del previsto, e costringe dunque il condannato a permanere in carcere più del dovuto, sia di un accoglimento soltanto parziale da parte del magistrato di sorveglianza, che quindi legittimamente stabilizza un fine pena più lungo. In questo caso le tempistiche di un eventuale reclamo dinanzi al Tribunale di sorveglianza, anche in caso di successivo accoglimento, con ragionevole certezza potranno consumare un tempo molto lungo e tradursi, nuovamente, in un prolungamento non dovuto del fine pena.
Nel nuovo meccanismo immaginato, in sostanza, l’individuazione di momenti particolari in cui concentrare le valutazioni officiose sulla liberazione anticipata, sembra avere almeno due effetti deteriori per l’utenza. Il primo è di ordine pratico, potendo determinarsi con maggior facilità ritardi di definizione che incidano in concreto sulle posizioni giuridiche dei condannati. Il secondo è nella sostanziale vanificazione dell’effetto psicologico di rafforzamento dei propositi che le periodiche valutazioni positive hanno sin qui prodotto sulle persone detenute, quale sprone ad una condotta partecipativa. Con la nuova disciplina, per molti anni, chi ha pene lunghe, potrebbe non vedere più provvedimenti concessivi, anche a fronte di condotte partecipative. Sembra poca cosa, ma in carcere tutto il poco è essenziale.
È d’altra parte un po’ come se, in un percorso scolastico, si omettessero pagelle quadrimestrali e di fine anno per un quinquennio, chiedendo agli studenti di attendere l’esame finale, al cui esito tutto è rimesso. Non gli si consente così di comprendere bene cosa si vuole da loro e di correggere effettivamente i loro comportamenti, in vista di successive, più favorevoli valutazioni.
Può immaginarsi che, comunque, le istanze degli interessati e dei difensori resteranno copiose, soprattutto nell’approssimarsi di momenti esiziali per la vita del condannato, e in vista del fine pena, e che si svilupperà un contenzioso non facile sul confine dell’interesse dello stesso ad ottenere comunque una valutazione. In definitiva, quindi, non è detto che l’intervento normativo si traduca, anche per questa ragione, in una riduzione del carico di lavoro degli uffici di sorveglianza. Certamente residua poi la possibilità di interpretare la nozione di interesse, indicata dalla norma, in senso largo, considerandola integrata già dal vantaggio di aver ottenuto una risposta certa da parte del magistrato di sorveglianza. Si tratta probabilmente di una soluzione consentita dalla disposizione, con l’effetto di ridurre però al minimo l’impatto del novum normativo.
Permane, comunque, un rilevante contrasto tra il nuovo art. 54 co. 2 e il 69 bis co. 4. Il primo indica come necessaria la comunicazione al pm dell’esecuzione soltanto dei provvedimenti di mancata concessione o di revoca del beneficio, mentre il secondo non manca di indicare la necessità di comunicare al pm, ai fini dell’impugnazione, il provvedimento di concessione del beneficio. In effetti non appare ragionevole che il provvedimento concessivo non sia comunicato al pm dell’esecuzione, poiché la nuova legge non prevede alcun automatismo positivo e il nuovo art. 656 co. 10-bis espressamente subordina la riduzione della pena al riconoscimento della meritevolezza del beneficio. In sostanza il pm dell’esecuzione dovrebbe sempre essere notiziato, al fine di aggiornare il fine pena effettivo del condannato. In mancanza di una riforma del punto in sede di conversione, si corre il rischio di accrescere le incertezze, e di indurre il pm ad una stasi non legittima oppure a procedere, erroneamente, considerando un fine pena più breve di quello che il magistrato di sorveglianza ha effettivamente ritenuto, all’esito della valutazione sulla partecipazione al trattamento del condannato.
Manca nel nuovo testo ogni riferimento di diritto intertemporale. La liberazione anticipata è considerata dalla legge penitenziaria tra le misure alternative alla detenzione. Sembra derivarne perciò l’applicabilità del principio di cui alla sent. Corte Cost. 32/2020 per le previsioni che incidano negativamente sui requisiti di accesso. Nel caso che ci occupa sembra potersi dire che la riduzione dei momenti di accesso, con i rischi sopra paventati, configurino un deterioramento delle posizioni degli interessati. Può dunque ipotizzarsi che i procedimenti già pendenti possano giungere secondo la vecchia normativa a definizione.
Un effetto immediato, poiché di natura meramente processuale, potrà invece subito trovare applicazione, ed è quello della scomparsa del parere preventivo al pm di cui al vecchio art. 69-bis co. 2. Si tratta di una indubbia semplificazione, che contribuisce positivamente a ridurre l’aggravio sugli uffici di sorveglianza e anche sulle Procure, cui spetta comunque la facoltà di impugnazione del provvedimento non condiviso.
Dalla modifica dell’art. 69-bis sul punto deriva la scomparsa del parere del pm anche in sede di valutazione sull’esecuzione domiciliare dell’ultima parte della pena detentiva. Si tratta di un effetto forse non considerato, visto che l’art. 1 co. 5 della Legge 199/2010 avrebbe dovuto essere opportunamente modificato, eliminando un riferimento oggi rimasto privo di significato ad un termine più breve di attesa del parere del pm (non quindici, ma soltanto cinque giorni).
Il decreto-legge infine prevede in sei mesi modifiche del regolamento di esecuzione volte a uniformare profili procedimentali contenuti in quel testo, indicando inoltre l’onere a carico delle direzioni degli istituti penitenziari di comunicazione agli uffici di sorveglianza degli elementi necessari alla valutazione, nei momenti topici sopra indicati. Resta da chiedersi cosa accada però già da oggi e sino a queste modifiche, non essendo in condizione gli uffici di sorveglianza di provvedere da soli a monitorare l’approssimarsi del fine pena (virtuale) dei condannati.
Il regolamento di esecuzione, datato al 2000, ha da tempo bisogno di ampi rimaneggiamenti. La Commissione Ruotolo per l’innovazione del sistema penitenziario ne aveva ipotizzato, nel 2021, una ampia revisione. L’occasione potrebbe essere proficua per immaginare di riprendere in mano quei lavori.
Il complesso quadro di modifiche in materia di liberazione anticipata non sembra dunque esente da criticità. Si tratta, d’altra parte, di uno strumento cruciale per lo sviluppo di percorsi trattamentali prudenti e orientati alla risocializzazione. Rispetto ai ritardi cui la magistratura di sorveglianza va incontro per l’enorme mole di lavoro che grava sui suoi uffici, potrebbe darsi una più sicura soluzione in un robusto incremento degli organici, soprattutto amministrativi, che sarebbe in grado di consentire un disbrigo migliore degli affari e di rispondere, in questo modo, più efficacemente alla domanda di risposte individualizzate, che proviene dal mondo penitenziario.
4. L’incremento nel numero delle telefonate dei detenuti: un problema di fonti.
L’art. 6 del decreto-legge richiama ancora una volta una modifica necessaria del regolamento di esecuzione, concedendo sei mesi per provvedere, al fine di ampliare il numero delle conversazioni telefoniche autorizzabili (art. 39 reg. es.), parificandole nel numero ai colloqui visivi autorizzabili (art. 37 reg. es.). Fino all’adozione delle modifiche, si consente alle direzioni di autorizzare le telefonate oltre i limiti di legge.
Secondo questo testo, dunque, il numero di telefonate per i detenuti per reati diversi dall’art. 4-bis ord. penit. cui si applichi il regime ostativo del comma 1, potranno fruire di sei telefonate al mese, e gli altri detenuti di quattro telefonate al mese.
In realtà, nel tempo del COVID telefonate e videocolloqui sono state incrementate con disposizioni emergenziali in numero di gran lunga superiore. Una soluzione che ha contribuito certamente ad alleviare, almeno in parte, il senso di profondo isolamento emotivo che sempre accompagna la detenzione, ma che si era fatto insopportabile in quei tempi drammatici.
Con l’art. 2-quinquies della legge 70/2020, di conversione in legge dei decreti-legge 28 e 29, si è però introdotta una disciplina non legata al COVID, che aumenta significativamente il numero di colloqui telefonici e lo fa direttamente con il testo di normazione primaria, seppur incidendo sull’art. 39 del regolamento di esecuzione, di fatto nobilitando la fonte. Si dispone dunque la cessazione di efficacia dell’art. 39 co. 3 reg. es., prevedendo che la corrispondenza telefonica per i detenuti non per reati di cui all’art. 4-bis, possa essere persino quotidiana se si svolge con figli minori o con familiari ricoverati in ospedale. Quanto ai detenuti per reati di cui all’art. 4-bis co. 1 l’autorizzazione ai colloqui telefonici viene portata a non più di uno a settimana. Con la sent. 85/2024 la Corte ha per altro modificato in senso ampliativo la disposizione, prevedendo che il limite dei colloqui non si applichi per i detenuti per reati di cui all’art. 4-bis co. 1 per i quali non si applichi neppure il divieto dei benefici ivi previsto (ad esempio i collaboratori ex art. 58-ter ord. penit.).
La previsione del decreto-legge appare quindi specialmente problematica. Sembrerebbe determinare una modifica di fatto peggiorativa, riducendo, invece che ampliando, il numero dei colloqui telefonici per tutte le categorie di condannati, essendo forse mancato un adeguato coordinamento con la previsione contenuta nell’art. 2-quinquies della legge 70/2020. Ad esempio si ritornerebbe a quattro telefonate mensili (anche nei mesi che hanno cinque settimane), invece di cinque nel massimo, per i condannati per reati di cui all’art. 4 bis ord. penit. cui si applichi il divieto di benefici. D’altra parte, però, la scelta operata in quel testo normativo, di intervenire con legge primaria sulla materia, sembra imporre comunque la disciplina più favorevole, contenuta in un testo di legge primaria, anche quando si dovesse modificare il regolamento. Si tratta di un altro profilo, dunque, in cui appare importante immaginare un ripensamento in sede di conversione in legge, che eviti incertezze applicative.
La previsione di un incremento del numero di colloqui telefonici in termini piuttosto modesti non è comunque destinata a risolversi in un sensibile mutamento nella qualità dei contatti dei detenuti con i familiari all’esterno. Il decreto-legge avrebbe potuto essere invece il giusto strumento per incidere in modo significativo sul tema dell’affettività dei ristretti, così importante in funzione di contrasto al rischio suicidiario e di propulsione risocializzante. Si trattava dell’occasione per prendere atto delle conseguenze della pronuncia 10/2024, con la quale la Consulta ha riconosciuto il diritto delle persone detenute a intrattenere anche colloqui intimi con il proprio partner, se non vi sono individualizzate ragioni di sicurezza che li sconsiglino. In quella sede la Corte Costituzionale, ormai sei mesi or sono, chiariva come fosse rimessa all’amministrazione penitenziaria e alla magistratura di sorveglianza l’ordinata esecuzione di quanto statuito, dunque da subito. Così sino ad ora non è invece avvenuto. Indicava tuttavia come la via legislativa continuasse a costituire quella privilegiata per disciplinare in modo coerente la materia. Nulla sul punto si dice nel decreto-legge che, invece, avrebbe potuto costruire la sede più adeguata per un intervento necessario e urgente, come certamente è quello imposto dall’obbligo di dar seguito ad un preciso insegnamento del Giudice delle Leggi.
5. Il punto e virgola nel 41-bis e la giustizia riparativa.
Nell’art. 7 del decreto-legge sono contenuti due interventi in materia di regime differenziato in peius di cui all’art. 41-bis ord. penit. Il primo è funzionale al secondo. Al co. 2-quater lett. f, in fine, è sostituito al segno di interpunzione: “.” il “;”. Ciò accade perché si introduce la previsione di una ulteriore lettera. Si tratta della f-bis. Per la verità non è ben chiaro perché, nel drafting normativo, si sia prescelta questa denominazione, a fronte di molte altre lettere ancora disponibili. Sta di fatto che l’intervento sulla lettera f si limita al punto e virgola, ma in realtà la disposizione è stata negli ultimi anni oggetto di due interventi della Corte Costituzionale, che avrebbero imposto al legislatore una modifica della norma volta a renderla anche formalmente conforme a quanto previsto dalla Consulta.
Con la sent. 186/2018, infatti, il Giudice delle Leggi ha dichiarato incostituzionale la lett. f nella parte in cui prevede il divieto di cucinare cibi, e con la sent. 97/2020 nella parte in cui non limita il divieto di scambiare oggetti ai soli appartenenti a gruppi di socialità diversi. L’intervento odierno manca quindi un’occasione in effetti obbligata per correggere la disposizione censurata così vastamente dalla Corte Costituzionale.
Con la lettera f-bis, al catalogo delle limitazioni imposte al detenuto in regime differenziato si aggiunge il divieto di accesso ai programmi di giustizia riparativa. Nella Relazione di accompagnamento si sottolinea come la speciale pericolosità sociale dei detenuti sottoposti al regime impedisca di fatto una decisione in termini positivi da parte dell’a.g. al momento in cui le è richiesto di valutare se vi sia un pericolo concreto per i partecipanti al programma. Al di là di ogni considerazione più ampia sulla vocazione universalistica del paradigma della giustizia riparativa e sulla sussistenza di un sistema di pesi e contrappesi già idonei a consentire alle parti di valutare adeguatamente se accedere al programma, mette conto qui sottolineare soltanto come la Corte Costituzionale abbia più volte ribadito che intanto una limitazione contenuta nel disposto dell’art. 41-bis ord. penit. è compatibile con i principi costituzionali, in quanto sia finalizzata, in modo congruo e proporzionato, a prevenire rischi per la sicurezza, risolvendosi altrimenti in una mera vessazione. Nel caso di specie una preclusione assoluta, che non consente un vaglio caso per caso, altrimenti previsto, sembra presentare criticità costituzionali che meritano una indagine assai più approfondita di quanto possibile con queste prime riflessioni, anche tenuto conto del fatto che da un provvedimento amministrativo (un decreto del Ministro della giustizia) si fanno derivare anche le, pur limitate, conseguenze nel processo, che derivano dall’esito riparativo eventualmente raggiunto.
6. L’albo delle strutture residenziali e le difficoltà di reinserimento sociale.
Un impatto positivo può derivare dalla previsione contenuta nell’art. 8 del decreto-legge della creazione di un elenco di strutture accreditate presso le quali possano essere concesse misure alternative a chi non dispone di un idoneo domicilio. È però rimandata ad un successivo regolamento, da emanarsi in sei mesi, la disciplina che presiederà alla formazione e all’aggiornamento dell’elenco, ed è dunque a quel testo che in concreto converrà riferirsi per comprendere la portata della disposizione e per vagliarne possibili criticità. Nel tempo del COVID19 si sperimentarono accordi volti a organizzare progetti di accoglienza indirizzati a detenuti con fine pena brevissimo (entro sei mesi), che hanno avuto buon esito, quando però l’accoglienza e il momento dell’invio sono stati curati adeguatamente, perché le persone detenute con maggior disagio sociale sono spesso proprio quelle anche prive di un domicilio, e la loro presa in carico deve perciò avvenire in modo specialmente attento e responsabile, da parte di strutture con regole di ingaggio precise e capaci in concreto di operare con persone in condizioni di disagio.
7. La semplificazione del “rito semplificato” ex art. 678 co. 1-ter ord. penit. È necessario scorrere il testo del decreto-legge sino all’art. 10 co. 2, per scorgervi una decisa, seppur circoscritta, semplificazione procedurale in materia di concessione di misure alternative alla detenzione. Con il d.lgs. 123/2018 fu infatti introdotto uno speciale rito semplificato che consentiva ad un magistrato delegato dal Presidente del Tribunale di sorveglianza di concedere in via provvisoria una misura alternativa a condannati liberi sospesi in attesa di esecuzione di pene detentive non superiori ai diciotto mesi. L’ esecutività restava sospesa sino alla concessione in via definitiva da parte del Tribunale, che però avveniva senza udienza, oppure sino alla valutazione della eventuale opposizione, proposta dalla parte non soddisfatta dalla misura prescelta. Il provvedimento provvisorio poteva essere infatti soltanto positivo. Il decreto-legge, opportunamente, elimina la conferma, di fatto meramente duplicativa, da parte del Tribunale di sorveglianza, ove manchi l’opposizione. Decorsi i termini per quest’ultima, dunque, l’ordinanza emessa dal magistrato di sorveglianza diviene subito esecutiva.
In effetti la formula adoperata dal testo aggiunge che, in caso di opposizione, il Tribunale può confermare l’ordinanza o revocarla. Deve ritenersi, pur nell’ermetismo dell’espressione, che possa comunque intendersi che, come ora, in quella sede il Tribunale possa non soltanto revocare in senso proprio, determinando la carcerazione, ma anche revocare concedendo altra misura alternativa ritenuta più adeguata. Anche in questo caso, tuttavia, un chiarimento eviterebbe possibili dubbi.
Il testo non prevede disposizioni transitorie neppure in questa materia, e può quindi porsi la questione dell’applicabilità della nuova disciplina alle ordinanze provvisorie in attesa di conferma. Il principio del tempus regit actum, certamente qui applicabile, in presenza per altro di una stabilizzazione di effetti favorevoli, sembra far propendere per la positiva. In termini operativi, però, le ordinanze provvisorie sono normalmente complete di avvisi circa la non immediata esecutività e la necessità di attendere un provvedimento confermativo. Dovrà quindi immaginarsi, comunque, una qualche comunicazione, alle parti e alle agenzie interessate (Uepe e Forze dell’ordine), con non indifferenti aggravi di cancelleria.
Immagine: M.C. Escher, Belvedere, litografia, 1958.