All’incrocio tra processo penale e processo mediatico di Andrea Apollonio
Recensione a “Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo” di Vittorio Manes
Il grande pregio del libro di Vittorio Manes è quello di aver illustrato con precisione chirurgica e analisi scientifica le storture della "Giustizia mediatica" riuscendo a scindere i media (quel quarto potere libero per sua stessa natura: il più svincolato dei poteri, almeno sulla carta) dagli attori della giustizia (del terzo potere, il più vincolato alle forme ed ai principi): perché solo questi secondi possono essere razionalmente additati quali artefici/responsabili del "tribunale" penale mass-mediatico. Ma il sistema giustizia, andrebbe aggiunto, non è composto solo da magistrati che indagano e decidono e da avvocati che difendono, ma anche, volgendo lo sguardo più in alto, dalla politica che in Parlamento è chiamata a legiferare, mentre fuori guarda ai media come proprio - e ormai unico - strumento di legittimazione. E allora se un corto circuito c'è, come c'è, e questo saggio da ultimo lo disvela, forse bisognerebbe chiedersi se il vero artefice/responsabile della "giustizia mediatica" non sia proprio l'odierna politica.
Che la "giustizia mediatica" sia, nell'attuale temperie storica, un problema di carattere sociale e giuridico, è un dato consolidato nell'opinione pubblica come nella letteratura scientifica e di settore. Ne è testimone, tra l'altro, l'impegno di Giustizia Insieme nel promuovere un dibattito a più voci sul tema, con molteplici commenti pubblicati; dibattito avviato, in particolare, a seguito del ben noto recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza del 2021, ed arricchito dal secondo convegno della Rivista ("Processo mediatico e presunzione di innocenza"), del 1 aprile 2022. Non poteva forse essere altrimenti - non poteva cioè rimanere in ombra e senza apposita segnaletica l'incrocio tra processo penale e processo mediatico - per la qualità e quantità di spunti di riflessione conversi nelle ultime settimane: come da poche settimane, per l'appunto, è apparso, a firma del magistrato Edmondo Bruti Liberati, "Delitti in prima pagina. La giustizia nella società dell'informazione" (Raffaello Cortina, 2022), anch'esso recensito sulle colonne di Giustizia Insieme. Un testo di pregio, che adotta una chiave perlopiù storico-analitica.
Oggi, quale nuovo e autorevole prodotto di questo fermento, appare il saggio del professore (e avvocato) Vittorio Manes, "Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo", pubblicato per i tipi de Il Mulino, che a quello può certo dirsi complementare, affrontando la questione da un'altra prospettiva, maggiormente tecnica, e nella esplicita consapevolezza che, come dichiara l'autore già in premessa, sia "ormai insoddisfacente limitarsi a considerare il problema come inevitabile voce passiva da sacrificare sull'altare della libertà di espressione".
Interessante, anzitutto, il modo in cui ci si cala nel campo assiologico-valoriale del diritto e del processo penale. Un'operazione teorica che va svolta necessariamente ad ampio spettro.
Così, secondo l'autore, se quello della "giustizia mediatica" è un lessico declinato sulla "riprovevolezza morale", che si sofferma sul biasimo per la propria condotta di vita o per il modo di essere, fuori da ogni cifratura giuridico-penale delle condotte, ne consegue il rischio che le imputazioni del fatto formulate dagli uffici requirenti possano sfuggire ai principi di tipicità e tassatività; imputazioni soggette ad un vero e proprio "potere definitorio mediatico", talvolta formulate sull'onda di una vox populi che si propaga "sulla stessa decisione giudiziale, alimentando stupore e dissenso, se non vibranti critiche, ove questa abbia il coraggio di discostarsi dalla qualificazione giuridica dei fatti suggellata [appunto] dalla vox populi".
Anche la valutazione dell'elemento soggettivo del reato può essere influenzata dalla voce pubblica, perché nella narrazione mediatica "il sensazionalismo si associa, di regola, alla riprovevolezza dolosa delle condotte rappresentate", anche se queste risultano caratterizzate da un gradiente colposo. E' la rivisitazione del tema - questo sì, più tradizionale - del rapporto tra prevenzione generale e colpevolezza, che nel libro di Manes viene arricchito - con una sintassi trasversalmente tecnica - tanto dalle lezioni dei grandi autori (Jakobs) quanto dall'analisi degli ultimi interventi normativi, che "rappresenta[no] un osservatorio privilegiato di queste relazioni". Tra questi, la "legittima difesa domiciliare" è vero e proprio banco di prova, giacché "nelle singole vicende processuali, la linea di confine dell'agire scriminato sembra un sismografo del senso comune, e della rappresentazione che ne offre il sistema mass-mediatico".
Non mancano le distorsioni sul piano processuale, che principalmente si avvertono rispetto al principio di presunzione di innocenza, su cui, come detto, è da ultimo intervenuto il recepimento della relativa direttiva euro-unitaria (d.lgs. n. 188/2021), salutato dall'autore come "un argine alla violenza dei giudizi anticipati di colpevolezza". Ma disfunzioni ancora più gravi potrebbero registrarsi in punto di imparzialità del giudice e di autonomia della giurisdizione.
Di particolare interesse è, a questo proposito, la disamina degli attori socio-istituzionali della "giustizia mediatica". Pubblici ministeri e avvocati sembrerebbero intanto i principali indagati della strumentale diffusione di notizie giudiziarie, della narrazione mass-mediatica di vicende che andrebbero trattate, anche nella comunicazione, con uno strumentario tecnico e non sensazionalistico: con l'inevitabile e immediata spontanea costituzione di "tribunali" popolari - e l'apparizione di improvvisati tribuni - in tv e sui social. Nel mezzo, vi è appunto il giudice, visto da Manes "stretto nella morsa", che rischia di perdere, in questo quadro, una volta montata l'onda delle notizie e dei (pre)giudizi, ogni obiettività: una "morsa mediatica" da cui non è facile svincolarsi.
La declinazione cui procede Manes dimostra chiaramente che il (parallelo) processo mass-mediatico non ha solo una cifra culturale, ma è in grado di intaccare i principi, di produrre i suoi effetti sui diritti fondamentali e sul giusto processo: giusto e doveroso, quindi, che gli studiosi lo indaghino e additino i responsabili del voyerismo giudiziario. Sebbene, tra questi, forse uno ne manca.
Un' indagine ben equilibrata tra cause ed effetti, mai fine a se stessa, perché corredata da quelle indicazioni di profilassi che da tempo ormai si invocano, e da più parti (quali l'individuazione di specifici percorsi di formazione e aggiornamento degli operatori del diritto, oppure l'adozione di modelli di "responsabilità condivisa" per i giornalisti), e dal costante accenno all'attualità.
Tanti i casi giudiziari richiamati e ricamati ai margini dello sviluppo dell'indagine: alcuni eclatanti e noti, altri locali, e ve ne sono molti pescati da altri ordinamenti nazionali, tutti utili a comprendere in una direzione pratica le degenerazioni del processo mediatico. Ma è proprio muovendosi tra i casi concreti che emerge la necessità di chiarire - epperò questo chiarimento, tra le pieghe dei numerosi temi trattati, non si coglie - che l'immagine pubblica di un uomo che esercita pubbliche funzioni, filtrata attraverso un'inchiesta giudiziaria, se non può avere - d'accordo - una rilevanza strettamente penalistica rispetto alle imputazioni e alle decisioni, può assumere carattere giuridico se vistosamente - e appunto pubblicamente - infranta; ed una rilevanza sociale ancora più marcata.
Basti solo pensare, rispetto al primo dato, al dettato costituzionale di cui all'art. 54: "I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore": ed è anche a partire da questi due concetti meta-giuridici - che pure sono ripresi nella nostra Grundnorm - che nel tempo è stata elaborata, sopratutto nella giurisprudenza civilistica, la tutela dell'immagine pubblica (recte: il danno all'immagine dello Stato).
Quanto al secondo dato: il processo è, a rigore, un procedimento logico-inferenziale che si basa sulle evidenze probatorie raccolte dall'organo inquirente: quantificare il peso delle influenze esterne, proprio perché indebite, proprio perché in astratto insussistenti, è impossibile; ma è del pari impossibile immaginare un processo, ad esempio ad un importante politico o ad un alto funzionario statale, che non sia calato nel rispettivo contesto sociale, in cui maturano giudizi collettivi che sono gli stessi, poi, che orientano l'elettorato e, in ultima analisi, la sovranità popolare; da cui derivano, direttamente o indirettamente, tutti i poteri dello Stato.
Tutto questo per dire che se la tecnica giuridica del processo non può e non deve, nei suoi ingranaggi, scontare gli influssi dei media e, per questo tramite, della società, immaginare un processo ad un uomo politico, ad un funzionario statale, o anche ad un alto prelato, in special modo per fatti connessi alle loro funzioni, che non abbia una qualsivoglia risonanza esterna, vuol dire svolgere un ragionamento astratto che, portato alle estreme conseguenze, può arrivare a minare il diritto di informazione: diritto ad informare la cittadinanza che, da parte degli organi preposti, va esercitato correttamente, questo sì, perché come rileva Manes richiamando la giurisprudenza costituzionale, "allorquando la stampa produce effetti antigiuridici, finisce col non assolvere più la propria funzione sociale che le è propria", di offrire cioè al pubblico informazioni obiettive pregiudizievoli di tutti gli interessi coinvolti". Un bilanciamento che vede diritti del singolo e diritti collettivi; un bilanciamento - e questo va forse ricordato, perché è proprio la Costituzione a ricordarcelo - che fatalmente si sbilancia ogniqualvolta finiscono nell'imbuto giudiziario funzioni pubbliche.
Non può quindi stupire che il responsabile della comunicazione di uno dei principali partiti italiani coinvolto in un'inchiesta giudiziaria sia "finito vittima della stessa macchina" comunicativa, né può stupire che "suscita indignazione morale la sola idea che un magistrato dello Stato possa prevedere un dress code per i suoi collaboratori o borsisti, chieder loro che si vincolino a tutta una serie di clausole deontologico-comportamentali, anche indubbiamente eccentriche e bizzarre", né può ritenersi privo di significato sociale il concetto di "responsabilità morale omissiva" adombrata sui quei vertici della Chiesa che avrebbero coperto casi di pedofilia. Informazioni, opinioni, giudizi, che devono rimanere - d'accordo - fuori dall' iter iuris del processo penale, centrato sul fatto, ma che neppure possono essere tacciati di essere storture mass-mediatiche: perché è proprio questo l'ambito in cui i media svolgono il ruolo di "cani da guardia" della democrazia. Le interazioni non sono - d'accordo - sul piano strettamente giuridico, del processo penale; ma ci sono, e vanno colte su un piano più generale.
D'altro canto, un processo penale che in taluni casi si proietti all'esterno - rispetto al solo fatto accertato o da accertare, ed anche al netto della decisione adottata - non può considerarsi un effetto indesiderato, una clandestina fuga dal processo stesso; piuttosto, può dirsi l'assolvimento dei principi di pubblicità dell'amministrazione della giustizia e di partecipazione, anche diretta, del popolo alle decisioni giudiziarie. Un processo penale, proprio perché è uno dei motori del circuito democratico, può, sempre nei casi di pubblica rilevanza, proiettarsi all'esterno e qui incontrare altre regole (giacché, come correttamente ricorda l'autore, "il circuito mediatico non ha alcuna cura né rispetto per la mediazione tecnica delle categorie penalistiche, né dimostra interesse alcuno per i dispositivi formalizzati"); ma se pure si dovesse sostanziare in "un rimprovero morale (o moraleggiante), un crucifige che di fatto sottende logiche punitive quia peccatum est", il relativo dato meta-giuridico andrebbe inquadrato nel medesimo circuito democratico. Breve: la distinzione troppo netta, da compartimenti stagni, tra censura morale e disvalore penale è non solo un irrealizzabile esperimento da laboratorio, ma non sembra neppure rispondere appieno al disegno costituzionale.
Questo, forse, l'unico chiaroscuro argomentativo, l'unico eccesso di astrazione di un testo che si colloca a buon diritto tra i classici del pensiero penalistico di matrice bolognese (si vedano i saggi di Bricola, Sgubbi, Insolera), che con fughe via via più precipitose dalla dogmatica (e a proposito: viste le ormai innumerevoli nervature, che anche questo testo spiega, ha ancora senso parlare di dogmatica?) si preoccupa di allacciare, spiegando gli uni e le altre, gli istituti giuridici alle fenomenologie sottese e a quelle che si innescano.
Il grande pregio del libro di Vittorio Manes è quello di aver illustrato con precisione chirurgica e analisi scientifica le storture della "Giustizia mediatica" riuscendo a scindere i media (quel quarto potere libero per sua stessa natura: il più svincolato dei poteri, almeno sulla carta) dagli attori della giustizia (del terzo potere, il più vincolato alle forme e dai principi): perché solo questi secondi possono essere razionalmente additati quali artefici/responsabili del "tribunale" penale mass-mediatico.
Ma il sistema giustizia, andrebbe aggiunto, non è composto solo da magistrati che indagano e decidono e da avvocati che difendono, ma anche, volgendo lo sguardo più in alto, dalla politica che in Parlamento è chiamata con razionalità a legiferare, mentre fuori occhieggia strabicamente ai media come proprio - e ormai unico - strumento di legittimazione. Perché non può tacersi che l'opinione pubblica, nel cui seno si registrano le perversioni della giustizia mediatica, è quella stessa cui la politica, in perenne ricerca di facili consensi, attinge a colpi schizofrenici di tweet, di talk, di post su Facebook, di comparsate a favore di telecamera, propinando opinioni raffazzonate e intrise di populismo su ogni vicenda giudiziaria che possa, da una parte o dall'altra, veicolare consenso. E allora se un corto circuito c'è, come c'è, e questo saggio da ultimo lo disvela, forse bisognerebbe chiedersi se il vero artefice/responsabile della "giustizia mediatica" non sia proprio l'odierna politica.