GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    I​l “compiuto” adeguamento alla direttiva 2016/343/UE sulla presunzione d’innocenza

    I​l “compiuto” adeguamento alla direttiva 2016/343/UE sulla presunzione d’innocenza

    Il “compiuto” adeguamento alla direttiva 2016/343/UE sulla presunzione d’innocenza

    di Federica Resta*

    Al fine di determinare il “compiuto adeguamento” dell’ordinamento interno alla direttiva 2016/343/UE, il dlgs 188 del 2021 introduce innovazioni importanti nello statuto delle garanzie del processo penale e nella disciplina della comunicazione giudiziaria. Si prevedono, infatti, non soltanto un articolato sistema di tutele del diritto dell’indagato o dell’imputato a non essere indicato “pubblicamente come colpevole” finché non ne sia definitivamente accertata la responsabilità penale, ma anche nuove modalità di gestione del rapporto tra giustizia e informazione. Parallelamente a queste garanzie extraprocessuali della presunzione d’innocenza, si introducono poi ulteriori garanzie specificamente intraprocessuali, rilevanti (anche) quali parametri di redazione degli atti e regola di “trattamento” dell’indagato e dell’imputato, nella fase anteriore all’accertamento definitivo di responsabilità.

    Sommario: 1. La scelta in favore della delega – 2. Le innovazioni del decreto- 2.1. Il diritto a non essere indicato pubblicamente come colpevole- 2.2. Presupposti e forme della comunicazione giudiziaria – 2.3.2.3. Garanzie e rimedi procedimentali

    1.La scelta in favore della delega

    Il dlgs 188 del 2021, in vigore dal 14 dicembre, segna un passaggio importante nello statuto delle garanzie del processo penale e nel rapporto- complesso tanto quanto centrale per la democrazia – tra giustizia e informazione.

    Sotto il profilo del metodo, rileva anzitutto la scelta parlamentare (derivante dall’accoglimento di un emendamento dell’On. Costa) di conferire al Governo una nuova delega per l’attuazione della direttiva (UE) 2016/343(il cui termine di recepimento era scaduto il 1^ aprile 2018). Una prima delega era, infatti, stata già prevista dalla l. 163 del 2017, ma non era stata esercitata ritenendosi l’ordinamento interno già conforme alla direttiva. La valutazione è tuttavia mutata con la prima Relazione della Commissione europea, del 31 marzo scorso, sullo stato di attuazione della direttiva, rendendo così opportuna anche ad avviso del Governo (che ha reso parere favorevole sull’emendamento) la reintroduzione della delega legislativa all’interno del d.d.l. di delegazione europea e, successivamente, l’emanazione del decreto legislativo in tempi celeri.

    E che si tratti di un tassello ulteriore (non certo l’unico) nel mosaico di norme interne a tutela della presunzione d’innocenza è evidente sin dal titolo del decreto legislativo, che individua nel “compiuto adeguamento” della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva l’obiettivo delle norme introdotte. Gli aspetti più innovativi della direttiva che il Governo ha ritenuto necessario recepire con disposizioni specifiche riguardano, in particolare, il diritto dell’indagato e dell’imputato:

    -a non essere oggetto di dichiarazioni di autorità pubbliche o di decisioni giudiziarie diverse da quelle relative alla responsabilità penale, in cui egli venga pubblicamente presentato come colpevole, nonostante la mancata conclusione del processo (art. 4);

    -a non essere sottoposto a mezzi di coercizione fisica anche in aula di udienza, durante il processo, o comunque in altre circostanze pubbliche, salva la necessità per specifiche esigenze di sicurezza (art. 5):

    -a disporre in caso di violazione di tali garanzie di un ricorso effettivo (art. 10), ovvero di  un rimedio processuale tale da “porre l'indagato o imputato nella posizione in cui questi si sarebbe trovato se la violazione non si fosse verificata, così da salvaguardare il diritto a un equo processo e i diritti della difesa” (C 44).

    Benché “integrative” rispetto al quadro normativo vigente (art. 1 del d.lgs.), quelle previste dal d.lgs. 188 sono, tuttavia, disposizioni di notevole rilevanza. Esse, infatti sanciscono non soltanto un articolato sistema di tutele (anche remediali) del diritto dell’indagato o dell’imputato a non essere indicato “pubblicamente come colpevole” finché non ne sia definitivamente accertata la colpevolezza, ma anche nuove modalità di gestione della comunicazione giudiziaria, suscettibili di avere effetti importanti sulla qualità dell’informazione. Parallelamente a queste garanzie extraprocessuali della presunzione d’innocenza[1] (intesa non solo “come canone di giudizio ma anche come “canone di trattamento” dell’indagato e dell’imputato nella fase antecedente ad una pronuncia definitiva”[2]) l’articolo 4 introduce poi ulteriori garanzie specificamente intraprocessuali, rilevanti (anche) quali parametri di redazione degli atti. Essa declina dunque, in rigorosi canoni di continenza espressiva, il “senso del limite e [..]l’etica del dubbio[3]” cui devono conformarsi le asserzioni dell’autorità giudiziaria prima dell’accertamento definitivo di responsabilità.

    2.Le innovazioni del decreto

    2.1Il diritto a non essere indicato pubblicamente come colpevole

    Sotto il primo profilo rileva, in particolare, l’articolo 2 del d.lgs. 188, che vieta alle “autorità pubbliche” di “indicare pubblicamente” l'indagato o l'imputato come "colpevole", prima dell’adozione di un provvedimento definitivo di condanna. Il ricorso alla nozione lata di “autorità pubbliche” è diretto specificamente ad includere ogni autorità, anche esterna all’ambito giudiziario, titolare di un pubblico potere, conformemente a quanto sancito dalla giurisprudenza della Corte EDU (che ha esteso anche ad autorità politiche, amministrative, elettive l’obbligo del rispetto della presunzione d’innocenza) oltre che dal C 17 della direttiva.

    Quali rimedi attivabili in caso di violazione (ferme le eventuali responsabilità penali e disciplinari dell’autore),  la norma prevede la tutela risarcitoria per equivalente (rispetto al danno, da ritenersi sia patrimoniale che non) e in forma specifica, da attuarsi nelle forme della rettifica, mediante un procedimento speciale rispetto a quello previsto in via generale dalla legge sulla stampa. A fronte dell’istanza di rettifica avanzata dall’interessato, l’autorità pubblica, ritenendo la richiesta fondata, è tenuta a disporre la rettifica (avvisandone l’interessato) entro 48 ore, con le stesse modalità proprie della dichiarazione contestata o, in caso d’impossibilità, con modalità tali da garantire alla rettifica lo stesso rilievo e lo stesso grado di diffusione che hanno caratterizzato la dichiarazione. In caso di mancato accoglimento dell’istanza o di esecuzione della rettifica con modalità diverse da quelle prescritte (proprio per assicurare corrispondenza e omogeneità formale della prima alla dichiarazione originaria), l’interessato ha facoltà di richiedere al tribunale, ex art. 700 c.p.c., l’ordine di pubblicazione della rettifica.  Pur nel silenzio della norma, un’interpretazione della direttiva volta a garantirne l’ “effetto utile” impone di ammettere l’esperibilità di tale rimedio anche nel caso di inerzia, dell’autorità adita, rispetto all’obbligo di provvedere sull’istanza. 

    La norma presenta alcune affinità con altre già proposte in passato, in particolare nella XVI legislatura con l’emendamento a prima firma Casson n.1.287 al disegno di legge in materia di intercettazioni, AS 1611 e il sub-emendamento 1.0.4 all’ AS 3491, in materia di diffamazione. Tuttavia, diversamente dalla norma attuale che circoscrive il proprio ambito applicativo alle dichiarazioni dell’autorità pubblica, le proposte Casson riferivano il diritto di “chiunque” a non essere indicato come autore di reato, prima della definizione del relativo giudizio, genericamente alle dichiarazioni rese “a mezzo della stampa o di qualsiasi altro mezzo di pubblicità”. La proposta Casson (che pure introduceva una tutela remediale attivabile ex art. 700 c.p.c., oltre a quella risarcitoria espressamente estesa anche al danno non patrimoniale) si caratterizzava, dunque, per uno spettro applicativo più ampio, tale da onerare del dovere di rispetto della presunzione d’innocenza anche i giornalisti. In senso analogo si muovevano anche le proposte di revisione del Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica discusse, su impulso del Garante per la protezione dei dati personali nel 2014, ma senza esito risolutivo.

    La limitazione (conforme alla direttiva) della norma attuale alle sole comunicazioni rese dalle autorità pubbliche non esclude, tuttavia, l’autonomo dovere delle testate (in particolare telematiche) di aggiornare, alla sopravvenuta rettifica, la notizia eventualmente riportata sulla base della dichiarazione scorretta degli inquirenti. Tale dovere autonomo deriva, infatti, dall’osservanza del principio di esattezza nel trattamento dei dati (art. 5, p.1, lett.d) Reg. Ue 2016/679), in base al quale una consolidata prassi del Garante per la protezione dei dati personali impone alle emeroteche on line di segnalare l’evoluzione subita dalla notizia (cfr., ad es, provv. n. 286 del 10.12.2020). 

    L’assenza di una espressa clausola di salvaguardia (presente invece nel C 17 della direttiva) in favore delle prerogative immunitarie previste dall’ordinamento (si pensi all’insindacabilità dei parlamentari) non osta, comunque, alla loro applicazione. Essa è, infatti, dovuta secondo un’interpretazione sistematica delle norme, che tenga conto anche del rango normativo (in particolare,  costituzionale) delle garanzie considerate.

    2.2. Presupposti e forme della comunicazione giudiziaria

    Particolarmente rilevante è, poi, l’articolo 3 che novella il decreto legislativo n. 106 del 2006, in relazione ai rapporti del procuratore della Repubblica con gli organi di informazione, innovandone la disciplina sull’an e sul quomodo. In particolare, si introduce un vincolo di esclusività nelle forme da osservare per la gestione di tali rapporti, circoscrivendole ai soli comunicati ufficiali o, nei casi di “particolare rilevanza pubblica dei fatti”, alle conferenze stampa, in quest’ultima ipotesi previa determinazione assunta con atto motivato in ordine alle “specifiche ragioni di pubblico interesse” legittimanti l’iniziativa[4].  Con le stesse modalità, la polizia giudiziaria può essere autorizzata dal procuratore della Repubblica a fornire al pubblico informazioni sugli atti di indagine compiuti. Tale previsione induce a ritenere che la polizia giudiziaria debba ottenere la prescritta autorizzazione in tutte le fasi in cui opera, sia autonomamente ex artt. 347, comma 1, e 348, comma 1, c.p.p. sia dopo l’intervento del Pubblico Ministero ex art. 348, comma 3, c.p.p..

    Le sole forme di comunicazione ammesse divengono, dunque, quelle ufficiali, con assunzione in capo allo stesso Procuratore della Repubblica della responsabilità in ordine alla scelta di attivare o meno la via, a maggiore risonanza, della conferenza stampa in ragione di specifiche ragioni di interesse pubblico che sono oggetto di un peculiare onere motivazionale.

    In ordine all’an della comunicazione, lo stesso articolo subordina l’ammissibilità della “diffusione di informazioni sui procedimenti penali” a presupposti di stretta necessità (della diffusione stessa) per la prosecuzione delle indagini ovvero alla ricorrenza di “altre specifiche ragioni di interesse pubblico”. Si introduce anche un vincolo contenutistico all’informazione, precisando che le informazioni fornite alla stampa debbano chiarire la fase in cui il procedimento si trova e assicurare, in ogni caso, il diritto dell’indagato e dell'imputato a non essere indicati come colpevoli fino a condanna definitiva. Come rileva il Consiglio superiore della Magistratura nel parere del 3 novembre 2021 sullo schema di decreto, il riferimento alla fase procedimentale è particolarmente importante per far comprendere, soprattutto in sede d’indagini preliminari, l’eventuale provvisorietà e transitorietà di alcuni atti e conclusioni.

    Si vieta infine l’assegnazione ai procedimenti penali pendenti, nell’ambito delle comunicazioni ufficiali, di denominazioni lesive della presunzione di innocenza. Si tratta di un criterio di sobrietà comunicativa (applicabile anche alle comunicazioni ufficiali della polizia giudiziaria) che, se osservato nella lettera e nella ratio, potrebbe essere utile a contenere, di riflesso, anche la tendenza al sensazionalismo che spesso caratterizza la cronaca giudiziaria.

    Naturalmente, resta valida per i giornalisti la possibilità di acquisizione di specifiche informazioni sul procedimento penale, non coperte da segreto investigativo, in virtù di istanza di accesso ex art. 116 c.p.p. (ancorata al parametro dell’interesse), valorizzata in particolare da alcuni uffici giudiziari. La Procura di Napoli, ad esempio, con ordine di servizio n. 118/2019 (e dapprima la Procura di Torino, con provvedimento dell’8 ottobre 2018), ha chiarito che l’ostensione di provvedimenti non coperti da segreto investigativo, agli organi di informazione che ne facciano richiesta, deve considerarsi «funzionale ad assicurare, da un lato, il corretto esercizio del diritto di cronaca e, dall’altro, il soddisfacimento dell’interesse pubblico ad un’informazione obiettiva e trasparente in relazione a fatti di rilevanza ed interessi collettivi, fermo restando il divieto di pubblicazione del testo dei provvedimenti giudiziari di cui all’art. 114 c.2 c.p.p.»[5]. Può, anzi, ragionevolmente ipotizzarsi che proprio la limitazione dei casi e dei modi nei quali è ammessa la comunicazione da parte degli uffici giudiziari, valorizzi ulteriormente lo strumento dell’accesso, da parte dei giornalisti, agli atti procedimentali ex art. 116 c.p.p. Questa soluzione potrebbe contribuire, in particolare, ad evitare il rischio che al “possibile arbitrio della parola si sostituisca un “arbitrio del silenzio”, che sottragga, per tempi più o meno lunghi, alla conoscenza ed al controllo dell’opinione pubblica informazioni non coperte da alcun segreto, che vengono mantenute riservate solo per valutazioni di opportunità compiute dagli inquirenti”[6].

    In linea generale, attraverso la riduzione delle possibilità di comunicazione “della giustizia sulla giustizia” ai soli canali ufficiali e formali,  si riduce significativamente “il rischio di trascinamento del pubblico ministero in sistemi di relazione non coerenti con il suo statuto di imparzialità[7]”.

    2.3. Garanzie e rimedi procedimentali

    L’articolo 4 interviene, invece, sulla dimensione processuale della presunzione di innocenza, rendendola più espressamente criterio di redazione anche degli atti processuali[8]. Con uno specifico articolo (il 115-bis, inserito tra le disposizioni generali del Libro II del codice di rito e rubricato "Garanzia della presunzione di innocenza"), si vieta l’indicazione come colpevole dell’indagato o dell’imputato, prima della condanna definitiva, nei provvedimenti adottati nel corso del procedimento, diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale e dagli atti con i quali il Pubblico Ministero tende a dimostrare la colpevolezza del soggetto.

    Il rimedio attivabile in caso di ritenuta violazione del suddetto divieto consiste nell’istanza di correzione, necessaria alla salvaguardia della presunzione d’innocenza, da presentare- a pena di decadenza entro dieci giorni dalla conoscenza del provvedimento- al giudice procedente (il gip per le indagini preliminari), che provvede con decreto motivato entro 48 ore. Il decreto, che è notificato all'interessato e alle altre parti e comunicato al Pubblico Ministero, è opponibile (a pena di decadenza entro dieci giorni) al Presidente del Tribunale o della Corte (ovvero, ove siano opposti provvedimenti di questi ultimi, rispettivamente, al presidente della Corte d’appello o al Presidente della Corte di cassazione), che decide “con decreto senza formalità di procedura”. La norma è stata così modificata, rispetto alla versione originaria del decreto (che prevedeva l’opposizione dinanzi alla stessa autorità procedente) sulla scorta dei rilievi contenuti nei pareri parlamentari, al fine di assicurare maggiore conformità alla  garanzia, di cui all’art. 10 della direttiva, di effettività del ricorso attivabile in caso di violazione. 

    Il rimedio endo-procedimentale introdotto dal d.lgs. 188 si aggiunge, dunque (escludendone, per il principio di specialità, la concorrenza) a quello previsto in via generale dall’art. 14 del d.lgs. 51 del 2018 per la rettifica, limitazione (del trattamento) o cancellazione di dati (di “chiunque”) illegittimamente trattati nell’ambito del procedimento penale. Prima dell’introduzione, da parte del d.lgs. 188, dello specifico rimedio su descritto, la procedura (modulata su quella per la correzione degli errori materiali) di cui al citato art. 14 ben avrebbe potuto, infatti, prestarsi alla rettifica del dato (trattato appunto illegittimamente perché in violazione della presunzione di innocenza) relativo a un’anticipazione di giudizio di colpevolezza dell’indagato o dell’imputato.            

    Come ulteriore criterio di continenza espressiva, relativamente agli atti (ad esempio quelli in materia cautelare) che presuppongono la valutazione di prove o di indizi di colpevolezza, si impone di  limitare i riferimenti alla colpevolezza dell'indagato o dell’imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti previsti dalla legge per l'adozione del provvedimento stesso.

    In ottemperanza ai rilievi delle Commissioni parlamentari, conformemente all’articolo 7 della direttiva sul diritto al silenzio e a non autoincriminarsi, l’art. 4, comma 1, lettera b) del d.lgs. 188 novella l’articolo 314  c.p.p. precisando che l’esercizio del diritto al silenzio ex art. 64, comma 3, lett. b), c.p.p. non incide sul diritto alla riparazione per ingiusta detenzione. La previsione supera, dunque, un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui «la condotta dell'indagato che, in sede di interrogatorio, si avvalga della facoltà di non rispondere, pur costituendo esercizio del diritto di difesa, può assumere rilievo ai fini dell'accertamento della sussistenza della condizione ostativa del dolo o della colpa grave, poiché è onere dell'interessato apportare immediati contributi o riferire circostanze che avrebbero indotto l’autorità giudiziaria ad attribuire un diverso significato agli elementi posti a fondamento del provvedimento cautelare» (cfr., Cass. pen., 18 dicembre 2020, Gallo, Ced Cass. n. 280082; Cass. pen., 30 maggio 2018, Stamatopoulou, ivi, n. 273744; Cass. pen. 29 novembre 2011, Messina e altro, ivi, n. 251325). La norma valorizza, dunque, gli effetti pur extraprocessuali del diritto al silenzio, sviluppando così in senso ulteriormente garantista le norme della direttiva.

    L'articolo 4 novella, inoltre l’articolo 329 c.p.p. limitando- in aderenza alla previsione dell'articolo 4, par. 3, della direttiva -ai soli casi di “stretta” necessità per la prosecuzione delle indagini l’ammissibilità della pubblicazione di singoli atti relativi alle indagini preliminari in deroga al segreto investigativo. La norma è evidentemente funzionale a ridurre quanto più possibile l’ammissibilità della discovery di atti interni ad indagini ancora in corso e, dunque, “potenzialmente idonei a fornire [ dell’indagato] un’immagine in contrasto con la presunzione di innocenza” (parere CSM, cit.).

    Viene inoltre modificato l’articolo 474 c.p.p., in ordine al diritto dell'imputato di assistere all'udienza libero nella persona, anche se detenuto, salve in questo caso le cautele necessarie per prevenire il pericolo di fuga o di violenza. Sul punto, il d.lgs. 188 precisa che le eventuali cautele sono disposte dal giudice con ordinanza, sentite le parti e devono essere rimosse con revoca quando ne siano cessati i presupposti. Si impone, poi, di garantire sempre il diritto dell'imputato e del difensore (dunque anche laddove il primo sia allontanato dal secondo perché sottoposto a misure restrittive) di consultarsi riservatamente, anche attraverso l'impiego di strumenti tecnici idonei, ove disponibili.

    Tali ultime modifiche muovono dall’esigenza di garantire una maggiore conformità al diritto – sancito dall’articolo 5 della direttiva in capo all’imputato e all’indagato- di non essere presentato come colpevole, in tribunale o in pubblico, mediante il ricorso a misure di coercizione fisica. Si tratta di un’implicazione delicatissima della presunzione d’innocenza, che attiene a una prassi – più volte denunciata dal Garante per la protezione dei dati personali, nei confronti degli organi d’informazione ma anche, talora, della stessa polizia giudiziaria- fortemente lesiva della dignità, anche in ragione dell’eco mediatica che hanno le riprese della persona soggetta a misure restrittive[9]. I divieti già previsti agli articoli 114, c.6-bis, c.p.p., 42-bis, comma 4, l. 354 del 1975 e 8, c.3 delle Regole deontologiche relative al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica non hanno, infatti, sinora rappresentato un argine significativo alla tendenza alla spettacolarizzazione della cronaca giudiziaria, che si esprime anche mediante l’esibizione dell’indagato o dell’imputato in vinculis.

    La previsione si lascia comunque apprezzare anche e soprattutto perché, procedimentalizzando    forma e presupposti per l’adozione del provvedimento limitativo della libertà personale dell’imputato in udienza, impone una precisa e motivata assunzione di responsabilità dell’autorità procedente, nel confronto con le parti, in ordine alla disposizione di mezzi coercitivi. Ciò dovrebbe servire a eradicare una prassi secondo cui tali scelte (e in particolare la collocazione dell’imputato nelle gabbie o in “banchi dedicati” che ancora caratterizzano molte aule di giustizia) sono spesso assunte, secondo automatismi dettati da mere esigenze facilitative, dagli agenti  di scorta.

    Fra l’altro, la circostanza che l’intero intervento normativo in esame riconosca specificamente come lesivo del diritto dell’imputato ogni intervento illegittimamente lesivo della presunzione di innocenza, comporterà probabilmente effetti espansivi, interni al processo, dell’eventuale accertamento, anche successivo, di tale lesione. Con riferimento alla norma sui mezzi coercitivi in udienza, ad esempio, l’accertamento, anche successivo, dell’assenza di ragioni legittimanti l’adozione degli stessi potrebbe determinare conseguenze processuali non irrilevanti. La naturale forza espansiva del concetto di “intervento” dell’imputato, di cui all’art. 178, comma 1, lett. c) c.p.p. sembra, infatti, poter includere il momento decisivo della sua partecipazione  all’udienza, di cui all’art. 474 c.p.p. Del resto, anche la previsione del diritto dell'imputato e del difensore di consultarsi riservatamente, anche attraverso l'impiego di strumenti tecnici idonei- in modo analogo a come oggi previsto in caso di partecipazione all’udienza da remoto- induce a ritenere leso il diritto di assistenza dell’imputato da parte del suo difensore, ancora una volta tutelato dall’art. 178, comma 1, lett. c) c.p.p., laddove non gli sia garantita la possibilità di consultazione riservata.

    Anche sotto questo profilo, dunque, il d.lgs. 188 potrebbe indurre, effettivamente, un mutamento importante nella comunicazione sulla giustizia; non solo per le disposizioni introdotte ma anche per le ragioni che sottendono e la “cultura” che intendono promuovere.

    In un contesto di costante trasposizione in rete non soltanto dell’informazione, ma anche della stessa vita, pubblica e privata,  uno dei maggiori rischi del “trial by media” è infatti quello di indurre una generale sottovalutazione delle garanzie proprie del processo penale: dalla presunzione d’innocenza al regime di pubblicità degli atti, volto a coniugare esigenze informative, investigative e neutralità conoscitiva del giudice. Come osserva Nello Rossi, infatti, i “pregiudizi” (certo alimentati dalla mediatizzazione dei processi) rischiano di “sminuire, offuscare, compromettere il valore delle procedure legali di accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità (…). Come la CEDU ha più volte avvertito «il costante spettacolo di pseudo-processi condotti dai media potrebbe nel lungo periodo, avere nefaste conseguenze quanto all’accettazione, da parte dell’opinione pubblica, dei tribunali ufficiali come reale e unico foro per la determinazione della colpevolezza o dell’innocenza dei singoli”[10].  La rete rischia, in altri termini, di divenire quel giudice “che infligge ciecamente destino” cui alludeva Walter Benjamin.

    Naturalmente, non saranno solo le norme a poter garantire un equilibrio, democraticamente sostenibile, tra diritto di (e all’) informazione, dignità dei soggetti coinvolti nel processo, presunzione d’innocenza ed esigenze di accertamento dei reati. Molto dipenderà da come, magistratura  e organi d’informazione, interpreteranno il loro ruolo, prescindendo la prima dalla ricerca del consenso e i secondi da quello che Luciano Violante definisce “giornalismo per trascrizione”.  Ma alla promozione di questa cultura (della giurisdizione e dell’informazione e del loro rapporto reciproco), norme quali quelle introdotte dal decreto sono certo funzionali.

    * le opinioni contenute nel contributo sono espresse a titolo esclusivamente personale e non impegnano in alcun modo l’Autorità di appartenenza

     [1]La presunzione d’innocenza si riferisce, già nella direttiva, esclusivamente alle persone fisiche, ritenendone allo stato attuale “prematura” – precisa il Considerando 14- l’estensione alle persone giuridiche.

    [2] N. Rossi, Il diritto a non essere “additato” come colpevole prima del giudizio. La direttiva UE e il decreto legislativo in itinere, in Questionegiustizia.it

    [3]A. SPATARO, “Processi in tv, troppi magistrati tra i nuovi “mostri”, in Il dubbio, 5 novembre 2021; dello stesso Autore v. anche il contributo sul d.lgs. 188 pubblicato su questa Rivista.

    [4] Quest’onere procedurale è stato introdotto nella versione finale del decreto legislativo, in recepimento di specifico rilievo contenuto nel parere delle Commissioni parlamentari.

    [5] L’ordine di servizio indica, inoltre, quali parametri in base ai quali valutare la meritevolezza di accoglimento dell’istanza i seguenti: il rilascio della copia non deve interferire con le investigazioni in corso e con l’esercizio dell’azione penale e deve avere luogo nel rispetto del segreto delle indagini e del principio di riservatezza; ii) il rilascio della copia non deve ledere la tutela dei diritti dei soggetti coinvolti nel procedimento o dei terzi; iii) il rilascio della copia è effettuato evitando ogni ingiustificata comunicazione di dati sensibili ed assicurando l’osservanza del divieto di diffusione delle generalità di minori e, più in generale, dell’obbligo della loro protezione; iv) il rilascio della copia è effettuato evitando ogni ingiustificata diffusione di notizie ed immagini potenzialmente lesive della dignità e della riservatezza delle vittime e delle persone offese dai reati, in particolari se minori.

    [6]N. Rossi, op.loc.ult.cit.

    [7]G. MELILLO, La comunicazione dell’ufficio del pubblico ministero, in questa Rivista.

    [8]Riferimenti in questo senso erano comunque contenuti già nelle Linee guida del CSM dell’11 luglio 2018.

    [9]Cfr., ad es., Garante per la protezione dei dati personali, provv. n. 80 del 2021, nonché Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, circolare 19.12.2017, diretta tra l’altro alle autorità di polizia, secondo cui “le SS.LL. vorranno assicurare – impartendo ogni opportuna disposizione agli uffici e ai comandi dipendenti – la più scrupolosa osservanza del divieto di indebita diffusione di fotografie o immagini di persone arrestate o sottoposte ad indagini nell’ambito di procedimenti la cura dei quali competa a questo Ufficio, segnalando preventivamente le specifiche istanze investigative o di polizia di prevenzione ritenute idonee a giustificare eventuali, motivate deroghe al principio sopra richiamato”.

    [10] Il diritto a non essere “additato” come colpevole prima del giudizio. La direttiva UE e il decreto legislativo in itinere, in Questionegiustizia.it

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