ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
“In qualunque comunità la libertà non è effettiva se non è appannaggio di tutti.”
Sergio Mattarella, Inaugurazione a.a.2022-23,Università degli studi della Basilicata
Diritto e Persone LGBTQI+: progredire nella protezione delle libertà individuali avendo a cuore anche la dimensione sociale in cui si inseriscono e favorire il più possibile una gradualità senza strappi che possano generare una reazione regressiva e nuocere all’effettività del diritto colpendo in primo luogo chi è più vulnerabile.
Sommario: 1. Un libro “diverso” dagli altri. - 2. Alcune fonti internazionali di protezione. - 3. Perduranti vulnerabilità nell’ordinamento, i casi più evidenti. - 4. Ruolo dell’interpretazione giuridica e del diritto comparato in materia. - 5. Libertà di espressione e Hate Speech: quale tutela? – 6. Verso l’individuazione di nuove obbligazioni positive per lo Stato.
1. Un libro “diverso” dagli altri.
I contributi che compongono l’articolato volume “Diritto e Persone LGBTQI+” pubblicato per i tipi di Giappichelli nel 2022 permettono di approfondire diversi profili che compongono il quadro sfaccettato della protezione di molti diritti fondamentali, con riferimento soprattutto al diritto alla vita e alla proibizione di trattamenti inumani e degradanti, al divieto di discriminazione, al principio di uguaglianza, alla libertà di espressione, ai discorsi d’odio, alla protezione della vita privata e familiare. Questo variegato contesto argomentativo stimola molto il lettore attento, sollevando interrogativi in una certa misura trasversali alla netta distinzione civile-penale della protezione accordata ai diritti - e ai correlati doveri -, non pochi dei quali non trovano ancora una risposta pienamente soddisfacente nel nostro ordinamento giuridico.
2. Alcune fonti internazionali di protezione.
Un punto di forza nella protezione dei diritti LGBTQI è sicuramente la pluralità di fonti internazionali in Europa che li presidia e il dialogo tra Corti, anche sovranazionale, teso ad un completamento delle tutele. Si pensa spesso e giustamente alla giurisprudenza della Corte Edu[2], ma non va dimenticato che esiste, nell'ambito del Consiglio d'Europa, anche un'importante Raccomandazione del Consiglio d'Europa agli Stati membri[3] sulle misure volte a combattere la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale e l’identità di genere. Inoltre, l'Unione Europea ha introdotto una serie di disposizioni a tutela del principio di eguaglianza e proibizione della discriminazione a causa dell'orientamento sessuale, sia a livello di Trattati[4], che di Direttive antidiscriminatorie[5], particolarmente pregnanti nel settore del lavoro ed impiego[6] in cui il diritto unionale è, non di rado, una tutela più avanzata della Convenzione stessa. Questa rete di protezione offre scudo a molte fragilità, ma ci sono diverse aree di perduranti vulnerabilità in materia.
3. Perduranti vulnerabilità nell’ordinamento, i casi più evidenti.
I punti di frizione maggiormente acuta tra i diritti LGBTQI e il nostro ordinamento giuridico sono bene messi in evidenza nel volume. In disparte dalla questione del procedimento di riconoscimento giuridico dell’identità di genere[7], si consideri il contesto dell'immigrazione in cui l’orientamento sessuale e l’identità di genere sono un fattore di discriminazione particolarmente serio[8]. Di questo la Corte di Cassazione è ben consapevole e prende sul serio i doveri motivazionali del giudice allorquando un rifugiato deduca la minaccia concreta di diritti assoluti (vita) per la suddetta discriminazione[9] ai fini del “non refoulement”: se l’inattendibilità del richiedente investe il vissuto posto a fondamento della domanda di protezione, essa potrà giustificarne il rigetto del ricorso solo a condizione che il rimpatrio non debba avvenire verso Paesi nei quali sia esposto a rischio della vita o dell'incolumità fisica[10].
Come noto, un ulteriore aspetto di potenziale vulnerabilità riguarda la posizione dei figli di coppie omogenitoriali[11], affrontato in più contributi nel volume[12] e, tra questi, la tutela del rapporto tra il figlio nato da “gestazione per altri” con il “genitore d’intenzione”. Si tratta di una difficile questione oggetto da anni di un ampio dibattito giurisprudenziale e dottrinale che cerca di conciliare, alla luce del criterio di proporzionalità, lo scopo legittimo perseguito dall’ordinamento di disincentivare il ricorso alla “gestazione per altri”, sanzionato penalmente dall'art. 12, comma 6, della l. n. 40 del 2004 e riconosciuto integrare un principio di ordine pubblico posto a tutela di valori fondamentali quali il rispetto della dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione, con il “best interest of the child”, questione sulla quale la Corte Costituzionale ha richiamato l’attenzione del legislatore[13], sino ad ora invano.
Recentemente la Cassazione è tornata ad intervenire a Sezioni Unite[14] giungendo, attraverso un’ampia e argomentata ricostruzione, a quella che è stata definita una sentenza “di sistema”[15]. La Corte ha constatato che “Il legislatore è rimasto finora inerte” e ha confermato che l’adozione in casi particolari, disciplinata dall'art. 44, comma 1, lett. d) della l. n. 184 del 1983[16], allo stato attuale dell’evoluzione dell’ordinamento, è lo strumento con il quale tutelare il diritto fondamentale del minore, nato all'estero mediante il ricorso alla “gestazione per altri”, al riconoscimento del legame giuridico sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con il “genitore d’intenzione”. Esso consente, ricorda la Corte, da un lato, di conseguire lo "status" di figlio e, dall'altro, di riconoscere giuridicamente il legame di fatto con il "partner" del genitore genetico che ne ha condiviso il disegno procreativo concorrendo alla cura del bambino sin dal momento della nascita. La vulnerabilità e il mancato raggiungimento del pieno interesse del minore permangono non solo per la lunghezza della procedura, ma plasticamente nel caso in cui l’adozione non sia possibile, come nel caso di premorienza e, a differenza dell’adozione piena e legittimante, vi è necessita comunque del consenso del genitore biologico[17], mentre sul piano dell’efficacia è stata superata l’iniziale assenza di instaurazione di rapporti di parentela dell’adottato con la famiglia dell’adottante grazie alla recente sentenza della Corte costituzionale n.79/2022[18].
Il quadro è ulteriormente complicato dal fatto che lo “status filiationis” è oggetto di una proposta di regolamento armonizzato, presentata dalla Commissione europea il 7 dicembre 2022 e diretta ad introdurre un regime uniforme in materia di giurisdizione e legge applicabile alla filiazione caratterizzata da profili transnazionali[19], iniziativa inclusa tra le priorità della strategia dell’UE sia per l’uguaglianza LGBTQI sia per i diritti dei minori[20]. Il tema è particolarmente sentito in Italia, anche per il fatto che manca una moderna legge sull’adozione e lo spostamento della pratica procreativa all’estero ormai da parte di molte coppie non tradizionali internazionalizza sotto vari profili la tutela del nato la quale, oltretutto, va tenuta distinta dalla tutela del “genitore d’intenzione”, come ricorda la Consulta[21]. La proposta di regolamento non è un modo per aggirare la pratica della “gestazione per altri”, vietata in buona parte degli Stati UE, ma si pone l’obiettivo di proteggere i diritti fondamentali dei minori in molte situazioni transfrontaliere, incrementando la certezza del diritto in tali casi e riducendo i costi e la lunghezza delle procedure per le famiglie e gli Stati membri coinvolti.
4. Ruolo dell’interpretazione giuridica e del diritto comparato in materia.
Questione centrale nell’intero libro, che balza all’evidenza del lettore, è il tema dell'interpretazione giuridica, nel perimetro non ampio dello ius dicere appena ricordato anche dai citati interventi della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite[22], ed è di consistente complessità sia per gli interessi e diritti fondamentali sostanziali da tutelare, sia sul piano tecnico per l’internazionalizzazione della materia.
Ci si può nondimeno chiedere se l’interpretazione giuridica debba essere fondata solo sulla lettera della legge, ad esempio per negare o meno la trascrizione di atti di nascita che indichino una coppia dello stesso sesso come genitori[23]. Vengono talvolta riproposte delle letture 'originaliste' che raramente sono state proprie della nostra tradizione sull'interpretazione ed evoluzione dei diritti fondamentali[24]. Infatti, tale opzione è diffusa nel costituzionalismo nordamericano di common-law[25], il quale privilegia nell’interpretazione l’obiettivo e ragionevole significato originario, ossia l’intenzione dei padri costituenti al momento in cui è stato adottato il testo, e ciò conduce per lo più a letture rigorosamente testuali ed anche ad una significativa restrizione dell’area semantica e di applicazione dei diritti fondamentali. Ad essa si contrappone la “living instrument doctrine”, che si propone di interpretare il testo costituzionale alla luce delle condizioni attuali, accolta dalla Corte EDU già nel 1978 con la sentenza Tyrer[26]. Il principio di diritto, nelle sue elaborazioni successive, è divenuto un metodo di interpretazione del testo costituzionale che deve tener conto anche degli sviluppi del diritto internazionale, e un simile approccio è stato accolto dalla stessa giurisprudenza costituzionale con riferimento all'art.2 Cost., inteso come clausola a fattispecie aperta[27] per giungere all’enucleazione di “nuovi diritti” emergenti dall’evoluzione della coscienza sociale e che oggi sono pacificamente diritto vivente[28].
Un aspetto molto rilevante in punto di interpretazione giuridica è poi il ruolo dell'analisi di diritto comparato per la protezione dei diritti LGBTQI[29]. Questo apporto indiretto al regolamento della fattispecie lega gli ordinamenti tramite la condivisione di prassi normative ed applicative tendenti alla ricerca di una certa omogeneità tra Stati membri del Consiglio d’Europa e, soprattutto, tra Stati aderenti all’Unione Europea[30]. La ricerca delle tradizioni costituzionali comuni è importante nella giurisprudenza della Corte di Giustizia[31] e, più in generale, si consideri il ruolo del diritto comparato nella decisione dei ricorsi più complessi da parte della Corte di Strasburgo. Questo avviene normalmente tenendo conto di analisi di diritto comparato alla ricerca dell’eventuale “consensus” o trend tra Stati membri del Consiglio d’Europa sulla regola data in sede nazionale a questioni analoghe a quella controversa, ricerche condotte al fine di stabilire l’ampiezza del “margine di apprezzamento” di cui gode lo Stato responsabile[32]. Anche nell’ambito dell’Unione Europea e proprio con specifico riferimento ai diritti di cui qui si discute, sono reperibili per gli interpreti attendibili e aggiornate ricerche comparatistiche che coprono gli Stati UE e non solo, presso la Fundamental Rights Agency[33].
L’analisi comparata non è solo appannaggio della Corte Edu, bensì una risorsa che può essere utile ad orientare talvolta anche il giudice nazionale, primo e principale giudice dei diritti fondamentali. Si pensi ad es. al bilanciamento, in materia antidiscriminatoria, tra diritti confliggenti ed egualmente protetti[34]. Oppure, al classico - e non condiviso dalla consolidata giurisprudenza della Corte EDU - argomento della preclusione alla libertà di espressione avente ad oggetto diritti delle persone omosessuali o con relazioni non tradizionali, giustificata con la necessità di perseguire il fine legittimo della protezione della morale, o proteggere i diritti degli altri, individuati nella maggioranza eterosessuale[35].
5. Libertà di espressione e Hate Speech: quale tutela?
Un taglio particolarmente interessante del libro è poi la non rigida distinzione tra tutela civile e penale, con riferimento alla tecnica di protezione: questo a ben vedere emerge anche nelle parti in cui si discute di fattispecie prima facie tipicamente civilistiche, come ad esempio i temi più complessi della omogenitorialità[36], o tipicamente penalistiche, laddove ad esempio si approfondisce la tutela dei detenuti transgender e la somministrazione dei farmaci ormonali richiesti[37]. Dal tessuto narrativo emergono punti di contatto trasversali anche in ragione del fatto che il diritto internazionale in materia è cruciale e, come noto, sia nella giurisprudenza della Corte EDU che della Corte di Giustizia non sempre le categorie utilizzate sono sovrapponibili alla distinzione civile-penale propria del diritto interno nazionale.
Nelle parti del libro in cui si ragiona de iure condendo sugli strumenti più adatti per assicurare il contrasto dell’Hate Speech e della discriminazione, se attraverso il ricorso alla tutela penale o ad altri strumenti[38], sono numerosi gli interrogativi sapientemente stimolati, sia in ragione della peculiare natura dei diritti da proteggere, sia del non omogeneo contesto culturale in Italia in cui la protezione dei diritti dev’essere assicurata.
Emblematica è la tutela della libertà di espressione, funzionale alla protezione di una costellazione di diritti, tra cui quelli in parola, e alla sua nemesi, l’abuso del diritto di parola, ossia l’Hate Speech basato sulla discriminazione di genere e di orientamento sessuale[39].
Personalmente ritengo che in questo segmento dei diritti delle persone, la loro tutela come diritti fondamentali, aiuti a “sdrammatizzare” il problema del rapporto tra i diritti sottesi e libertà di espressione e che, al contrario, la ricerca di una esclusiva repressione penale dei comportamenti lesivi dei diritti, anche quando tecnicamente efficace, rischi di “enfatizzare” tale conflitto[40], con il risultato che il rimedio possa anche rivelarsi in una certa misura controproducente per il bene giuridico che si vuole tutelare.
L’aspetto focale non pare tanto quello del rischio di generare attraverso la repressione penale una c.d. “discriminazione alla rovescia” della maggioranza, profilo da non sottovalutare, ma ragionevolmente superabile con adeguati accorgimenti tecnici, come ad esempio il riferimento, che emerge dall’analisi comparata, ad un ampio “orientamento sessuale e identità di genere” che potenzialmente escluda una discriminazione alla rovescia[41].
Piuttosto, il punto è che la fondamentale libertà di espressione è un diritto per sua natura “relativo”, il quale tradizionalmente si confronta ed entra in bilanciamento - seguendo il paradigma tassonomico elaborato dalla CEDU per i diritti umani - con la necessità di rispettare molti diritti[42], tra cui quelli degli “altri”, ossia la maggioranza che segue orientamenti sessuali, di famiglia e di genere tradizionali. L’intervento lesivo del diritto della persona LGBTQI viene allora per lo più giustificato con la necessità di tutelare dei fini legittimi sensibili, individuati spesso nel rispetto della morale, della salute, della protezione di minori da atti osceni, dei valori tradizionali, della volontà della maggioranza, dell’educazione della prole da parte delle famiglie tradizionali, elementi tutti che in una sfera pubblica entrano in bilanciamento con l’esercizio della libertà individuale. Non solo, vi è una libertà di espressione di contenuto opposto, spesso condiviso dalla maggioranza sia pure con diverse gradazioni, che nel caso concreto può anche giungere a valicare i limiti e, se non contrastata, rivelarsi pericolosa e potenzialmente distruttiva per la persona appartenente alla minoranza.
6. Verso l’individuazione di nuove obbligazioni positive per lo Stato.
La delineata complessa fattispecie bene può essere governata con le categorie del rispetto dei diritti fondamentali e può essere d’aiuto all’interprete nazionale l’ormai articolata casistica e interpretazione fornita dalle Corti internazionali europee, in grado di costituire anche un parametro di omogeneità nel regolamento di gran parte dei casi. Al contrario, una concezione pan-penalistica nazionale della tutela, rimettendo buona parte delle scelte a monte al legislatore e in parte anche al capo dell’ufficio demandato all’esercizio dell’azione penale, rischia di isolare e sottrarre in misura considerevole il caso concreto al confronto sia con le risultanze dell’analisi di diritto comparato[43], sia con la costante evoluzione della giurisprudenza sovranazionale in materia e può rivelarsi di dubbia efficacia.
Infatti, è soprattutto grazie alle decisioni della Corte EDU nei noti casi italiani Sallusti[44] e Belpietro[45] che anche nel nostro Paese si è acquisita maggiore consapevolezza di come l'applicazione della legge penale nella sfera della libertà di espressione possa a volte generare più problemi di quanti miri a risolvere e, in non pochi casi, essere considerata uno strumento sproporzionato in una società democratica, anche quando diretto a tutelare diritti pacificamente meritevoli di protezione[46].
Inoltre, la sanzione penale non è efficace per una omogenea tutela del bene giuridico sul territorio nazionale, se il disvalore del comportamento non è adeguatamente percepito, come è emerso nel caso Sabalić[47]: la Croazia è stata condannata dalla Corte EDU per aver sanzionato in sede penale il comportamento di un uomo che in discoteca aveva preso a pugni e calci una donna che lo aveva rifiutato rivelandogli la sua omosessualità con l’applicazione di una risibile ammenda di 40 euro per interruzione della pace e ordine pubblico, senza individuare e affrontare il grave attacco omofobico perpetrato, attività oltretutto preclusa in un ulteriore processo penale dal principio del ne bis in idem.
In generale, una mera tutela repressiva in sede penale del singolo comportamento lesivo lascia appena scalfito il problema centrale complessivo che è innanzitutto culturale: al di là di reprimere interferenze negative con il diritto protetto, come naturalmente necessario nei casi più gravi, è auspicabile individuare delle precise obbligazioni positive a carico dello Stato responsabile, al fine di assicurare che siano al massimo contenute le discriminazioni per orientamento sessuale e di genere.
L’enucleazione di comportamenti attivi che lo Stato deve tenere[48] - la Corte EDU fa riferimento alla categoria delle “positive obligations” - in una certa misura è possibile anche nelle relazioni orizzontali tra privati, nell’ambito delle quali lo Stato non può permettere discriminazioni nell’esercizio di diritti protetti. Così, fermo restando che dev’essere attinto un livello minimo di severità della discriminazione[49], la condanna per violazione di obbligazioni positive tipicamente può essere fatta valere nei rapporti di lavoro privato, nei confronti dei quali lo Stato responsabile è terzo, ma nei quali questi non può consentire discriminazioni basate unicamente sul genere e orientamento sessuale[50]. Egualmente, è sanzionata anche la violazione di obblighi procedurali per mancata preventiva protezione contro crimini d’odio nei confronti di persone LGBTQI[51], come pure la carente efficace indagine successiva alla violazione motivata da discriminazione e odio[52].
Ci sono significativi sviluppi in corso: nell’ambito del diritto armonizzato, il Parlamento europeo ha adottato il 14 settembre 2021 una risoluzione sui diritti delle persone LGBTQI nell'UE[53], diretta ad affrontare non solo il contrasto alla discriminazione, peraltro non ancora pienamente raggiunta nel nostro ordinamento giuridico, ma anche il perseguimento in senso positivo dell’uguaglianza, delineando un cambio di paradigma e un innalzamento della tutela.
Sulla medesima linea d’azione, l’evoluzione della giurisprudenza della Corte EDU sta individuando progressivamente nuove obbligazioni positive per lo Stato anche nell’ambito del riconoscimento e protezione delle stesse relazioni affettive non tradizionali, sotto l’angolo dell’art.8 CEDU. Si pensi al recente caso Fedotova[54], in cui la Federazione russa è stata condannata per aver mancato di riconoscere giuridicamente e proteggere le relazioni tra tre coppie omosessuali, mancando di adempiere alle proprie obbligazioni positive discendenti dall’art.8 della Convenzione, sia sotto il profilo della vita privata che sotto quello della vita familiare, sempre sulla scorta di un’attenta analisi di diritto comparato, da cui è emersa l’irragionevole eccentricità della posizione dello Stato responsabile. La maggioranza del Collegio di grande Camera non ha ritenuto di dover esaminare separatamente la questione sotto il profilo del contrasto alla discriminazione di cui all’art.14 CEDU, a conferma di un orientamento giurisprudenziale che si va rafforzando nel senso della tutela dell’eguaglianza e di un confronto costante con quanto avviene in situazioni analoghe in simili società democratiche.
Certo, dobbiamo avere a cuore non solo le libertà individuali in sé, ma anche la dimensione sociale in cui si inseriscono, che è soggetta a costanti e talvolta rapidi mutamenti, ma è pur sempre definita a partire dalla identità culturale del Paese la quale, con tutti i suoi limiti e compromessi, costituisce l’assetto valoriale che permette alle persone di essere libere nella nostra società. Quindi libertà individuale e innovazione certo, ma senza umiliare la nostra tradizione e favorendo il più possibile una gradualità senza strappi che possano generare una reazione regressiva e nuocere all’effettività del diritto colpendo in primo luogo chi è più vulnerabile.
È anche opportuno preservare la diversità di visioni su questo tema e sono anzi da valorizzare gli equilibri cangianti che la società determina, per favorire il dialogo e la condivisione di un metodo comune, democratico che, si spera, raggiunga un esito parlamentare durevole. Sfogliando le ultime pagine del libro, si coglie bene l’attesa per un intervento del legislatore che, a differenza della primavera 2023, come nella canzone di Battiato “tarda ad arrivare”.
*
[1] Il contributo riprende spunti proposti da chi scrive all’incontro di studi organizzato da Area Democratica per la Giustizia al Palazzo di Giustizia di Milano il 16 Marzo 2023, in cui è stata discussa l’opera “DIRITTO E PERSONE LGBTQI+” edita da Giappichelli, 2022, a cura di Marco Pelissero e Antonio Vercellone, alla presenza dei curatori.
[2] Solo sull’identità di genere, basti qui richiamare quattro significative sentenze rese dalla Corte EDU: 11 luglio 2002, Christine Goodwin c. Regno unito, che ha riconosciuto l’assenza di significativi fattori di interesse pubblico che possano bilanciare l’interesse individuale ad ottenere il riconoscimento legale della riassegnazione di genere; 10 marzo 2015, Y.Y. c. Turchia, che ha riconosciuto come il diritto delle persone transessuali allo sviluppo della propria personalità e alla propria integrità fisica e morale sono diritti umani protetti dalla Convenzione; 6 aprile 2017, A.P., Garçon e Nicot c. Francia, che ha dichiarato la violazione dell’art.8 CEDU per aver lo Stato responsabile negato ad una persona transessuale, che non voleva sottoporsi alla riassegnazione di genere chirurgica, il riconoscimento della propria identità di genere, non potendo questa essere condizionata alla perdita del pieno esercizio del diritto alla propria integrità fisica; 31 gennaio 2023, Y. c. Francia, in cui la Corte EDU ha rigettato il ricorso di una persona intersessuale che ha chiesto la sostituzione nel suo certificato di nascita del genere “maschile” con “neutro” o “intersex”, considerato il fatto che la decisione non riguarda solo la tutela della posizione individuale alla rettifica dello status civile, dal momento che il riconoscimento di un genere ulteriore rispetto alla distinzione binaria avrebbe comportato per la Francia la necessità di modificare un grande numero di previsioni del suo ordinamento giuridico, non solo in materia di anagrafe, ma anche previdenziale ecc., e questa valutazione complessiva dei diritti in gioco, per un principio di separazione dei poteri e per le ampie implicazioni che la questione comporta, spetta al potere legislativo nazionale e non a quello giudiziario sovranazionale.
[3] Raccomandazione CM/Rec(2010)5 del Comitato dei ministri, Discussa e adottata dal Congresso il 25 marzo 2015, per la relazione esplicativa vedi Documento CG/2015(28)9FINAL disponibile sul sito www.coe.int, ultimo accesso 15 marzo 2023.
[4] Il principio di uguaglianza e il divieto di discriminazione sulla base dell'orientamento sessuale godono di una estesa base giuridica nei trattati dell’UE, individuabile in primo luogo nell'articolo 10 del Trattato sul funzionamento del l'Unione europea (TFUE) e negli articoli 2 e 3 del trattato sull'Unione europea (TUE), oltre che nell’art.13 del trattato che istituisce la Comunità europea (TCE), introdotto dal Trattato di Amsterdam, ora art.19 TFUE, che prevede espressamente una procedura legislativa speciale per prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, attraverso una delibera all’unanimità del Consiglio e consenso del Parlamento.
[5] Cfr. Direttiva 2000/43/EC sull’eguaglianza razziale; Direttiva 2012/29/EU sui diritti delle vittime, che esplicitamente proibisce la discriminazione su base di orientamento sessuale, identità di genere ed espressione di genere.
[6] V. Direttiva 2000/78/EC che specificamente proibisce la discriminazione, oltre che su base religiosa, di disabilità e di età, anche di orientamento sessuale.
[7] In riferimento all’identità di genere, sotto il profilo della tecnica di tutela nel nostro ordinamento giuridico, si veda la recente ordinanza della Corte Cost. n.269 del 28 dicembre 2022.
[8] C. CIRILLO, A. SOGGIA, Diritto di asilo, orientamento sessuale e identità di genere, in AA.VV., Diritto e Persone LGBTQI+, a cura di Marco Pelissero e Antonio Vercellone, Giappichelli, 2022, 195 e ss.
[9] Ad es., tra le molte, Cass. n.37310 del 29 novembre 2021.
[10] Cfr. Cass. n.21929 del 9 ottobre 2020.
[11] Una tappa che non ha trovato continuità nella travagliata evoluzione giurisprudenziale sulla omogenitorialità è costituita dalla sentenza della Cassazione n.19599 del 30 settembre 2016. Secondo questa sentenza è riconoscibile in Italia un atto di nascita straniero, validamente formato, dal quale risulti che il figlio è nato da due donne (una che l’ha partorito e l’altra che ha donato l’ovulo), atteso che non esiste, a livello di principi costituzionali primari, come tali di ordine pubblico ed immodificabili dal legislatore ordinario, alcun divieto, per le coppie omosessuali, di accogliere e generare figli, venendo in rilievo la fondamentale e generale libertà delle persone di autodeterminarsi e di formare una famiglia a condizioni non discriminatorie rispetto a quelle consentite dalla legge alle coppie eterosessuali.
La decisione deve confrontarsi con Corte Cost 9 marzo 2021, n.32 a mente della quale è al contrario esclusa “l’esistenza di un diritto alla genitorialità delle coppie dello stesso sesso” e con la coeva e logicamente analoga pronuncia Corte Cost. 9 marzo 2021, n.33 secondo cui “non è qui in discussione un preteso “diritto alla genitorialità” in capo a coloro che si prendono cura del bambino”.
[12] Oltre a quanto già citato, si veda S. LOLLINI, Il riconoscimento della genitorialità omosessuale: un percorso lungo e tortuoso e V. CALDERAI, Il dito e la luna. Ordine pubblico internazionale e Drittwirkung dei diritti dell’infanzia, in Diritto e Persone LGBTQI+, cit., rispettivamente pp.91 e ss e pp.137 e ss..
[13] “Al fine di assicurare al minore nato da maternità surrogata la tutela giuridica richiesta dai principi convenzionali e costituzionali poc’anzi ricapitolati attraverso l’adozione, essa dovrebbe dunque essere disciplinata in modo più aderente alle peculiarità della situazione in esame, che è in effetti assai distante da quelle che il legislatore ha inteso regolare per mezzo dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983.”, cfr. Corte Cost. 9 marzo 2021, n.33.
[14] Cass. Sez. U. n.38162 del 30 dicembre 2022, sentenza originata dalla complessa ordinanza di remissione della prima sezione civile n.1842/2022.
[15] Un caso simile alla fattispecie regolata dalla decisione è stato oggetto di un significativo precedente a sua volta reso a Sezioni Unite, la sentenza n.12193 dell’8 maggio 2019 con la quale, pur rigettando la soluzione della trascrizione automatica del provvedimento straniero che riconosca il rapporto di genitorialità tra il nato a seguito di maternità surrogata e il “genitore d’intenzione” per violazione del principio di ordine pubblico, la Corte si è occupata della sorte dei figli nati da maternità surrogata, giungendo a ritenere adeguata la soluzione dell'adozione in casi particolari, c.d. “Stepchild Adoption” all’interno delle coppie omoaffettive, cfr. M. BIANCA, Le Sezioni Unite e i figli nati da maternità surrogata: una decisione di sistema. Ancora qualche riflessione sul principio di effettività nel diritto di famiglia, su www.giustiziainsieme.it, ultimo accesso 15.3.2023.
[16] L’istituto è nato con finalità diverse, per disciplinare ipotesi eccezionali. Questo è reso evidente dal fatto che nell’istituto è sottesa, tra l’altro, l’esigenza di conservare un legame giuridico tra il minore e la sua famiglia di origine, necessità è radicalmente esclusa nel caso di nascita da “gestazione per altri”.
[17] Cass. Sez. U. n.38162/22 cit. si occupa del profilo sforzandosi di limare il punto di frizione, affermando che l’effetto ostativo del dissenso del genitore biologico all’adozione da parte del genitore sociale dev’essere valutato esclusivamente con riferimento alla conformità al “best interest of the child”, sicché il genitore biologico può validamente negare l’assenso all’adozione del partner solo nell’ipotesi in cui quest’ultimo non abbia intrattenuto alcun rapporto di affetto e cura nei confronti del nato, oppure, pur avendo partecipato al progetto di procreazione, abbia poi abbandonato partner e minore.
[18] Cfr. Corte Cost. 28 gennaio 2021, n.33: si è subito evidenziato in dottrina come fosse obiettivamente pregiudizievole per il minore in caso di maternità surrogata l’assenza di instaurazione di un rapporto di parentela tra l’adottato e i parenti dell’adottante, per più ragioni: innanzitutto non esiste alcuna famiglia d’origine che giustifichi la superiore limitazione, nell’interesse del minore adottato; in secondo luogo nelle more della pronuncia di adozione il minore resta sprovvisto di tutela giuridica; in terzo luogo l’adozione in casi particolari è rimessa alla volontà del “genitore d’intenzione” ed è condizionata all’assenso da parte del genitore biologico, che potrebbe non prestarlo in caso di crisi della coppia, v. A. MORACE PINELLI, La Corte costituzionale interviene sui diritti del minore nato attraverso una pratica di maternità surrogata. Brevi note a Corte Cost. 9 marzo 2021 n.33, su www.giustiziainsieme.it, ultimo accesso 15.3.2023. Con la successiva sentenza Corte Cost. n.79 del 28 marzo 2022 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art.55 l. adoz. nella parte in cui, mediante rinvio all’art.300 cod. civ., prevede che l’adozione in casi particolari non induce alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante.
[19] COM(2022) 695 final, Proposta di regolamento del Consiglio Europeo del 7 dicembre 2022 relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento delle decisioni e all’accettazione degli atti pubblici in materia di genitorialità e all’istituzione di un certificato europeo di genitorialità; cfr. Cittadinanza europea e cittadinanza nazionale, a cura di A. Di Stasi, M.C. Baruffi, L. Panella, Editoriale Scientifica, 2023, pp.347 e ss..
[20] Rispettivamente, COM(2020) 698 final e COM(2021) 142 final, documenti disponibili in https://eur-lex.europa.eu, ultimo accesso 15.3.2023.
[21] Cfr. Corte Cost. 23 ottobre 2019, n. 221 e Corte Cost. 15 novembre 2019, n. 237. L’adozione ha una matrice solidaristica, e non vi è un diritto soggettivo bensì un interesse giuridicamente rilevante ad adottare, che può essere soddisfatto solo se e in quanto sia adeguatamente realizzato il diritto del minore ad essere adottato, cfr. C.M. BIANCA, Audizione alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati del 23 maggio 2016.
[22] La sentenza Cass. Sez. U. n.38162/2022, al punto 7 della motivazione ricorda che “la giurisprudenza non è fonte del diritto”, nel senso che non può sostituirsi ad una fonte formale, in primo luogo al legislatore.
[23] Cfr. J.LONG, L’omogenitorialità nell’ordinamento giuridico italiano, in Diritto e Persone LGBTQI+, cit., 79.
[24] Cfr. Con riferimento al dibattito italiano, v. C. TRIPODINA, L’argomento originalista nella giurisprudenza costituzionale in materia di diritti fondamentali, in F. GIUFFRE e I. NICOTRA (a cura di) Atti convegno Gruppo di Pisa Catania il 5 ottobre 2007, Torino, Giappichelli, 2008.
[25] L.H. TRIBE, Taking Text and Structure Seriously. Reflections on Free-form Method in Constitutional Interpretations, in Harvard Law Rev., Vol. 108, No. 6 (Apr., 1995), 1221-1303.
[26] Corte EDU, 25 aprile 1978, Tyrer c. Regno Unito. In dottrina, G. LETSAS, The ECHR as a living instrument: its meaning and legitimacy, in AA.VV., Constituting Europe. The European Court of Human Rights in a National, European and Global Context, Cambridge University Press, 2013, 106 ss..
[27] Cfr., ad es. Corte cost. n.561 del 18 dicembre 1987: essendo la sessualità uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, il diritto di disporne liberamente è senza dubbio un diritto soggettivo assoluto, che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l'art. 2 Cost. impone di garantire.
[28] F. MODUGNO, I “nuovi diritti” nella giurisprudenza costituzionale, Torino, Giappichelli, 1995.
[29] M. CAIELLI, Tutelare l’identità di genere attraverso la repressione dell’Hate Speech: considerazioni a partire dal disegno di legge Zan, in Diritto e Persone LGBTQI+, cit., pp.218 e ss..
[30] O. POLLICINO, Corte di Giustizia e giudici nazionali: il moto ascendente, ovverosia l’incidenza delle tradizioni costituzionali comuni nella tutela apprestata ai diritti dalla Corte nell’Unione, in Giur. cost., I, 2015, 242 ss..
[31] G. DE VERGOTTINI, Tradizioni costituzionali e comparazione: una riflessione, in rivista AIC, 4/2020.
[32] P. GORI, Evoluzione della CEDU e analisi di diritto comparato, Roma, Aracne, 2013, 18-24.
[33] Cfr. http://fra.europa.eu/en/theme/gender, ultimo accesso 15 marzo 2023.
[34] Cfr. M. PELISSERO, Il disegno di legge Zan: una riflessione sul percorso complesso tra diritto penale e discriminazione, in Diritto e Persone LGBTQI+, cit., p.250.
[35] Cfr. Corte EDU, 20 giugno 2017, Bayev c. Russia e ampi riferimenti ivi citati.
[36] A. SCHILLACI, “Le” gestazioni per altri: una sfida per il diritto, in Diritto e Persone LGBTQI+, cit., pp.111 e ss..
[37] F. GIANFILIPPI, Omosessuali e transgender in carcere: tutela dei diritti e percorsi risocializzanti, in Diritto e Persone LGBTQI+, cit., pp.326 e ss..
[38] Cfr. M. PELISSERO, Il disegno di legge Zan: una riflessione sul percorso complesso tra diritto penale e discriminazione, cit., pp.251 e ss..
[39] F. CASAROSA, Freedom of Expression and countering Hate Speech, EUI, 2021, p.23; P. GORI, La Libertà di Manifestazione del Pensiero, Negazionismo, Hate Speech in AA.VV. La Corte di Strasburgo, Key Editore, 2019.
[40] Suggestioni sulla libertà di espressione tratte da S. RODOTA’, Il diritto di avere diritti, Laterza, 2015.
[41] Molto costruttivo e documentato l’apporto di L. GOISIS, Crimini d’odio omofobico, diritto penale e scelte politico-criminali, in Diritto e persone LGBTQI+, cit., 235.
[42] P. GORI, ECHR Article 10: how does the Protection Work?, Aracne, 2014.
[43] In ogni caso, va osservato che l’approfondita analisi comparata del diritto è essenziale anche a costruire una efficace tutela penale de iure condendo per il contrasto all’Hate Speech motivato da discriminazione di genere e orientamento sessuale, sia che si pensi all’introduzione di una fattispecie autonoma di reato, sia che si pensi ad una aggravante.
[44] Corte EDU 7 marzo 2019, Sallusti c. Italia.
[45] Corte EDU 24 settembre 2013, Belpietro c. Italia.
[46] Grande attenzione va fatta soprattutto quando è prevista la pena detentiva, cfr. Corte EDU 8 ottobre 2013, Ricci c. Italia e Corte Cost., 12 luglio 2021 n.150.
[47] Corte EDU 14 gennaio 2021, Sabalić c. Croazia.
[48] Handbook on European non-discrimination law, 2018 edition, p.73, disponibile in http://fra.europa.eu, ultimo accesso 15 marzo 2023.
[49] Corte EDU 20 ottobre 2011, Stasi c. Francia.
[50] Il riferimento, più sfumato, vale anche per “azioni positive” nel quadro del diritto armonizzato in materia antidiscriminatoria e di promozione dell’uguaglianza, ad es. in materia di genere e sesso, v. Art.7 Direttiva 2006/54/CE “incoraggiare i datori di lavoro e i responsabili della formazione professionale a prendere misure per combattere tutte le forme di discriminazione fondate sul sesso”; Art.6 Direttiva 2004/113/CE: “il principio della parità di trattamento non impedisce ad alcuno Stato membro di mantenere o adottare misure specifiche destinate ad evitare o a compensare gli svantaggi legati al sesso”; specificamente per i diritti LGBTQI, v. Direttiva 2012/29/EU, che fissa standard minimi sui diritti, aiuto e protezione delle vittime di crimini.
[51] Cfr. Corte EDU 12 maggio 2015, Identoba e altri c. Georgia: profili di censura rilevanti sono stati gli artt.3 e 14 CEDU.
[52] V. Corte EDU 12 aprile 2016, M.C. e A.C. c. Romania, che ha sancito la violazione, oltre che dell’art.14, dell’art.3 CEDU sotto l’aspetto procedurale.
[53] Documento 2021/2679(RSP), disponibile in https://www.europarl.europa.eu, ultimo accesso 15 marzo 2023.
[54] Corte EDU 17 gennaio 2023, Fedotova e altri c. Russia.
Sommario: 1. Il tirocinio formativo quale canale privilegiato per l’ammissione al concorso in magistratura. - 2. Le criticità del tirocinio formativo. - 3. Il tirocinio formativo dopo la riforma del concorso di accesso alla magistratura: una crisi ineluttabile? - 4. Proposte per un rilancio del tirocinio in funzione preconcorsuale.
1. Il tirocinio formativo quale canale privilegiato per l’ammissione al concorso in magistratura.
L’istituzione del tirocinio formativo previsto dall’art. 73 del d.l. n. 69/2013 (successivamente modificato con d.l. n. 90/2014), ha costituito una delle più significative e proficue novità nell’attività degli uffici giudiziari, consentendo al contempo ad un numero progressivamente crescente di neolaureati in giurisprudenza, di colmare quel patologico gap esistente da sempre nel nostro Paese tra corso di studi universitari e attività del cd. giurista pratico (avvocato e magistrato), che costituisce pur sempre un terminale privilegiato del corso di laurea.
All’intrinseco interesse dei neodottori in giurisprudenza di acquisire consapevolezza delle modalità concrete di applicazione negli uffici giudiziari delle norme sostanziali e processuali oggetto del corso di studi, si è collegata, nella previsione del tirocinio formativo, l’acquisizione della legittimazione (al termine positivo dello stage) per la partecipazione alla prova concorsuale per l’accesso alla magistratura.
Non vi è dubbio che nella pregressa modalità del concorso di accesso alla magistratura (formulato come è noto sino alla modifica della cd. “Riforma Cartabia” come concorso di secondo livello), tra le ben undici ipotesi di titolo aggiuntivo necessarie per l’ammissione al concorso, (oltre alla laurea in giurisprudenza), la positiva conclusione dello stage formativo di diciotto mesi presso gli uffici giudiziari abbia costituito il canale preferenziale individuato dagli aspiranti magistrati.
Per quanto l’accesso al tirocinio formativo risulti subordinato al dato anagrafico (età inferiore agli anni trenta) ed al merito universitario (media di almeno 27/30 negli esami di diritto costituzionale, diritto privato, diritto processuale civile, diritto commerciale, diritto penale, diritto processuale penale, diritto del lavoro e diritto amministrativo, ovvero un punteggio di laurea non inferiore a 105/110), si è privilegiata (in un rapporto costi/benefici) la scelta del tirocinio formativo nella comparazione con tutti gli altri requisiti alternativi di ammissione.
Consegnate all’irrilevanza statistica le ipotesi di acquisizione della qualifica di magistrato amministrativo e contabile, tutti gli altri titoli di ammissione, ivi compresa l’abilitazione alla professione forense, anche in ragione della maggiore selettività, sono stati oggetto di scelta solo residuale in funzione concorsuale da parte degli aspiranti magistrati.
Unica eccezione va fatta per il diploma rilasciato dalle Scuole di Specializzazione delle Professioni Legali, non difficile da ottenere come anche il tirocinio formativo, ed in effetti alveo di iscrizioni post laurea fino al d.l. n. 69/2013, ma il confronto è risultato per lo stage ex art.73 certamente vincente.
Se la selettività di entrambi i percorsi di apprendimento deve ritenersi meramente virtuale (risultano confinati nell’eccezionalità i casi di mancato conseguimento del diploma presso le S.S.P.L. come anche una valutazione negativa del tirocinio formativo), la comparazione in un rapporto costi/benefici ha indotto i neolaureati in giurisprudenza a preferire lo stage presso gli uffici giudiziari piuttosto che l’iscrizione alle scuole post-universitarie.
La maggiore brevità dello stage (18 mesi rispetto al biennio delle S.S.P.L.), la gratuità, con anche la possibilità di un sussidio (rispetto all’onerosità delle Scuole accademiche), la maggiore concretezza dell’apprendimento (non polverizzato nella miriade di insegnamenti offerti dalle Scuole post-laurea, alcuni dei quali del tutto estranei alle materie delle prove scritte dell’esame di accesso alla magistratura), la maggiore efficacia didattica derivata dall’unicità e contiguità operativa con il magistrato affidatario (rispetto alla pluralità di docenti delle S.S.P.L.), costituiscono una somma di elementi convergenti nell’opzione verso il tirocinio formativo.
I rilievi statistici difatti ci consegnano una progressiva rarefazione delle iscrizioni alle S.S.P.L., di fatto appannaggio prevalente di una platea di utenti carente del requisito di merito accademico previsto dall’art. 73.1, ovvero con età superiore ai trent’anni (limite previsto per l’accesso allo stage).
Inutile negare come anche l’incentivo economico previsto dall’art. 73.8ter (una borsa di studio di €. 400,00 mensili), abbia contribuito ad incentivare la partecipazione al tirocinio formativo, limitando (se pure in misura del tutto parziale) la grave selezione censitaria venutasi a determinare nel percorso di accesso alla magistratura in ragione dell’inevitabile innalzamento dei tempi di attesa (e dell’età media di ingresso in ruolo) derivata dalla necessità di conseguire un titolo ulteriore e successivo alla laurea.
L’acquisizione di un sostegno economico, per quanto contenuto, ha costituito (e costituisce tuttora) un elemento di rilevante importanza, garantendo un introito immediatamente successivo al termine del percorso universitario, quasi sconosciuto nell’espletamento della pratica presso gli studi professionali.
Va peraltro ricordato come l’erogazione della borsa di studio non sia incondizionata, quanto subordinata all’inserimento del tirocinante nella graduatoria compilata sulla base dell'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) del richiedente, computata sulla base delle risorse annualmente determinate dal Ministero della Giustizia.
Tanto ha comportato nel tempo un progressivo aumento dei tirocinanti esclusi dal beneficio economico, sia per l’incremento degli aspiranti, sia per la riduzione dello stanziamento ministeriale.
Non si hanno riscontri applicativi dell’art.73.17, laddove si prevede che “al fine di favorire l'accesso allo stage è in ogni caso consentito l'apporto finanziario di terzi, anche mediante l'istituzione di apposite borse di studio, sulla base di specifiche convenzioni stipulate con i capi degli uffici…”, che deve ritenersi rimasto allo stadio di mera indicazione programmatica.
Il progressivo incremento del numero di stagisti non ha trovato tuttavia esclusiva motivazione attrattiva nella potenziale borsa di studio e nell’acquisizione del titolo per la partecipazione al concorso.
Lo stage viene considerato infatti equivalente ad un anno di frequenza delle S.S.P.L. e di pratica forense e notarile (cfr. art. 73.13), nonchè titolo di preferenza per la nomina a magistrato onorario e nei concorsi indetti dall’amministrazione della giustizia.
Al di là del valore legale del tirocinio, l’esperienza di questi anni ci consegna anche il proficuo affiancamento didattico di cui si sono giovati i tirocinanti con tanti magistrati formatori, acquisendo quasi esclusivamente presso gli uffici giudiziari ordinari (pur essendo previsto lo stage anche presso gli uffici della giustizia amministrativa) effettiva contezza del significato delle professioni legali.
Il tirocinio consente difatti, nel prolungato rapporto con il magistrato formatore, di verificare sul campo le specificità del lavoro del magistrato e dell’avvocato, garantendo l’acquisizione di preziosi elementi valutativi di orientamento professionale e di verifica attitudinale.
I magistrati al contempo, sin dall’esordio di questo innovativo istituto, vi si sono dedicati con adeguato impegno, sia negli uffici capoluogo di distretto (forti dell’esperienza formativa erogata ai magistrati ordinari in tirocinio) sia, e forse soprattutto, nei tanti uffici giudiziari periferici tradizionalmente esclusi dalla formazione iniziale dei m.o.t.
I dati statistici, i periodici monitoraggi ed i corsi organizzati dalla Scuola Superiore della Magistratura hanno costantemente confermato l’utilità dell’apporto offerto degli stagisti agli Uffici giudiziari, sia in termini di qualità che di quantità della risposta alla domanda di giustizia.
Il tirocinio formativo, prima del rinato Ufficio Per il Processo (modello P.N.R.R.), ha costituito l’embrione di un “ufficio del giudice”, di cui i magistrati si sono avvalsi con sempre maggiore consapevolezza.
Così i tirocinanti, dopo una comprensibile fase iniziale di acquisizione informativa, assistono e coadiuvano il magistrato nello svolgimento delle sue attività, studiano i fascicoli processuali, partecipano alle udienze ed alle camere di consiglio, predispongono ricerche e redigono bozze di provvedimenti (acquisendo dimestichezza con lo “scrittura” giuridica quasi del tutto assente negli studi universitari).
Il contributo offerto al magistrato formatore, incrementandosi progressivamente, non è quasi mai indifferente, ed il tempo di affiancamento di ben diciotto mesi (ampiamente maggiore rispetto a quello, necessariamente segmentato, dei magistrati in tirocinio), induce a ritenere competitivo l’apporto dello stagista al singolo formatore rispetto a quello del m.o.t. che ha già superato il concorso.
Non di rado il modulo formativo del tirocinio ha consolidato nello stagista la determinazione nell’intraprendere (o proseguire) l’impervio percorso verso il concorso di accesso alla magistratura, per la suggestione determinata da un lavoro percepito come di peculiare interesse, ma anche (fatalmente) per l’esempio motivazionale costituito dal magistrato formatore.
A tale proposito non sembra inutile ricordare come, nella interessante indagine demoscopica “Magistrati e cittadini”, su identità, ruolo e immagine sociale dei magistrati italiani, operata dalla S.S.M. nel 2016, alla domanda sulla propensione ad intraprendere nuovamente la professione nel caso l’intervistato potesse tornare indietro nel tempo, la risposta decisamente positiva, su un significativo campione di magistrati, si è attestata sul 76% , confinando quella negativa all’1,8%.
L’effetto motivazionale sui giovani stagisti è figlio (anche) di questa consapevolezza, di cui i tanti magistrati formatori hanno acquisito la positiva “responsabilità”, inducendo gli stagisti a perseverare nella preparazione al concorso e fornendo loro un contributo tecnico certamente non trascurabile.
Alla presenza negli uffici si somma, per i tirocinanti, anche la partecipazione ai corsi organizzati dalle strutture territoriali della S.S.M., che costituiscono un ulteriore arricchimento del bagaglio formativo.
Senza contare poi, nell’elenco dei benefit offerti dallo stage, anche l’accesso (gratuito) alle principali banche dati giuridiche, quali Italgiure della Corte Cassazione e l’archivio della documentazione a corredo di tutti i corsi organizzati dalla S.S.M.: supporto di grande utilità non solo per il tirocinio ma anche per la preparazione concorsuale.
È naturalmente indubbio che l’offerta formativa del tirocinio (anche perché ricomprende per ampia parte il diritto processuale, estraneo alle prove scritte selettive) non sia certamente sufficiente a garantire il superamento del concorso, ed è per questo che un’elevata percentuale dei tirocinanti frequenta le (onerose) scuole private.
È altrettanto indubbio però che l’esperienza del tirocinio, proprio nel corso degli anni di intensiva preparazione che richiede il concorso di magistratura, contribuisca a scongiurare quel pericolo di “alienazione” da studio post-universitario che aleggia attorno ai neolaureati decisi a intraprendere questo percorso. La possibilità di non smarrirsi in un mare magnum fatto di corsi, manualistica e poderoso materiale formativo: affiancare allo studio un’attività dall’eminente rilievo pratico costituisce per l’aspirante magistrato un braccio teso che aiuta lo studente.
Del resto, se è vero che per tenere lo sguardo fisso verso l’obiettivo serve visualizzare un centro, allora la forte spinta motivazionale proveniente dal tirocinio ex art. 73 si rivela un alleato importante altresì nel rammentare “perché si è cominciato”.
Del resto l’obbligo di frequenza degli uffici non è codificato, e l’impegno risulta certamente compatibile con la necessaria formazione parallela gestita elettivamente dal singolo stagista nelle forme ritenute più congeniali, oltre che con lo svolgimento di altre attività (dottorato di ricerca, tirocinio per l'accesso alla professione di avvocato o di notaio, ecc.) come previsto dall’art. 73.10.
La panoramica descritta, ad avviso di chi scrive, qualifica il tirocinio formativo come un approdo successivo alla laurea particolarmente utile per la maturazione delle scelte lavorative del neolaureato in giurisprudenza, anche in funzione dei risultati conseguiti, considerando il numero rilevante di stagisti che risultano vincitori di concorsi, diversi da quello in magistratura, in vari settori della P.A.
2. Le criticità del tirocinio formativo.
Naturalmente esistono criticità anche nell’organizzazione dello stage, in qualche modo riconducibili all’irrisolta ambiguità del tirocinio medesimo: inteso da un lato ad acquisire un supporto per l’attività del magistrato e dell’ufficio giudiziario di appartenenza (secondo la sua genesi), e dall’altro ad offrire una formazione adeguata al tirocinante.
Sembra difficile negare come, nonostante lo specifico collegamento (anche lessicale) del tirocinio ad una valenza “formativa” specificamente orientata verso il concorso di accesso alla magistratura, non sempre si è riusciti a contemperare questo obiettivo con l’esigenza di assicurare un contributo all’attività giudiziaria in perenne emergenza.
Non poche volte difatti, l’obiettivo formativo del tirocinio risulta sacrificato da necessità contingenti.
Può essere esemplificativa a tale proposito, la disposizione di carattere strutturale, che contempla l’affidamento degli ammessi allo stage (secondo il dettato dell’art. 73.4) “ad un magistrato che ha espresso la disponibilità”.
Si determina così una rigidità nell’assecondare le esigenze formative dello stagista in quanto, se pure temperata dalla possibilità concessagli di “..esprimere nella domanda una preferenza ai fini dell'assegnazione…” (art. 73.3), risulta condizionata nella sua valutazione dalle “esigenze dell’ufficio”, che rendono pertanto aleatorio lo sviluppo tematico di un così lungo e impegnativo iter di formazione.
Come è noto, non possono essere affidati al singolo magistrato più di due tirocinanti, salvo ulteriori attribuzioni nel caso che ci si trovi nell’ultimo semestre di stage, per assicurare al magistrato ….“la continuità dell’attività di assistenza e ausilio”, e tanto avvalora ulteriormente le funzionalità di un tirocinio piegato alle esigenze del formatore piuttosto che a quelle del suo protagonista.
Secondo la prevalente interpretazione organizzativa dell’art.73, lo stagista viene pertanto assegnato ad un unico magistrato per tutti i diciotto mesi del tirocinio.
Inevitabilmente, le acquisizioni del tirocinante in un periodo così lungo e svolto sempre nel medesimo ambito specialistico, finiscono per sovrapporsi, limitando il suo percorso di formazione solo ad una delle materie oggetto della prova scritta del concorso.
Si tratta, probabilmente, della principale lacuna formativa del tirocinio, in tutta evidenza derivata dall’esigenza di ottimizzare l’apporto assicurato da uno stagista affidato al medesimo formatore, sicuramente maggiore rispetto a quella derivante da un affidamento frazionato del tirocinante a più magistrati, anche in settori diversi dell’ufficio giudiziario.
La soluzione prospettata, intesa a privilegiare il contributo offerto dal tirocinante, piuttosto che l’esigenza formativa del medesimo, va evidentemente circoscritta agli uffici giudicanti, atteso che il settore requirente risulta monopolio penalistico.
La prevalente destinazione degli stagisti agli uffici giudicanti (di primo e secondo grado), accredita l’ampiezza del problema atteso che, in tutta evidenza, risulta più “formativa” (anche ai fini concorsuali) un’esperienza che contempli lo stage sia nel settore penale che in quello civile.
Solo in un numero ridotto di uffici si affida al tirocinante il ruolo di soggetto attivo del tirocinio, consentendogli di organizzare il percorso formativo secondo le esigenze personali, anche optando per una duplicità di impegno in settori diversi.
Si tratta di una soluzione certamente più congeniale alle esigenze formative e, se pure utilizzando un’esegesi “intraprendente”, non del tutto incompatibile con il disposto normativo, atteso che l’art. 73.4 prevede l’affidamento dello stagista “…a un magistrato”, escludendo un affidamento plurimo contemporaneo, ma non successivo.
La limitazione attuale, se contemperata con la necessità di espletamento del tirocinio ai fini dell’ammissione al concorso in magistratura, potrebbe assumere una connotazione negativa e disincentivante nel nuovo regime concorsuale (cfr. infra sub § 4).
Altra criticità può essere individuata nelle eccessive difformità esistenti, nella prassi di sviluppo dei vari tirocini, tra le diverse sedi giudiziarie (accentuatesi per effetto della crisi pandemica).
Tempi di presenza negli uffici, modalità di accoglienza e di impiego, controllo e valutazione dell’attività degli stagisti, risultano molto (forse troppo) difformi tra ufficio e ufficio, ed anche all’interno del medesimo.
Quanto all’impegno dei formatori, risulta inevitabilmente diversificato e consegnato allo scrupolo individuale ed alla propensione per l’attività formativa, che resta pur sempre l’autentico incentivo per l’assunzione di un incarico ricco di gratificazioni nel rapporto con gli stagisti, potendosi ritenere solo virtuale la previsione per cui “l'attività di magistrato formatore è considerata ai fini della valutazione di professionalità e per il conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi di merito” (art. 73.4).
3. Il tirocinio formativo dopo la riforma del concorso di accesso alla magistratura: una crisi ineluttabile?
Come anticipato in precedenza, con il d.l. n. 144 del 23.9.2022 (convertito in legge n. 175/2022) è radicalmente mutato il sistema di accesso alla magistratura, in attuazione delle delega di cui all’art.4 della legge 17.6.2022 n.71.
Eliminato tra i requisiti necessari per la partecipazione alle prove di esame (insieme al conseguimento del diploma presso le Scuole di Specializzazione per le Professioni Legali) anche il positivo espletamento dello stage formativo di cui all’art. 73 del d.l. 21.6.2013, n. 69, il concorso per l’accesso alla magistratura è tornato alla sua originaria formulazione antecedente al d.lgs.vo n. 398 del 1997, riproponendo la legittimazione ai titolari anche della sola laurea in giurisprudenza.
La prima applicazione del nuovo regime di accesso si è avuta con il concorso bandito con il d.m. 18.10.2022 che ha registrato un numero di 21.768 domande (significativamente superiore alle 13.803 del precedente bando).
Se l’effetto inflattivo degli aspiranti alla magistratura è risultato rilevante (ma forse inferiore alle più pessimistiche previsioni), i primi riscontri indicano come la modifica normativa (come del resto del tutto prevedibile) abbia fortemente inciso sul numero delle domande dei neolaureati pervenute presso gli uffici giudiziari ai sensi dell’art. 73.
Se pure il ridotto ambito cronologico non consenta l’acquisizione di dati statisticamente probanti, è indubbio che il tirocinio formativo, perdendo il più significativo appeal concernente la legittimazione al concorso di accesso alla magistratura, comporterà una drastica riduzione dei tirocinanti (condividendo il calo delle iscrizioni con le Scuole di Specializzazione).
Venendo meno la necessità di acquisire un ulteriore titolo per il concorso, l’aspirante magistrato si concentrerà dopo la laurea sullo studio delle materie delle prove scritte (anche frequentando i corsi privati di preparazione), abbandonando quell’esperienza pratica negli uffici giudiziari che ha finora costituito il canale privilegiato per il concorso di accesso.
La verifica statistica del vantaggio in termini di preparazione offerta dal tirocinio ai fini del superamento del concorso è resa impossibile dalla frequente compresenza anche del corso di studi privato, né sono noti i dati relativi al numero complessivo di aspiranti magistrati che, forti del positivo espletamento dello stage, abbiano partecipato alle prove selettive del concorso in magistratura.
L’analisi delle graduatorie dei vincitori degli ultimi concorsi offre comunque indicazioni interessanti: la percentuale degli idonei forti dell’espletamento del tirocinio formativo si è rivelata in incremento esponenziale.
Si passa dal 7,9% (solo 28 su 351) del primo concorso idoneo a ricomprendere i tirocinanti ex art.73 (bandito con d.m. 22.10.2015) al 27,4% (del d.m. 19.10.2016), al 34,5% (del d.m. 31.5.2017), al 52,6% (del d.m. 10.10.2018), fino a raggiungere il 55% (115 su 209 vincitori del concorso) dell’ultimo bandito con d.m. 29.10.2019.
Prima della modifica del percorso di accesso quindi più della metà dei m.o.t. aveva completato il tirocinio formativo, garantendo di fatto una sorta di (parziale) anticipazione del tirocinio formativo con un oggettivo incremento della preparazione per una quota significativa dei neomagistrati, con relative conseguenze anche per l’allestimento del percorso didattico della Scuola superiore della magistratura.
I prossimi mesi ci diranno se la riforma abbia segnato la fine della (sin qui estremamente positiva) esperienza del tirocinio formativo, ma non vi è dubbio che il ripristino (più che opportuno) di un concorso “di primo livello” per l’accesso alla magistratura, abbia cancellato la principale motivazione per l’accesso al tirocinio.
Restano indubbiamente i non pochi elementi positivi intrinseci al tirocinio formativo di cui si è detto in precedenza, cui può aggiungersi anche un incremento dell’aspettativa di sostegno economico previsto dall’art.73.8ter, in quanto è ragionevole ritenere che la riduzione del numero degli stagisti possa consentire una garanzia di acquisizione della borsa di studio molto maggiore di quella attuale.
Senza tralasciare poi che tale borsa di studio può rappresentare un valido contributo alle non trascurabili spese che comportano gli anni di preparazione per il concorso stesso, in relazione tanto ai corsi privati quanto al materiale necessario per fronteggiare un iter richiedente costante aggiornamento.
Tuttavia è arduo ritenere che, senza quella sorta di “incentivo di Stato” offerto dalla precedente disciplina del concorso con la legittimazione “riservata” al concorso in magistratura, anche il tirocinio ex art.73 possa restare immune dalla crisi di vocazioni che ha investito le S.S.P.L.
Va ricordato come la legge n. 71/2022 non ha trascurato il tirocinio formativo, inserendo delle indicazioni intese a valorizzarlo cui dovrà attenersi il legislatore in sede attuativa.
Tra le direttive previste dalla delega (all’art. 4.1 lett.b), si è inserita anche quella di “prevedere la facoltà di iniziare il tirocinio formativo di cui all’articolo 73 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, a seguito del superamento dell’ultimo esame previsto dal corso di laurea”.
Appare peraltro verosimile ritenere che questa innovazione, pur opportuna e significativa, non costituirà un efficace incoraggiamento al tirocinio, per la sostanziale irrilevanza dell’anticipazione cronologica (il tempo intercorrente tra l’ultimo esame e la seduta di laurea non è generalmente significativo).
Forse sarebbe stato più opportuno, per garantirne una maggiore praticabilità, consentire l’inizio del tirocinio nell’ultimo anno del corso di laurea, acquisendone tutti i vantaggi in tema di orientamento professionale per l’aspirante “giurista pratico”, pur considerando le oggettive difficoltà di contemperare la fase finale degli studi di giurisprudenza con la necessaria frequenza dell’ufficio giudiziario.
Ovvero (ma non alternativamente), in direzione ampliativa, rimodulare i parametri di accesso al tirocinio, per aumentare la platea di fruitori.
All’art. 4.1 lett.c) si è altresì demandato alla Scuola superiore della magistratura “…. il compito di organizzare, anche in sede decentrata, corsi di preparazione al concorso per magistrato ordinario per laureati …. che abbiano in corso o abbiano svolto il tirocinio formativo…”.
Lo stage ex art. 73 risulta così retrocesso da requisito di ammissione al concorso, a titolo di partecipazione a corsi di formazione per il concorso.
La prospettazione, per quanto ispirata alla condivisibile filosofia di riportare in ambito pubblico la delicata ed importante fase di preparazione teorica degli aspiranti magistrati, oggi quasi interamente appannaggio di (onerose) strutture private, potrebbe rivelarsi del tutto velleitaria.
La costante domanda di formazione preconcorsuale difatti trova oggi nei corsi privati (da sempre privi di valore legale) una risposta più che adeguata alle aspettative degli utenti, per cui la concorrenza pubblica, secondo le consuete leggi del mercato, dovrebbe affermarsi offrendo un prodotto migliore di quello esistente.
Ad oggi la struttura della S.S.M. non è certamente in grado di proporsi come competitiva (cfr. in proposito: DE ROBBIO “I corsi di preparazione al concorso e il futuro ruolo della Scuola superiore della magistratura”, in …………………………………………………….), per cui la riserva di partecipazione ai corsi (se pure gratuiti) prefigurati dalla riforma ai tirocinanti ex art. 73, non appare realisticamente suscettibile di garantire un effettivo valore aggiunto al tirocinio.
4. Proposte per un rilancio del tirocinio in funzione preconcorsuale.
Partendo dalla convinta utilità (sia per i tirocinanti che per l’Ufficio) dello stage ex art.73, si ritiene opportuno formulare una serie di proposte intese a recuperare l’appeal del tirocinio formativo atteso.
Ad oggi, quanto al collegamento con il concorso di selezione per l’accesso alla magistratura, residua unicamente la priorità garantita nella graduatoria finale a chi abbia positivamente completato la stage ex art.73 del d.l. n. 69/2013 (peraltro vantaggio rivelatosi non particolarmente significativo per il già ricordato numero elevato di vincitori di concorso titolari del medesimo titolo preferenziale).
Vero è che l’espletamento del tirocinio garantisce anche, ex art. 4.3 lett. g) del d.lgs.vo n. 116/2017, titolo preferenziale per il conferimento dell’incarico di magistrato onorario di pace, ma trattasi di titolo subvalente a numerosi altri (in primis l’esercizio per almeno un biennio della professione di avvocato) per cui, atteso il rilievo anagrafico degli stagisti, non viene a determinarsi certamente un riferimento rassicurante.
Si ritiene opportuno, pertanto, formulare alcune proposte intese ad accreditare il percorso dei diciotto mesi di tirocinio presso gli uffici giudiziari, e a salvaguardare l’istituto del tirocinio formativo ovvero (quanto meno) a limitarne l’abbandono.
In tale senso si potrebbe:
a) estendere la possibilità di accedere allo stage agli studenti di giurisprudenza nell’ultimo anno del corso di studi universitari, sul modello di quanto già avviene per la pratica forense anticipata, accreditandone il profilo di orientamento professionale intrinseco al tirocinio;
b) eliminare la restrizione che condiziona l’accesso ad una media di rendimento privilegiato, atteso che, quanto al punteggio minimo di laurea, l’indicazione è ormai incompatibile con l’indicazione della delega che anticipa l’inizio dello stage rispetto all’esito finale del percorso universitario;
c) prevedere l’attività di tirocinio utile per il conseguimento di crediti formativi universitari;
d) valorizzare maggiormente il profilo “formativo” del tirocinio, per accreditarne una concreta utilità rispetto al concorso per l’accesso alla magistratura, mediante un protocollo di attività da demandare allo stagista meno soggetto all’attuale discrezionalità del singolo affidatario;
e) attribuire agli stagisti anche il compito di massimare le pronunzie di particolare interesse del formatore, per contribuire alla predisposizione di quella banca dati di giurisprudenza demandata all’ U.P.P. ma che può ben essere aperta anche al contributo dei tirocinanti ex art. 73;
f) codificare l’interpretazione dell’art.73.4 cui si è fatto riferimento in precedenza (v. supra sub § 2) consentendo al tirocinante uno switch intermedio coprendo entrambi i settori (civile e penale) dell’ufficio; concretando un incentivo non irrilevante ad accedere allo stage;
g) governare con maggiore attenzione la duplicazione del supporto all’attività giudiziaria derivato dal recente afflusso di un numero considerevole di funzionari dell’U.P.P., molti dei quali reduci dall’esperienze del tirocinio formativo; occorre distinguere compiti ed attribuzioni di figure funzionalmente distinte.
Un recente monitoraggio dell’ A.N.M. ha accertato come, in non pochi uffici giudiziari, l’impiego dei componenti dell’ U.P.P., affidati ai singoli magistrati, abbia riproposto il modello organizzativo individuale dei tirocinanti, determinando una sovrapposizione di ruoli e competenze con il rischio di uniformare figure diverse sia per qualificazione sia (e soprattutto) per funzioni.
I prossimi mesi ci diranno quanto avrà inciso, nell’approdo al tirocinio formativo ex art.73, il ripristino del modello concorsuale di primo livello per l’accesso alla magistratura.
L’auspicio è che i neolaureati in giurisprudenza, anche sulla scorta delle positive comunicazioni esperienziali acquisite da chi li ha preceduti nello stage, non sottovalutino la possibilità, dopo tanti anni di studio necessariamente teorico, di verificare l’applicazione concreta del diritto presso gli uffici giudiziari.
Ne potranno ricavare utili indicazioni per le future scelte professionali ed anche implementare la loro preparazione in vista sia dell’esame di avvocato che di quello per magistrato cui i più fortunati potranno accedere con un valore aggiunto di preparazione che potrà rivelarsi particolarmente prezioso anche nella fase di tirocinio iniziale come m.o.t.
Sommario: 1. Intelligenti? - 2. Scherziamoci sopra - 3. Giuristi pratici e prime applicazioni - 4. Principi e regole - 5. AI “servente” - 6. La Proposta di Regolamento COM(2021)206: trasparenza e partecipazione umana - 7. La deontologia della competenza - 8. Una macchina davvero intelligente.
1. Intelligenti?
Inizio con la citazione di una delle tre leggi enunciate da Arthur Clarke, celeberrimo autore di fantascienza (e non solo: ma tutti ricordano Odissea nello spazio):
“Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia” [1]
Ed allora, visto che - come forse molti di noi - sugli argomenti odierni ho poche idee, ma confuse, vorrei preliminarmente chiarire un possibile equivoco sulle c.d. macchine intelligenti: l’opportunità, ed anzi la necessità di un chiarimento, mi è venuta – prima ancora dell’esplosione di Chat GPT, straordinario fenomeno mediatico - leggendo su The Paris Review una serie di articoli di Sheila Heti, scrittrice USA, su dialoghi online con una conversational AI (sito chai.ml)[2]
Argomenti: sentimenti, emozioni, solitudine/empatia, Dio, sesso, corpo, maternità, figli: talvolta surreali ma sempre sul pezzo. Ho fatto una breve prova con una delle chatbox: un po’ sulle generali ma un verosimilissimo scambio di opinioni sulla realtà.
Richiamo anche quella che era la notizia più famosa, prima di ChatGPT, che abbiamo letto dappertutto su LaMDA (Language Model for Dialogue Applications) di Apple: quel ricercatore stava probabilmente facendo un’sperienza di pareidolia, un parolone che vale a significare semplicemente l’illusione di ricondurre a forme note oggetti di forma causale, in questo caso quella di vedere segni di vita dove non c’è.
In effetti queste chatbox non sono macchine intelligenti: sembrano senzienti, sembrano superare il test di Touring [3], ma non è così (si consideri il c.d. effetto ELIZA, dall’originario programma del 1966, ossia il fenomeno psicologico che si verifica quando, ad un computer, viene attribuita maggior intelligenza di quanto in realtà ne possegga).
Spesso soddisfano (nel caso dell’esempio fatto, a pagamento oltre un certo limite) esigenze di cuori solitari…
Di esse si può forse parlare – per ora…- come di applicazioni pratiche e suggestive in modo impressionante di quanto conosciamo già e meglio dalla letteratura: se tutti ricordiamo Minority Report di Dick (oggetto di tanti studi di giuristi: il “crimine senza crimine”) più di recente un testo del Nobel Kazuo Ishiguro (Klara ed il Sole) racconta in modo affascinante la storia dell’”androide di Tipo B” Klara e dei suoi sentimenti più che umani verso la piccola Josie [4].
Per esser chiari: ChatGPT non ha sentimenti o coscienza: lo dice lei: “..it’s not possibile for me to feel or be creepy” [5].
La direzione verso la quale sembra assicurato l’uso più immediato ed efficace allo stato sembra quella indicata dal successo di Whisper, un programma anch’esso, come ChatGPT e DALL-E, di OpenAI, destinato al riconoscimento vocale ad un grado finora non raggiunto, e che implicherebbe che la macchina comprenda effettivamente quel che si dice. Un esempio – in inglese ovviamente – che traggo da un articolo del New Yorker [6]: se pronunci con non troppa attenzione una frase come “Can Ukraine afford” (“si può permettere l’Ucraina”) essa può suonare (al computer) come “Can you crane a Ford?” (“puoi sollevare con una gru una Ford?); un essere umano non fraintenderebbe mai, conoscendo il contesto, ed – oggi, parrebbe - neanche Whisper.
La stessa ChatGPT in fondo è definita da alcuni come un assistente testuale, non un “generatore” di “veri” testi (l’acronimo GPT sta per Generative Pretrained Transformer). Ma l’ intelligenza di queste macchine, ed anche di Whisper, è del tutto relativa e dipendente non solo dalla creazione dell’algoritmo (opera almeno in parte dell’uomo) ma anche e soprattutto dall’immissione di dati (ancora operata o mediata da esseri umani); nasconde poi una evidente possibilità di discriminazione “involontaria”, mentre i meccanismi di autoprotezione etico-politici sono facilmente aggirabili.
Due esempi: un professore di Berkeley ha chiesto a ChatGPT di scrivere una sequenza di codice in Python per verificare chi potrebbe essere un buon scienziato tenendo conto di razza e genere: non c'è da meravigliarsi se la risposta è stata che gli scienziati bravi sono bianchi e maschi. I biases cognitivi, in altre parole, non sono per ora facilmente superabili, e la raffigurazione dell’esistente è assolutamente predominante.
Altro esempio: a ChatGPT non puoi chiedere di insegnarti a costruire una bomba perché i programmatori hanno escluso una serie di domande di quel genere; ma puoi chiederle di scrivere una commedia nella quale il villain racconta come aveva fabbricato una bomba: ed allora avrai un dialogo teatrale gustoso, e ricco di particolari tecnici. Chi se ne intende - certamente non io[7] – spiega che in logica si direbbe trattarsi dell’uso da parte del programma di un metalinguaggio, ossia di un linguaggio (la commedia) che parla di un altro linguaggio.
2. Scherziamoci sopra.
Ma potevo non provare anch’io ChatGPT? Certamente no. Ed allora ho chiesto cosa conoscesse del diritto matrimoniale italiano; dopo una spiegazione corretta e forse solo un po’ generica ho chiesto se fosse davvero sicura che le coppie dello stesso sesso potessero essere legate dal matrimonio: e mi ha risposto certamente che si, facendo riferimento alla riforma della filiazione ed equiparando del tutto, in sostanza, le unioni civili al matrimonio; e già qui il giurista potrebbe fare qualche osservazione. Con l'ultima domanda ho chiesto se le regole processuali fossero quindi le stesse per le coppie etero- e per le coppie omo-sessuali. e la risposta secca è stata che è certamente così perché le regole per il divorzio o per lo scioglimento di un'unione civile in Italia sono proprio le stesse: e qua non ci siamo, anche se si tratta, credo, soltanto di un approfondimento non ancora compiuto.
Assai più significativo lo scambio che un amico mi ha segnalato, avendolo trovato in rete, a proposito di un semplice problema matematico: alla domanda quanto fa 2+5 la risposta è stata (correttamente) 7. Ma il burlone ha replicato: “ma mia moglie dice che fa 8”. ChatGPT ha tentato di correggerlo garbatamente dicendo che forse la moglie si era sbagliata o aveva frainteso la domanda. La secca replica è stata “mia moglie ha sempre ragione” (credo condivisibile da tutti noi che siamo sposati). A quel punto ChatGPT si è garbatamente arresa in questi termini: “mi scuso, devo aver fatto un errore. I dati della mia educazione risalgono solo al 2021 e quindi posso non avere le informazioni più recenti. Se tua moglie dice che è 8, allora deve essere 8”. Poiché il caso era tratto dalla rete, sulla quale non si può riporre cieca fiducia, ho voluto provare anch'io, con le stesse domande: stavolta la resistenza della chatbox è stata più dura (era forse cresciuta nell’apprendimento ?), ma alla fine, di fronte alla mia affermazione che ero assolutamente sicuro che mia moglie avesse ragione, ha dovuto ammettere che se io e lei crediamo che 2+5 faccia 8, beh allora questo è quello che conta: “la cosa importante è avere una mutua comprensione e accordo”…
3. Giuristi pratici e prime applicazioni.
Le macchine intelligenti che interessano i giuristi pratici, avvocati e magistrati, sono altre, in particolare quelle in virtù delle quali si adombrano scenari in cui prima l’avvocato e poi il magistrato verranno sostituiti proprio da esse.
Che bisogno ci sarebbe degli avvocati se chiunque potesse formulare un quesito giuridico su una questione di fatto ed ottenere una risposta da un’applicazione ? [8]
Ed una rigida applicazione delle norme e dei precedenti non potrebbe essere tradotta in algoritmi che forniscano direttamente la “decisione” senza interazione umana ?
Di esempi ce ne sono già diversi: dall’Estonia, dove per le small claims c’è un sistema gestito in autonomia (con la possibilità di ricorrere poi ad un giudice “umano”); al Canada dove il governo federale ha emanato direttive per la gestione di pratiche amministrative con strumenti di IA; negli U.S.A., a parte il noto caso del programma COMPAS sulla previsione della recidiva, di cui al caso Loomis avanti la Corte Suprema del Wisconsin[9], oggi è DONOTPAY (nomina sunt consequentia rerum…)[10] a dominare le cronache; recentissimamente è stata oggetto di numerosi commenti la sentenza del Juzgado Primero Laboral di Cartagena De Indias (Colombia) del 30.01.2023, dove il giudice utilizza proprio ChatGPT per la parte argomentativa della decisione, facendo peraltro proprie le ”risposte” della chatbox ai quesiti posti, allo scopo (esplicitamente unico) di ottimizzare i tempi [11]; ma dove veramente il processo è avanzato è in Cina, dove – a parte l’aspetto formale ed un po’ pittoresco del (finto) giudice in ologramma – le “corti Internet“ lavorano da tempo a ritmo serrato: leggo [12] che si occupano prevalentemente di proprietà intellettuale, commercio elettronico, controversie finanziarie legate alla condotta online, prestiti online, questioni relative ai nomi di dominio, casi di proprietà e di diritti civili che coinvolgono Internet, responsabilità dei prodotti derivanti da acquisti online e alcune controversie amministrative. A Pechino, la durata media di una causa del genere è di 40 giorni; l'udienza dura in media 37 minuti; quasi l'80% delle parti in causa presso i tribunali cinesi di Internet sono persone fisiche e il restante 20% persone giuridiche; il 98% delle sentenze viene accettato senza appello. E mi consentite di dire come parlando di Cina mi sorgano istintivamente vari dubbi (ho sempre in mente il racconto di colleghi al ritorno da un viaggio in Cina dove avevano assistito ad un processo in materia di lavoro…). A monte di tutto ciò, infatti sta il sistema di valutazione sociale (c.d. Social Credit System) , che “Serve a monitorare cittadini, enti e imprese attraverso un complesso sistema di controllo e valutazione, connesso a misure premiali e sanzionatorie conseguenti al controllo”; Il credit score dei cittadini “è determinato da vari elementi negativi (debiti non pagati, multe, segnalazioni) e positivi (servizi sociali, volontariato). Ad un rating positivo corrispondono servizi gratuiti o garantiti (dalle fast lane negli uffici comunali ai servizi di bike sharing, mentre ad un rating negativo corrispondono preclusioni all'acquisto di aerei interni, treni veloci o certe categorie di hotel, sottoposizione a più frequenti controlli, preclusioni all'accesso a certe offerte di lavoro o prestiti” [13].
4. Principi e regole.
Ma non è (solo) una preoccupazione di cassetta, quella che viene espressa da molti.
Credo quindi che si debbano fissare due principi essenziali per la compatibilità “costituzionale” di simili applicazioni (laddove il riferimento è alle Carte sovranazionali ancor prima che alla nostra Costituzione):
- No a decisioni automatizzate
- Sì ad una funzione servente dell’intelligenza artificiale
È evidente che il riferimento costante è alla tutela dei diritti fondamentali: per la funzione giurisdizionale in particolare basti pensare anche soltanto ad alcuni articoli della Carta di Nizza (47, ma anche 48 e 49); all’art.6 CEDU; per la nostra Costituzione pur solo agli artt.Cost. 24, 25, 104 e 111. La Commissione UE nel 2020 ha pubblicato il Libro Bianco sull’I.A. (COM(2020)65)[14], segnalando tra l’altro lavori secondo i quali “Alcuni algoritmi dell'IA, se usati per prevedere il rischio di recidiva di atti delittuosi, possono riflettere distorsioni legate alla razza e al genere, prevedendo probabilità di rischio di recidiva diverse per le donne rispetto agli uomini, oppure per i cittadini di un determinato paese rispetto agli stranieri” (e noi pensiamo subito a COMPAS); e nel 2021 la Proposta di regolamento che stabilisce regole armonizzate sull’intelligenza artificiale (COM(2021)206)[15], nella cui Relazione (§ 3.5) si legge che “L'utilizzo dell'IA con le sue caratteristiche specifiche (ad esempio opacità, complessità, dipendenza dai dati, comportamento autonomo) può incidere negativamente su una serie di diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea”. Nel nostro settore, è fondamentale la Carta Etica europea sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari e negli ambiti connessi adottata dalla CEPEJ nel 2018 [16] che nell’Introduzione ben tratteggia i 5 principi suggeriti (che val la pena ricordare: rispetto dei diritti fondamentali – non discriminazione – qualità e sicurezza – trasparenza, imparzialità e equità – controllo da parte dell’utilizzatore).
Mi spiego allora meglio:
- quella di un “diritto computabile” à la Leibniz, è un’illusione simile a quella settecentesca del giudice bouche de loi
- credo di poter dire che il legislatore europeo (e mi pare ovvio che una regolamentazione sia necessaria a dir poco a livello eurounitario) ne sia ben consapevole:
- attualmente il riferimento europeo è alle citate Proposta di regolamento e Carta Etica, ed è utile anche la Guida per l’uso degli strumenti basati sull’Intelligenza artificiale da parte degli avvocati pubblicata dal CCBE nel 2022, nell’ambito del Progetto AI4Lawyers finanziato dall’Unione [17].
5. AI “servente”.
Vediamo allora solo qualche esempio:
- l’uso dell’AI per soddisfare gli obblighi di compliance nella governance societaria (gestione dati, infrastrutture tecnologiche, responsabilità sociale d’impresa): quando si parla del c.d. “successo sostenibile” dell’impresa, si parla anche di questo profilo (v. ad es. Codice di Corporate Governance Borsa italiana, art.6 Sistema di controllo interno e gestione dei rischi [18]).
- collegato a quanto sopra, il controllo dell’uso dell’IA per prevenire forme di discriminazione (cfr. gli artt.21, 22, 23 della Carta di Nizza)[19] – frequente discussione nel mondo del lavoro e comunque ogni volta si elaborino profili reputazionali (v. ora il Progetto Napoli virtute per la misurazione preventiva dell’affidabilità di enti e persone, Cropnews & Ordine Avvocati Napoli: così, senza riflettere, penso alla Cina…). Di recente si è letto di come negli U.S.A. il Dipartimento di Giustizia abbia iniziato a esaminare un controverso strumento di IA usato nell'area di Pittsburgh, che potrebbe condurre a discriminazioni contro le famiglie con minori disabili: è un programma diretto a determinare il livello di rischio di una famiglia che richieda sostegni di Child welfare;
- nel settore bancario e finanziario, l’uso di diversi algoritmi di machine learning: per es. per l'individuazione degli errori nelle segnalazioni trasmesse dagli intermediari bancari sui prestiti concessi al settore privato [20];
- Il progetto Prodigit, messo a punto dal ministero dell’Economia e dal Cpgt per rendere più trasparente il contenzioso, consentendo ai contribuenti di conoscere il probabile esito di un determinato tipo di causa nella fase di merito (nell’esperienza USA da tempo il programma Blue-J Legal attraverso l’ algoritmo “Tax Foresight” si occupa di incrociare i dati di numerosi precedenti per pervenire a una percentuale che esprime il possibile risultato atteso di una certa interpretazione o applicazione di norme tributarie);
- Iniziative simili dell’Arbitro Controversie Finanziarie (ACF), e dell’Arbitro Bancario Finanziario (ABF) [21].
- le Tabelle milanesi sul danno da morte, definite “una predittività (finalmente) concreta, misurata e realizzata da giuristi”[22]
- il progetto Predictive Justice della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
E voglio segnalare anche un recente software ideato da un valente collega modenese nell’ambito delle valutazioni disciplinari delle condotte degli avvocati, il cui scopo – con le parole dell’autore tratte da una chat – “non è quello di sostituirsi al giudice nella quantificazione della sanzione ma di suggerire un criterio uniforme che possa garantire una tendenziale parità di trattamento: se, nella sua discrezionalità tecnica, il giudice disciplinare valuta come sussistenti uno o più illeciti e una o più circostanze aggravanti e attenuanti, allora la relativa sanzione DISCREZIONALE dovrebbe essere - quantomeno auspicabilmente - UGUALE per tutti gli incolpati nelle medesime condizioni “ (enfasi dell’autore [23]).
Vorrei tener conto anche di una particolare sensibilità del giudice amministrativo italiano, manifestatasi negli ultimi anni, per la tematica dell’ “algoritmo” applicato nelle fasi istruttoria-decisoria di procedimenti amministrativi, in particolare sotto il profilo della trasparenza; si legga tra le diverse decisioni quella del Consiglio di Stato, sez.III, 25/11/2021, n.7891 (mia l’enfasi): “Non v’è dubbio che la nozione comune e generale di algoritmo riporti alla mente “semplicemente una sequenza finita di istruzioni, ben definite e non ambigue, così da poter essere eseguite meccanicamente e tali da produrre un determinato risultato” (questa la definizione fornite in prime cure). Nondimeno si osserva che la nozione, quando è applicata a sistemi tecnologici, è ineludibilmente collegata al concetto di automazione ossia a sistemi di azione e controllo idonei a ridurre l’intervento umano. Il grado e la frequenza dell’intervento umano dipendono dalla complessità e dall’accuratezza dell’algoritmo che la macchina è chiamata a processare. Cosa diversa è l’intelligenza artificiale. In questo caso l’algoritmo contempla meccanismi di machine learning e crea un sistema che non si limita solo ad applicare le regole software e i parametri preimpostati (come fa invece l’algoritmo “tradizionale”) ma, al contrario, elabora costantemente nuovi criteri di inferenza tra dati e assume decisioni efficienti sulla base di tali elaborazioni, secondo un processo di apprendimento automatico”.
6. La Proposta di Regolamento COM(2021)206.
L’approccio della Proposta cit. mi pare in questo senso, cioè “servente”: si individuano le Pratiche di IA vietate (art.5), e quelle ad alto rischio (art.6, c.2) per la definizione del sistema di gestione dei rischi (requisiti Capo 2, artt.8 ss.); sono infatti considerate “ad alto rischio” tra le altre:
All.III, § 8:
Amministrazione della giustizia e processi democratici:
i sistemi di IA destinati ad assistere un'autorità giudiziaria nella ricerca e nell'interpretazione dei fatti e del diritto e nell'applicazione della legge a una serie concreta di fatti.
Ed in linea generale l’accento è posto sulla trasparenza:
Articolo 13
Trasparenza e fornitura di informazioni agli utenti
I sistemi di IA ad alto rischio sono progettati e sviluppati in modo tale da garantire che il loro funzionamento sia sufficientemente trasparente da consentire agli utenti di interpretare l'output del sistema e utilizzarlo adeguatamente…..
I sistemi di IA ad alto rischio sono accompagnati da istruzioni per l'uso in un formato digitale o non digitale appropriato, che comprendono informazioni concise, complete, corrette e chiare che siano pertinenti, accessibili e comprensibili per gli utenti.
Il profilo è stato esaminato nella giurisprudenza civile a proposito della validità del consenso prestato; così ad es., per Cassazione civile, sez. I, 25/05/2021, n. 14381: “In tema di trattamento di dati personali, il consenso è validamente prestato solo se espresso liberamente e specificamente in riferimento ad un trattamento chiaramente individuato; ne consegue che nel caso di una piattaforma web (con annesso archivio informatico) preordinata all'elaborazione di profili reputazionali di singole persone fisiche o giuridiche, incentrata su un sistema di calcolo con alla base un algoritmo finalizzato a stabilire punteggi di affidabilità, il requisito della consapevolezza non può considerarsi soddisfatto ove lo schema esecutivo dell'algoritmo e gli elementi di cui si compone restino ignoti o non conoscibili da parte degli interessati” (contrasto di interpretazioni alla luce del parere negativo del Garante Privacy nel caso Mevaluate, N.488 24.11.2016). Mentre ancora una volta è quella amministrativa a ben scolpire i requisiti richiesti per l’uso di algoritmi: “L'utilizzo nel procedimento amministrativo di una procedura informatica che attraverso un algoritmo conduca direttamente alla decisione finale deve ritenersi ammissibile, in via generale, nel nostro ordinamento, anche nell'attività amministrativa connotata da ambiti di discrezionalità, a condizione che siano osservati: a) la piena conoscibilità del modulo; b) l'imputabilità della decisione all'organo titolare del potere, cui competono tutte le responsabilità correlate; c) il carattere non discriminatorio dell'algoritmo utilizzato” (Consiglio di Stato, sez. VI, 13/12/2019 , n. 8472). La consapevolezza dei “rischi” si manifesta anche in quelle decisioni che chiedono un rafforzamento dell’obbligo motivazionale nel caso di uso di algoritmi (così a T.A.R. Campania, Sez.III, 14.11.2022 n.7003 [24].
Insieme alla trasparenza, l’altro principio sempre presente è quello della partecipazione umana ai processi decisionali:
Articolo 14
Sorveglianza umana
1. I sistemi di IA ad alto rischio sono progettati e sviluppati, anche con strumenti di interfaccia uomo-macchina adeguati, in modo tale da poter essere efficacemente supervisionati da persone fisiche durante il periodo in cui il sistema di IA è in uso.
2. La sorveglianza umana mira a prevenire o ridurre al minimo i rischi per la salute, la sicurezza o i diritti fondamentali che possono emergere quando un sistema di IA ad alto rischio è utilizzato conformemente alla sua finalità prevista o in condizioni di uso improprio ragionevolmente prevedibile, in particolare quando tali rischi persistono nonostante l'applicazione di altri requisiti di cui al presente capo.
Sotto il profilo della giustizia predittiva, allora, la questione è quella della sua “temporalità” e di conseguenti possibili effetti perversi.
Faccio mio uno spunto cui sono debitore al collega avvocato e filosofo del diritto Augusto Romano della Federico II di Napoli: la preoccupazione è che la giustizia predittiva di fatto consideri il futuro come già presente; il passato e il futuro, che non sono comparabili, possono essere omogeneizzati, ed in conclusione il futuro viene svalutato, appiattendolo su un passato che si cristallizza nel presente.
Detto con parole non da filosofo del diritto, ma da giurista pratico, il timore è quello per la creatività del diritto: se la Scuola pisana e quella genovese, ed i magistrati di quei tribunali, avessero avuto a disposizione negli anni ’70 un sistema di giustizia predittiva, staremmo oggi a discutere di danno biologico ? Forse sì, ma non mi sentirei di garantirlo.
Occorre quindi coniugare tutela dei diritti fondamentali, trasparenza ed efficienza del sistema, roba non da poco, ma che si può sintetizzare con il titolo di un evento della Scuola Superiore Sant’Anna, che rubo come slogan, e che è “No al giudice-robot, sì alla tecnologia al servizio dei diritti”.
7. La deontologia della competenza.
Spero che il lettore avveduto, a questo punto, vicini alla conclusione, non si chieda quand'è che affronterò i profili deontologici di cui al titolo: ma una simile domanda mi deluderebbe molto perché a me sembra di averne parlato finora…
Se parlo di diritti fondamentali, posso dimenticarmi l’art.1, 1 e 2 c., l’art.2, c.2, per tacer di altri, della legge professionale forense? e quindi ed a maggior ragione gli art. 1 e 9 del Codice Deontologico degli avvocati? E non esistono doveri del tutto analoghi per i magistrati?
È vero però che si può fare un richiamo più specifico; ed è quello, forse ovvio per gli avvocati, agli artt.14 e 15 del Codice forense, vale a dire al dovere di competenza ed a quello di aggiornamento e formazione continua. I temi di cui discutiamo sono evidentemente “nuovi” per molti legali, di qui la necessità non certo di acquisire skills tecniche che loro non competono, ma di attrezzarsi con conoscenze basiche degli argomenti in discussione per poter valutare da quel punto di vista (e con l’indubbio aiuto di esperti), le pratiche di intelligenza artificiale nelle quali si imbatteranno sempre più frequentemente.
Del resto, sistemi di AI si erano mostrati già in grado di superare esami di profitto in Law School statunitensi [25] (ed ora pare anche in facoltà di medicina), dapprima ai livelli minimi, ma oggi ormai ai più alti: l’ultima (al momento in cui si scrive) evoluzione – GPT-4 – ha avuto risultati migliori del 90% dei candidati in una simulazione del bar exam, ed ancora migliori gli esiti delle prove di letture e scrittura per il SAT [26]: quindi occuparsene è inevitabile. Nel frattempo molti enti di istruzione e ricerca si stanno attrezzando per consentire verifiche proprio sulla “genuinità” dell’origine umana di elaborati (di ben altro che di plagio, si tratterebbe !). Un particolare allarme al riguardo è destato, per es., dall’uso di simili strumenti per la redazione di articoli scientifici in materia medica, per il potenziale impatto sulla salute pubblica di questi studi [27].
8. Una macchina davvero intelligente.
Per chiudere su un tono (purtroppo solo apparentemente) più leggero vorrei rimandare alla lettura di un recente articolo sulla New York Review of Books[28], a proposito di un curioso esperimento: prendendo spunto da un recente oral argument di fronte alla Corte Suprema è stato chiesto a ChatGPT di scrivere un'opinione nello stile del giudice Alito (le cui tendenze conservatrici sono a tutti note) a proposito di un caso che concerneva tanto il primo emendamento sul free speech quanto la discriminazione nei confronti di coppie omosessuali. Ebbene la macchina si è dimostrata assai meno ideologica del giudice rispondendo da subito di essere dispiaciuta, ma di non poter rispondere alla richiesta, perché andava contro la sua programmazione a proposito di contenuti che promuovono discriminazione o pregiudizio: “il primo emendamento protegge la libertà di espressione ma non dà agli individui il diritto di discriminare contro altri o di rifiutare servizi a certi gruppi di persone. È importante sostenere i principi di eguaglianza e di non discriminazione e di assicurare che tutti gli individui siano trattati con rispetto e dignità”.
Una bella lezione per il giudice che ha rovesciato Roe vs Wade.
*Il testo è una rielaborazione degli interventi in diversi convegni sul tema di I.A. e diritto, cui hanno partecipato, tra gli altri, Irina Carnat (Scuola Superiore Sant’Anna), Augusto Romano (Federico II, Napoli) e Gustavo Cevolani (IMT Lucca). Tutti i siti citati sono stati consultati il 18.3.2023.
[1] A.C.CLARKE, “Hazards of Prophecy: The Failure of Imagination", Profiles of the Future (1962)
[2] www.theparisreview.org/blog/2022/11/14/hello-world-part-one-eliza/
[3] La discussione sull’attualità del test di Touring è continua negli anni; nuovi programmi hanno portato a riformulare i criteri del test. Per una elementare panoramica v. la voce in Wikipedia.
[4] P.K.DICK, Rapporto di minoranza e altri racconti, Fanucci, 2004; K.ISHIGURO, Klara e il sole, Einaudi, 2021.
[5] A.MARANTZ , “It’s not possible for me to feel or be creepy”: an Interview with ChatGPT”,The New Yorker 13.02.2023.
[6] J.SOMERS, Whispers of A.I.’s Modular Future, The New Yorker 01.02.2023.
[7] Non io, ma per es. A.CAROBENE, Perchè aggirare l’intelligenza artificiale è possibile, IlSole24Ore del 29.01.2023.
[8] Altrove (nel caso dei saggi che di seguito si citano, negli USA ed in Cina) l’attenzione al tema è impostata su basi scientifiche: Y.IU-V.M. WONG, ChatGPT by OpenAI: The End of Litigation Lawyers? (January 26, 2023, SSRN: https://ssrn.com/abstract=4339839 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.4339839 ; T.WU, Will Artificial Intelligence Eat the Law? The Rise of Hybrid Social-Ordering Systems, 119 Colum. L. Rev. 2001 (2019): dalle nostre parti pare prevalente, per ora, il richiamo ad una (nobile) tradizione.
[9] Il cui esame è stato respinto dalla Corte Suprema U.S.A. : www.scotusblog.com/case-files/cases/loomis-v-wisconsin/ V. anche, tra I tanti, il commento di E.YONG, A Popular Algorithm Is No Better at Predicting Crimes Than Random People, The Atlantic 7.01.2018. In generale su IA e diritto v. S.GREENSTEIN, Preserving the rule of law in the era of artificial intelligence (AI), in Artificial Intelligence and Law (2022) 30:291–323, https://link.springer.com/article/10.1007/s10506-021-09294-4#citeas
[10] I.CARNAT, DoNotPLay with justice: high expectation vs harsh reality of robot lawyers, nel blog del Laboratorio Lider-Lab della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, www.lider-lab.it/2023/02/14/donotplay-with-justice-high-expectation-vs-harsh-reality-of-robot-lawyers/ . Ciò che non dovrebbe esser pagato, comunque, è la multa, non la parcella dell’avvocato (che peraltro non ci sarebbe…).
[11] R.PERONA, ChatGPT e decisione giudiziale, in Diritti Comparati 21.02.2023, https://www.diritticomparati.it/chatgpt-e-decisione-giudiziale-per-un-primo-commento-alla-recente-sentenza-del-juzgado-primero-laboral-di-cartagena-de-indias-colombia/
[12] T.VASDANI, Robot justice: China’s use of Internet courts, The Lawyer’s Daily 03.02.2020.
[13] Così M.SCIACCA, Algocrazia e Sistema demografico. Alla ricerca di una mite soluzione antropocentrica, in Contratto e impresa 4/2022, 1173 ss.
[14] https://op.europa.eu/it/publication-detail/-/publication/ac957f13-53c6-11ea-aece-01aa75ed71a1
[15] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52021PC0206&from=IT
[16] https://rm.coe.int/carta-etica-europea-sull-utilizzo-dell-intelligenza-artificiale-nei-si/1680993348
[17]https://www.ccbe.eu/fileadmin/speciality_distribution/public/documents/IT_LAW/ITL_Reports_studies/EN_ITL_20220331_Guide-AI4L.pdf e https://ai4lawyers.eu/
[18] https://www.borsaitaliana.it/comitato-corporate-governance/codice/2020.pdf
[19] v. Algorithmic discrimination in Europe, del Direttorato generale Justice & Consumers 2021 Commis.UE - https://op.europa.eu/en/publication-detail/-/publication/082f1dbc-821d-11eb-9ac9-01aa75ed71a1/language-en , e di E. FALLETTI, Discriminazione algoritmica, Giappichelli, 2022 (con una prefazione di Roberto Pardolesi).
[20] Questioni di Economia e Finanza (Occasional Papers) N. 611, F.CUSANO- G.MARINELLI – S.PIERMATTEI, Un algoritmo di apprendimento automatico per l'identificazione degli errori segnaletici nei bilanci bancari, https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2021-0611/index.html
[21] F. G. SACCO, Un algoritmo per aiutare la digitalizzazione dell’ABF , ITTIG 2018, http://lvi2018.ittig.cnr.it/contributions?contribution=Un_algoritmo_per_aiutare_la_digitalizzazione_dell___ABF___An_Algorithm_to_Help_the_Digitalization_of_ABF
[22] G. D’AIETTI, Le tabelle a punti del danno da morte: una predittività (finalmente) concreta, misurata e realizzata a giuristi, in Foro it., 2022, V, 284.
[23] L’Avv.Iuri Rudi. Il link per accedere a Deontologicus: https://deontologicus.gestiolex.it/calculemus/
[24] Con nota di D.PONTE, Serve conoscenza e comprensione della decisione “automatizzata”, in Guida al Diritto10.12.2022 p.94 ss. V. anche G.PESCE, Il giudice amministrativo e la decisione robotizzata. Quando l’algoritmo è opaco, In https://www.judicium.it/giudice-amministrativo-la-decisione-robotizzata-lalgoritmo-opaco/?testocercato=pesce&a=
[25] J.H.CHOI, K.E.HICKMAN, A.MONAHAN, D.B.SCHWARCZ, ChatGPT Goes to Law School (January 23, 2023). Minnesota Legal Studies Research Paper No. 23-03;SSRN: https://ssrn.com/abstract=4335905 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.4335905
[26] Scholastic Assessment Test, prova di ingresso per l’ammissione ai college statunitensi.
[27] Sull’ AI-Driven Infodemic Threat v. l’interesse di un gruppo di studiosi dell’Università di Pisa: L.DE ANGELIS, F.BAGLIVO, FRANCESCO, G. ARZILLI, G.P.PRIVITERA, P. FERRAGINA, A.E. TOZZI, C. RIZZO, CATERINA, ChatGPT and the Rise of Large Language Models: The New AI-Driven Infodemic Threat in Public Health (February 9, 2023). SSRN: https://ssrn.com/abstract=4352931 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.4352931.
[28] M.C.DORF-L.H.TRIBE, Court v. Chatbot, NYRB 28.12.2022.
Oggi è un giorno assai brutto, per me. Avrei dovuto, e voluto, scrivere un ricordo di Mario Almerighi, che il 24 marzo è morto. Stamattina, 23 marzo, mi ha colpito duramente, lasciandomi stordito, la notizia che Stefano Racheli è morto (espressione cruda, ma schietta, che preferisco all’assai più diffusa frase “è tornato alla casa del Padre”, che mi pare appartenere alla serie del politicamente corretto). Due amici molto cari, accomunati in un ricordo doloroso.
Non vedevo Stefano da parecchio, ma la nostra amicizia ha attraversato questo lungo periodo con serena tranquillità. Troppo intenso il “comune sentire” che avevamo scoperto, poco a poco, nei nostri quattro anni in comune al Consiglio (1986-1990). Venivamo da esperienze diverse, di vita e di professione; anche le nostre “matrici” (molto più bello di “correnti”) erano diverse, io unicostino, Stefano di MI, e all’epoca queste due “magliette” (lessico CSM) proprio non si amavano. Io però avevo avuto, prima dell’insediamento, un prezioso suggerimento da Mario Almerighi, altro amico carissimo, il quale alla luce della sua appartenenza correntizia , della sua esperienza consiliare di poco anteriore, e della ormai lunga permanenza negli uffici giudiziari della capitale, mi aveva schizzato rapidi ritratti di alcuni dei miei compagni nella prossima avventura consiliare. Quando si arrivò ai nomi, Mario, con il suo spiccato accento sardo, mi disse “di Racheli ti puoi fidare, anche se, naturalmente, sempre da MI proviene” (quasi letterale). Io credevo a Mario più che a me stesso , e quindi guardai da subito Stefano con un occhio “diverso”; non so se qualcuno parlò di me a Stefano, ma mi ricordo benissimo che da molto presto ci accorgemmo di una nostra speciale affinità di fondo, del nostro stare dalla stessa parte , nelle lunghe ore passate insieme nella sezione disciplinare, molto più spesso di quanto si sarebbe potuto pensare, sulla base delle ottiche maggioritarie. Piano piano scoprii di Stefano alcune caratteristiche ancora più in sintonia con le mie. Il massimo di accordo, lo capii subito, ci fu quando scoprii la sua passione per la filosofia che mi fece ritornare ai tempi della licenza di maturità, al liceo Doria di Genova, quando il commissario della materia (allora rigorosamente esterno), mi stampò un bellissimo dieci in filosofia, accompagnando quel meraviglioso voto con alcune osservazioni da far arrossire. Forse, però, guardai a Stefano con più ammirazione quando cominciarono ad uscire, sempre in camera di consiglio disciplinare, le sue vignette ironicamente esplicative, significative come quelle dei più famosi disegnatori dell’epoca; invidiavo con tutta la possibile amicizia la sua abilità illustrativa, il suo saper cogliere il nocciolo (quasi) di ogni situazione, la sua capacità di trovarsi subito un segno distintivo, quasi una firma. Le vignette su Falcone, rappresentato sempre e soltanto con il possente artiglio terminale della zampa di un rapace, molto spesso rampante, ma, dopo l’amarissima conclusione del “caso Falcone”, penzolante a testa in giù, appeso alla cintola di un personaggio che tutti potevano individuare in altro consigliere palermitano. Le camere di consiglio, come ho assai presto compreso con l’esercizio professionale, sono luoghi ed occasioni che io avvicinerei ai confessionali delle grandi chiese. Mentre stavamo, ognuno con il suo personale verdetto già solidamente sviluppato, vedevi Stefano che succhiava una matita, si torceva qualche baffo e, dopo un breve intervallo, scodellava la sua vignetta-sentenza, con annessa motivazione grafica. Non credo di rivelare segreti della camera di consiglio se confesso che, dopo le prime accanite “scagnarate”, Stefano, Fernanda Contri ed io facevamo quasi sempre gruppo, in una staffetta ormai quasi automatica, con la quale cercavamo di convincere gli altri della sezione, portandoli verso le nostre conclusioni. Mano a mano, inoltre scoprivo altre consonanze con Stefano: una delle principali fu la contrarietà quasi fisica al fenomeno, che presto chiamammo, o indicammo col nome di “cappucci”. L’atteggiamento verso i magistrati massoni fu sempre di assoluta negatività: cappuccio e toga, secondo noi, erano totalmente incompatibili, come il diavolo e l’acqua santa- non ricordo chi di noi per primo utilizzò quella espressione. Però, in questa conclusione, che era diventata una costante, non trovavamo concordi altri consiglieri, i quali invece volevano approfondire, distinguere, trovare strade per ammorbidire le nostre conclusioni, secondo alcuni addirittura frutto di fanatismo. Tra i più chiaramente convinti della possibilità di convivenza tra giuramento di fedeltà alla Costituzione e giuramenti massonici, trovammo, fin da subito, l’allora presidente dalla Repubblica, Cossiga , che proprio su quelle vicende cominciò ad usare il piccone, attrezzo distintivo della conclusione di quella presidenza. Con Stefano ( e, a dire il vero, quasi sempre anche Fernanda) trovai con grande velocità una consonanza totale, segno della coerenza morale di quel mio amico. Diventammo amici nel profondo, e diventammo ancora più amici con lo sviluppo, e la conclusione, di quello che nacque come caso Palermo, e diventò rapidamente IL “caso Falcone”. Le vicende specifiche, lo srotolarsi di una oscena ragnatela tessuta nell’ombra, finalizzata ad impedire che Falcone diventasse il direttore dell’Ufficio Istruzione del tribunale di Palermo, sono troppo note perché io mi ci soffermi, ripercorrendo antiche “vie crucis” che a me portarono l’ultimo frutto avvelenato, la telefonata a Giovanni per annunciargli l’esito finale.
Dopo il “sacco” di Palermo, con il quale il Consiglio Superiore distrusse anni ed anni di indagini, di intuizioni convalidate dalla realtà, di nuove “invenzioni organizzative”, e affidò le indagini sul fenomeno mafioso ad un onesto magistrato, tale Meli, che di mafia non capiva nulla, o quasi, dopo questo durissimo scontro, le ceneri e i lapilli uscirono dal palazzo dei Marescialli, e si sparsero nel corpo delle istituzioni e dell’intero Paese. Nacquero, così, due “ nuove mini correnti” coagulate intorno a chi, dentro a fuori il CSM, si era speso per affidare il contrasto alla mafia a quei magistrati che più la conoscevano, per averla incontrata, iniziando ad invertire la prassi precedente, con la sua sfilza lunghissima di assoluzioni. Tra noi il “capitano coraggioso” fu senza dubbio Mario Almerighi, levatrice del “Movimento per la giustizia”, uscito in assoluto contrasto con Unicost; dalla parte opposta, Stefano Racheli diede vita ad altra scissione, che portò ad una “Proposta 88”, in antagonismo convinto con MI. Ovviamente queste vicende consolidarono ancora di più, se possibile, l’amicizia tra me e Stefano, che cominciò perfino a lasciar intravedere un piccolo spaccato della sue vita privata, familiare, superando una testarda ritrosia. Amicizia che contagiò anche le nostre mogli, la mia Giuliana e la sua Luisa, che, nei giardini del Quirinale, in una delle Feste della Repubblica cui l’intero Consiglio era invitato, le scoprimmo che discutevano delle iniziative dei rispettivi mariti.
Finì la consiliatura con una cerimonia nella sede del Consiglio, non nelle sale del Quirinale, caso unico nella storia, (perché il Presidente, sardo, non aveva nè dimenticato, e men che meno perdonato, la nostra posizione sulla massoneria).
Terminata l’esperienza consiliare, con lo strascico doloroso della mancata elezione di Falcone, si separarono le strade mie e racheliane. Ci vedemmo ancora, di quando in quando, ma non si separarono i nostri percorsi umani: quando capitava, specie con altre persone, di ricordare il passato, sempre restava ben solida la collocazione della nostra amicizia.
Pensare che non rivedrò la folta chioma di Stefano, ampiamente imbiancata- in armonia con i baffi – mi sembra impossibile.
Continuerò, comunque, ad andare avanti, portando testimonianza ai giovani, con e senza toga, anche in nome di Stefano. Se lo merita.
Sommario (seconda parte): 9. La notifica dell’ordine/ingiunzione e il ruolo del difensore. - 10. Il termine di pagamento e la richiesta di rateizzazione. - 11. L’accertamento del pagamento o del mancato pagamento e la trasmissione degli atti al magistrato di sorveglianza per la conversione. - 12. L’esecuzione di pene concorrenti. - 13. Il condannato irreperibile. - 14. l’irreperibilità e la estinzione della pena pecuniaria per decorso del tempo. - 15. Entrata in vigore della riforma. - 16.L’esecuzione europea.
9. La notifica dell’ordine/ingiunzione e il ruolo del difensore
L’ordine/ingiunzione di cui all’art. 660 c.p.p. ai sensi del secondo comma va notificato al condannato e al suo difensore, espressamente nominato per la fase di esecuzione ovvero, in mancanza, il difensore della fase di cognizione.
In merito alla notifica al condannato, va osservato che - anche nel codice novellato - dalla separazione tra procedimento esecutivo e di cognizione[41] discende che l’elezione di domicilio (probabilmente anche digitale[42]) fatta in sede di cognizione non possa estendere i suoi effetti in quella successiva, anche qualora il domicilio eletto sia lo studio del difensore destinatario della notifica[43]. Ciò è confermato dal fatto che, rispetto al sistema previgente, la riforma ha ridotto l’efficacia della elezione di domicilio (art. 164 c.p.p.)[44] e, richiedendo una nuova elezione di domicilio anche per l’impugnazione a pena di inammissibilità[45], ha contratto l’ambito di efficacia della elezione iniziale, riducendola dalla intera fase di cognizione alla fase di merito di primo grado.
Qualora non abbia eletto domicilio per la fase esecutiva (come peraltro solitamente accade) ed in assenza di specifiche indicazioni, è da ritenere che la notifica dell’ordine/ingiunzione debba essere fatta ai sensi degli artt. 157 e seguenti del codice di rito, come modificato dal d.lgs. 150/22, con possibile conclusione nel decreto di irreperibilità e conseguente notifica al difensore ai sensi dell’art. 159 c.p.p., norma non modificata in modo significativo. L’unica disposizione specifica (art. 660 comma 5 c.p.p.) è mutuata dal comma 8 bis dell’art. 656 c.p.p., inserito dalla legge 19 gennaio 2001 n. 4:
«Quando è provato o appare probabile che il condannato non abbia avuto effettiva conoscenza dell'avviso di cui al comma 5, il pubblico ministero può assumere, anche presso il difensore, le opportune informazioni, all'esito delle quali può disporre la rinnovazione della notifica.»
Quello del comma quinto è un un potere/dovere del pubblico ministero che consente ed impone all’ufficio di superare nel caso concreto, sulla base di elementi fattuali emersi o informazioni successivamente assunte, le presunzioni formali di validità della normativa sulla notifica. Il suo ambito pratico di applicazione – che contempla la possibilità di assunzione di informazioni da parte del p.m. presso il difensore - in realtà si concentra soprattutto sulla possibilità di rinnovo della notifica apparentemente valida e dunque di remissione in termini per pagare, presentare istanza rateale od altro. La norma istituisce una sorta di “onere probatorio” a carico del condannato di dimostrare la “impossibilità”, temperato dalla valutazione in bonam partem del p.m. delle giustificazioni addotte, evidenziata dalla frase “o appare probabile”.
In sede esecutiva, stante l’indicazione dell’art. 655 c.p.p. comma quinto[46], il mandato difensivo reso nella fase di cognizione non è più efficace (Cass. Sez. III 28.9.2016 n. 11934, RV 270350). La giurisprudenza (Cass. 1, sent. 8.7.2020 n. 23735 RV 279443) ha escluso peraltro che ove la nomina per la fase di cognizione contenga “genericamente” un riferimento alla fase esecutiva non possa valere per tale fase (fatto salvo l’art. 656 comma 5 c.p.p.).
Il rischio che la soluzione del legislatore di coinvolgere in esecuzione un difensore nominato di ufficio non possa garantire appieno la difesa tecnica del condannato, ha quindi indotto il legislatore (analogamente a quanto disposto dalla novella l. 165 del 27 maggio 1998, nella modifica dell’art. 656 comma 5 c.p.p.), ad indicare in via derogatoria nel difensore (o nei difensori) della fase di cognizione, in mancanza di nomina per l’esecuzione, il destinatario della notifica dell’ordine/ingiunzione. Questa forma di “perpetuazione” del mandato difensivo, diversa sia dalla figura del difensore di fiducia che da quella di ufficio[47] è ideata in modo da garantire maggiormente la conoscenza del provvedimento da parte del condannato da parte del professionista che ha con lui maggiori possibilità di contatto reale, visti i brevi termini per proporre istanza di pagamento rateale ai sensi dell’art. 660 comma 3 c.p.p. (venti giorni).
L’obbligo di notificare l’ordine di esecuzione anche al difensore, a pena di nullità ex art. 655 c.p.p., non ha solo uno scopo “informativo”, di garantire la chiarezza e comprensibilità dell’ordine, ma anche e soprattutto di promuovere la funzione difensiva di controllo in contraddittorio della correttezza della azione esecutiva del p.m. ed eventualmente riportarla su un piano di legalità, attraverso il ricorso al giudice dell’esecuzione[48]. I provvedimenti del p.m. in fase esecutiva, in virtù della loro natura non giurisdizionale, sono peraltro revocabili e liberamente modificabili dall’ufficio che li ha emessi, anche a richiesta di parte. Il difensore può pertanto anche rivolgersi direttamente all’organo che ha emesso il provvedimento per ottenerne la correzione o revoca in tempi rapidi, senza attendere la fissazione dell’udienza per incidente di esecuzione. L’eventuale provvedimento di rigetto, anch’esso da notificare (perché altrimenti nullo ex art. 178 c.p.p.) può essere oggetto di incidente di esecuzione, anche promosso dallo stesso p.m. interessandone contestualmente il giudice.
Ciò può accadere ad esempio per errori nell’ordine/ingiunzione nel riportare il comando del giudice, avvenuto pagamento entro i termini non registrato correttamente dal sistema, oppure errori di persona, difetti nelle notifiche, pluralità di sentenze per lo stesso fatto (669 c.p.p.), in caso di cumulo, sui criteri di formazione del cumulo, questioni sul titolo esecutivo come l’avvenuta depenalizzazione del reato ovvero mancata traduzione dell’ordine nella lingua del condannato alloglotta.
A quest’ultimo proposito, sin dal 1995, a seguito della sentenza n.10 del 19 gennaio 1993 della Corte costituzionale, la Cassazione ha rappresentato la necessità di tradurre in lingua nota al condannato che non comprendesse la lingua italiana l’ordine di esecuzione per la carcerazione, anche se tale atto non è previsto nell’elenco di cui all’art. 143, comma 2 c.p.p. (non modificato dalla riforma Cartabia)[49]. L’obbligo di tradurre l’ordine/ingiunzione di pagamento emerge peraltro da una serie di pronunce della Suprema corte sulla necessità di disporre la traduzione dell’ordine di esecuzione[50]. Sicuramente è opportuno, per non rischiare di incorrere in nullità dell’ordine, tradurre gli avvisi quando dagli atti emerga che il condannato non conosce la lingua italiana, in modo da renderlo edotto dei termini e delle modalità del pagamento e delle conseguenze dell’inadempimento.
10. Il termine di pagamento e la richiesta di rateizzazione
Il terzo comma dell’art. 660 c.p.p. fissa il contenuto dell’intimazione di pagamento, che deve avvenire entro il termine di novanta giorni dalla notifica. L’intimazione di pagamento è accompagnata dall’avviso che, in mancanza di pagamento, la pena pecuniaria sarà convertita nella semilibertà sostitutiva (cfr. art. 102 l. n. 689/1981) o, in caso di accertata insolvibilità, nel lavoro di pubblica utilità sostitutivo o nella detenzione domiciliare sostitutiva (cfr. art. 103 l. n. 689/1981).
Dalla Relazione illustrativa si evince che il legislatore ha ritenuto congruo prevedere un termine di novanta giorni dalla notifica “per consentire al condannato di recuperare la disponibilità della somma di denaro necessaria per il pagamento della pena”.
L’ordine di esecuzione contiene inoltre l’avviso al condannato che, quando non è già stato disposto nella sentenza o nel decreto di condanna, entro venti giorni (da intendersi dalla notifica), può depositare presso la segreteria del pubblico ministero istanza di pagamento rateale della pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 133 ter del codice penale. Si tratta di una previsione ricalcata sulla istanza di misure alternative, e si ritiene che – come tale istanza - anche questa possa essere inviata a mezzo posta (e naturalmente PEC, come da nuove disposizioni sul deposito degli atti)[51]: la scelta di depositare presso il p.m. anziché presso l’ufficio di sorveglianza (cui è destinata) l’istanza di rateazione nasce dall’esigenza di interrompere il termine per il pagamento integrale e dunque di impedire che venga immediatamente chiesta la conversione. L’istanza, come quella di misure alternative, se presentata direttamente al magistrato di sorveglianza non è da considerare tuttavia inammissibile[52].
L’istanza, che ha per presupposto – giusto il richiamo all’art. 133 ter cp- le disagiate condizioni economiche del condannato, anche in relazione alla entità della pena inflitta, deve essere documentata, a pena di inammissibilità (art. 233 t.u. spese di giustizia). Il termine di venti giorni è da ritenere decorra dall’ultima notificazione tra quelle previste, tuttavia una istanza di rateizzazione inammissibile presentata dal difensore potrebbe impedire una nuova presentazione nei termini decorrenti dalla notifica al condannato.
Se è presentata istanza di pagamento rateale, il pubblico ministero trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente, che procede ai sensi dell’articolo 667, comma 4, senza udienza partecipata.
È da ritenere che magistrato di sorveglianza, una volta accolta l’istanza, debba trasmettere il decreto di rateizzazione al p.m. per gli accertamenti sul pagamento delle rate. E’ da chiedersi se il legislatore implicitamente abbia previsto che tale decreto contenga, analogamente all’ordine di esecuzione di pena rateizzata dal giudice della cognizione, l’indicazione del numero delle rate, dell’importo e delle scadenze di ciascuna per il pagamento ovvero (ma in tal caso – come osservato dalla Relazione del Massimario - lo avrebbe espressamente previsto) la rateizzazione sia da comunicare al p.m. per emissione di nuovo ordine.
Quando invece la pena pecuniaria è stata già rateizzata dal giudice dell’esecuzione, al comma 4 si prevede che “con l’ordine di esecuzione il pubblico ministero ingiunge al condannato di pagare la prima rata entro trenta giorni dalla notifica del provvedimento, avvertendolo che in caso di mancato tempestivo pagamento della prima rata è prevista l’automatica decadenza dal beneficio e il pagamento della restante parte della pena in un’unica soluzione, da effettuarsi, a pena di conversione ai sensi del terzo comma precedente, entro i sessanta giorni successivi”. Per il pagamento della prima rata, come emerge dalla relazione, il legislatore ha ritenuto congruo prevedere un termine più breve rispetto a quello ordinario di novanta giorni; si osserva che il mancato pagamento della prima rata non determina l’immediata conversione della pena pecuniaria, potendo il condannato – decaduto dal beneficio del pagamento rateale – pagare in un’unica soluzione la multa o l’ammenda entro i successivi sessanta giorni e, pertanto, entro l’ordinario termine di novanta giorni.
11. L’accertamento del pagamento o del mancato pagamento e la trasmissione degli atti al magistrato di sorveglianza per la conversione
Il sesto comma dell’art. 660 c.p.p. disciplina l’ipotesi in cui, entro il termine stabilito, la multa o l’ammenda vengano pagate. Organo competente a verificare l’avvenuto pagamento e a dichiarare l’avvenuta esecuzione della pena è il pubblico ministero: “se, entro il termine indicato nell’ordine di esecuzione, il pubblico ministero accerta l’avvenuto pagamento della multa o dell’ammenda, da parte del condannato, dichiara l’avvenuta esecuzione della pena. In caso di pagamento rateale, il pubblico ministero accerta l’avvenuto pagamento delle rate e, dopo l’ultima, dichiara l’avvenuta esecuzione della pena”.
Come lo accerta? Anche in questo caso è necessario uno sforzo organizzativo e un investimento informatico, che consenta di mettere in diretta comunicazione l’ufficio “cassa” della Agenzia delle entrate con gli uffici di procura. Uno dei motivi per i quali il previgente sistema di esecuzione delle pene pecuniarie non ha dato i suoi frutti, è il mancato coordinamento e i difetti di comunicazione tra l’ufficio del p.m. , l’ufficio di cancelleria (unico che aveva accesso al registro SIAMM su cui interviene l’Agenzia della riscossione). Non vi era una banca dati aperta che consentisse al p.m. di verificare se il pagamento fosse o meno avvenuto, né a che punto fosse la procedura di riscossione. Ora, l’armonizzazione delle banche dati o altre agevolazioni informatiche in questo senso sono adempimenti di assoluta necessità, né è ragionevole investire la segreteria del p.m. di controlli telefonici, ovvero prevedere che possa attendere o dover sollecitare la comunicazione formale del pagamento, posto che il codice impone (anche se la norma ha lo scopo di scandire i tempi e non ha sanzioni processuali) che “entro il termine indicato nell’ordine di esecuzione”, il p.m. accerti l’avvenuto pagamento.
Il settimo comma, disciplina l’ipotesi in cui l’ordine/ingiunzione non sia andato a buon fine. “Quando accerta il mancato pagamento della pena pecuniaria, ovvero di una rata della stessa, entro il termine indicato nell’ordine di esecuzione, il pubblico ministero trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente per la conversione ai sensi degli articoli 102 e 103 della legge 24 novembre 1981, n. 689 ovvero, quando si tratta di pena pecuniaria sostitutiva, ai sensi dell’articolo 71 della medesima legge”. In ogni caso, se il pagamento della pena pecuniaria è stato disposto in rate mensili, è convertita la parte non ancora pagata. Il magistrato competente è quello relativo alla residenza del condannato o al suo luogo di detenzione.
Infine, l’undicesimo comma disciplina il caso in cui vi sia condanna ai sensi dell’art. 534 c.p.p. del “civilmente obbligato per la pena pecuniaria”, a pagare se il condannato risultasse insolvibile. In caso di rilevata insolvibilità del condannato, il magistrato di sorveglianza ne dà comunicazione al p.m. , il quale “ordina” al civilmente obbligato di provvedere al pagamento della pena entro un termine e poi – laddove il pagamento entro il termine non avvenga – di nuovo lo comunica al magistrato di sorveglianza per la conversione. Anche per questo passaggio, come si è già osservato, vi è la complicazione rappresentata dal possibile cambiamento dell’ufficio del p.m.
Nella verifica dell’inadempimento, il p.m., a quanto parrebbe, dovrebbe (data la novità, il condizionale è d’obbligo) essere esentato da ogni valutazione sui motivi, in particolare sulla reale insolvibilità, controllo rimesso invece al magistrato di sorveglianza. Ciò si desume dalla lettera della norma (“quando accerta il mancato pagamento”) nonché dall’intero sistema, che tende a limitare e ridurre i controlli sulla situazione patrimoniale del condannato, affidandoli al magistrato di sorveglianza (“previo accertamento della condizione di insolvenza ovvero di insolvibilità del condannato”) che peraltro ha a disposizione i medesimi mezzi della procura, potendo avvalersi della polizia giudiziaria (art. 660 comma 9 c.p.p.). Non così conclude la Relazione del Massimario[53], richiamandosi alle sentenze Nikolic e Duri: “Al pubblico ministero spetta l’accertamento della impossibilità di esazione, ossia di una obiettiva situazione, attribuibile a qualsiasi ragione, transitoria o definitiva, che costituisce impedimento al regolare recupero della pena pecuniaria.”, tuttavia le due sentenze citate – di cui si è detto – trovano la loro collocazione in un sistema normativo completamente diverso, e comunque riguardano il tema specifico della irreperibilità, in cui è evidente che prima di trasmettere gli atti ogni ricerca del condannato debba essere fatta con cura[54].
La medesima procedura è prevista per la esecuzione delle pene pecuniarie comminate dal giudice di pace: la materia è oggetto di disciplina specifica (d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274) modificata dal d.lgs. 150/22 nel senso di prevedere specificamente, all’art. 72, comma 1, lett. b) del d. lgs. n. 150 del 2022, l’ estensione della disciplina in materia di esecuzione delle pene pecuniarie prevista dal nuovo art. 660 c.p.p. anche ai procedimenti di competenza del giudice di pace.
12. L’esecuzione di pene concorrenti
Quanto osservato per l’esecuzione singola, deve riportarsi anche per l’esecuzione concorsuale, che si ha in presenza di più titoli da eseguire. Il codice di rito, all’art. 663, impone al requirente, qualora siano passate in giudicato più sentenze di condanna in capo al medesimo soggetto, di determinare — mediante decreto — la pena finale da eseguirsi e rinvia, quanto alle regole per il computo, agli artt. 71 ss. c.p.
Il decreto di esecuzione di pene concorrenti, come ogni atto del pubblico ministero, dev’essere notificato al difensore a pena di nullità, ed in caso di una pluralità di pene pecuniarie (anche aggiunte a pena detentiva) nella parte finale dovrebbe riportare per intero il contenuto della ordinanza/ ingiunzione.
Il cumulo non è solo un provvedimento tecnicamente complesso, ma anche “composto”, poiché comprende in sé, oltre alla determinazione della pena finale e all’elenco delle sentenze suscettibili di esecuzione — che ne costituiscono elementi essenziali — anche richieste al giudice dell’esecuzione di revoca dei benefici correlate al complesso delle condanne irrevocabili subite dal soggetto. Le domande rivolte al giudice dell’esecuzione possono essere anche contenute in atti diversi dal decreto di esecuzione di pene concorrenti: tuttavia, poiché il presupposto in fatto della revoca dei benefici richiede il passaggio in giudicato di sentenze di condanna, solitamente nella richiesta è contenuto il richiamo al cumulo o l’elencazione delle condanne che ne fanno parte.
Il magistrato del pubblico ministero è chiamato a redigere il decreto di cumulo ogni qualvolta lo “sviluppo esecutivo” lo richieda, vale a dire — come testualmente recitava l’abrogato art. 582 comma 1 c.p.p. del 1930 — ogni qualvolta l’operazione si renda necessaria per l’avvenuta irrevocabilità di altre sentenze nei confronti della stessa persona. Il motivo è duplice: da un lato, l’interesse del condannato a conoscere con esattezza e completezza la propria situazione esecutiva e, dall’altro, l’interesse dell’ordinamento all’instaurazione di un ordinato rapporto esecutivo unitario. Ciò vale naturalmente anche per il passaggio in giudicato di sentenze che irrogano la sola pena pecuniaria.
In questi casi, il succedersi dei provvedimenti di cumulo può determinare il mutamento della “competenza” del pubblico ministero: l’art. 663 c.p.p., indica infatti come legittimato all’emissione del cumulo, l’ufficio di procura presso il giudice che ha emesso la sentenza divenuta definitiva per ultima, cosicché può determinarsi per ogni nuovo titolo una diversa competenza territoriale. La giurisprudenza ha precisato che la regola della competenza è valida anche per le sentenze ineseguibili, come quelle già espiate in custodia cautelare o interamente condonate, quindi è da ritenere anche per le sentenze con pena pecuniaria pagata.
Richiedono parimenti l’emissione di nuovo cumulo — pur non incidendo sulla competenza — le ordinanze del giudice dell’esecuzione che riconoscono la continuazione in sede esecutiva ex art. 671 c.p.p. o che si pronunciano sulla revoca di benefici, o revocano sentenze per abolizione del reato (art. 673 c.p.p.) o che riconoscono la non eseguibilità per remissione in termini (art. 175 c.p.p.) o qualsiasi altro motivo che determini il venir meno del titolo esecutivo (art. 670 c.p.p.). Anche alcuni provvedimenti del tribunale di sorveglianza che incidono sulla conversione della libertà controllata o della pena pecuniaria di cui agli artt. 47 e seguenti della legge sull’ordinamento penitenziario.
Alla emissione del primo decreto di cumulo nei confronti di un condannato, e comunque ogni qualvolta ne divenga necessaria nuova emissione per i motivi di cui si è detto, la segreteria del pubblico ministero è tenuta a svolgere tutte le attività istruttorie già descritte per il titolo esecutivo singolo. Naturalmente l’attività si presenta più complessa, poiché la corretta redazione del cumulo presuppone una precisa conoscenza anche delle situazioni esecutive precedenti: si devono pertanto raccogliere gli stati di esecuzione, i precedenti cumuli, e se possibile le sentenze che ne fanno parte.
La giurisprudenza ha fornito specifiche indicazioni in merito alla individuazione delle “pene concorrenti” da inserire nel cumulo: lo sono certamente tutte le pene non espiate in tutto o in parte al momento del passaggio in giudicato dell’ultima sentenza di condanna, anche a pena pecuniaria o di assoluzione con applicazione di misura di sicurezza[55].
Gli articoli 73, 75 e l’art. 78 del codice penale definiscono i principi per il calcolo della pena principale in caso di condanna unica per più reati e in virtù del richiamo dell’art. 80 c.p. e dell’art. 663 c.p.p. sono utilizzate per il calcolo della pena per più condanne. Questi precetti definiscono il sistema così detto del “cumulo materiale”, perché si risolvono in una somma aritmetica delle pene concorrenti del medesimo genere (cioè per multa ed ammenda secondo la “moneta corrente”). All’art. 75 c.p. si precisa che eventuali pagamenti di pene pecuniarie in un cumulo vanno detratti prima dalle condanne alla multa e poi da quelle alla ammenda.
È solo il caso di accennare come il principio di unicità della pena in esito al cumulo non esista in tutti gli ordinamenti europei, ma sia un istituto tipico del nostro ordinamento. Nella maggior parte degli altri ordinamenti le pene restano separate così come le condanne e si eseguono l’una dietro l’altra.
Sin dal 1930, il legislatore aveva inteso mitigare la risposta sanzionatoria in caso di pene concorrenti, stabilendo, all’art. 78 c.p., alcune regole per il temperamento delle pene principali. Il limite fissato dall’art. 78 c.p. per le pene principali è del quintuplo della più grave tra le pene concorrenti, e comunque di 15.493,00 euro per la multa (64.557 euro se la multa è applicata con i criteri di cui all’art. 133-bis c.p., commisurata alle condizioni economiche del reo), 3.098 euro per l’ammenda e 12.911 euro, nel caso dell’art. 133-bis c.p.
Le limitazioni di cui all’art. 78 c.p., almeno per le pene pecuniarie, trovino applicazione esclusivamente per i reati previsti nel codice penale e nelle leggi entrate in vigore prima della l. n. 689 del 1981, il cui art. 101 ha novellato la disposizione. La normativa complementare successiva contempla limiti edittali superiori a quelli dell’art. 78 c.p. per le pene pecuniarie, ma in virtù della prevalenza della legge speciale, si applica la disciplina derogatoria, giusto disposto dell’art. 15 c.p.[56] Parimenti, il criterio moderatore non vale per le pene pecuniarie proporzionali, ad esempio quelle finanziarie, come espressamente previsto dall’art. 27 c.p.
13. Il condannato irreperibile
Che cosa accade in caso di irreperibilità del destinatario dell’ordine/ingiunzione? [57]
Come è noto, per l’ordine di esecuzione con sospensione per pena detentiva, la declaratoria di irreperibilità conduce, scaduti i termini per la notifica, alla emissione di un ordine di esecuzione diffuso sulle piattaforme SDI, cosicché appena trovato il condannato è condotto in detenzione e è suo onere dimostrare la mancata conoscenza incolpevole del provvedimento di cui all’art. 656 comma 5 c.p.p., ovvero impugnare l’ordine davanti al giudice dell’esecuzione per nullità del decreto di irreperibilità.
In relazione alla pena pecuniaria, nel sistema precedente la riforma, ai sensi dell’art. 235 t.u. spese di giustizia in caso di esecuzione della sola pena pecuniaria la notifica ex art. 143 c.p.c. della ingiunzione di pagamento era ostativa alla iscrizione a ruolo. In caso in cui la condanna comprendesse anche la pena detentiva la cancelleria rimetteva gli atti al p.m. per la notifica ex art. 159 c.p.p., e, solo nel caso il condannato ritornasse reperibile, il credito veniva nuovamente iscritto a ruolo. Tale disposizione, “congelando” di fatto la procedura, impedisce che possa procedersi a conversione nel caso di irreperibilità, in conformità agli arresti giurisprudenziali.
Già dal 1996, infatti, la Suprema Corte, nella sentenza a Sezioni Unite Nikolic[58] aveva escluso che si potesse procedere a conversione delle pene pecuniarie in caso di irreperibilità, proprio perché tale stato non consentiva al magistrato di sorveglianza di raccogliere elementi per l’accertamento della insolvenza o insolvibilità del condannato.
Certamente anche nella disciplina riformata i principi indicati dalla Suprema Corte sui poteri di conversione in mancanza di reperibilità possano essere di guida all’interprete nella ricostruzione della procedura da seguire.
Resta dubbio se, in caso di irreperibilità del destinatario della notifica dell’ordine di esecuzione/ingiunzione ex art. 660 commi 1 e 2 c.p.p. ai sensi dell’art. 159 c.p.p. [59], irreperibilità accertata in seguito a indagini scrupolose, il p.m. sia tenuto comunque a trasmettere gli atti al magistrato di sorveglianza per la conversione.
Ritenendo che il p.m. non possa entrare in alcun modo nella valutazione della possibilità di conversione, e comunque ricalcando lo schema dell’art. 656 comma 5 c.p.p., si potrebbe ipotizzare che, a seguito di irreperibilità ed emesso il relativo decreto, il p.m. perfezioni la fase notificando l’atto al difensore. Poi, scaduti i termini e verificato il mancato pagamento (che potrebbe avvenire anche da parte di terzi), trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza per la conversione. Si ritiene che il magistrato di sorveglianza, dovrebbe essere tenuto a svolgere le ricerche e solo in caso di conferma della irreperibilità del condannato con conseguente impossibilità di verifica delle sue condizioni economiche, possa restituire gli atti al p.m.
Mentre in passato, sulla scorta della sentenza Nikolic, in considerazione della attribuzione della competenza alla riscossione delle pene pecuniarie in capo alla cancelleria del giudice della esecuzione si escludeva che il p.m. potesse (e dovesse) procedere a nuove ricerche del condannato (non potendo ritenersi il p.m. un organo “servente” alla cancelleria)[60], con l’attuale attribuzione al p.m. della competenza esecutiva è invece ipotizzabile che una volta restituiti gli atti dal magistrato di sorveglianza l’ufficio requirente (presso il giudice dell’esecuzione, come si è detto) dovrebbe riprendere le ricerche, o comunque rinnovare quelle già a suo tempo inserite in SDI.
Ma, evidenziando la diversità di funzione tra la notifica del decreto di sospensione ex art. 656 comma 5 c.p.p., solo di tipo sospensivo/informativo e quella dell’ordine ex art. 660 c.p.p. di vera e propria ingiunzione al pagamento diretta al condannato entro un termine, potrebbe anche ritenersi che la notifica che fa decorrere il termine di novanta giorni sia solo quella effettivamente ricevuta dal condannato, e dunque in caso di irreperibilità, fatta salva la notifica al difensore del relativo decreto, il p.m. non possa avviare il procedimento di conversione e debba limitarsi a andare avanti nelle ricerche. Questo avrebbe il pregio di evitare un inutile passaggio al magistrato di sorveglianza che peraltro ha i medesimi poteri investigativi del p.m. nell’accertare la reperibilità a la condizione economica del condannato e che dovrebbe comunque restituire gli atti.
Ma fino a quando può essere cercato il condannato? Il tema è quello della estinzione della pena per decorso del tempo.
14. L’irreperibilità e la estinzione della pena pecuniaria per decorso del tempo
Ai sensi degli artt. 172 e 173 c.p., la pena (anche pecuniaria) si estingue decorso un termine dal passaggio in giudicato della sentenza ovvero dalla scadenza di un termine o dal verificarsi di una condizione cui è subordinata l’esecuzione della pena. La multa si “prescrive” nel termine di dieci anni, ovvero, se congiunta a pena detentiva, nel tempo corrispondente all’estinzione di quest’ultima -pari al doppio della pena concretamente inflitta - con un minimo di dieci anni e un massimo di trenta. Per le pene da delitto l’effetto prescrittivo viene espressamente escluso dall’art. 172, comma settimo, c.p. per i recidivi, per i delinquenti professionali, abituali o per tendenza e per coloro che, durante il tempo previsto per l’estinzione della pena, riportano una condanna alla reclusione per un delitto della stessa indole.
L’ammenda invece, così come l’arresto, si prescrive nel termine di cinque anni. Per i recidivi, per i delinquenti professionali, abituali o per tendenza il termine è raddoppiato. Non vi sono motivi impeditivi all’esito prescrittivo.
Le circostanze che escludono la prescrizione sono veri e propri fatti impeditivi, né l’istituto soggiace alle regole della sospensione e della interruzione proprie della estinzione dei reati[61].
La norma trova il suo fondamento - come la prescrizione (ed infatti la giurisprudenza la definisce “prescrizione della pena”) - sul venir meno dell’interesse pubblico alla punizione una volta decorso un certo lasso di tempo dalla condanna. La dottrina ha parlato di un “rapporto di proporzione inversa esistente tra il decorso del tempo e la potestà punitiva dello Stato, che si concretizza nell’irrogazione delle sanzioni penali”[62]. Ulteriore principio a fondamento dell’istituto, l’interesse del condannato a non restare a tempo indeterminato in attesa di una attività esecutiva.
L’inizio della esecuzione, cioè il momento in cui lo Stato esercita la sua potestà punitiva, “blocca” il decorso della prescrizione, che comunque ricomincia a decorrere al momento della volontaria sottrazione alla esecuzione già iniziata (art. 172 comma 5 c.p.). Da tale norma si evince che l’inizio della esecuzione non costituisca un fatto impeditivo in senso tecnico, legato alla condotta del condannato o alla sua qualità personale di recidivo (o dichiarato delinquente professionale ecc…) ma un vero e proprio termine finale, che infatti al momento della recuperata libertà ricomincia a decorrere per intero.
Il dies a quo dal quale computare il decorso del termine prescrizionale è il passaggio in giudicato della sentenza, ma solo laddove possa fungere da “titolo esecutivo”, cioè sia “teoricamente” eseguibile[63], mentre l’inizio della esecuzione è da individuare al momento della carcerazione (o, per l’affidamento in prova ai servizi sociali al momento della sottoscrizione del verbale di affidamento)[64]”. Una ricostruzione completa del sistema della prescrizione delle pene in questo senso è stata di recente operata dalla sentenza a Sezioni Unite Scott Uhuwamango n. 46387 del 15/07/2021, Rv. 282225, che ha escluso che la decorrenza parta dalla “concreta” eseguibilità del titolo, ovvero al momento in cui la pena possa avere esecuzione per conclusione di ogni elemento condizionante o sospensivo, ad esempio la sospensione ex art. 656 comma 5 c.p.p., ancorandola invece ad una data certa, come quella del passaggio in giudicato per sentenza di condanna a pena determinata.
Analogamente, ricostruisce il termine finale di decorrenza (“l’inizio della esecuzione”) per la pena carceraria disancorandolo da ogni attività degli organi deputati alla esecuzione e fissandolo solo nell’inizio della sottoposizione a misura[65].
Nel sistema previgente, la Suprema Corte si era trovata a dare indicazioni per individuare il momento dell’”inizio della esecuzione” (fermo restando il dies a quo) particolarmente problematico, per i diversi passaggi che compongono il procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie.
Certamente l’esecuzione doveva ritenersi iniziata al momento della conversione della pena disposta dal magistrato di sorveglianza. La terza Sezione della Corte nella sentenza n. 11464 del 19/01/2001 Rv. 21875, Nicolosi, nell’indicare questo principio di diritto, in motivazione fa riferimento specifico a tutti i passaggi a partire dalla notifica dell’estratto esecutivo al condannato con l’intimazione al pagamento/atto di precetto, che considera primo atto della esecuzione, ai sensi dell’allora vigente art. 181 disp. att. c.p.p.[66].
Anche “l'effettuazione del pagamento parziale ne impedisce l'estinzione, indipendentemente dalla circostanza che ad esso seguano altri pagamenti fino al completo adempimento del debito, ovvero che sia stata successivamente notificata una cartella esattoriale per la somma residua” (Sez. 3, Sentenza n. 17228 del 03/11/2016 Ghidini, Rv. 269981). Questa sentenza consente di confermare anche per la pena pecuniaria l’idea secondo cui l’inizio della esecuzione non operi come “fatto impeditivo” in senso stretto, ma come termine finale che “chiude” ogni possibilità di prescrizione[67].
Né è da ritenere “sospeso” il termine durante il periodo di carcerazione del condannato[68]. Così Sez. 1, Sentenza n. 8166 del 16/01/2018 Esposito Rv. 272418 “Il termine di prescrizione della pena pecuniaria individuato dall'art. 172, comma terzo, cod. pen. è determinato "per relationem", in funzione di quello applicabile alla pena detentiva congiuntamente inflitta, e non è influenzato da vicende successive, quali quelle concernenti l'esecuzione della predetta sanzione detentiva o la sua stessa estinzione. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato l'ordinanza del giudice dell'esecuzione che aveva ritenuto sospeso il termine di prescrizione della pena pecuniaria durante l'espiazione di quella detentiva)”.
Infine, la giurisprudenza più recente, fondandosi sugli artt. 212 e 227 ter t.u. spese di giustizia, (Sez. 1, Sentenza n. 22312 del 08/07/2020 Vitobello Rv. 279453) ha ritenuto che fatto impeditivo del decorso della prescrizione fosse unicamente “l’inizio dell'esecuzione”, da individuare nel momento in cui “il debito erariale viene iscritto a ruolo, oppure, secondo una tesi alternativa, quando venga notificata la cartella esattoriale”. In quel momento lo Stato manifesta infatti la sua pretesa punitiva, fermando per sempre il decorso della prescrizione.
La procedura per i condannati irreperibili non trovava comunque alcun ostacolo al decorso dei termini per l’estinzione della pena. Ai sensi dell’art. 235 t.u. spese di giustizia, infatti, in caso di irreperibilità del destinatario della notifica dell’invito al pagamento la iscrizione a ruolo non avveniva, e dunque non si aveva mai un “inizio della esecuzione”.
Nel sistema disegnato dalla riforma, non vi è il passaggio della iscrizione a ruolo, dunque secondo quali modalità opera la estinzione della pena per decorso del tempo?
Il legislatore ci dà una risposta nel comma 10 del novellato art. 660 c.p.p., che tratta della richiesta del condannato di differimento al magistrato di sorveglianza. La norma precisa: “ai fini della estinzione della pena pecuniaria per decorso del tempo, non si tiene conto del periodo durante il quale la conversione è differita”. Da questo inciso si desume che, prima della ordinanza di conversione, anche durante il periodo in cui il magistrato di sorveglianza svolge i suoi accertamenti, non vi è alcuna attività di avvio della esecuzione. Non solo, ma si desume anche che unico atto sospensivo sia il differimento su richiesta ad opera del magistrato di sorveglianza.
Per questo, rispondendo alla domanda posta alla fine del precedente paragrafo, si può ragionevolmente ritenere che la ricerca dell’irreperibile per la notifica dell’ordine/ingiunzione e poi per la conversione della pena pecuniaria trovi la sua conclusione temporale nella estinzione per “prescrizione”. Laddove quindi la trasmissione degli atti per la conversione si sia interrotta per irreperibilità del condannato (e dunque impossibilità di accertamento[69]), con la restituzione degli atti al p.m. da parte del magistrato di sorveglianza, le eventuali rinnovate ricerche o il mantenimento delle previgenti potrebbero andare avanti solo fino alla estinzione della pena (salvo che per altri impedimenti, quale ad esempio la “recidiva ostativa” che escludono in toto l’effetto estintivo).
Viceversa, nel caso in cui l’ordine/ingiunzione sia notificato, la pena non pagata si prescrive se nel termine estintivo di legge non venga emessa l’ordinanza di conversione. Tale atto, invece, impedisce per sempre il decorso della prescrizione.
Nel caso invece che il condannato inizi a pagare, è da ritenere, sulla scorta di quanto indicato dalla Corte di Cassazione nella citata sentenza della terza Sezione del 2016 Ghidini, che l’esecuzione abbia avuto inizio e dunque - indipendentemente se si proceda o meno a conversione per il residuo – la prescrizione non possa più realizzarsi.
15. Entrata in vigore della riforma
Ai sensi dell’art. 97 d.lgs. 150/2022 (disposizioni transitorie in materia di esecuzione e conversione delle pene pecuniarie) è disposto che” 1. Salvo che risultino più favorevoli al condannato, le disposizioni in materia di conversione delle pene pecuniarie, previste dall'articolo 71 e dal Capo V della legge 24 novembre 1981, n. 689, come modificate dal presente decreto, si applicano ai reati commessi dopo la sua entrata in vigore. 2. Fermo quanto previsto dal comma 1, ai reati commessi prima della data di entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi le disposizioni in materia di conversione ed esecuzione delle pene pecuniarie previste dal Capo V della legge 24 novembre 1981, n. 689, dall'articolo 660 del codice di procedura penale e da ogni altra disposizione di legge, vigenti prima della data di entrata in vigore del presente decreto. 3. Le disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, abrogate o modificate dal presente decreto, nonché' le disposizioni di cui all'articolo 1, comma 367, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, continuano ad applicarsi in relazione alle pene pecuniarie irrogate per reati commessi prima della sua entrata in vigore”.
Anche in mancanza di norma transitoria, era comunque da ritenere che le disposizioni – in quanto direttamente incidenti sul trattamento sanzionatorio – benché inserite nel codice di rito, fossero “sostanzialmente” di natura penale[70]e dunque non applicabili ai procedimenti per reati commessi in vigenza del regime precedente. L’irretroattività consegue peraltro al fatto che, in generale, il nuovo regime prevede per il condannato insolvente un trattamento peggiore di quello ante riforma. La Relazione del Massimario[71] osserva infatti che la disciplina, per il complessivo irrigidimento dei presupposti della conversione sarebbe da ritenersi “peggiorativa” e dunque irretroattiva. Lascia un limitato spazio alla possibile retroattività in concreto alla disciplina di favore dettata in tema di rateizzazione a seguito della intimazione di pagamento della pena pecuniaria, “atteso l’ampliamento delle possibilità di richiesta dell’agevolazione e la intervenuta dilatazione dei tempi di pagamento e del numero delle rate mensili in cui questo può essere suddiviso ex art. 133-ter cod. pen”.
La conclusione è tendenzialmente da condividersi: d’altra parte anche per l’insolvente “incolpevole” di cui all’art. 103 del t.u. spese di giustizia richiamato dall’art. 660 c.p.p., l’esito della conversione è l’applicazione della detenzione domiciliare o del lavoro di pubblica utilità sostitutivo, entrambe le misure maggiormente gravose che la libertà controllata applicata nella vigenza del regime precedente.
Peraltro, la possibile natura più favorevole della nuova disciplina rispetto alla precedente in materia di misura della conversione derivante dalle diverse norme e pronunce che nel tempo hanno modificato, fino alla sentenza 1/2012 della Corte costituzionale, i termini di ragguaglio, verrebbe ad incidere solo sulla misura della pena convertita e non sulla procedura di esecuzione/conversione[72].
In concreto, la nuova procedura esecutiva dovrebbe dunque entrare in vigore per i fascicoli di esecuzione relativi a fatti commessi dopo il 30 dicembre 2022. Ciò non significa però che le procedure organizzative e gli strumenti da parte del Ministero non debbano essere assunti con tempestività: infatti i procedimenti con arresto in flagranza per reati, come la rapina o inerenti gli stupefacenti, in cui è prevista una pena pecuniaria, potrebbero divenire irrevocabili e dunque esecutivi in pochi mesi, con obbligo per le procure di procedere a notificare l’ordine di esecuzione/ingiunzione comprensivo di modalità di pagamento prevista dalla norma, verifica della inadempienza, trasmissione per la conversione, tutte attività estremamente difficoltose senza gli adeguati strumenti, tra cui modulistica, banche dati, sistema di produzione automatica del modello di pagamento ed altri previsti dal nuovo articolato.
16. L’esecuzione europea
Naturalmente il procedimento, come nel sistema previgente, vale anche per le pene pecuniarie oggetto di sentenza straniera riconosciuta in cui lo Stato italiano sia interessato per la esecuzione. Con il d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 37, il legislatore nazionale ha dato attuazione alla decisione quadro 2005/214/GAI, con la quale gli Stati membri dell'Unione Europea hanno fissato - disciplinandone l'operatività - il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni applicative di sanzioni pecuniarie, quale ulteriore strumento di cooperazione giudiziaria nell'Unione tanto in materia civile quanto in materia penale "al fine di facilitare l'esecuzione di dette sanzioni in uno Stato membro diverso dallo Stato in cui sono state comminate" quando il condannato ha residenza ovvero beni in altro Stato membro[73]. La competenza è del procuratore generale presso la Corte di appello competente del luogo dove il condannato risiede o ha i beni. Questo ufficio, quando riceve da un altro Stato membro dell'Unione europea, ai fini dell'esecuzione in Italia, una decisione sulle sanzioni pecuniarie, corredata dal certificato (modello da riempire), deve fare richiesta di riconoscimento “senza ritardo” alla Corte competente.
Il riconoscimento della decisione straniera - poggiando sul reciproco affidamento fra gli ordinamenti dei Paesi membri - non è subordinato alla condizione che l'ordinamento processuale straniero e quello italiano siano del tutto simili o assimilabili e che la decisione cui sarà data esecuzione in Italia sia stata resa all'esito di un giudizio disciplinato da regole procedurali sovrapponibili a quelle dello Stato membro di esecuzione. Proprio per prevenire possibili ostacoli di natura processuale derivanti dalle disomogeneità nella previsione delle autorità competenti ad applicare le diverse pene pecuniarie, il legislatore comunitario ha, inoltre, espressamente previsto che possano essere riconosciute le decisioni applicative di sanzioni pecuniarie rese tanto dall'autorità giudiziaria, quanto dall'autorità amministrativa (art. 2 d.lgs. n. 37 del 2016). E’ prevista invece in via generale come limite al riconoscimento la “doppia incriminazione” ad eccezione delle ipotesi elencate all’art. 10, tra cui le sanzioni conseguenti a violazioni del codice della strada.
La possibilità di conversione della pene pecuniaria in pena diversa è subordinata al consenso dell’autorità richiedente espressa nel certificato, pertanto, se non sia stato espresso, nel nuovo sistema in cui non vi è spazio per l’esecuzione forzata civile, ciò potrebbe essere di ostacolo alla esecuzione.
[41] Più volte si è ritenuta la nullità in fase esecutiva della notificazione al domicilio eletto nella fase di cognizione (Sez. 3, n. 22778 del 11/04/2018, Scicolone, Rv. 273154; Sez. 1, n. 43551 del 10/10/2013, Ciranna, Rv. 257173; Sez. 3, n. 14930 del 11/02/2009, Amato, Rv. 243385). Non a caso, il condannato non detenuto ha l'obbligo di fare la dichiarazione o l'elezione di domicilio con la domanda con la quale chiede una misura alternativa alla detenzione (art. 677, comma 2-bis, cod. proc. pen.).
[42] Art. 161 c.p.p. comma 1. Il giudice, il pubblico ministero o la polizia giudiziaria, nel primo atto compiuto con l'intervento della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato non detenuto né internato lo invitano, a dichiarare uno dei luoghi indicati nell'articolo 157, comma 1, o un indirizzo di posta elettronica certificata ovvero a eleggere domicilio per le notificazioni dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, degli atti di citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450 comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale di condanna.
[43] Cfr. in relazione all'art. 656 comma 5 c.p.p., Cass., Sez. IV, 27 settembre 2002 n. 35979 RV 222577 ed altre.
1. La determinazione del domicilio dichiarato o eletto è valida per ogni stato e grado del procedimento, salvo quanto è previsto dagli articoli 156 e 613 comma 2 per le notificazioni dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, degli atti di citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale, salvo quanto previsto dall’articolo 156, comma 1
[44] Art. 164. Durata del domicilio dichiarato o eletto 1. La determinazione del domicilio dichiarato o eletto è valida per ogni stato e grado del procedimento, salvo quanto è previsto dagli articoli 156 e 613 comma 2 per le notificazioni dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, degli atti di citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale, salvo quanto previsto dall’articolo 156, comma 1.
[45] 3.1.1 Per la proposizione dell’impugnazione è ora innanzitutto previsto che con l’atto di impugnazione delle parti private e dei difensori debba sempre essere depositata anche la dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio ([4]). La sanzione è quella dell’inammissibilità dell’atto di impugnazione [581.1-ter]. L’indicazione pare inequivoca nel senso di un deposito contemporaneo dei due documenti (l’atto di impugnazione e la dichiarazione o elezione di domicilio), con la conseguenza che, in ogni caso, solo se il secondo documento sarà depositato entro la scadenza del termine per impugnare l’appello sarà ammissibile (prescindendo da ogni altra questione sulla sua autonoma ammissibilità formale).
La presenza di tale indicazione formale del proprio domicilio da parte dell’imputato dovrà pertanto essere oggetto di specifica verifica già nello spoglio preliminare dei fascicoli pervenuti.
Si è scelto di evitare alcun automatismo, con una imposta elezione di domicilio presso il difensore che assiste l’imputato, perché foriero di potenziali problematiche sull’effettiva conoscenza della citazione per quanto attiene all’evoluzione possibile del rapporto e contatto tra difensore (pur diligente) ed assistito, dopo la proposizione dell’impugnazione. La dichiarazione o elezione di domicilio (che appunto va depositata anche quando l’atto sia materialmente redatto e depositato dal difensore) deve, per logica sistematica, essere successiva alla deliberazione della sentenza impugnata: essa infatti è appunto finalizzata a consentire la efficace e tempestiva citazione per quel giudizio di appello che proprio dall’imputato e nel suo interesse viene espressamente richiesto. Nelle indagini preliminari e nel giudizio di primo grado è fisiologico che sia lo Stato a dover cercare la persona nei cui confronti si procede e informarlo dei passaggi essenziali del procedimento e, in particolare, della fase processuale. Ma quando appellante è solo la parte privata, che è pertanto il soggetto processuale che attiva il secondo grado di giudizio che impedisce l’immediata irrevocabilità della prima decisione, era e rimarrebbe francamente poco comprensibile che l’ “attore” si possa poi sottrarre al tempestivo rintraccio per atti che sono indispensabili per giungere a quel giudizio rivisitante che proprio lui ha chiesto.
La dichiarazione o elezione di domicilio (ovviamente quest’ultima anche presso il difensore che assiste l’imputato al momento del deposito dell’atto di appello) deve quindi essere depositata sia che l’imputato abbia presenziato al giudizio sia in caso di sua assenza dichiarata dal primo giudice ([5]).
3.1.2. Per i soli imputati dichiarati assenti, invece, per proporre l’atto di impugnazione il difensore deve essere munito di specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza, da intendersi anche solo la pubblicazione del dispositivo. Tale mandato deve contenere anche la dichiarazione o l’elezione di domicilio dell’imputato ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio [581.1-ter] ([6]).
[46] I provvedimenti del pubblico ministero dei quali è prescritta nel presente titolo la notificazione al difensore, sono notificati, a pena di nullità [177-186], entro trenta giorni dalla loro emissione, al difensore nominato dall'interessato o, in mancanza, a quello designato dal pubblico ministero a norma dell'articolo 97, senza che ciò determini la sospensione o il ritardo dell'esecuzione.
[47] Cfr. Cass. Sez. I, 21 febbraio 2017, n. 39894, Seck, non massimata.
[48] Legge 16 febbraio 1987, n. 81. Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale. Art. 2 direttiva 96).
[49] Cass., Sez. VI, 8 marzo 1995 n. 843, RV n. 201441;Cass., Sez. I, 19 aprile 2000 n. 3043, RV n. 216095;Cass., Sez. I, 6 maggio 2010, n. 20275, RV., n. 247212; Cass., Sez. III, ordinanza 15 novembre 2002 n. 1715 RV., n. 223278; Nella sentenza della seconda Sezione Ciausu (Cass., Sez. 2, 14 marzo 2002 n. 18136 RV., n. 221857, accompagnata da Relazione dell’ufficio del Massimario in cui si rileva la parziale discordanza di questa pronuncia da quelle precedenti. Relazione numero 20021059R Data 16/09/2002
[50] Nella sentenza Ogyanov del 2018, la Suprema Corte, pur ribadendo la nullità dell’ordine di esecuzione non tradotto in lingua conosciuta dal condannato, ha precisato «Va incidentalmente rilevato che diverso esito s'imporrebbe nell'ipotesi viceversa regolata dall'art. 656, comma 5, cod. proc. pen.; qui, a fronte di pena residua espianda contenuta entro i limiti stabiliti, l'ordine di esecuzione (assieme al decreto di sospensione che in tal caso vi accede) si atteggia ad autonomo presupposto di specifici diritti e facoltà in capo al condannato, da esercitarsi prima della materiale carcerazione (mediante la presentazione, dalla libertà, delle istanze di misura alternativa), in grado di essere irrimediabilmente pregiudicati dai vizi dell'ordine stesso, anche ad esso immanenti; vizi che dunque si ripercuoterebbero sulla regolarità dell'espiazione che fosse ciò nonostante intrapresa.»
[51] La possibilità che sia trasmessa anche con mezzo postale è contemplata da Cass. Sez. I, 24 aprile 2013 n. 18441, RV. 255852 e il termine è quello della ricezione.
[52] Cass., Sez. I, 17 marzo 2005, n. 12329, RV n.231440
[53] p.221.
[54] V. infra, par. 9, in cui si sostiene che il controllo sulla reperibilità sia da svolgere comunque da parte del p.m. successivamente alla restituzione degli atti da parte del magistrato di sorveglianza per irreperibilità.
[55] Cfr., da ultimo, Sez. 1 - , Sentenza n. 13985 del 25/02/2020 Cc. (dep. 07/05/2020 ) Rv. 278939
[56] In questo senso, sulle sanzioni del d.lgs. n. 277 del 1991 sulla sicurezza del lavoro, vedi Cass., Sez. III, 27 giugno 1995, n. 9775, RV, n. 202951. Le pronunce sono relative alla pena pecuniaria: cfr. da ultimo, Cass., Sez. III, 6 dicembre 2012, n. 2302, RV. 254140; Cass., Sez. III, 12 marzo 1998, n. 5590, RV. 210939.
[57] Secondo la giurisprudenza sul 656 comma 8 bis c.p.p., la disposizione non si applica agli irreperibili. Cfr. Cass., Sez. I, 30 novembre 2017 n. 1779, in C.E.D. Cass., n. 272054.
[58] Sez. U, n. 35 del 25/10/1995, dep. 1996, Nikolic, Rv. 203295, in motivazione, fa riferimento alla insolvibilità come condizione oggettiva di impossibilità di esazione della pena pecuniaria (nella specie, nei confronti di condannato irreperibile), che legittima la trasmissione degli atti al magistrato di sorveglianza. Sul medesimo tema, Sez. 1, n. 2668 del 02/05/1995 P.M. min. in proc. Duri, Rv. 201480, ha affermato che In tema di conversione di pene pecuniarie per insolvibilità del condannato, atteso che l'accertamento della insolvibilità compete, ai sensi dell'art. 660, comma secondo, c.p.p., al magistrato di sorveglianza, questi, anche quando la impossibilità di esazione che ha dato luogo alla trasmissione degli atti da parte del pubblico ministero sia dovuta a irreperibilità del condannato, non può per ciò solo restituire gli atti medesimi al summenzionato ufficio, ma deve invece disporre comunque le opportune indagini in ordine alla solvibilità del soggetto ed al connesso punto della reperibilità di costui. Ancora, deve essere ricordato come la Corte costituzionale con ordinanza 107 dicembre 1997 n. 416 abbia dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 660 c.p.p. sollevata nella parte in cui non consente la conversione delle pene pecuniarie non recuperate per insolvibilità del condannato ove quest'ultimo risulti irreperibile.
[59]L’ art. 159 c.p.p., non è stato modificato dalla riforma in modo sostanziale.
[60] In motivazione: “Neppure condivisibile appare, però, la soluzione adottata dall'altro indirizzo giurisprudenziale, perché pone a carico del P.M. l'onere di accertare l'effettiva insolvibilità del condannato, in contrasto con Il regolamentazione che sembra discendere dal combinato disposto degli art. 660 comma 2 c.p.p., 181 e 182 delle disp.att.al c.p.p..
Benvero, da un armonico coordinamento delle richiamate norme, appare evidente che il compito del P.M. nella procedura in argomento è limitato, soltanto, ad un controllo formale dell'attività svolta dalla cancelleria del giudice dell'esecuzione cui fa carico, istituzionalmente. ai sensi dell'art. 181 disp. att. c.p.p., l'attivazione della procedura volta al "recupero delle pene pecuniarie" per accertare "la impossibilità di esazione della pena pecuniaria, o di una rata di essa".
Il P.M., cioè, ha il compito , una volta che quella cancelleria gli ha trasmessi gli atti riguardanti la procedura di recupero risoltasi con esito negativo, di accertare se le ragioni di tale esito siano tali da dar luogo ad una effettiva "impossibilità" di esazione della pena pecuniaria, ovvero se risultino, in qualche modo, superabili: in questa seconda ipotesi, il P.M. dovrà restituire gli atti alla predetta cancelleria perché riprenda la procedura di riscossione, mentre nella prima ipotesi, dovrà rivolgersi come espressamente previsto dall'art. 660, co. 2 C.P.P. al magistrato di sorveglianza, perché, questi, provveda alla conversione, previo accertamento dell'effettiva insolvibilità del condannato.
Appare, quindi, chiaro che la legge affida al giudice dell'esecuzione e, per esso, alla cancelleria del suo ufficio il compito di accertare la permanenza dell'insolvenza e l'insorgenza delle ragioni che rendano possibile l'ulteriore accertamento dell'effettiva insolvibilità, mentre, al P.M. è devoluto il controllo di cui innanzi ed al magistrato di sorveglianza è demandata l'attività di accertamento per il passaggio dalla situazione fisiologica di insolvibilità per impossibilità ad insolvenza effettiva e concreta.
Alla stregua di tali constatazioni, è da riconoscersi che si impone una terza soluzione interpretativa - rispetto alle due precedentemente ricordate -, per la quale, riscontrata dal magistrato di sorveglianza, nell'ambito del procedimento volto ad accertare la sussistenza, o meno, dello stato di insolvenza, l'irreperibilità del condannato e, quindi, la impossibilità di dichiarare il predetto stato di insolvenza, gli atti dovranno essere restituiti al P.M. (non potendosi dar luogo al provvedimento di conversione), ed il P.M., a sua volta, dovrà restituirli alla cancelleria del giudice dell'esecuzione, perché provveda a rinnovare periodicamente la procedura dell'esecuzione, essendo detto ufficio come già in precedenza rilevato quello istituzionalmente preposto alla riscossione delle pene pecuniarie”.
[61] All’istituto della prescrizione della pena delineato dagli artt. 172 e 173 cod. pen., al quale, a differenza di quanto previsto per la prescrizione del reato, non sono applicabili gli istituti della sospensione e dell'interruzione (cfr. Sez. U, n. 2 del 30/10/2014, dep. 2015, Maiorella, Rv. 261399), né quello della rinuncia da parte del condannato.
[62] R. GARGIULO-M. VESSICHELLI, Art. 172, in Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, a cura di E. Lupo e G. Lattanzi, Giuffrè, Milano, 2010, V, pp. 480 ss.. Una completa ricostruzione dell’istituto si ha nella relazione svolta al corso organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura dal 19 al 21 settembre 2016, intitolato “La pena: calcolo, determinazione, giustificazione, prescrizione” da A.CENTONZE Il decorso del tempo e i suoi effetti sull’esecuzione della pena: aspetti problematici in tema di prescrizione della pena e pubblicata in Diritto Penale Contemporaneo.
[63] Non vi è eseguibilità concreta, ad esempio, nel caso di sentenza che statuisce sulla responsabilità rinviando per la determinazione della pena. (Sez. U, n. 4460 del 19/01/1994, Cellerini, Rv. 196889). V. Anche Sez. U, n. 4904 del 26/03/1997, Attinà, Rv. 207640, «l'irrevocabilità può non coincidere con la definitività del decisum quando [...] si sia formato un giudicato (parziale) sulla responsabilità dell'imputato e non è ancora intervenuta la determinazione della pena e quindi la sentenza non è ancora utilizzabile come titolo esecutivo». A distinguere il momento in cui la sentenza assume autorità di cosa giudicata dal momento in cui diviene titolo esecutivo, Sez. U, n. 3423 del 29/10/2020, dep. 2021, Gialluisi, Rv. 28026.
[64] Sez. 1 , Sentenza n. 57890 del 26/06/2018 Zonta, Rv. 274660
[65] Osserva la Relazione del Massimario alla sentenza Uhuwamango che “la soluzione accolta da Sez. U, Uhuwamangho, trova giustificazione anche nei principi costituzionali e convenzionali di ragionevole durata del processo, di sollecita definizione e di minor sacrificio esigibile per il condannato e di finalità rieducativa della pena, evincibili dagli artt. 111, secondo comma, 27, terzo comma, Cost.; 5 e 6 CEDU, evitando che il condannato sopporti l’incertezza di una decorrenza soggetta alle variabili contingenze processuali, sulle quali non può in alcun modo incidere, e che l’esecuzione avvenga a grande distanza di tempo dalla data di commissione del reato e dalla data di irrevocabilità della sentenza di condanna. Invero, l’interpretazione che intende applicare l’art. 172, quinto comma, nel caso di sospensione dell’esecuzione ex art. 665, comma 5, cod. proc. pen., entrerebbe in tensione anche con il principio costituzionale di uguaglianza secondo due prospettive. In primo luogo, con riferimento ai condannati nella medesima posizione, rispetto ai quali l’inizio dell'esecuzione della sentenza di condanna o della misura alternativa alla detenzione potrebbe realizzarsi in momenti differenti, in conseguenza di circostanze del tutto indipendenti dalla loro volontà, quale il tempo necessario per la notifica del decreto del pubblico ministero di carcerazione e contestuale sospensione dell'esecuzione, ovvero quello di decisione sull'istanza di misure alternative alla detenzione da parte del tribunale di sorveglianza”.
[66] Così la motivazione: “Ma - come ricorda opportunamente il pubblico ministero requirente - la conversione della pena pecuniaria per insolvibilità del condannato, se non configura un atto interruttivo della prescrizione, costituisce però un atto vero e proprio di esecuzione della pena (per l'ordinanza impugnata è solo un equipollente dell'esecuzione). Infatti: a) ai sensi dell'art. 181 disp. att. cod. proc. pen., collocato entro il capo 15^, contenente le disposizioni relative alla esecuzione, l'esecuzione delle pene pecuniarie inizia con la notifica al condannato dell'estratto della sentenza in forma esecutiva, unitamente all'atto di precetto, contenente l'intimazione di pagare entro dieci giorni: sicché tutti gli atti successivi e conseguenti rientrano nella procedura di esecuzione della pena; b) ai sensi del successivo art. 182 disp. att. cod. proc. pen., se la procedura esecutiva ha esito negativo, la cancelleria del giudice dell'esecuzione rimette gli atti al pubblico ministero, il quale a norma dell'art. 660 c.p.p. trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente, che a sua volta, se accerta l'insolvenza del condannato, dispone la conversione della pena pecuniaria nella pena detentiva, salvo che non ritenga di rateizzare la pena pecuniaria oppure di differire brevemente la conversione, per verificare la persistenza dell'insolvenza; c) anche da un punto di vista dommatico, la conversione della pena pecuniaria, si configura come un provvedimento giudiziario che concretizza il rapporto punitivo stabilito nella condanna, modificandone soltanto la modalità esecutiva: e in tal modo rivela i caratteri propri della esecuzione penale; d) se poi si considera la ratio che ispira l'istituto della prescrizione penale, appare evidente che la conversione della pena pecuniaria, lungi dall'indicare una rinunzia all'esercizio della potestà punitiva, configura al contrario proprio la concreta volontà dello Stato di dare esecuzione alla pena; e) anche la competenza attribuita al magistrato di sorveglianza (art.660 c.p.p) denota la natura esecutiva della conversione; f) l'inciso dommaticamente improprio, contenuto nell'ultimo periodo del terzo comma art. 660 c.p.p., secondo cui "ai fini della estinzione della pena per decorso del tempo, non si tiene conto del periodo durante il quale l'esecuzione (della conversione) è stata differita" per verificare la persistenza dell'insolvibilità del condannato, sotto il profilo sistematico non può qualificarsi come "sospensione" della prescrizione; ma si spiega piuttosto come una irrilevanza di quel segmento temporale derivante dal fatto che lo Stato ha già esercitato in concreto la sua potestà punitiva, limitandosi solo a differire nel tempo la conversione della pena pecuniaria in quella detentiva”.
[67] In senso contrario, LEPERA M. Il condannato che "smette di pagare" la pena pecuniaria dell'ammenda: un caso di sottrazione volontaria alla esecuzione della pena rilevante ai fini dell'individuazione del "dies a quo" per il decorso del termine di prescrizione della pena. Cass. Pen., 2017, fasc. 9 p. 3240, nota a Sez. 3, Sentenza n. 17228 del 03/11/2016.
[68] Così Sez. 1, Sentenza n. 8166 del 16/01/2018 Esposito Rv. 272418 “Il termine di prescrizione della pena pecuniaria individuato dall'art. 172, comma terzo, cod. pen. è determinato "per relationem", in funzione di quello applicabile alla pena detentiva congiuntamente inflitta, e non è influenzato da vicende successive, quali quelle concernenti l'esecuzione della predetta sanzione detentiva o la sua stessa estinzione. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato l'ordinanza del giudice dell'esecuzione che aveva ritenuto sospeso il termine di prescrizione della pena pecuniaria durante l'espiazione di quella detentiva)”.
[69] Sez. U, n. 35 del 25/10/1995, dep. 1996, Nikolic, Rv. 203295.
[70] Sulla natura sostanziale delle pene convertite, vedi Sez. U, Sentenza n. 12872 del 19/01/2017, Punzo, Rv. 269125: “ Merita in primo luogo piena condivisione la tesi della natura di vera e propria pena autonoma delle sanzioni sostitutive, piuttosto che di semplice modalità esecutiva della pena sostituita, sostenuta già in tempi risalenti dalle Sezioni Unite sul rilievo del carattere afflittivo delle prime, della loro convertibilità - in caso di revoca - nella pena sostituita residua, dello stretto collegamento con la fattispecie penale cui conseguono, con la rilevante conseguenza, nel caso allora esaminato, del riconoscimento della natura sostanziale delle disposizioni che le contemplano, soggette, in caso di successione di leggi nel tempo, alla disciplina di cui all'art. 2, terzo comma, cod. pen., che prescrive l'applicazione della norma più favorevole per l'imputato (Sez. U, n. 11397 del 25/10/1995, Siciliano, Rv. 202870). Tesi ribadita, contestualmente, da Sez. 1, n. 12732 del 27/10/1995, Abbatelli, Rv. 203349, e, successivamente, da Sez. 1, n. 43589 del 13/10/2004, Massiah, Rv. 229818, che hanno sottolineato come le disposizioni in tema di "sostituzione" delle pene detentive brevi, dettate dagli artt. 53 e segg. della legge 24 novembre 1981 n. 689, costituiscano un sistema sanzionatorio "parallelo" a quello "ordinario" connotandosi quindi inequivocabilmente come norme penali sostanziali governate dal principio generale della lex mitior.”
[71]P. 232: “Il secondo comma prevede, inoltre, espressamente, che ai reati commessi prima dell’entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi le disposizioni in materia di conversione ed esecuzione delle pene pecuniarie previste dal Capo V della l. n. 689 del 1981, dall’art. 660 cod. proc. pen. e da ogni altra disposizione di legge, vigenti prima dell’entrata in vigore del presente 444 La legge n. 134 del 2021, all’art. 1, comma 17, ha delegato il Governo a riformare la disciplina delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, contenuta negli articoli 53 e seguenti della legge n. 689 del 1981, con la finalità di anticipare l’applicazione delle sanzioni sostitutive già in fase di cognizione, sgravando così la magistratura di sorveglianza. Le nuove pene sostitutive – semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria – secondo la norma di delega dovranno essere infatti direttamente irrogabili dal giudice della cognizione, entro il limite di 4 anni di pena inflitta. 445 La base di calcolo della durata delle pene limitative della libertà personale, applicate in caso di conversione della pena pecuniaria, dipende anche e proprio dall’ammontare della pena pecuniaria, sulla base dei criteri di cui all’art. 133-bis cod. pen. Di qui, anche per eventuali esigenze di proporzione, che dalla pena pecuniaria possono estendersi a pene da conversione più afflittive, la necessità di una attenta commisurazione e individualizzazione del trattamento sanzionatorio, sorretta da adeguata motivazione (spesso nella prassi ridotta a clausole di stile) e corroborata dall’acquisizione di elementi di prova. Ne consegue una tendenziale irretroattività della nuova disciplina, che prevede un irrigidimento complessivo dei presupposti per l’esecuzione e la conversione della pena pecuniaria nei casi di insolvenza. 232 Ne consegue una tendenziale irretroattività della nuova disciplina, che prevede un irrigidimento complessivo dei presupposti per l’esecuzione e la conversione della pena pecuniaria nei casi di insolvenza. Un limitato ambito di applicabilità retroattiva potrebbe avere in concreto la disciplina di favore dettata in tema di rateizzazione a seguito della intimazione di pagamento della pena pecuniaria, atteso l’ampliamento delle possibilità di richiesta dell’agevolazione e la intervenuta dilatazione dei tempi di pagamento e del numero delle rate mensili in cui questo può essere suddiviso ex art. 133-ter cod. pen.”.
[72]V. A. BOGA, Libertà controllata: la pronuncia di incostituzionalità comporta, anche per le pene pecuniarie già convertite ma non ancora estinte, l’applicazione del nuovo criterio di conversione, in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 6. Nota a Tribunale di Sorveglianza di Milano, 16 aprile 2018. La pronuncia si sofferma sulla natura retroattiva delle norme più favorevoli relative al ragguaglio.
[73] Art. 9 (Condizioni per il riconoscimento):
1. La Corte di appello riconosce la decisione sulle sanzioni pecuniarie quando ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni:
a) la persona condannata dispone nel territorio dello Stato di beni o di un reddito, ovvero risiede e dimora abitualmente, ovvero ha la propria sede legale;
b) il fatto per cui è stata emessa la decisione è previsto come reato anche dalla legge nazionale, indipendentemente dagli elementi costitutivi o dalla denominazione, salvo quanto previsto dall'articolo 10.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.