ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Con la sentenza n. 29593 del 10 novembre 2025, la Prima Sezione civile della Corte di Cassazione, chiamata a chiarire i dubbi interpretativi conseguenti alle modifiche introdotte dal d.l. n. 20/2023 (“Decreto Cutro”), che aveva soppresso, dall’art. 19, comma 1.1, T.U. Immigrazione, ogni riferimento esplicito alla tutela della vita privata e familiare dello straniero, ha fornito un chiarimento di particolare rilievo in materia di protezione speciale.
La questione era stata sollevata dal Tribunale di Venezia, nell’ambito del procedimento promosso da un cittadino senegalese al quale la Commissione territoriale di Verona–Padova aveva negato ogni forma di protezione internazionale e speciale, ritenendo non credibile la narrazione della conversione religiosa addotta come causa di persecuzione ed insussistenti i presupposti di forme complementari di protezione.
Tre pilastri e una clausola sempre aperta
La Cassazione, con ampia ricostruzione sistematica, ha ricordato che il sistema italiano di protezione dello straniero poggia su tre pilastri: lo status di rifugiato, la protezione sussidiaria e la protezione complementare, quest’ultima di matrice interna e fondata su una clausola elastica di salvaguardia dei diritti fondamentali. Pur non trovando diretta disciplina nel diritto dell’Unione, tale protezione resta pienamente legittima anche alla luce della disciplina di attuazione del cd. Patto sull’immigrazione (reg. UE n. 1347 e 1348/2024), che riconosce agli Stati membri la facoltà di accordare status umanitari nazionali su presupposti diversi dalle forme di protezione internazionale già previsti.
Nessun arretramento dei diritti fondamentali
Nel merito, la Corte ha escluso che le modifiche del 2023 abbiano ridotto la portata della tutela. Il rinvio, tuttora presente nell’art. 19 T.U.I. all’art. 5, comma 6 — che impone il rispetto degli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato italiano — consente di ricomprendere nel divieto di espulsione e respingimento anche il diritto al rispetto della vita privata e familiare, sancito dagli artt. 8 CEDU e 7 Carta di Nizza, oltre che dagli artt. 2, 3, 29 e 30 Cost.
Secondo la Corte, l’abrogazione delle frasi che esplicitavano tali tutele non ha “forza né significato” di precludere l’applicazione di norme e principi di rango sovraordinato, che restano vincolanti in virtù del combinato disposto degli artt. 10 e 117 Cost. e della giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 194/2019).
Continuità con il diritto vivente
La decisione riafferma la continuità con gli orientamenti di legittimità sviluppati a partire da Cass. n. 4455/2018 e dalle Sezioni Unite n. 24413/2021, secondo cui il giudizio sulla protezione deve fondarsi su una valutazione comparativa tra la condizione del richiedente in Italia e quella cui verrebbe esposto nel Paese d’origine. L’inserimento sociale e lavorativo, la durata del soggiorno, i legami familiari e l’effettiva integrazione costituiscono indicatori significativi di una “vita privata e familiare” meritevole di tutela, purché la loro compromissione, in caso di rimpatrio, determini un sacrificio sproporzionato dei diritti fondamentali della persona.
Nel rapporto tra fonti interne di diverso rango e fonti convenzionali la Corte ribadisce che “il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti protetti dalla Convenzione (cfr. Corte cost., sentenza n. 317 del 2009). Il giudice deve cogliere, nel congiunto operare degli obblighi convenzionali e costituzionali e nell’osmosi tra gli stessi, secondo una logica di “et et”, non un confronto tra due mondi tra loro distanti o separati, ma un completamento e un arricchimento delle posizioni soggettive coinvolte in vista di una tutela più intensa nel singolo caso, in esito a un bilanciamento ragionevole tra i diversi interessi in gioco”.
E dunque che “non può seguirsi la tesi secondo cui i titolari del diritto convenzionale di cui all’art. 8, nella lettura offerta dalla Corte Edu, sarebbero esclusivamente i settled migrants, con esclusione delle cittadine e dei cittadini stranieri, magari in Italia da un tempo non breve e apprezzabilmente significativo, che siano in attesa dell’esame della loro domanda di protezione internazionale”.
Il principio di diritto
In conclusione, la Corte formula il principio secondo cui:«Anche successivamente alle modifiche introdotte dal d.l. n. 20 del 2023, convertito nella l. n. 50 del 2023, il cittadino straniero ha diritto alla protezione complementare allorché ricorrano i presupposti per la tutela del diritto alla vita privata e familiare, secondo l’interpretazione dell’art. 8 CEDU fornita dalla giurisprudenza di legittimità.», salvo il riscontro di ragioni di sicurezza nazionale o di ordine pubblico, se prevalenti.
Un segnale di continuità
La sentenza n. 29593/2025 assume dunque un valore sistemico: riafferma che la legge ordinaria non può comprimere il nucleo dei diritti fondamentali della persona straniera, garantendo continuità al principio di proporzionalità e al bilanciamento tra sovranità statuale e dignità umana.
Per questo «Il giudice dovrà compiere l’operazione sussuntiva con rigore e, allo stesso tempo, con umanità. Con rigore, perché la condizione di vulnerabilità derivante dallo sradicamento da una vita familiare in atto o da un’integrazione sociale realizzata o in corso di realizzazione nel territorio nazionale deve essere effettiva. (….. ) Ma anche con umanità, perché, quando viene in rilievo la persona umana in situazioni talora di estrema fragilità con la sua fondamentale esigenza di solidarietà, il giudice, nell’interpretare e nel dare applicazione alle disposizioni poste dal legislatore, concorre, nel dove-roso rispetto dell’equilibrio tra la forza orientativa della fonte sovraordinata e il vincolo del testo, alla elaborazione di una norma giusta.»
Sommario: 1. Il tema “cittadinanza” oggi – 2. La sentenza della Corte di giustizia Commissione c. Malta. La cittadinanza per estensione. La violazione del diritto UE – 3. Il contenuto della sentenza – 3.1. La rilevanza della solidarietà e della fiducia reciproca – 3.2. La rilevanza della leale cooperazione – 3.3. Il contrasto della “commercializzazione” con la solidarietà, la fiducia reciproca e la leale cooperazione – 4. La sentenza e l’effettività. Le conclusioni dell’avvocato generale, la giurisprudenza precedente sulla perdita della cittadinanza, la proporzionalità – 5. La sentenza della Corte costituzionale n. 142/2025. I problemi posti – 6. La sentenza e la rilevanza del diritto internazionale – 7. La sentenza e la rilevanza del diritto UE – 7.1. Le norme rilevanti e la discrezionalità dello Stato – 7.2. Il possibile rinvio pregiudiziale.
1. Il tema “cittadinanza” oggi
Il tema cittadinanza ha suscitato, negli ultimi mesi di quest’anno, un interesse particolare nel contesto giuridico nazionale ed europeo: nel primo, nazionale, perché il legislatore è intervenuto a modificare la legge vigente 5.2.1992, n. 91 con il d.l. 28.3.2025, n. 36, poi conv. in l. 23.5.2025, n. 74 e perché la Corte costituzionale si è pronunciata con la sentenza del 31.7.2025, n. 142.vNel secondo, europeo, è la sentenza della Corte di giustizia Commissione c. Malta del 29.4.2025 ad avere suscitato l’attenzione soprattutto perché la materia “cittadinanza” è sempre stata ritenuta materia di domestic jurisdiction, riservata dunque alla competenza nazionale, e sottratta a quella di organizzazioni internazionali o a norme internazionali ed europee. E ciò malgrado il TUE (art. 9) e il TFUE (articoli 20-25) prevedano espressamente norme sulla cittadinanza, precisamente sulla cittadinanza europea, indicando alcune caratteristiche della stessa ma senza fornirne una definizione[1]. La cittadinanza europea, dispone l’art. 9 TUE (e l’art. 20 TFUE) “si aggiunge alla cittadinanza nazionale”, essendo cittadino dell’Unione “chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro”. Non sostituisce la cittadinanza nazionale, gli Stati membri avendolo ben chiarito, nella Dichiarazione n. 2 sulla cittadinanza di uno Stato membro allegata all’atto finale del Trattato di Lisbona ove si afferma che la cittadinanza è definita “soltanto in relazione al diritto nazionale dello Stato membro interessato”[2].
Anche a livello di diritto UE, dunque, si deve tenere conto di questa duplice “anima” o natura della cittadinanza. Sono gli Stati che, con norme nazionali se del caso modificate o integrate da convenzioni internazionali, disciplinano l’attribuzione e la perdita della cittadinanza[3].
2. La sentenza della Corte di giustizia Commissione c. Malta. La cittadinanza per estensione. La violazione del diritto UE
Qual è la rilevanza della sentenza Commissione c. Malta, qui assunta come punto di riferimento per l’esame dell’orientamento della Corte in materia?
La Repubblica di Malta prevedeva (norme del 2020) l’acquisto della propria cittadinanza ovvero la naturalizzazione grazie alla prestazione di “servizi eccezionali tramite investimenti diretti”: gli investitori stranieri, sulla base di un programma nazionale di naturalizzazione, potevano chiedere di essere naturalizzati se soddisfacevano a una serie di requisiti, principalmente di natura finanziaria. La Commissione, ritenendo violato il diritto UE, avviava una procedura di infrazione, lo Stato non si adeguava (art. 258, secondo comma TFUE), diversamente da altri Stati come Bulgaria e Cipro che non avevano adottato norme sui c.d. golden passports[4]. Ne scaturiva quindi la causa conclusasi con la sentenza ricordata, poiché secondo la Commissione la naturalizzazione avveniva in presenza di un pagamento o di un investimento, senza che sussistesse un vincolo effettivo (secondo la tesi della Commissione) fra lo straniero e lo Stato, così violando sia l’art. 20 TFUE sulla cittadinanza (che istituisce la cittadinanza dell’Unione, par. 1 ed elenca, par. 2, una serie di diritti e di doveri), sia l’art. 4, par. 3 TUE sul principio di leale cooperazione (in virtù del quale “l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai trattati”).
L’avvocato generale concludeva per il rigetto del ricorso (perché la Commissione non aveva dimostrato l’esistenza di un vincolo effettivo o di un precedente vincolo effettivo fra lo Stato e il singolo); la Corte accoglieva invece il ricorso perché i requisiti della naturalizzazione (tre dei cinque previsti dalla legge maltese) avevano un carattere commerciale, non assumendo rilevanza quelli (gli altri due) della residenza effettiva nello Stato e della verifica dell’idoneità del richiedente a presentare una domanda di cittadinanza. Inoltre, non veniva imposto un requisito successivo alla naturalizzazione, al fine del mantenimento della cittadinanza, e la particolarità della procedura, ritenuta, appunto, di natura commerciale, era confermata dal fatto che la domanda poteva essere presentata solo tramite agenti autorizzati che promuovevano la presentazione delle domande di ottenimento della cittadinanza, prospettando i vantaggi conseguenti: principalmente il diritto di circolare, risiedere, studiare, lavorare negli altri Stati membri anche a favore dei familiari del richiedente. La Corte afferma che l’acquisto della cittadinanza o naturalizzazione è una cittadinanza “per estensione” rispetto a quella nazionale, propria dello Stato di appartenenza: la cittadinanza europea è, insomma, una estensione della cittadinanza nazionale[5].
3. Il contenuto della sentenza
Ritiene la Corte che Malta abbia violato l’art. 20 TFUE e l’art. 4, par. 3 TUE perché è stata istituita “una procedura avente natura di transazione assimilabile a una commercializzazione della concessione […] sfruttando i diritti connessi allo status di cittadino dell’Unione al fine di promuovere tale procedura”. Una concessione, dunque, che avviene “in cambio di pagamenti o di investimenti predeterminati[6], con ciò sottolineando lo “sfruttamento” della situazione privilegiata di cui gode il cittadino UE rispetto al cittadino di Paese terzo.
3.1. La rilevanza della solidarietà e della fiducia reciproca
Non sono quindi ritenuti essenziali gli elementi che riconducono all’effettività del vincolo (residenza e verifica della idoneità), ma altri. Questi devono essere conformi alla ratio della cittadinanza europea, al suo contenuto, al complesso di diritti, principalmente di libera circolazione e soggiorno, ai diritti politici che sono espressione della partecipazione democratica ovvero della democrazia che è uno dei valori (ex art. 2 TUE) dell’Unione. Le norme sulla cittadinanza riguardano lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, hanno importanza fondamentale perché lo spazio si realizza in quanto fondato sui principi della fiducia reciproca fra Stati e del mutuo riconoscimento. Si tratta di norme che si inseriscono nella realizzazione del processo di integrazione che costituisce la ragion d’essere dell’Unione stessa e fanno quindi parte integrante del suo quadro costituzionale[7].
Lo status di cittadino dell’Unione “costituisce lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri”, è anzi “una delle principali concretizzazioni della solidarietà che è alla base stessa del processo di integrazione”, ma anche di quella “identità dell’Unione in quanto ordinamento giuridico peculiare, accettato dagli Stati membri a condizione di reciprocità” (la Corte ricorda in proposito la -storica- sentenza Costa-Enel)[8].
3.2. La rilevanza della leale cooperazione
La solidarietà non è il solo elemento che deve essere tenuto presente. Oltre alla solidarietà, che si esprime in un complesso di diritti che costituiscono un legame fra Stati che condividono gli stessi valori, assume rilievo il principio di leale cooperazione che obbliga gli Stati ad “astenersi da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione”[9].
Allo Stato è riconosciuta una competenza in materia di cittadinanza, che tuttavia non è “illimitata”, perché che si tratti di perdita o revoca (finora oggetto della giurisprudenza della Corte), ma anche di concessione come nella specie, lo Stato deve rispettare il diritto dell’Unione, il suo primato[10]. È competenza, sì, esclusiva dello Stato, in conformità al diritto internazionale, ma “nel rispetto del diritto dell’Unione” come affermato anche in precedente giurisprudenza[11]. Il margine discrezionale dello Stato è ampio, ma i criteri devono essere applicati nel rispetto del diritto UE.
3.3. Il contrasto della “commercializzazione” con la solidarietà, la fiducia reciproca e la leale cooperazione
La cittadinanza si fonda sulla fiducia reciproca, sulla solidarietà, sulla leale cooperazione. La commercializzazione della concessione della cittadinanza viola tali principi perché viene compiuta una transazione: incompatibile con la concessione di uno status fondamentale che deriva dai Trattati. Questo status, come si è detto, deriva “per estensione” da quello di cittadino nazionale[12]. Lo Stato, pur competente in materia, ha dei limiti in quanto è membro dell’Unione. I suoi obblighi sono, appunto, di diritto UE. La commercializzazione è vietata perché è in contrasto con valori, con principi comuni fondamentali agli Stati membri che si esprimono nell’art. 2 TUE, nell’art. 20 TFUE, nell’art. 4, par. 3 TUE. Lo status civitatis europeo viene dunque valorizzato come espressione intrinseca della natura del processo di integrazione (costituisce, come si è detto, “una delle principali concretizzazioni della solidarietà che è alla base stessa del processo di integrazione”) e come tale non è commerciabile ovvero oggetto di transazione commerciale[13].
4. La sentenza e l’effettività. Le conclusioni dell’avvocato generale, la giurisprudenza precedente sulla perdita della cittadinanza, la proporzionalità
L’insegnamento da trarre da questa sentenza che (lo si ribadisce) è la prima in materia di concessione-attribuzione della cittadinanza (a seguito di naturalizzazione), è la conferma di un orientamento della Corte di giustizia sul modo di “combinare” le competenze dello Stato e gli impegni derivanti dal diritto UE, senza tuttavia coinvolgere ovvero ricorrere a quel criterio dell’effettività che l’avvocato generale ben aveva sottolineato facendo riferimento alla nota giurisprudenza della C.I.G. nel caso Nottebohm (Liechtenstein c. Guatemala)[14]. Il diritto UE non definisce né richiede l’esistenza del vincolo di effettività al fine di acquisire o mantenere (cioè non perdere) la cittadinanza. Le norme nazionali possono esigere la prova dell’esistenza di un vincolo effettivo, ma, precisa l’avvocato generale, non lo fanno quelle di diritto UE. Così (d’altra parte) si era espressa la Corte, in casi di perdita della cittadinanza, quando ha ritenuto “legittimo” che uno Stato, nell’esercizio della sua competenza, possa sia “tutelare il particolare rapporto di solidarietà e di lealtà fra esso e i suoi cittadini, nonché la reciprocità di diritti e di doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza”, sia “considerare che la cittadinanza sia espressione di legame effettivo con tale Stato membro”: quindi con se stesso, “e ricollegare, di conseguenza, all’assenza o alla cessazione di un siffatto collegamento effettivo la perdita della sua cittadinanza”. La valutazione dell’esistenza o assenza del collegamento (per esempio luogo di nascita, residenza, condizioni di soggiorno) e quindi dell’effettività, appartiene allo Stato. Il diritto dell’Unione “non osta” alla perdita, purché sia rispettato “il principio di proporzionalità per quanto riguarda le sue conseguenze sulla situazione dell’interessato e, se del caso, su quella dei suoi familiari, sotto il profilo del diritto dell’Unione”[15].
Secondo l’avvocato generale sarebbe stato onere della Commissione, nella fattispecie, dimostrare il contrario, ma anche dimostrare che le norme maltesi erano in contrasto con il diritto internazionale e con quelle poste a tutela dei diritti umani e procedurali degli interessati. Di qui la richiesta di rigetto del ricorso della Commissione, che poi è stato accolto, ma per ragioni diverse, che fondano non sull’effettività ma (come si è detto) sulla solidarietà e leale cooperazione. L’avvocato generale aveva insistito sia sulle affermazioni contenute nella sentenza Micheletti (di cui si dirà poco oltre), sia sul contenuto della già ricordata Dichiarazione n. 2 allegata all’atto finale del Trattato sull’Unione europea: “gli Stati membri”, sottolinea, “avrebbero potuto decidere di riunire le loro competenze e di conferire all’Unione europea il potere di determinare i soggetti legittimati a diventare cittadini dell’Unione”, ma “hanno scelto di non farlo”[16].
È necessario ricordare che, malgrado la diversa posizione dell’avvocato generale, le premesse della più recente presa di posizione della Corte sono le medesime della giurisprudenza del passato che ha riguardato, in primo luogo, il significato delle norme del Trattato in materia[17].
a) In primo luogo, si afferma che la cittadinanza europea (art. 9 TUE, art. 20, par. 1 TFUE) si aggiunge a quella nazionale, non la sostituisce, perché è cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro.
b) In secondo luogo, non vi sono norme di diritto UE che definiscono chi abbia la cittadinanza dello Stato membro. Tale cittadinanza è definita solo in base alle norme nazionali (come è confermato dalla Dichiarazione n. 2 cit.).
c) In terzo luogo, ferma tale competenza dello Stato, in conformità al diritto internazionale, nel determinare i modi di acquisto e perdita della cittadinanza, tale competenza deve essere esercitata nel rispetto del diritto dell’Unione[18]. Rispettare il diritto dell’Unione significa non consentire un esercizio illimitato della competenza dello Stato, perché lo Stato appartiene a un sistema integrato, dominato da valori comuni. Il caso affrontato nella sentenza Micheletti ne è un esempio: la Spagna non poteva imporre, come condizione per esercitare il diritto di stabilimento, il possesso della residenza abituale nel proprio Paese a un cittadino bipolide, italiano e argentino. Il riconoscimento del diritto di stabilimento, che è diritto fondamentale per il cittadino della UE, non può essere subordinato a tale requisito: rappresenterebbe una negazione del riconoscimento dello status di cittadino UE. Afferma la Corte che “Non spetta […] alla legislazione di uno Stato membro limitare gli effetti dell’attribuzione della cittadinanza di un altro Stato membro, pretendendo un requisito ulteriore per il riconoscimento di tale cittadinanza al fine dell’esercizio delle libertà fondamentali previsto dal Trattato”[19].
d) In quarto luogo, proprio perché tale sistema europeo è integrato, lo status di cittadino UE, come già si è detto, “costituisce lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri”[20].
e) In quinto luogo, fra i principi che integrano il rispetto del diritto in materia di cittadinanza, vi è il rispetto del principio di proporzionalità, affermato con riguardo ai casi di perdita o revoca. Non affermato in materia di concessione o attribuzione, salvo ritenere che i vincoli di solidarietà e leale cooperazione, ritenuti essenziali in Commissione c. Malta, non integrino un’espressione della proporzionalità. E cioè che una attribuzione “commercializzata” sia espressione dell’esercizio, eccessivo, e quindi sproporzionato, di una competenza dello Stato.
La perdita della cittadinanza è disciplinata dallo Stato, ma poiché comporta la perdita dello status di cittadino dell’Unione, deve essere conforme al principio di proporzionalità, come si è detto, “per quanto riguarda le sue conseguenze sulla situazione dell’interessato e, se del caso, su quella dei suoi familiari”. Una perdita ipso iure, per motivi di interesse generale, “sarebbe incompatibile” se non fosse consentito “un esame individuale delle conseguenze determinate da tale perdita, per gli interessati, sotto il profilo del diritto dell’Unione” dovendo comunque essere consentita la presentazione di una domanda per “conservare la propria cittadinanza o di riacquistarla ex tunc”, prevedendo modalità [21]procedurali che garantiscano (nel rispetto del principio dell’effettività) la tutela dei diritti spettanti ai singoli[22]. Principi, questi, da tenere in considerazione nel valutare (come si dirà oltre) le conseguenze delle nuove norme nazionali, la cui legittimità costituzionale è stata recentemente sollevata, e nel valutare la formulazione di quesiti pregiudiziali alla Corte di giustizia.
5. La sentenza della Corte costituzionale n. 142/2025. I problemi posti
La sentenza n. 142/2025 della Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le censure rivolte da vari tribunali (Bologna, Roma, Milano, Firenze) all’art. 1 della legge 91/1992: precisamente nella parte in cui si prevede che è cittadino per nascita il figlio di padre o di madre cittadini, senza tuttavia prevedere alcun limite all’acquisizione della cittadinanza iure sanguinis. La Corte ha anche dichiarato non fondate alcune questioni circa la irragionevole disparità di trattamento rispetto ad altri meccanismi di acquisizione della cittadinanza e ha respinto alcune richieste sulle norme medio tempore approvate.
La sentenza prende in esame alcuni profili di diritto internazionale e diritto UE, così come sono stati posti dai giudici rimettenti, i quali non hanno contestato l’idoneità del vincolo della filiazione per giustificare, alla luce dei principi costituzionali, l’acquisto della cittadinanza, ma hanno espresso dubbi sulla discrezionalità dello Stato. Dubbi che così si possono riassumere: è sufficiente la sola discendenza da cittadino (o cittadina) italiano per acquisire tale status? Le norme successivamente approvate non sono stato oggetto delle questioni di legittimità, anche se queste sono state sollevate dalle parti negli atti depositati in Corte (oltre che in occasione della discussione; la Corte non ha ritenuto che sussistessero i presupposti per restituire gli atti ai giudici rimettenti, né di rimettere avanti a sé delle questioni di legittimità, punti 7 e 8 della sentenza).
La questione di legittimità sulle nuove norme è stata poi sollevata dal Tribunale di Torino, con ordinanza del 25.6.2025 che censura non la riforma in sé, ma la portata retroattiva delle nuove norme e la mancanza di una normativa intertemporale che consenta agli interessati di presentare (entro un termine ragionevole) la domanda di riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis, così evitando la perdita della stessa a seguito delle nuove norme.
I dubbi espressi, in generale (in particolare dai giudici rimettenti) sulla disciplina della cittadinanza riguardano l’esistenza di limiti, o non, nella attribuzione della cittadinanza. È legittimo prevedere requisiti aggiuntivi rispetto al -semplice- rapporto di filiazione? Le nuove norme prevedono, in linea di principio, che non sia cittadino italiano chi è nato all’estero e possieda un’altra cittadinanza, con alcune eccezioni, che si riferiscono -tre- alla avvenuta presentazione delle domande di riconoscimento entro una certa data (27 marzo) e due con riferimento alla discendenza, poiché è comunque italiano a) sia chi ha un ascendente di primo o secondo grado che possiede (o possedeva al momento della morte) esclusivamente la cittadinanza italiana; b) sia chi ha un genitore (o adottante) che è stato residente in Italia per almeno due anni continuativi successivamente all’acquisto della cittadinanza italiana e prima della nascita (o adozione) del figlio.
Il nuovo limite è, essenzialmente, generazionale: le nuove norme hanno introdotto il limite della seconda generazione (nonno), che prima non esisteva. La censura sollevata dai giudici rimettenti riguarda la mancanza di un collegamento effettivo con l’ordinamento italiano perché la discendenza è senza limiti, salvo quello temporale rappresentato dalla creazione del Regno d’Italia (17.3.1861): mancanza che sarebbe censurabile, appunto, anche in riferimento al diritto internazionale e al diritto UE.
6. La sentenza e la rilevanza del diritto internazionale
L’inammissibilità riferita alla presunta violazione dell’art. 117, 1°comma Cost. (“La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”) per quanto riguarda gli obblighi di diritto internazionale, è giustificata dal fatto che il giudice rimettente (Tribunali di Bologna, Milano, Firenze, non quello di Roma) non aveva indicato quale fosse la norma internazionale da cui discenderebbe il mancato rispetto di tali obblighi. È una censura condivisibile perché il rinvio al diritto internazionale è generico, non solo non precisando la norma convenzionale rilevante, ma neppure la consuetudine internazionale che pure sarebbe rilevante in virtù dell’art. 10, 1°comma Cost. (“L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciuto”) nonché i principi generali riconosciuti dalle nazioni civili che, osserva la Corte (punto 13), “sono fonti del diritto internazionale ai sensi dell’art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia” (art. 38, lett. c).
Preciso è, invece, il richiamo giurisprudenziale (non normativo, dunque) alla sentenza della C.I.G. Nottebohm a sostegno della tesi della necessaria esistenza dell’effettività. La Corte, tuttavia, censura tale richiamo, poiché distingue l’ipotesi, per così dire “interna”, di attribuzione della cittadinanza, che è quella che rileva nella fattispecie sottoposta alla Corte, nonché nella disamina, in generale, delle norme (vecchie e nuove) sulla cittadinanza, dall’ipotesi, per così dire “esterna”, “di far valere la cittadinanza nelle relazioni internazionali”, che consiste cioè nell’esercizio della protezione diplomatica. La C.I.G. evoca il criterio dell’effettività nel caso Nottebohm e nel più recente Qatar contro Emirati Arabi Uniti (4.2.2021)[23], ma con riferimento a tale seconda ipotesi “esterna”: “solo a tali fini”, afferma la Corte cost., le sentenze della Corte “presuppongono l’esistenza di un vincolo effettivo e di un legame genuino con l’ordinamento statale”. Il genuine link, insomma, è richiesto (a livello internazionale), per quei fini, verificandosi altrimenti una sovrapposizione indebita (“sovrapponendo indebitamente”, afferma la Corte) del “piano dei criteri attributivi della cittadinanza con quello, nient’affatto equivalente, che attiene alla possibilità di far valere la cittadinanza nelle relazioni internazionali”. La Corte non distingue, tuttavia, l’ipotesi dell’acquisto della cittadinanza “per nascita” da quella dell’acquisto “per naturalizzazione” i cui presupposti sono diversi (filiazione ovvero discendenza; concessione in presenza di determinati requisiti).
Il criterio dell’effettività imposto dal diritto internazionale, insomma, per essere rilevante come parametro interposto determinato da norme internazionali, avrebbe dovuto essere meglio definito in norme internazionali o, comunque, da una giurisprudenza diversa da quella evocata.
L’ordinanza del Tribunale di Torino deduce, invece, e quindi precisa il contrasto con l’art. 15, 2°comma della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (nessun individuo può essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza) e nella fattispecie si verificherebbe un’ipotesi di revoca implicita, arbitraria, nonché dell’art. 3, 2°comma del 4° Protocollo alla CEDU (nessun individuo può essere privato del diritto di entrare nel territorio dello Stato di cui è cittadino), poiché nella fattispecie vi sarebbero cittadini italiani fin dalla nascita che si vedrebbero privati del diritto di entrare nel territorio italiano.
7. La sentenza e la rilevanza del diritto UE
Più articolata è la dichiarazione di inammissibilità, con riferimento allo stesso art. 117, 1°comma Cost. per quanto riguarda gli obblighi di diritto UE, più precisamente gli obblighi e i vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’UE, avendo riguardo agli articoli 9 TUE e 20 TFUE.
7.1. Le norme rilevanti e la discrezionalità dello Stato
Le norme di diritto UE ricordate, evocate dai giudici rimettenti (tre, non dal Tribunale di Roma), avrebbero dovuto confermare nell’interpretazione fornita dalla Corte di giustizia, il contrasto esistente con il criterio di attribuzione della cittadinanza previsto dall’art. 1, 1°comma l. 91/92. Non è il vincolo della filiazione (già si è detto) ad essere messo in discussione come elemento di collegamento, ma il fatto che questo sia sufficiente “alla funzione che è chiamato a svolgere quale fondamento della cittadinanza” (punto 12), e che quindi non siano richiesti altri elementi di collegamento in aggiunta allo ius sanguinis. La filiazione, insomma, sarebbe un criterio sufficiente, senza limiti di tempo e generazionali?
Le questioni di legittimità, anche con riferimento al diritto UE, vengono risolte dalla Corte con una dichiarazione di inammissibilità. Le verrebbe infatti richiesto “un intervento manipolativo oltremodo complesso” (punto 12.3.) che comporterebbe una sostituzione al legislatore, prevedendo -in aggiunta alla filiazione- requisiti vari, non ben determinati. Per esempio, un “legame culturale e linguistico con la comunità statale, tenendo conto dei cittadini residenti all’estero”, oppure il requisito di “prediligere un collegamento con il territorio”, o forse una combinazione di più criteri, ove si tenga conto del luogo (Stato) di nascita e di residenza, dell’avvenuto acquisto, o non, della cittadinanza in altro Stato (combinandolo, o non, con la residenza), ma anche della residenza dell’ascendente (con riferimento ad un certo momento storico).
Non emerge con sufficiente chiarezza, tuttavia, per quale ragione il diritto UE (secondo il giudice rimettente) si porrebbe in contrasto con il diritto nazionale in materia di attribuzione della cittadinanza iure sanguinis, e quindi per quale ragione la Corte avrebbe dovuto ritenere fondata la questione di legittimità costituzionale adottando come parametro interposto le norme di diritto UE o per quale ragione avrebbe dovuto operare un intervento manipolativo anche in base a tali norme. Secondo i giudici rimettenti (punto 6.2. sentenza) il diritto UE impone il rispetto del principio di effettività e il carattere genuino della cittadinanza nazionale, le norme UE prevedendo una serie di diritti e doveri che compongono (e definiscono) la cittadinanza europea. In particolare, il Tribunale di Milano ritiene che sia presupposto, ai fini della libera circolazione, un legame territoriale fra il cittadino e il Paese di origine; i Tribunali di Bologna e Firenze riterrebbero violato dalla norma nazionale il principio di proporzionalità come elaborato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Il principio di proporzionalità, tuttavia, è invocato dalla Corte in casi in cui si discuteva della perdita della cittadinanza a causa di norme nazionali[24]. La perdita è ritenuta compatibile con il diritto UE se viene rispettato il principio di proporzionalità, se si tiene conto, cioè (come già si è detto), delle conseguenze che essa provoca per l’interessato ed eventualmente per i suoi familiari[25]. La valutazione del caso singolo spetta, come sempre, al giudice nazionale che deve tener conto di alcuni elementi che definiscono in che cosa consiste il rispetto del diritto UE quando il legislatore nazionale detta norme in materia di cittadinanza. È legittimo, afferma la Corte di giustizia, che uno Stato voglia proteggere il particolare rapporto di solidarietà e lealtà fra se stesso e i propri cittadini, nonché la reciprocità di diritti e di doveri che stanno alla base del vincolo di cittadinanza. È legittimo, per uno Stato membro, considerare che la cittadinanza sia espressione di un legame effettivo tra se stesso e i propri cittadini e collegare, quindi, la perdita della cittadinanza all’assenza o cessazione di tale legame, così come è legittimo che uno Stato voglia tutelare l’unità della cittadinanza all’interno di una stessa famiglia. Rispettare il principio di proporzionalità significa dunque valutare il caso singolo: per esempio la gravità di un’infrazione che porti alla perdita; il periodo di tempo trascorso dopo tale comportamento; la possibilità di riacquisto dopo la perdita; le conseguenze sulla vita familiare e professionale. È il carattere fondamentale di tale status che comporta una valutazione del genere, caso per caso[26].
La domanda che ci si pone ora è se tali criteri che integrano il principio di proporzionalità nei casi di perdita siano utilizzabili anche nel caso di attribuzione della cittadinanza: se cioè l’autorità nazionale, che ha competenza esclusiva ma che deve rispettare il diritto dell’Unione, incontri limiti nel riconoscere tale status. La risposta che sembra corretto dare è di ritenere legittimo introdurre dei limiti, di ritenere legittimo prevedere dei requisiti di effettività, ma non è un obbligo imposto dal diritto UE. La Corte di giustizia nella sentenza Commissione c. Malta non collega l’attribuzione della cittadinanza al principio di proporzionalità, per esempio affermando che è eccessivo, sproporzionato, concedere la cittadinanza dietro pagamento di somme o di investimenti, che configurano una commercializzazione (“transazione assimilabile a una commercializzazione”). Afferma, come già si è ricordato, che tale comportamento viola l’art. 20 TFUE e l’art. 4, par. 3 TUE perché “viola in modo manifesto la necessità del particolare rapporto di solidarietà e lealtà, caratterizzato dalla reciprocità dei diritti e degli obblighi tra lo Stato membro e i suoi cittadini, e fa in tal modo venir meno la fiducia reciproca su cui si fonda la fiducia dell’Unione”[27].
7.2. Il possibile rinvio pregiudiziale
Le domande che ci si potrebbe porre nel contesto di un rinvio pregiudiziale, che il giudice comune o la Corte costituzionale “può” o “è tenuto” (secondo la distinzione di cui all’art. 267 TFUE) disporre, sussistendo dubbi interpretativi, sono le seguenti (almeno le principali).
a) È contrario al diritto UE, e quindi ai principi affermati più recentemente nella sentenza Commissione c. Malta, attribuire, da parte di uno Stato, la propria cittadinanza, senza prevedere dei requisiti di residenza o generazionali che rappresenterebbero pertanto dei limiti alla discrezionalità dello Stato?
b) Se è vero che il diritto UE impone che siano rispettati (e quindi ne sia verificata, in primo luogo, l’esistenza) sia il rapporto di solidarietà e lealtà esistente fra lo Stato e i propri cittadini, sia la reciprocità di diritti e di doveri, sia la leale cooperazione fra Stati, il riconoscimento della cittadinanza per filiazione da un lato, e l’attribuzione o concessione della cittadinanza per naturalizzazione dall’altro lato, incontrano gli stessi limiti imposti dal diritto dell’Unione europea oppure possono essere diversi? Nel primo caso non essendo previsti dei limiti (oppure se previsti, sono del tutto eccezionali), nel secondo caso invece la discrezionalità essendo più ampia?
Si deve, invero, tenere presente che limiti alla concessione (considerato che il cittadino nazionale diventa per estensione cittadino dell’Unione) possono essere introdotti, ma nel rispetto di quei principi (solidarietà, lealtà, reciprocità, leale cooperazione).
c) La previsione di limiti alla concessione è consentita, e quindi è proporzionata, se si rispettano quei principi? Il giudizio di proporzionalità potrebbe, dunque, essere incluso, come parte integrante, cioè, del giudizio di conformità a quei principi?
d) Premesso che le nuove norme introdotte con il d.l. n. 36/2025, conv. in l. n. 74/2025 hanno un effetto retroattivo nei confronti di coloro che, nati all’estero anche prima dell’entrata in vigore delle nuove norme e in possesso di altra cittadinanza, sono considerati non avere mai acquistato la cittadinanza italiana, salvo casi eccezionali espressamente indicati (per esempio il limite di ascendenza di due generazioni), sono compatibili con il diritto dell’Unione europea e con la giurisprudenza della Corte di giustizia? Ciò in considerazione del fatto che hanno l’effetto di privare della cittadinanza dei soggetti già italiani, e pertanto hanno l’effetto di revocare la cittadinanza, senza che sia prevista una procedura nazionale che a) disponga un periodo transitorio, b) preveda un esame individuale circa la perdita e la eventuale volontà (da esprimere entro un certo periodo di tempo) di mantenere la cittadinanza italiana.
e) Le nuove norme, che producono gli effetti sopra ricordati (punto d), sono conformi ai principi di proporzionalità e di legittimo affidamento?
I quesiti formulati sono semplici proposte: spetta al giudice, come sempre, valutare la rilevanza, quanto a estensione, contenuto e forma.
Il testo riproduce, con alcune modifiche e integrazioni, la relazione tenuta il 22.9.2025 in occasione del corso della Scuola Superiore della Magistratura “La cittadinanza e le cittadinanze. Spunti di riflessione de iure condito e de iure condendo”. I riferimenti bibliografici sono limitati ai più recenti.
[1] Sul tema della cittadinanza europea, in riferimento alla giurisprudenza della Corte di giustizia, cfr. più recentemente la sentenza (la prima in ordine di tempo, sull’attribuzione della cittadinanza) Commissione c. Malta, causa C-181/23, EU:C:2025:283, conclusioni dell’avvocato generale Collins, in EU:C:2024:849, si vedano, fra gli altri, B. Nascimbene, Cittadinanza: riflessioni su problemi attuali di diritto internazionale ed europeo, in Riv.dir.priv.proc., 2025, p. 5 ss. (ivi riferimenti); J. Re, Aspetti internazionali e sovranazionali del riconoscimento dello status di cittadino italiano per discendenza, in C. Campiglio (a cura di), Il riconoscimento dello status di cittadino per discendenza nelle sue molteplici dimensioni, Milano, 2025, in corso di pubblicazione. Sulla sentenza della Corte costituzionale, anche con riferimento alle nuove norme, Umberto L.C.G. Scotti, La Corte costituzionale si pronuncia sulla cittadinanza. Osservazioni a prima lettura della sentenza 142 del 2025, in Giustizia Insieme, 2025. Cfr. inoltre G. Bonato, Il decreto-legge n. 36 del 28 marzo 2025: la “Grande Perdita” della cittadinanza italiana, in Judicium, 2025; F. Corvaja, Quando i nodi vengono al pettine. Il riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis senza limiti, tra vincoli di diritto internazionale, condizionamenti europei e ordinamento costituzionale italiano, in eurojus, fasc. 2/2025, p. 25 ss.; C. delli Carri, La cittadinanza dell’Unione europea come parametro interposto nella valutazione della legittimità costituzionale della legge n. 91/1992, in eurojus, fasc. 2/2025, p. 1 ss.; S. De Nardi, La cittadinanza nella Costituzione della Repubblica italiana, in corso di pubblicazione; C. Panzera, A. Rauti, La cittadinanza tra Stato e comunità, in Diritto e Società, 2025, p. 619 ss.; A. Rauti, Cittadinanza europea, vincoli per gli Stati membri e genuine link. La specificazione del “limite Micheletti” fino alla sentenza della CGUE sulla “cittadinanza per investimento, in eurojus, 2025, in corso di pubblicazione. Si veda pure la nota 4.
[2] La Dichiarazione è ricordata nelle conclusioni dell’avvocato generale Collins, punti 44-45, gli Stati avendo deciso di non mettere in comune le loro competenze, a conferma del fatto che le rispettive concezioni della cittadinanza concernono l’essenza stessa della loro sovranità e identità nazionale. Cfr. pure la sentenza 5.9.2023, C-689/21, Udlændinge- og Integrationsministeriet (d’ora in poi Perdita della cittadinanza danese), EU:C:2023:626, punti 26-27 (viene ricordata anche la “decisione di Edimburgo” adottata al Consiglio europeo di Edimburgo (sezione A della decisione dei capi di Stato e di governo riuniti in sede di Consiglio europeo di Edimburgo dell’11 e 12 dicembre 1992, concernente alcuni problemi sollevati dalla Danimarca, in GU 1992, C 348, p. 1; la Dichiarazione n. 2 cit. è in GU 1992, C 191, p. 98).
[3] Per un riferimento a norme internazionali rilevanti, pattizie, si veda oltre, quanto alla dichiarazione di inammissibilità della Corte cost.: riferimento peraltro generico da parte dei giudici rimettenti. Avrebbero potuto essere citati, per esempio, l’art. 15 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; l’art. 20 Convenzione americana dei diritti dell’uomo; l’art. 8 Convenzione EDU -protezione per via indiretta, la norma riguardando il rispetto della vita privata e familiare-; le varie norme contenute nella Convenzione europea sulla nazionalità del Consiglio d’Europa del 6.11.1997 (ratificata da ventuno Stati, non dall’Italia che l’ha soltanto firmata).
[4] Sulla procedura di infrazione avviata anche contro Bulgaria e Cipro cfr. C. Sanna, La cittadinanza UE non è in vendita: la Corte dichiara incompatibili con il diritto UE i programmi di naturalizzazione per investimenti della Repubblica di Malta. Le implicazioni della sentenza sul criterio dello ius sanguinis previsto dalla legislazione italiana, in eurojus, 2025.
[5] Cfr. il punto 121 della sentenza.
[6] Cfr. i punti 120, 121 della sentenza.
[7] Cfr. i punti 84, 91 della sentenza.
[8] Cfr. punto 93 della sentenza; il riferimento è alle pagine da 1143 a 1145 della sentenza 15.7.1964, Costa-Enel, C-6/64, EU:C:1964:66.
[9] Cfr. il punto 94 della sentenza.
[10] Cfr. i punti 95, 83, ove viene richiamato, sul primato, il parere 2/13 del 18.12.2014, in EU:C:2014:2454, punto 166, sulla adesione dell’Unione alla CEDU.
[11] Cfr. il punto 81 della sentenza, ove si ricordano le sentenze Micheletti, 7.7.1992, causa C-369/90, EU:C:1992:295, punto 10; Rottmann, 2.3.2010, causa C-135/08, 2.3.2010, EU:C:2010:104, punto 45; Perdita della cittadinanza danese cit., punto 30 (con riferimenti ivi).
[12] Cfr. il punto 100 della sentenza.
[13] Cfr. il punto 93 già cit. della sentenza.
[14] Cfr. Affaire Nottebohm (deuxième phase), Arrêt du 6 avril 1955 : C.I.J. Recueil 1955, p. 4.
[15] Sulle affermazioni ricordate cfr. la sentenza Perdita della cittadinanza danese cit., punti 30-31, 35-38, che richiama le sentenze Rottmann cit., punti 42, 45, 55-56, Tjebbes e a., causa C-221/17, 12.3.2019, EU:C:2019:189, punti 32, 33, 35-41; Wiener Landesregierung, causa C-118/20, 18.1.2022, EU:C:2022:34, punto 52. Successivamente la sentenza Stadt Duisburg, causa C-684/22, 25.4.2024, EU:C:2024:345, punti 36-45.
[16] Conclusioni dell’avvocato generale Collins cit., punti 45, 65.
[17] Cfr. i punti 79 ss. della sentenza Commissione c. Malta cit..
[18] Cfr. punto 81 Commissione c. Malta cit.
[19] Cfr. sentenza Micheletti cit., punti 10-11.
[20] Sentenza Commissione c. Malta cit., punto 92, in precedenza sentenza 20.9.2001, C-184/99, Grzelczyk, EU:C:2001:458, punto 31; Rottmann cit., punto 43; Wiener Landsregierung cit., punti 38, 58; Perdita della cittadinanza danese cit., punti 29, 38; Stadt Duisburg cit., punto 42.
[21] Si veda oltre, par. 5.
[22] Cfr. la sentenza Perdita della cittadinanza danese cit., punti 38-47, ove si richiamano le sentenze Rottmann cit., punti 55, 56; Tjebbes e a. cit., punti 40-42. Cfr. pure la sentenza Stadt Duisburg cit., punti 64-65, e sulla perdita della cittadinanza, uno Stato intendendo evitare, per motivi di interesse generale, la pluralità di cittadinanze, ibidem, punti 38, 41, 51 essendo imposto il rispetto di diritti e vincoli di diritto UE, per esempio il rispetto della vita familiare previsto dall’art. 7 Carta dei diritti fondamentali.
[23] Si permette rinviare ai rilievi svolti in Cittadinanza: riflessioni cit., p. 5 ss.
[24] Si vedano i casi, ricordati nella sentenza della Corte cost., Rottmann, Tjebbes e a. citt.
[25] Si veda quanto si è detto prima, riferimenti nella nota 15.
[26] Cfr. i riferimenti nella nota 15, spec. la sentenza Perdita della cittadinanza danese cit., punti 33-35.
[27] Cfr. la sentenza cit., punto 99.
Su questa rivista, si veda anche La Corte Costituzionale si pronuncia sulla cittadinanza. Osservazioni a prima lettura della Sentenza 142 del 2025 di Umberto Scotti, Cittadinanza iure sanguinis: brevi note dopo C. Cost. 31/7/25 n. 142 di Marco Gattuso.
La riforma costituzionale della giustizia alla prova del referendum
Giovedì 20 Novembre 2025, ore 18:00
Circolo Magistrati della Corte dei Conti - Via del Foro Italico, 430 - Roma
Cosa si intende per "separazione delle carriere"? Quali effetti dallo sdoppiamento del Consiglio Superiore della Magistratura e dal proposto sistema di estrazione a sorte dei suoi componenti? Quali poteri avrà l'Alta Corte disciplinare che assumerà la competenza attualmente esercitata dal CSM? E questa la riforma di cui la giustizia ha bisogno?
L' incontro del 20 novembre si propone di offrire, attraverso la voce autorevole di insigni giuristi provenienti dalla magistratura e dall'avvocatura, un contributo di chiarezza sui contenuti della riforma ed una riflessione che sia di ausilio alla prossima scelta referendaria, nella piena consapevolezza dell'importanza di una modifica della Costituzione destinata ad alterare il sistema attuale, fondato sull' equilibrio tra i poteri dello Stato.

In tema di riforma costituzionale su questa rivista:
Un referendum su giustizia e potere di Aniello Nappi,
La riforma costituzionale della magistratura. 10 domande e 10 risposte di Riccardo Ionta,
Il giudice che i cittadini hanno diritto di avere secondo Costituzione di Giuliano Scarselli,
Riforme e assetto costituzionale della magistratura di Giuseppe Santalucia,
In difesa della funzione giurisdizionale dei Pubblici Ministeri di Giuseppe Iannaccone,
L'unità della magistratura un interesse della collettività di Giovanni Salvi,
Confessioni di un civilista (separazione delle carriere e dintorni) di David Cerri,
Riforma costituzionale dell’ordinamento giurisdizionale: procedura e obiettivo di Giovanni Di Cosimo,
Indipendenza della magistratura e Stato costituzionale di diritto di Francesco Merloni,
Brevi note sull’Alta Corte disciplinare di Giuseppe Santalucia.
Può il Consiglio di Stato sollevare il conflitto negativo di giurisdizione nell’ambito della translatio iudicii? (nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, ord. 24 ottobre 2024 n. 8507 e Cassazione, S.U., ord. 12 luglio 2025 n. 19196)
di Marco Mazzamuto
Sommario: 1. La questione. – 2. L’accelerazione processuale sulle questioni di giurisdizioni a detrimento del controllo delle giurisdizioni superiori. – 3. Lo stato dell’arte precedente alle due pronunce annotate. – 4. L’ordinanza del Consiglio di Stato: rilievi critici. – 5. L’ordinanza della Cassazione: rilievi critici. – 6. Breve conclusione.
1. La questione.
Le pronunce annotate sono di grande rilievo pratico poiché riguardano la possibilità che, in sede di translatio iudicii[1], il Consiglio di Stato sollevi il conflitto negativo di giurisdizione di fronte alle Sezioni Unite della Cassazione ed è solo per questo profilo processuale che verranno prese in considerazione. Il Consiglio di Stato, sollevando il conflitto, parte ovviamente dal presupposto che ciò fosse nelle sue facoltà e le Sezioni Unite hanno ritenuto il ricorso ammissibile, statuendo poi nel merito della questione di giurisdizione.
Deve subito evidenziarsi, come si cercherà di mostrare nel prosieguo, che entrambe le pronunce, ammesso che troveranno in seguito conferma, appaiono nel metodo assai censurabili, poiché hanno troppo sbrigativamente determinato un significativo mutamento di giurisprudenza, con una carente o travisante considerazione dei precedenti.
2. L’accelerazione processuale sulle questioni di giurisdizioni a detrimento del controllo delle giurisdizioni superiori.
L’incombere sul nostro ordinamento della questione della ragionevole durata dei giudizi ha indotto le giurisdizioni superiori ad attivare dei meccanismi di accelerazione processuale in vista di una rapida definizione della questione di giurisdizione.
Basti evocare il giudicato implicito sulla giurisdizione, affermato dalla Cassazione (S.U. n. 24883/2008), in discontinuità con l’orientamento tradizionale, e poi recepito dal legislatore (nell’art. 9 c.p.a. e nel nuovo art. 37 c.p.c.), o l’assunto che chi ricorre ad un giudice non può poi contestarne la giurisdizione, affermato dal Consiglio di Stato, sotto il profilo dell’abuso del processo, e poi condiviso dalla Cassazione (S.U. n. 21260/2016), pur con diversa motivazione, e cioè che essendovi sempre un autonomo capo, anche implicito, sulla giurisdizione, chi agisce in giudizio, pur ove soccombente nel merito, rimanga comunque vincitore sul capo relativo alla giurisdizione e dunque privo del requisito della soccombenza per contestare tale capo in appello.
Ovviamente siffatti meccanismi preclusivi finiscono in parte per ridurre il tradizionale controllo che le giurisdizioni superiori hanno sempre esercitato sulla giurisdizione.
Non è forse un caso che ciò abbia anche determinato un qualche contraccolpo, come potrebbe ravvisarsi nella correzione di tiro effettuata dalla Cassazione, nel senso che il giudicato implicito varrebbe per il riparto di giurisdizione, ma non anche per l’eccesso di potere giurisdizionale (S.U. n.1034/2019; n. 19084/2020). Questo orientamento sembrerebbe trovare oggi conferma nel nuovo art. 37 c.p.c., sebbene dal punto di vista del giudice ordinario: e infatti, se per il riparto di giurisdizione ci si adegua al diritto vivente del giudicato implicito, riguardo invece al difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione, evocante appunto l’eccesso di potere giurisdizionale, si mantiene la rilevabilità, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo.
L’istituto della translatio è stata non meno informata a questa ratio acceleratoria: sia per l’utilizzo stesso di questo strumento anche nei rapporti con i giudici speciali, sicché la questione di giurisdizione non diventa ostacolo ad una pronuncia di merito, consentendo all’interessato di attivarsi con immediatezza di fronte al giudice ad quem, senza bisogno di instaurare un nuovo processo; sia, per quello che qui specialmente importa, per l’introduzione, ancora una volta, di meccanismi preclusivi sulla questione di giurisdizione di fronte al giudice ad quem, qualora l’interessato opti per la translatio, e sempre che lo faccia tempestivamente altrimenti il processo si estingue.
3. Lo stato dell’arte precedente alle due pronunce annotate.
Sul piano normativo fondamentale è l’art. 59 l. n. 69/2009, che pone due ordini di preclusioni: uno riguardante le parti, sicché se “la domanda è riproposta al giudice ivi indicato”, indicato cioè nella declinatoria di giurisdizione del giudice a quo, e “nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione” (comma 2); un altro riguardante il giudice ad quem, il quale “può sollevare d’ufficio, con ordinanza” la questione di giurisdizione di fronte alla Cassazione, solo “fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito” (comma 3).
Il codice del processo amministrativo si occupa solo della seconda preclusione, prevedendo che “quando il giudizio è tempestivamente riproposto davanti al giudice amministrativo, quest'ultimo, alla prima udienza, può sollevare anche d'ufficio il conflitto di giurisdizione” (art. 11, comma 3, c.p.a.). Tuttavia il citato art. 59 comma 2 è ritenuto applicabile anche al processo amministrativo, in quanto si tratterebbe della disciplina generale in materia di translatio, operante, in presenza di lacune, come in tal caso, nel senso di integrare in via sussidiaria la disciplina speciale del c.p.a. (SU n. 27163/2018; n. 19045/2018).
Le Sezioni unite hanno subito chiarito che la mancata impugnazione della decisione declinatoria del giudice a quo e la riassunzione del processo davanti al giudice indicato determinano l'effetto di un “giudicato” sulla giurisdizione, con la conseguenza che nel giudizio ad quem le parti non possono ricorrere al regolamento preventivo di giurisdizione (SU ord. n. 14828/2010; n. 16033/2010; n. 23596/2010; n. 14660/2011).
Poco dopo, l’Adunanza plenaria, sulla scorta di questi precedenti, assevererà che questo giudicato vincola le parti, sicché esse non solo non possono esperire il regolamento preventivo, ma non possono neanche presentare, in sede di riassunzione, una “eccezione” di difetto di giurisdizione del giudice ad quem, il quale, all’occorrenza, sarà tenuto a dichiararne l’inammissibilità. Tutt’al più, dall’art. 11 c.p.a., che, diversamente dall’art. 59 cit., recita “anche” d’ufficio, si ricava che legge sembri “implicitamente intendere che le parti potrebbero sollecitare l’esercizio del potere” officioso di sollevare il conflitto da parte del giudice ad quem (Ad. pl. n. 24/2011).
La questione di giurisdizione potrà dunque risorgere soltanto qualora il giudice ad quem di prime cure, ed entro il termine della prima udienza, sollevi d’ufficio il conflitto, altrimenti non potrà in alcun modo essere più rimessa in discussione, secondo appunto quella ratio acceleratoria per la quale, come bene evidenziato dall’Adunanza plenaria (n. 4/2018) “la definitiva pronuncia sulla giurisdizione deve intervenire nel più breve tempo possibile”.
Nello stesso 2011 si affrontava per la prima volta la possibilità che il conflitto potesse essere sollevato dal giudice di appello nel quadro della disciplina della translatio. Sull’implicito presupposto che ciò non fosse in generale ammissibile, si ritagliava pregevolmente un’eccezione: intendendo per prima udienza di fronte al giudice ad quem di prime cure non quella che lo fosse in senso cronologico, bensì la prima udienza “utile”, si evidenziava che tale udienza “utile” non si fosse consumata, e ciò perché “il giudice di primo grado si è fermato all’esame di una questione di rito” (decadenza dell’azione) “a cui, nell’ordine logico, ha dato priorità rispetto alla questione di giurisdizione”, impedendo l’esame di quest’ultima. La conseguenza era che la prima udienza “utile” e dunque la concreta possibilità di sollevare il conflitto non poteva che spostarsi nel giudizio d’appello (CdS VI n. 6041/2011).
Sul sollevato conflitto intervenne una articolata e non meno pregevole pronuncia delle Sezioni Unite.
La Corte risolveva anzitutto una questione di diritto intertemporale ritenendo non applicabile la disciplina legislativa della translatio al caso di specie, considerando che “il giudizio di primo grado si è svolto prima che la norma entrasse in vigore”, sicché “negare che nella circostanza in esame il Consiglio di Stato avesse la facoltà di sollevare il conflitto, significherebbe applicare la norma in modo retroattivo”. Si spostava così del tutto il parametro di giudizio rispetto all’ordinanza del Consiglio di Stato che era invece incentrata sulla disciplina legislativa della translatio.
Il conflitto era dunque, alla luce della previgente disciplina, configurabile, ma venne tuttavia dichiarato inammissibile per un'altra ragione, e cioè per la regola, che doveva già allora ritenersi vigente, del giudicato implicito sulla giurisdizione. Tale giudicato era da intendersi formato anche nel caso di specie in ragione della pronuncia sulla decadenza e della mancata proposizione di un motivo di appello sulla giurisdizione, rimanendo così “precluso l’accesso alla richiesta di soluzione del conflitto”.
Ma, ai nostri fini, ancor più rilevante è che, nell’interesse della legge, la Corte si sia pronunciata sulla disciplina vigente della translatio.
La Corte limpidamente e inequivocabimente ci rappresenta quale sia la “regola” in costanza di translatio:
“ripreso il processo davanti al giudice indicato dal diverso giudice di merito dichiaratosi privo di giurisdizione, la richiesta di conflitto è ora il solo strumento attraverso il quale il giudice indicato può esercitare il suo potere di rilievo di ufficio sulla questione di giurisdizione. Ciò nel processo di primo grado. Mentre anche di questo il giudice è privo nel processo di appello, perché se il potere di rilievo di ufficio non l’ha esercitato il giudice di primo grado sollevando il conflitto, al riguardo si sarà formata una preclusione a discutere ulteriormente della giurisdizione”.
A questa regola si oppone, al contempo, un’eccezione, cogliendo lo spunto del Consiglio di Stato. La Corte discetta sui rapporti tra ordine delle udienze e ordine delle questioni nel processo civile, da reinterpretare alla luce dell’art. 59, c. 3, della legge del 2009, che parla di “prima udienza fissata per la trattazione del merito”. Nella medesima luce si guarda alla disciplina del processo amministrativo, ove si parla solo di “prima udienza” (art. 11, c.3. cpa), ma da interpretare come “udienza per la discussione del ricorso” di cui all’art. 71. c. 3 c.p.a..
L’eccezione è ravvisata ogni volta “il giudizio di primo si sia concluso previo rilievo di questione attinente all’ordine del processo, pregiudiziale rispetto alla stessa questione di giurisdizione”. Solo in questa evenienza si “consente di evitare” che il giudice appello, ed in particolare, anche quello amministrativo, “risulti privato del potere di rilievo d’ufficio del proprio difetto di giurisdizione” (SU n. 5873/2012; corsivo nostro).
Nel 2013 il Consiglio di Stato esperiva nuovamente un conflitto, in un caso in cui il giudice di prime cure, invece di sollevare il conflitto, aveva definito il giudizio declinando la giurisdizione con sentenza in forma semplificata, emessa, in camera di consiglio, ad esito della domanda cautelare, ai sensi dell’art. 60 c.p.a., sicché, a mente di SU n. 5873/2012, non si era svolta l’udienza di merito, e gli appellanti avevano fatto espressa richiesta di sollevazione del conflitto (CdS IV n. 3462/2013).
Le Sezioni Unite dichiaravano inammissibile il conflitto, in quanto la declinatoria di prime cure si era consumata “al di là della soglia” costituita dalla prima udienza del giudizio di primo grado e, secondo la regola, “era ormai divenuto incontestabile il radicamento giurisdizionale derivante dalla pronuncia in precedenza emessa dal giudice ordinario e dalla tempestiva riassunzione della causa in conformità a tale pronuncia”, né aveva rilievo che a ciò si fosse addivenuti con rito semplificato, poiché è “la stessa adunanza camerale, in cui le parti possono intervenire per svolgere le loro difese, ad integrare gli estremi di quella prima udienza fissata per la trattazione del merito di cui all’art. 59", o che vi fosse stata una richiesta degli appellanti, in sé ”irrilevante … trattandosi dell'esercizio di un potere d'ufficio i cui limiti non potrebbero certo essere ampliati da un'iniziativa di parte”; tutto ciò in conformità alla “ragione ispiratrice” della disciplina legislativa, e cioè che “si vuole evitare il più possibile ogni inutile dispendio di attività processuale” (S.U. n. 10922/2014).
A quel punto il Consiglio di Stato iniziò più decisamente ad allinearsi, invece di andare ancora alla ricerca di improbabili eccezioni alla regola.
Nel 2015 si statuiva, sulla scorta di S.U. n. 10922/2014 cit., che “il conflitto negativo non può essere sollevato, in riforma della sentenza appellata, da questo Consiglio di Stato” (CdS III n. 2040/2015), e ancora che “se quindi il giudice di prime cure, alla prima udienza, non solleva d’ufficio o su istanza di parte il conflitto, la questione si radica davanti a lui e non è più oggetto di vaglio, né in quella sede né in appello”, non potendo “estendersi al giudice di appello il potere di cui al comma 3 dell’art. 11, che è espressamente configurato come esercitabile in sede di riassunzione e solo alla prima udienza”, con l’aggiunta della pregevole precisazione che la differenza di disciplina tra l’art. 9 (“Il difetto di giurisdizione è rilevato in primo grado anche d'ufficio”) e l’art. 11 c.p.a., che pone i tempi più ristretti del rispetto del termine della prima udienza, è giustificata dal fatto che nel primo caso la pronuncia “affronta il tema della giurisdizione per la prima volta”, mentre nel secondo caso “interviene dopo che un giudice diverso si è già pronunciato” (CdS IV n. 2862/2015; da ult. CdS V n. 38/2024).
Nel 2019, in modo non pretestuoso, il Consiglio di Stato riproponeva un conflitto, a mente di SU n. 5873/2012 cit., sotto il profilo del regime intertemporale, poiché il giudizio di primo grado era anteriore all’entrata in vigore delle norme sulla translatio ed era stato presentato uno specifico motivo di appello sulla giurisdizione (ord. n. 2189/2019). Le Sezioni Unite, tuttavia, rivedendo solo in parte qua il precedente del 2012, ritennero che a rilevare sia il momento in cui viene sollevato il conflitto, sicché anche in questo caso si rimaneva soggetti alle norme sulla translatio. La conseguenza, in omaggio alla “regola”, era inevitabile: il conflitto venne dichiarato inammissibile (SU n. 1611/2020).
Il prosieguo continuerà in modo coerente con i precedenti.
D recente, si è così affermato che poiché “la declinatoria di giurisdizione non è stata impugnata; ed anzi, l’odierno appellante vi ha fatto acquiescenza riassumendo il giudizio innanzi agli organi di giustizia amministrativa”, le doglianze “svolte nell’appello” che “si risolvono nel riaffermare la giurisdizione del g.o. anziché del g.a., sono inammissibili” (CdS III n. 7183/2025).
Parimenti si è rigettato il motivo di appello avverso “il capo della sentenza” di prime cure “che ha dichiarato inammissibile l’istanza volta a sollecitare il potere del giudice di sollevare d’ufficio il conflitto di giurisdizione”, sempre secondo il principio per il quale “una volta riassunto il giudizio innanzi al giudice indicato come munito di giurisdizione, le parti non possono più mettere in discussione la decisione del primo giudice che ha declinato la giurisdizione, né mediante regolamento preventivo di giurisdizione né mediante eccezione di difetto di giurisdizione, determinandosi un vero e proprio giudicato interno preclusivo alla successiva riproponibilità della questione” (CdS II n. 5912/2025).
Come si vede, ci troviamo di fronte ad un nucleo corposo di precedenti di cui sono anche chiari i principi di interpretazione dei dettami legislativi.
4. L’ordinanza del Consiglio di Stato: rilievi critici.
Questo il contenuto della motivazione che per la sua brevità vale la pena di riprodurre, così come si farà per l’ordinanza della Cassazione, al fine di poterne direttamente apprezzare l’effettiva consistenza:
“7. Il Collegio è dell’avviso che il presente giudizio debba essere devoluto alla giurisdizione del giudice ordinario e pertanto ritiene necessario sollevare il conflitto negativo di giurisdizione in relazione alla pronuncia declinatoria resa dal Tribunale civile di Napoli, essendo stato proposto un espresso motivo di appello sul punto che, in forza dell’effetto devolutivo del gravame, ripropone nel presente grado la medesima questione tempestivamente esaminata, “alla prima udienza”, dal T.a.r., secondo quanto richiesto dall’art. 11, comma 3 c.p.a. a mente del quale “Quando il giudizio è tempestivamente riproposto davanti al giudice amministrativo, quest'ultimo, alla prima udienza, può sollevare anche d'ufficio il conflitto di giurisdizione.”.
Inoltre ai sensi dell’art. 362, comma 2 “Possono essere denunciati in ogni tempo con ricorso per cassazione:
1) i conflitti positivi o negativi di giurisdizione tra giudici speciali, o tra giudice amministrativo e giudice speciale, o tra questi e i giudici ordinari”.
Cosa debba intendersi per “prima udienza” ai sensi dell’art. 11, comma 3, c.p.a. è stato, a più riprese, chiarito dalle Sezioni unite (cfr. tra le tante Cass. civ., sez. un., ord. 17 giugno 2021, 17329; ord. 29 ottobre 2020 n. 23904; ord. 28 ottobre 2020, n. 23749; ord. 11 aprile 2018, n. 8981).
7.1. Il limite temporale posto dall’art. 11, comma 3, c.p.a. deve intendersi rispettato nel caso di specie poiché il T.a.r. ha espressamente affrontato la questione nella prima udienza di merito fissata, pervenendo alla decisione motivata di non sollevare il conflitto e tale statuizione è oggetto di specifico motivo di appello sicché la questione riemerge nel presente grado nella sua completezza, anche in ordine al profilo temporale, che resta cristallizzato al momento in cui il tema è stato affrontato, tempestivamente, dal T.a.r. all’esito dell’udienza di trattazione del merito.
Non è dunque ostativo alla ammissibilità del rimedio quanto osservato da Cass. civ., sez. un. 24 gennaio 2020, n. 1611 in fattispecie diversa in cui il T.a.r. non si era pronunciato espressamente sulla insussistenza dei presupposti per sollevare il conflitto negativo e l’appellante si era limitato a riproporre in appello l’eccezione di difetto di giurisdizione, oltre il limite temporale posto dall’art. 11, comma 3, c.p.a., in tal modo precludendo il rimedio del conflitto, per tale ragione ritenuto inammissibile dalle Sezioni unite”.
Quello che colpisce immediatamente di questa pronuncia è che non vi sia alcuna evocazione dei precedenti giurisprudenziali dello stesso Consiglio di Stato, ivi compresa l’Adunanza plenaria, e che della giurisprudenza della Cassazione, a parte i riferimenti a proposito di cosa debba intendersi per prima udienza, si menziona una sola decisione.
Il Consiglio concentra tutto il suo ragionamento sull’affermazione che, per evitare effetti preclusivi, il termine della prima udienza debba ritenersi rispettato per il fatto stesso che il Tar entro quel termine si sia comunque pronunciato, anche dunque qualora, come nel caso di specie, si sia espresso nel senso della insussistenza dei presupposti per sollevare il conflitto negativo. A quel punto, l’impugnativa di tale statuizione avrebbe fatto riemergere in appello la questione “nella sua completezza” e di conseguenza avrebbe altresì investito il Consiglio di Stato della facoltà di sollevare il conflitto. La pronuncia della Cassazione del 2020 viene evocata soltanto per evidenziare che in quel caso l’effetto preclusivo si era prodotto perché il Tar era rimasto silente, non provvedendo alcunché entro il termine.
Sennonché, è del tutto evidente che la legge per evitare effetti conclusivamente preclusivi sulla giurisdizione dà al giudice di prime cure una “sola” possibilità (SU n. 5873/2012 cit.): sollevare il conflitto, non avendo rilevanza null’altro, né che, entro il termine, il giudice rimanga silente, né che, entro il termine, adotti una qualsivoglia altra determinazione, compresa quella espressa di non sollevarlo. Si comprende così perché la giurisprudenza, ignorata dall’ordinanza, abbia de plano ritenuto che di regola il giudice d’appello non possa sollevare il conflitto. Ed infatti, al di là dell’eccezione prospettata in giurisprudenza (SU n. 5873/2012 cit.) vi sono solo due eventualità, entrambe escludenti il giudice d’appello: se il giudice di prime cure non solleva il conflitto, si determina la preclusione, senza che la questione possa rispuntare in appello; se invece solleva il conflitto, la questione giunge direttamente in Cassazione: tertium non datur. E ciò sempre coerentemente con quella ratio acceleratoria già evocata: la questione di giurisdizione deve essere risolta il prima possibile: o con le preclusioni o con l’immediato accesso alle determinazioni definitive della Cassazione.
Né, riguardo al ruolo delle parti, è ben posto il rilievo attribuito al fatto che il punto sia stato oggetto di un motivo di appello con conseguente effetto devolutivo, poiché, come recita l’art. 59 cit., “nel successivo processo le parti restano vincolate” all’indicazione del giudice a quo, sicché, già per il fatto stesso della scelta per la translatio, alle parti sulla questione di giurisdizione è ormai precluso qualsivoglia strumento di contestazione o rimedio, in primo o in secondo grado, e comunque, come chiarito dalla giurisprudenza (S.U. n. 10922/2014 cit.), le richieste delle parti non possono far oltrepassare i limiti del potere officioso del giudice d’appello. Anche parlare di una “eccezione” delle parti in prime cure è improprio, potendosi tutt’al più ammettere, come prospettato dall’Adunanza plenaria, una mera sollecitazione al giudice perché sollevi o meno il conflitto.
Del tutto inconferente è poi il riferimento all’art. 362, c. 2, c.p.c., poiché tale previsione presuppone il conflitto reale, cioè la ricorrenza di due pronunce contrastanti di giudici diversi, il che non è in alcun modo ravvisabile nel caso di specie, ove il giudice ad quem, non sollevando il conflitto, ha confermato quanto statuito dal giudice a quo. Il conflitto reale non è peraltro neanche possibile all’interno dello svolgimento rituale della translatio, per come disciplinata, poiché il giudice ad quem, ove ritenesse ritenere di non avere la giurisdizione, dovrebbe sollevare il conflitto in Cassazione, mentre non potrebbe emanare una sentenza sulla giurisdizione di contenuto contrario a quella del giudice a quo. Non a caso questo riferimento è stato completamente ignorato dalla Cassazione.
5. L’ordinanza della Cassazione: rilievi critici.
Questo il contenuto della breve motivazione:
“I. - Deve essere confermata l’ammissibilità del regolamento di giurisdizione nel caso concreto.
Questa Corte ha già avuto modo di considerare che nel giudizio tempestivamente riproposto dinanzi al giudice amministrativo a seguito di declinatoria di giurisdizione del giudice ordinario il Consiglio di Stato, in sede di appello, può sollevare d'ufficio il conflitto negativo dinanzi alle Sezioni Unite, con l’unico limite dell’osservanza, a pena di inammissibilità, del requisito temporale costituito dalla prima udienza fissata per la trattazione del merito (art. 11, terzo comma, cod. proc. amm.).
Il principio – dettato in un ambito di diritto intertemporale (v. Cass. Sez. U. n. 1611-20) rispetto a fattispecie in cui il giudizio di primo grado si era svolto prima dell’entrata in vigore di tale norma, in esplicita rimeditazione di altro indirizzo antecedente (v. Cass. Sez. U n. 5873-12) di contro incentrato sulla necessità di evitare applicazioni retroattive della disciplina di diritto processuale – rileva a maggior ragione nel caso concreto, in cui nessun problema di possibile estensione retroattiva si pone, visto che il giudizio dinanzi al TAR è stato instaurato in piena vigenza dell’art. 11 cod. proc. amm.
Dalla sentenza del TAR risulta che l’eccezione di difetto di giurisdizione era stata formulata tempestivamente all’atto della costituzione in giudizio della convenuta. Dalla sentenza del Consiglio di Stato risulta che, respinta l’eccezione da parte del TAR, la stessa era stata riproposta mediante formulazione di un esplicito motivo d’appello”.
Colpisce anche qui la paucità dei riferimenti e del costrutto, sino addirittura a stravolgere, le pronunce della stessa Cassazione evocate.
Si ignora sia il riferimento, del resto del tutto inconferente, all’art. 362, c. 2, c.p.c., sia la questione del presunto rilievo del pronunciamento del Tar entro il termine della prima udienza, che, pur nella sua evidente inconsistenza, rientrava quantomeno nel solco della interpretazione della disciplina normativa sulla translatio.
La Corte va invece per la sua strada: la motivazione diparte dalla vicenda del diritto intertemporale e cripticamente di tale vicenda capovolge ex abrupto gli esiti.
Il percorso dei precedenti delle Sezioni Unite pur articolato era chiarissimo.
Nella pronuncia del 2012, sotto il regime della translatio, la “regola”, salvo eccezione, precludeva la sollevazione del conflitto da parte del giudice di appello, mentre, nel regime previgente, ancora applicabile quando il giudizio di primo grado si fosse svolto prima dell’entrata in vigore delle norme sulla translatio, questa preclusione non sussisteva, e il conflitto sarebbe stato ammissibile. Per quanto, nel caso di specie, il conflitto venne comunque dichiarato inammissibile, ma per ragione del tutto diversa, attinente alla regola della formazione del giudicato implicito in assenza di appello sul punto di giurisdizione.
Nella pronuncia del 2020, sempre sotto il profilo intertemporale, si affermava diversamente che, ai fini dell’applicazione del regime della translatio, ciò che conta è non il momento in cui si svolge il giudizio di primo grado, ma il momento in cui si solleva il conflitto. La conseguenza dunque era ancora più rigorosa in senso ostativo, poiché pure per i giudizi di primo grado svolti prima dell’entrata in vigore delle norme della translatio scattava la “regola” preclusiva, tanto che il conflitto fu dichiarato inammissibile.
La Corte elabora invece un costrutto così eccentrico da renderne persino difficile il commento critico.
Ma quale sarebbe mai questo “principio” -dettato in un ambito di diritto intertemporale dalla pronuncia del 2020 e da valere a maggior ragione per un giudizio dinanzi al TAR instaurato in piena vigenza dell’art. 11 c.p.a.- che dovrebbe condurre, come ha condotto la Corte, ad una statuizione di ammissibilità del conflitto?
Il discorso, in ipotesi, avrebbe potuto al più valere in direzione opposta. Sembra invero ignorarsi che è proprio l’art. 11 c.p.a. ad importare la preclusione e che semmai, alla luce della pronuncia del 2020, tale preclusione era estendibile anche ai giudizi di primo grado instaurati in precedenza.
E cosa mai c’entra il valorizzare che la questione di giurisdizione fu eccepita in prime cure e poi con un esplicito motivo d’appello?
Questo è un punto irrilevante ai fini della translatio, poiché, come si è evidenziato più volte, le parti nulla possono contestare una volta scelta la via della translatio. Diversamente si tratterebbe di un punto decisivo in un percorso ordinario o in un percorso nel quale la translatio non era ancora vigente (o non era ritenuta vigente, come nella pronuncia del 2012), sotto il profilo delle preclusioni derivanti dal giudicato espresso o anche implicito che si forma sulla giurisdizione quando non vi è sul punto uno specifico motivo di appello. E’ come se la Corte abbia confusivamente sovrapposto questi due piani ed il loro regime giuridico, che invece nella pronuncia del 2012, ad una attenta lettura, rimanevano correttamente separati.
6. Breve conclusione.
Si potrà, in ipotesi, anche condividere che occorra rivedere i meccanismi di semplificazione attivati in questi anni e recuperare in parte o in tutto il ruolo delle giurisdizioni superiori sulle questioni di giurisdizione, ma non ci pare che sia quello mostrato dalle pronunce de quibus il modo per farlo, specialmente poi in ragione del grado superiore degli organi che le hanno adottate.
Altrimenti rimarrebbe soltanto il dubbio che possa essere stata una forzatura, come a volte accade, per determinare sotto tono e oscuramente un mutamento giuriprudenziale.
[1] In generale per i profili giurisprudenziali dell’autentico “ginepraio” della translatio, si rimanda a M. Mazzamuto, Riparto di giurisdizione: il riemergere dei fantasmi del passato, relazione al Convegno su Il processo amministrativo a quindici anni dal suo codice, Bari 13 e 14 novembre 2025, a conferma del perplessità che sin dall’inizio si erano sollevate attorno all’estensione dell’istituto ai rapporti tra giurisdizioni, Id., Per una doverosità costituzionale del diritto amministrativo e del suo giudice naturale, in Dir. proc. amm, 2010, 179 ss. e Id., La translatio iudicii si “"schiude"?, ivi, 2012, 660.
Un atto giuridico apparentemente tecnico – un’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale – nasconde una questione di straordinaria rilevanza politica e internazionale. Con il provvedimento del 30 ottobre 2025, la Corte d’Appello di Roma ha sospeso il procedimento a carico di Najeem Osema Almasry Habish, detto “Al-Masri”, ricercato dalla Corte Penale Internazionale (CPI) per crimini di guerra e contro l’umanità commessi nella prigione libica di Mitiga (arrestato in Libia il 5 novembre 2025), e ha rimesso alla Consulta la questione di legittimità costituzionale della legge n. 237/2012, che disciplina la cooperazione dell’Italia con la CPI.
Il caso nasce dal mandato di arresto internazionale emesso dalla Corte dell’Aja il 18 gennaio 2025. Arrestato a Torino e poi liberato per mancanza di un provvedimento del Ministero della Giustizia, Almasry sarebbe stato espulso in Libia lo stesso giorno. Da quel momento, il procedimento si è trasformato in un nodo giuridico che mette in discussione la capacità dello Stato italiano di adempiere agli obblighi internazionali assunti con lo Statuto di Roma del 1998, che ha istituito la CPI.
La questione giuridica: discrezionalità politica o obbligo di cooperazione Secondo la Corte d’Appello, la legge italiana subordina la trasmissione delle richieste della CPI al Procuratore generale a una decisione discrezionale del Ministro della Giustizia. Se il ministro non trasmette gli atti, il giudice non può procedere. Questa impostazione, osservano i giudici, rischia di rendere l’Italia inadempiente agli obblighi di cooperazione internazionale, e infatti la CPI, con decisione del 17 ottobre 2025, ha già formalmente rilevato il mancato rispetto da parte del nostro Paese.
Il cuore del problema sta nella tensione tra sovranità nazionale e giustizia internazionale. Lo Statuto di Roma impone agli Stati firmatari di collaborare pienamente con la Corte, mentre la normativa interna italiana introduce un filtro politico – la decisione del Ministro – che può paralizzare la cooperazione. Per la Corte d’Appello, tale meccanismo viola gli articoli 11, 101 e 117 della Costituzione, che vincolano l’Italia al rispetto dei trattati internazionali e all’autonomia del potere giudiziario.
Un precedente delicato per l'Italia: non è solo un problema giuridico, ma anche di credibilità internazionale. L’Italia è stata tra i Paesi fondatori dello Statuto di Roma e ha sempre rivendicato un ruolo di promotrice della giustizia penale globale. Ora, il mancato rispetto di una richiesta della CPI – aggravato dall’espulsione del ricercato durante il procedimento – rischia di essere percepito come un atto di disimpegno politico. La stessa Corte Penale Internazionale ha già minacciato di segnalare l’Italia all’Assemblea degli Stati Parte per violazione dei propri obblighi.
La dimensione politica: il silenzio del Ministero. Particolarmente significativa è la parte dell’ordinanza in cui la Corte di Roma cita la decisione della Camera dei Deputati, che ha negato l’autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro della Giustizia per omissione d’atti d’ufficio, ritenendo che non vi fosse alcun obbligo di trasmettere la richiesta della CPI. In tal modo, una scelta politica è diventata di fatto un vincolo al potere giudiziario, impedendo ai giudici di adempiere agli obblighi internazionali previsti dallo Statuto. È su questo punto che la Corte costituzionale sarà chiamata a pronunciarsi: può il governo, per ragioni politiche, impedire ai giudici di cooperare con una corte internazionale che persegue i crimini più gravi contro l’umanità? La risposta toccherà il cuore del rapporto tra potere esecutivo e giurisdizione, ma anche tra giustizia nazionale e giustizia universale.
Una riflessione più ampia. Questo caso evidenzia il paradosso di una democrazia che proclama i diritti umani ma esita a consegnare alla giustizia internazionale chi li ha violati. Dietro le formule giuridiche si cela una domanda politica e morale: fino a che punto uno Stato può difendere la propria sovranità senza tradire il principio universale di giustizia? L’ordinanza della Corte d’Appello apre dunque un fronte di riflessione che travalica i confini del caso specifico. L’Italia, come Stato parte dello Statuto di Roma, si trova oggi a un bivio: riaffermare il proprio impegno per la giustizia internazionale o piegarsi alla logica della convenienza politica. La decisione della Corte costituzionale, attesa nei prossimi mesi, dirà se il nostro Paese intende restare fedele allo spirito di Norimberga o preferirà, ancora una volta, il silenzio della ragion di Stato.
Sul tema, si vedano anche:
Un volo di stato chiude il caso Almasri? di Lavinia Parsi
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Io, Osama Elmasry “Njeem” – Seconda puntata: RADAA di Marcello Basilico
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Io, Osama Elmasry “Njeem” – Quarta puntata: Toccata e... volo in Europa di Marcello Basilico
Io, Osama Elmasry "Njeem" - Quinta puntata: Balbettare sul diritto internazionale di Marcello Basilico
La nota redazionale pubblicata il 24 ottobre 2025 Caso Almasri la Corte Penale Internazionale ricostruisce la sequela di omissioni. Entro venerdì 31 ottobre l'Italia deve fornire ulteriori informazioni
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