ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
I beni culturali, il patrimonio immateriale ed i vincoli di destinazione d’uso (nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 luglio 2023, n. 6752)
di Michele Ricciardo Calderaro
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. La nozione di bene culturale. - 3. Il vincolo di destinazione d’uso del bene culturale secondo l’Adunanza Plenaria n. 5 del 2023 ed il Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 luglio 2023, n. 6752. - 4. Osservazioni conclusive.
La sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 luglio 2023, n. 6752, che si annota interviene nel dibattito, sempre di attualità, che si sviluppa intorno al concetto ed alla individuazione del bene culturale, ed in particolare del patrimonio immateriale[i] che può essere oggetto di tutela da parte dell’ordinamento.
Il problema, come si vedrà, concerne l’eventuale esistenza del potere del Ministero della Cultura di apporre un vincolo di destinazione d’uso ad un bene culturale per tutelare il patrimonio immateriale, in specie le attività culturali.
Partiamo, tuttavia, dall’inizio. La controversia attiene il ristorante il “Vero Alfredo”, fondato nel 1908 in Roma, via della Scrofa, trasferitosi nel 1950 nella sede di Piazza Augusto Imperatore, in uno dei locali posti al piano terra del complesso immobiliare denominato Palazzo dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, dichiarato di interesse storico artistico nel 2006, ai sensi dell’art. 10, co. 1, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42.
Tale edificio, in origine di proprietà pubblica, è stato trasferito al Fondo Comune di Investimento Immobiliare di Tipo Chiuso (FIP) ai sensi del decreto legge n. 351/2001, convertito in L. n. 410/2001, per essere successivamente alienato a società private, nel rispetto delle disposizioni del Codice dei beni culturali.
Difatti, tenuto conto che l’immobile rientrava tra i beni vincolati ex lege, ai sensi degli artt. 10, co. 1 e 5, e 12, co. 1, del Codice (trattandosi di immobile di proprietà pubblica, opera di autore non più vivente e risalente ad oltre 50 anni), è stata chiesta l’autorizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (oggi Ministero della cultura) ai fini dell’alienazione.
Il Ministero ha subordinato l’autorizzazione ad alcune prescrizioni, richiedendo, in particolare, la conservazione delle attuali destinazioni d’uso degli immobili e, comunque, vietando la destinazione ad usi, anche a carattere temporaneo, non compatibili con l’interesse culturale accertato o tali da creare pregiudizio alla conservazione e al pubblico godimento.
Il Ministero, inoltre, ha comunicato alla società proprietaria dell’immobile ed alla società che gestisce il locale ricettivo l’avvio del procedimento di dichiarazione di interesse culturale ai sensi dell’art. 14, d.lgs. n. 42 del 2004 avente ad oggetto il locale ristorante, le opere di Gino Mazzini e gli elementi di arredo conservati al suo interno, in quanto ritenuti di interesse particolarmente importante ai sensi dell’art. 10, co. 3, lett. d), Codice beni culturali, anche in considerazione dei principi enunciati dall’art. 7-bis del medesimo Codice in relazione alla tutela delle espressioni di identità culturale collettiva.
Nelle more, la società proprietaria ha agito in executivis per ottenere il rilascio dell’unità immobiliare, condotta sine titulo da “L’Originale Alfredo”, nuova denominazione del “Vero Alfredo”.
Ma il Ministero della Cultura non si è fermato qui perché, con il decreto ministeriale n. 50 del 13.7.2018, non si è limitato a dichiarare l’interesse particolarmente importante dell’immobile, ovvero il ristorante, con le opere e gli elementi di arredo ivi conservati, ma ha pure richiamato, quale parte integrante della dichiarazione di interesse culturale, la relazione storico-critica e il repertorio fotografico predisposti durante l’istruttoria; infatti, si è riconosciuto l’interesse culturale “nella continuità ininterrotta dell’unione tra locale ristorante, arredi ed opere artistiche, tradizione enogastronomica e sociabilità che, dai primi anni cinquanta ad oggi, hanno reso il ristorante uno spazio fisico e simbolico di accoglienza e di incontro di “mondi” e individui dalla provenienza geografica e sociale estremamente diversificata; un teatro di frequentazioni e di eventi pubblici e privati significativi da parte di personaggi illustri italiani e stranieri e di gente comune”.
La conseguenza, per il Ministero, è che inevitabilmente il “Vero Alfredo” debba essere tutelato ai sensi degli articoli 7-bis e 10, co. 3, lett. d) del Codice dei beni culturali, quale “espressione di identità culturale collettiva”, evidenziando come il patrimonio immateriale de “Il Vero Alfredo” sia costituito dall’insieme de “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”.
Quest’ultimo decreto del Ministero della Cultura è stato impugnato dalla Società proprietaria dell’immobile dinnanzi al T.A.R. Lazio, sede di Roma, che, con sentenza n. 5864 del 19 maggio 2021, ha ritenuto fondati i motivi del ricorso e ha conseguentemente annullato l’atto impugnato.
Secondo il T.A.R. Lazio, difatti, non potrebbero essere vincolate le attività svolte nell’immobile in questione mediante l’assoggettamento dei locali ad un vincolo di destinazione d’uso, in quanto ciò che potrebbe essere vincolato sarebbe soltanto il bene immobile, in presenza delle condizioni, diverse ed ulteriori, prescritte dagli artt. 10 e 13 del Codice per dichiararlo “bene culturale”, idonee a giustificare un vincolo a tutela della conservazione del bene, ma non anche dell’attività svolta al suo interno.
Di conseguenza, seguendo il ragionamento del giudice di primo grado, non sarebbe possibile, sulla base delle previsioni codicistiche, vincolare il bene, al fine di consentire la prosecuzione dell’attività, impedendo qualunque uso alternativo della cosa stessa; una tale politica, a prescindere dall’arbitrarietà per mancanza di base giuridica, se non per il contrasto con l’intenzione del legislatore delegato, quanto meno per la totale estraneità allo spirito delle Convenzioni internazionali in materia, risulterebbe insostenibile in quanto intrinsecamente irragionevole e sproporzionata.
Avverso questa decisione è stato proposto appello al Consiglio di Stato, in via principale dalla Società che gestisce il locale ricettivo ed in via incidentale dal Ministero della Cultura.
Data l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in materia di ammissibilità di un vincolo culturale di destinazione d’uso, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato ha deferito, ex art. 99, co. 1, Cod. proc. amm., la questione all’Adunanza Plenaria che si è espressa in tema con la sentenza n. 5 del 13 febbraio 2023.
Per poter definire la questione attinente ai vincoli di destinazione d’uso è necessario primariamente, tuttavia, delineare la nozione di bene culturale e comprendere come vi rientri anche il patrimonio immateriale[ii].
2. La nozione di bene culturale.
Al riguardo, si può iniziare da due definizioni particolarmente significative[iii].
La prima, più specifica, di stampo gianniniano, definisce il bene culturale come quel bene immateriale di proprietà pubblica, ovvero rientrante nel dominio dell’Amministrazione, inerente a una o più cose e distinto dal bene patrimoniale privato di cui quelle stesse cose costituiscono il supporto materiale[iv].
Più generale e meno tecnica, e forse anche per questo meno criptica, è la definizione fornita invece dalla Commissione Franceschini nel 1967, Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione delle cose d’interesse storico, archeologico, artistico e del paesaggio, allorquando affermò che “appartengono al patrimonio culturale della nazione tutti i beni aventi riferimento alla storia della civiltà. Sono assoggettati alla legge i beni di interesse archeologico, storico, artistico, ambientale e paesistico, archivistico e librario, ed ogni altro bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà”[v].
Questa affermazione di principio, che doveva rientrare in una riforma organica della materia attinente la tutela e la valorizzazione dei beni culturali, rimase in realtà tale perché non si trasformò in alcun atto avente forza di legge, ma fu un primo passo importante, almeno a livello terminologico in quanto consentì di superare la nozione invalsa sino ad allora di “cose d’arte” propugnata da una certa visione elitaria e fortemente idealizzata dei beni da tutelare che si ritrova nelle due più importanti leggi dell’inizio del XX secolo dedicate agli strumenti di tutela della cultura, ovvero la legge Rosadi, legge 20 giugno 1909, n. 364, e la legge Bottai, legge 1° giugno 1939, n. 1089[vi].
Sulla scorta dei lavori della Commissione Franceschini si giunge, poi, nell’ambito dei programmi di decentramento amministrativo, al d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, che, ripartendo le funzioni amministrative tra Stato ed enti territoriali in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali, definisce questi ultimi come “quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demoetnoantropologico, archeologico, archivistico e librario e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà così individuati in base alla legge”[vii].
Siamo dinnanzi ad una definizione più ampia, ove il proprium del bene culturale viene individuato nel carattere di testimonianza avente valore di civiltà[viii], cioè espressione di una determinata cultura formatasi nel tempo. In linea generale, quindi, il riferimento alla civiltà deve essere inteso come “insieme dei modi di pensare e di sentire e vivere dei gruppi sociali nel tempo e nello spazio”[ix].
Si supera, quindi, distintamente la nozione fortemente restrittiva di “cosa d’arte” del periodo fascista[x], che richiamava un bene la cui fruizione era limitata a pochi eletti, per una definizione maggiormente inclusiva, che trova un primo passaggio nel Testo Unico per i beni culturali ed ambientali, d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, e poi il suo approdo definitivo nel Codice dei beni culturali, adottato con d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, c.d. Codice Urbani.
Il Codice compie una scelta definitoria ben precisa ma particolare rispetto al passato: sceglie, difatti, di fornire prima, in via generale, una definizione di patrimonio culturale e poi di specificare in che cosa consistano i beni culturali[xi].
Il legislatore del Codice, difatti, mediante un’operazione di sintesi del tutto innovativa nel nostro ordinamento, ha cercato di ricondurre ad una categoria unitaria il patrimonio culturale (non più solamente storico-artistico), i beni culturali ed i beni paesaggistici[xii].
Non si tratta però di una nuova categoria giuridica, perché le due tipologie di beni rispondono a regole diverse, quanto piuttosto di un’efficace espressione verbale, con la quale si vuole evidenziare che i beni culturali e quelli paesaggistici confluiscono in una medesima funzione, che è quella di contribuire a tutelare e valorizzare l’identità culturale del Paese[xiii]. In altri termini, quest’espressione rappresenta l'intima connessione tra i beni culturali ed il paesaggio, per cui i primi non possono essere adeguatamente apprezzati senza il secondo[xiv].
La nozione richiama d’altronde similari espressioni utilizzate in fonti internazionali, con particolare riferimento alla Convenzione di Parigi del 1972 sulla protezione del patrimonio mondiale, culturale e naturale, e soprattutto con riguardo alla Convenzione di Faro approvata dal Consiglio d’Europa il 27 ottobre 2005 sul valore dell’eredità culturale per la società ove si parla espressamente di cultural heritage[xv].
È ancora oggi questione dibattuta se la traslitterazione corretta di cultural heritage sia quella di patrimonio culturale[xvi] ma è indubbio che il richiamo deve correre ad una nozione certamente ampia in cui l’ambiente è parte indefettibile della cultura[xvii], tant’è che oggi vi è chi preferisce parlare di patrimonio culturale UNESCO[xviii] al cui interno sarebbe individuabile altresì un “patrimonio culturale urbanistico”[xix], comprensivo tanto delle testimonianze di civiltà (beni culturali), quanto dei caratteri identitari del territorio (paesaggio culturale), sia nelle loro componenti materiali che immateriali, tutelati come patrimonio universale dell'umanità e che si servono delle limitazioni urbanistiche per conseguire un grado rafforzato di tutela[xx].
Al di là delle teorie sulla correttezza ed utilità dell’espressione patrimonio culturale[xxi], che comunque ci fornisce un indizio non trascurabile sulla dimensione transgenerazionale ed in perenne divenire della cultura e dell’ambiente[xxii]e che è stata ancora di recente utilizzata dal legislatore nel Codice del terzo settore, d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117[xxiii], occorre tenere in considerazione che il quadro definitorio del Codice dei beni culturali si inserisce nei principi fissati dalla Costituzione che, all’art. 9, modificato peraltro da ultimo dalla legge costituzionale n. 1 del 2022[xxiv], stabilisce che la Repubblica tutela il paesaggio ed il patrimonio storico e artistico della Nazione[xxv].
Sulla necessità di tutela del patrimonio culturale del Paese, in qualunque modo si preferisca intenderlo, non si possono aver dubbi[xxvi].
I beni classificabili come culturali sono molteplici, tutte res materiali in cui “il profilo ideale che è oggetto di protezione si è talmente immedesimato della materia in cui si esprime da restarne definitivamente prigioniero, così che esso si pone come oggetto di protezione giuridica inscindibile dalla cosa che lo racchiude”[xxvii].
Il patrimonio immateriale[xxviii], come si vedrà anche in seguito, non rimane però del tutto privo di tutela[xxix]perché l’art. 7-bis del Codice[xxx] aggiunge, difatti, che “le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005, sono assoggettabili alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell'articolo 10”.
Ciò che emerge dagli articoli 2 e 10 del Codice è che l'essere testimonianza di civiltà rappresenta il catalizzatore che determina l'inerenza dell'interesse pubblico culturale non già alla cosa in quanto tale, ma al suo significato, sicché esso trascende la soddisfazione del singolo proprietario, per riguardare l'intera collettività, come interesse alla conservazione ed alla fruibilità del bene culturale attraverso la cosa oggetto di vincolo e tutela. Si parla, al riguardo, di nozione “aperta” di bene culturale, la quale nondimeno si specifica tecnicamente con il c.d. criterio reale e normativo, sicché non esistono testimonianze aventi valore di civiltà che non siano “cose”, individuate come bene culturale dalla legge o in base alla legge[xxxi].
La nozione di cultura nel corso degli ultimi anni, peraltro, ha subito un’importante evoluzione in senso ampliativo, tant’è che il Consiglio di Stato, di recente, ha affermato che, stante il carattere ampiamente discrezionale del potere conferito all'autorità preposta alla tutela, anche lo sport può essere ricondotto al concetto di cultura menzionato nell'art. 10, co. 3, lett. d), Codice dei beni culturali, ai fini dell'assoggettamento a tutela come bene culturale[xxxii].
Occorre fare attenzione, tuttavia: il Codice dei beni culturali non assoggetta qualsiasi testimonianza avente valore di civiltà al proprio regime di tutela e valorizzazione, come avrebbe voluto in origine la Commissione Franceschini, ma solamente “se è [...] considerabile sulla base di una qualificazione, ossia di una fissazione di fattispecie operata dal legislatore”[xxxiii], rispondendo, così, ad uno stretto principio di tipicità ed alla conseguente tipizzazione dei beni considerabili come culturali da parte del Codice, che però, specialmente per quanto attiene al patrimonio immateriale, non è pienamente allineato alle fonti internazionali in un’ottica di integrazione tra gli ordinamenti amministrativi sovranazionali e quelli nazionali[xxxiv].
Ovviamente, come è noto, la disciplina giuridica di riferimento è differente se il bene culturale è di proprietà pubblica o privata[xxxv].
È necessario, peraltro, ricordare che alcune categorie di beni di proprietà pubblica, ed in particolare gli immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico e le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie, archivi e biblioteche, qualora appartengano allo Stato o ad un altro ente pubblico territoriale, rientrano nella categoria dei beni demaniali[xxxvi], nello specifico di quella del demanio accidentale[xxxvii], ed ai sensi degli articoli 822 e seguenti del Codice civile[xxxviii] sono di regola inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi[xxxix], se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge. Al riguardo il Codice dei beni culturali del 2004 detta delle prescrizioni particolari, tanto che si potrebbe affermare che per i beni culturali vige una regola di inalienabilità relativa o limitata[xl].
Tale classificazione del Codice civile[xli] può risultare, almeno secondo taluni, in parte superata, specialmente con riferimento ai beni paesaggistici e culturali, per l’introduzione di una nuova categoria, quella dei beni comuni, avvenuta in particolare grazie all’opera ermeneutica della dottrina e della giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
Quest’ultime, in una pronunzia sulle valli da pesca venete, con un principio espresso in un obiter dictum hanno affermato che “là dove un bene immobile, indipendentemente dalla titolarità, risulti per le sue intrinseche connotazioni, in particolar modo quelle di tipo ambientale e paesaggistico, destinato alla realizzazione dello Stato sociale come sopra delineato, detto bene è da ritenersi, al di fuori dell’ormai datata prospettiva del dominium romanistico e della proprietà codicistica, "comune" vale a dire, prescindendo dal titolo di proprietà, strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini”[xlii].
Si tratta, quindi, come era già stato affermato nel 2007 dalla Commissione Rodotà insediata per la riforma della disciplina dei beni pubblici[xliii], di cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali ovvero al libero sviluppo della persona[xliv], indipendentemente dalla classificazione operata dal legislatore, che sono comuni a tutta la collettività[xlv]. Tra questi beni comuni certamente vi possono rientrare i beni paesaggistici e culturali[xlvi], i quali però, al di là di ogni dibattito definitorio in tema[xlvii], devono ricevere un adeguato livello di tutela dall’ordinamento proprio per la loro caratteristica intrinseca di costituire testimonianza avente valore di civiltà.
Il problema sorge allorché questa testimonianza presenta carattere immateriale e non riguarda in via diretta un bene. Occorre comprendere se il Codice, data la sua rigida impostazione sulle res, consenta una tutela del patrimonio immateriale, certamente voluta invece dalle Convenzioni internazionali; il Consiglio di Stato, a partire dall’Adunanza Plenaria, è quindi intervenuto in tema.
3. Il vincolo di destinazione d’uso del bene culturale secondo l’Adunanza Plenaria n. 5 del 2023 ed il Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 luglio 2023, n. 6752.
La questione sottoposta all’attenzione dell’Adunanza Plenaria, su cui è stata a chiamata a pronunziare il principio di diritto, difatti, attiene al rapporto tra poteri di tutela del Ministero della Cultura e patrimonio culturale immateriale.
La Sesta Sezione del Consiglio di Stato si è chiesta se, in presenza di beni culturali ex art. 10, co. 3, lett. d), Codice beni culturali, ovvero di “cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell'arte, della scienza, della tecnica, dell'industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell'identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose”, che rappresentino (altresì) una testimonianza di espressioni di identità culturale collettiva ex art. 7 bis dello stesso Codice, il potere ministeriale di tutela possa estrinsecarsi nell’imposizione di un vincolo di destinazione d’uso della res a garanzia non solo della sua conservazione, ma pure della continua ricreazione, condivisione e trasmissione della manifestazione culturale immateriale di cui la cosa costituisce testimonianza.
Ciò ricordando in generale che solo in casi eccezionali il legislatore ha attribuito al Ministero il potere di imporre misure volte a tutelare l'uso del bene rispetto all'ordinario regime vincolistico che è finalizzato alla mera conservazione in buono stato dei beni culturali con mero divieto di usi non compatibili, ovvero limitato ad indicare in negativo, non a prescrivere in positivo[xlviii].
Il Codice dei beni culturali, difatti, prevede una specifica ipotesi al riguardo, allorquando all’art. 51 vieta di modificare la destinazione d’uso degli studi d’artista se, considerati nel loro insieme, siano dichiarati di interesse particolarmente importante per il loro valore storico[xlix].
Tale potere eccezionale[l], tuttavia, come chiarito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 185 del 2004, deve essere esercitato nel rispetto dei limiti di ragionevolezza e proporzionalità, anche al fine di evitare i cd. "effetti perversi" derivanti dall'eccesso di attività vincolistica, che rischia di essere controproducente rispetto agli stessi obiettivi perseguiti[li].
Questo potere, quindi, pur con tutti i limiti segnalati anche dalla giurisprudenza costituzionale, esiste nel nostro ordinamento, occorre però comprendere se può trovare applicazione al di là dell’ipotesi particolare espressamente prevista per gli studi d’artista.
L’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 5 del 2023, in modo risoluto ha chiarito che il vincolo di destinazione d'uso del bene culturale può essere imposto allorquando il provvedimento risulti funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici, sulla base di una adeguata motivazione da cui emerga l'esigenza di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell'integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato[lii].
Ciò a tutela di beni che sono espressione di identità culturale collettiva, non solo per disporne la conservazione sotto il profilo materiale, ma anche per consentire che perduri nel tempo la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza[liii].
Il regime vincolistico, dunque, secondo l’Adunanza Plenaria, può concernere non solo il bene materiale ma, proprio attraverso il vincolo su quest’ultimo, indirettamente anche l’attività, testimonianza di un determinato costume o civiltà, che abbia una particolare rilevanza dal punto di vista storico-culturale.
Di conseguenza, rientrano nel potere conformativo attribuito all'Amministrazione anche i c.d. locali storici che, oltre a qualificare spesso in maniera determinante il tessuto urbano del centro storico (che può essere definita come l’anima di una città, alla continua ricerca del suo equilibrio, tra la conservazione del passato e l'elaborazione del nuovo), costituiscono un importante elemento di memoria storica e una testimonianza culturale, la cui tutela e valorizzazione concorre a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio[liv].
Come già ricordato dal Consiglio di Stato nel 2019, difatti, se è vero che l'attività dei negozi storici di per sé non può essere oggetto di vincolo culturale, quest'ultimo ben può essere apposto nei confronti degli immobili nei quale i suddetti negozi sono ospitati, in quanto in tal caso il valore culturale dei beni è ravvisabile nel collegamento del loro uso e della loro utilizzazione pregressi con accadimenti della storia e della civiltà[lv]. La tutela può dunque essere estesa dal bene alla sua destinazione quando la rilevanza storico, artistica e culturale del bene sia anche la conseguenza dello svolgimento di una determinata attività.
Si tratta di resupposti totalmente differenti dalla sentenza di primo grado del T.A.R. Lazio, secondo cui sarebbe impossibile, sulla base delle previsioni del Codice, vincolare il bene, al fine di consentire la prosecuzione dell’attività, impedendo qualunque uso alternativo della cosa stessa: una tale scelta risulterebbe insostenibile in quanto irragionevole e sproporzionata.
Ciò sulla base di un consolidato ma oramai risalente orientamento della giurisprudenza amministrativa, anche dello stesso Consiglio di Stato, secondo cui non sarebbero possibili, in ossequio alle norme previste nel nostro ordinamento, vincoli culturali di mera destinazione, specialmente per attività di natura commerciale o imprenditoriale[lvi].
La sentenza del Consiglio di Stato che si commenta, però, in conformità ai principi espressi dall’Adunanza Plenaria, è di tutt’altro avviso, superando un orientamento che, occorre ricordarlo, si era originariamente formato sulla legge Bottai del 1939 ove la nozione di bene culturale assunta come parametro di riferimento non teneva in considerazione l’ampliamento della stessa dovuta alle Convenzioni internazionali[lvii].
Difatti, secondo la Sesta Sezione del Consiglio di Stato, il giudice di prime cure ha errato nel ritenere che il provvedimento impugnato in primo grado, nell’imporre un vincolo di destinazione d’uso, fosse privo di base legale, atteso che quest’ultima è da rinvenire in una lettura sistematica del Codice dei beni culturali e, segnatamente, nel combinato disposto degli artt. 7-bis e 20, per cui le espressioni di identità culturale collettiva debbono essere tutelate e, più in generale, i beni culturali non possono essere adibiti ad usi incompatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione[lviii].
Questo vincolo non si appunta sull’attività commerciale e imprenditoriale in sé considerata ma su come la stessa è esercitata in relazione ai beni che ne sono testimonianza materiale.
Ne discende che esso non si sostanzia nell’obbligo di esercizio o prosecuzione dell’attività né nell’attribuzione di una “riserva di attività” in favore di un determinato gestore (l’attuale, o diverso) ma vale, piuttosto, a precludere, in negativo, ogni uso incompatibile con la conservazione materiale della res (intesa nel suo complesso, come locali e arredi) nonché ad imporre, specularmente, in positivo, la continuità del suo uso attuale, cui la cosa è stata storicamente adibita (id est, nel caso di specie, lo svolgimento di un’attività di ristorazione aperta al pubblico con caratteristiche tradizionali della cucina italiana).
Un bene culturale non può essere adibito ad un uso piuttosto che all’altro indifferentemente: il vincolo di destinazione esiste nel senso che l’uso deve essere compatibile con la natura di testimonianza storica, artistica di una determinata civiltà[lix]. Qualsiasi attività incompatibile sarebbe contraria agli stessi dettami dell’art. 9 della Costituzione per cui la Repubblica tutela e “promuove lo sviluppo della cultura”[lx].
In questo caso, l’espressione di identità culturale collettiva deve essere individuata nelle modalità con cui la cultura ed il costume italiano (e romano) di un certo periodo storico, coincidente con la c.d. “Dolce Vita”, sono rappresentati a livello nazionale ed internazionale ed il “Vero Alfredo” ne è una delle rappresentazioni più significative.
Ciò giustifica l’apposizione su di esso, a differenza degli altri locali tradizionali del centro storico di Roma, in aggiunta a quelli esistenti sui singoli beni che lo compongono, di un vincolo di destinazione d’uso, proprio perché, anche ad esito di un’indagine tecnico-scientifica di carattere demoetnoantropologico, esso è divenuto, al di là dell’intrinseco valore artistico e culturale della sua struttura e degli arredi e opere artistiche ivi contenute, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, luogo di convivialità e incontro tra personalità di spicco italiane e straniere.
4. Osservazioni conclusive.
Principio fondante del nostro ordinamento, ribadito anche dal Codice, è quello per cui la Repubblica tutela e valorizza il patrimonio culturale.
Questo, primariamente, è costituito da tutti quei beni mobili ed immobili che “presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”.
Il legame con la res, nel senso proprio del termine, è imprescindibile.
Ma l’ordinamento, così come chiarito dall’art. 7-bis del Codice, tutela, e non potrebbe che essere così, anche le espressioni di identità culturale collettiva, testimonianze quindi di una determinata civiltà, contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005[lxi].
Questo, aggiunge la medesima norma del Codice, laddove le espressioni di identità culturale siano rappresentate, nell’ottica di corporalità del bene, da testimonianze materiali e sussista un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico.
Ora, è noto, perché lo si evince dalla Relazione illustrativa al Codice, che nell’art. 7-bis la ratio della previsione che prescrive la condizione della "materialità" dell'oggetto da tutelare è quella “di evitare interpretazioni fuorvianti sia degli obblighi assunti in via pattizia con altri Stati, sia, e per converso, dei confini fra la tradizionale tutela relativa alle "cose" di interesse storico ed artistico e la salvaguardia afferente a manifestazioni e valori della cultura immateriale”.
È evidente, di conseguenza, che le attività tradizionali, che costituiscono espressioni di identità culturale collettiva, possono essere tutelate come "beni" di interesse culturale a condizione che si traducano in un'entità materiale e che queste abbiano un valore sotto il profilo di quell'interesse storico, artistico, archeologico, etnologico o, per lo meno "testimoniale" contemplato dall'art. 10 del Codice[lxii].
Non è, dunque, l’attività a poter essere tutelata in via diretta.
Ma essa, quale testimonianza di uno specifico costume che si è formato e consolidato in una società nel corso degli anni, può essere soggetta ad un vincolo di destinazione d’uso qualora sia necessario preservare il bene cui inerisce e che ne rappresenta la testimonianza materiale.
Qui abbiamo la vera novità della pronunzia che si commenta e che costituisce la prima vera, significativa applicazione dei principi espressi dall’Adunanza Plenaria n. 5 del 2023.
Si supera l’orientamento invalso secondo cui sarebbe stato illegittimo il provvedimento di dichiarazione di interesse culturale di un immobile che, in assenza degli stringenti presupposti di legge e in violazione dei principi di proporzionalità[lxiii] e ragionevolezza, avesse preteso di imporre il vincolo di destinazione d'uso all'attività svolta nel locale[lxiv], data l’impossibile adattabilità di questo vincolo alla tutela funzionale di attività imprenditoriali in determinati immobili.
La pronunzia del Consiglio di Stato in commento, al di là delle peculiarità del caso di specie, merita di essere condivisa in quanto, pur rimanendo delineata l’alterità formale tra bene ed attività culturale, si orienta nel senso che quest’ultima, seppur in via indiretta, debba trovare una forma di tutela, sempreché dal raffronto tra l'interesse espresso dal vincolo e le esigenze di garantire nella realtà economica la sopravvivenza stessa dalla res cui l’attività è collegata emergano caratteristiche degne di conservazione e di tutela per l’ordinamento giuridico[lxv].
Certo, data l’impostazione formale del Codice e la sua non perfetta coincidenza con le Convenzioni internazionali in materia di patrimonio culturale immateriale, sarebbe auspicabile uno specifico intervento di riforma del legislatore[lxvi], ricordando d’altronde che la sede per l'introduzione di questi strumenti normativi di tutela avrebbe già dovuto essere quella del Codice delle attività culturali, che, secondo il disegno dell'originaria legge di delega del 2002, si sarebbe dovuto accompagnare alla codificazione della disciplina sui beni culturali.
Sono oramai trascorsi più di vent’anni e così non è ancora stato, ma l’intervento chiarificatore, che potremmo definire di interpretazione estensiva in conformità all’art. 9 della Costituzione, del Consiglio di Stato è un primo passo importante, da implementare seguendo però una nozione corretta di patrimonio culturale ove si possa accertare sempre una testimonianza avente valore di civiltà, anche sotto forma di una “espressione di identità culturale collettiva”.
[i] Altresì definibile come patrimonio intangibile: v., al riguardo, l’ampio studio monografico di M. Timo, L’intangibilità dei beni culturali, Torino, Giappichelli, 2022.
[ii] Secondo A. Bartolini, L'immaterialità dei beni culturali, in Aedon, 2014, "sembra possibile affermare che il valore immateriale consente di affermare l'esistenza di uno statuto giuridico minimo, comune, discendente dalla nozione di bene culturale. Questo statuto comune consente, innanzitutto, sotto un profilo metodologico di cercare i tratti comuni delle varie discipline di tutela e valorizzazione di questi beni, da apprezzare a prescindere dal loro supporto materiale. [...] sicché mi sembra che si debba superare la radicale contrapposizione tra beni culturali materiali ed immateriali, accettando una visione liminale che cerchi di trovare i tratti comuni, aperta a statuti pluralistici, fondata sulla sostenibile leggerezza del valore immateriale dei beni culturali (materiali e immateriali)".
[iii] In tema di beni culturali è da sempre presente una particolare esigenza definitoria: così G. Morbidelli, L'azione regionale e locale per i beni culturali in Italia, in Le Regioni, 1987, 942 ss.
[iv] Così M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, 13 ss.
[v] I lavori della Commissione Franceschini sono stati pubblicati con il titolo Per la salvezza dei beni culturali, 3 voll., Roma, 1967.
[vi] Su cui cfr. S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini (1975), in Id., L'amministrazione dello Stato. Saggi, Milano, Giuffrè, 1976, 153 ss.
[vii] In tema cfr. S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, in Giorn. dir. amm., 1998, 673 ss.; G. Sciullo, Beni culturali e principi della delega, in Aedon, n. 1/1998; G. Pitruzzella, Art. 148 e art. 149, in G. Falcon (a cura di), Lo Stato autonomista, Bologna, Il Mulino, 1998, 491 ss.
[viii] Su questa nozione cfr. C.E. Gallo, S. Foà, I beni culturali, in P. Falcone, A. Pozzi (a cura di), Il diritto amministrativo nella giurisprudenza, I beni, i mezzi, la giustizia, Torino, Utet, 1998, Vol. II, 67 ss.; B. Cavallo, La nozione di bene culturale tra mito e realtà: rilettura critica della prima dichiarazione della Commissione Franceschini, in Aa. Vv., Scritti in onore di M.S. Giannini, Milano, Giuffrè, 1988, Vol. II, 113 ss.; M. Cantucci, Beni culturali e ambientali, in Noviss. Dig. It., Appendice A-Cod., Torino, Utet, 1980, 722 ss.
[ix] Secondo l’autorevole insegnamento di M.S. Giannini, I beni culturali, cit., 9.
[x] Per un approfondimento v. M. Grisolia, La tutela delle cose d'arte, Roma, Società Editrice del Foro italiano, 1952.
[xi] Sul punto cfr. S. Foà, Il Codice dei beni culturali e del paesaggio: la tutela dei beni culturali, in Giorn. dir. amm., 2004, 473 ss.
[xii] Per una ricostruzione sul punto cfr. il volume di C.C. Amitrano, M. Ricciardo Calderaro, La gestione del patrimonio culturale tra customer experience e tecnologie digitali, Napoli, Jovene, 2024, spec. 9 ss.
[xiii] V. in tema S. Amorosino, Introduzione al diritto del paesaggio, Bari, Laterza, 2010, 3 ss.; E. Boscolo, La nozione giuridica di paesaggio identitario ed il paesaggio ‘a strati', in Riv. giur. urb., 2009, 61 ss.
[xiv] In questi termini A. Bartolini, Beni culturali (diritto amministrativo), in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, Annali VI, 2013, spec. 96 ss.; S. Settis, Paesaggio, Costituzione e cemento, Torino, Einaudi, 2010.
[xv] In tema cfr. S. Foà, Dalla Convenzione europea al Codice dei beni culturali e del paesaggio. Obiettivi di tutela e valorizzazione, in R. Ferrara, M.A. Sandulli (a cura di), Trattato di diritto dell’ambiente, Milano, Giuffrè, 2014, Vol. III, 431 ss.
[xvi] Contra, sulla traduzione di cultural heritage in patrimonio culturale cfr. G. Severini, P. Carpentieri, La ratifica della Convenzione di Faro “sul valore del patrimonio culturale per la società”: politically correct vs. Tutela dei beni culturali?, in Federalismi, n. 8-2021, 224 ss.
[xvii] In tema cfr. L. Casini, Patrimonio culturale e diritti di fruizione, in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, 657 ss.; M. Brocca, Patrimonio culturale e sviluppo dei territori: la componente del paesaggio tra impostazione codicistica e nuove traiettorie normative, in Ist. del federalismo, 2018, 857 ss.
[xviii] Cfr. C. Tubertini, A 50 anni dalla Convenzione Unesco del 1972 sulla protezione del patrimonio culturale mondiale: riflessioni alla luce dell’esperienza italiana, in Aedon, 2022, 147 ss.
[xix] Sul punto v. M. Cammelli, Politiche urbane e protezione del patrimonio culturale, in Aedon, 2022, 66 ss.; A. Crosetti, Governo del territorio e tutela del patrimonio culturale: un difficile percorso di integrazione, in Riv. giur. edil., 2018, 81 ss.
[xx] Così A. Bartolini, Patrimoni culturali e limitazioni urbanistiche, in Dir. amm., 2022, 995 ss. Oppure, ancora, chi parla genericamente di patrimoni culturali come M. Cammelli, G. Piperata, Patrimoni culturali: innovazioni da completare; tensioni da evitare, in Aedon, fasc. n. 1-2022 e, da ultimo, D. Siclari, Perché non possiamo non parlare di patrimoni culturali in Italia, in Dir. e proc. amm., 2023, 1 ss.
[xxi] Su cui si rinvia a P. Stella Richter, La nozione di patrimonio culturale, in Foro Amm. CdS, 2004, 1280 ss.; da ultimo cfr. C. Videtta, La dimensione del patrimonio culturale tra frammentazione delle conoscenze e unità del sapere, in Nuove autonomie, 2023, 199 ss.
[xxii] V. P. Chirulli, Il governo multilivello del patrimonio culturale, in Dir. amm., 2019, 697 ss. La tematica ambientale è profondamente interconnessa con quella dei beni culturali, come nel caso della promozione delle energie rinnovabili: v., ad esempio, A. Persico, Promozione dell’energia rinnovabile e tutela del patrimonio culturale: verso l’integrazione delle tutele (nota a Cons. Stato, Sez. VI, 23 settembre 2022, n. 8167), in Giustiziainsieme, 1° dicembre 2022.
[xxiii] Cfr. R. Spagnuolo Vigorita, Il patrimonio culturale nelle disposizioni del codice dei contratti pubblici e nel codice del terzo settore, in Munus, 2018, 405 ss.; sul punto v. anche C. Napolitano, Il Tar Lazio e la tutela del patrimonio culturale, in Giustiziainsieme, 3 luglio 2020.
[xxiv] In letteratura, mentre alcuni hanno accolto con favore la novella degli artt. 9 e 41 Cost., come I.A. Nicotra, L'ingresso dell'ambiente in Costituzione, un segnale importante dopo il Covid, in Federalismi, 30 giugno 2021, altri hanno sollevato dubbi sui contenuti della legge di riforma costituzionale come G. Severini, P. Carpentieri, Sull'inutile, anzi dannosa, modifica dell'art. 9 della Costituzione, in GiustiziaInsieme, 22 settembre 2021 o C. Sartoretti, La riforma costituzionale “dell’ambiente”: un profilo critico, in Riv. giur. edil., 2022, 119 ss., che evidenzia come “tuttavia, se l'idea del nostro Parlamento di fare assurgere la tutela dell'ambiente al rango di principio costituzionale codificato è certamente apprezzabile sotto il profilo delle ragioni che lo hanno spinto a questa decisione, desta invece alcuni dubbi e certune perplessità con riguardo ai contenuti dei novellati artt. 9 e 41, e solleva soprattutto un interrogativo di fondo circa la reale necessità di una siffatta riforma costituzionale”. Su questa riforma v. ancora M. Bertolissi, Amministratori, non proprietari dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, in Federalismi, n. 6-2023, 24 ss.; P. Lombardi, Ambiente e generazioni future: la dimensione temporale della solidarietà, in Federalismi, n. 1-2023, 86 ss.; M. Poto, La tutela costituzionale dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni, in Resp. civ. e prev., 2022, 1057 ss.; G. Amendola, L’inserimento dell’ambiente non è né inutile né pericoloso, in GiustiziaInsieme, 25 febbraio 2022; R. Montaldo, La tutela costituzionale dell’ambiente nella modifica degli artt. 9 e 41 Cost.: una riforma opportuna e necessaria, in Federalismi, n. 13-2022, 187 ss.; L. Cassetti, Riformare l’art. 41 della Costituzione: alla ricerca di “nuovi” equilibri tra iniziativa economica privata e ambiene?, in Federalismi, n. 4-2022, 188 ss.; R. Fattibene, Una lettura ecocentrica del novellato articolo 9 della Costituzione, in Nomos, n. 3-2022. Cfr. altresì F. Fracchia, L’ambiente nell’art. 9 della Costituzione: un approccio “in negativo”, in Dir. econ., 2022, 15 ss.
[xxv] Si rinvia anzitutto a M.S. Giannini, Sull'articolo 9 Cost. (la promozione culturale), in Aa. Vv., Scritti in onore di Angelo Falzea, Milano, 1991, 435 ss.
[xxvi] Anzi, occorre implementarla: v. sul punto M. Timo, Implementare la resilienza del patrimonio culturale, in Dir. econ., 2022, 409 ss.
[xxvii] Così T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, Giuffrè, 2001, 47.
[xxviii] Su questo cfr. C.A. D’Alessandro, Il patrimonio culturale immateriale. Il lungo cammino per la sua tutela giuridica e l’apporto culturale di Claude Lévi-Strauss, in Società e diritti, fasc. 13-2022, 136 ss.; F. Ferrara, Il patrimonio culturale immateriale. Considerazioni per un alternativo modello di tutela e valorizzazione, in Ambientediritto.it, fasc. 3-2021, 96 ss.; G. Soricelli, Beni culturali immateriali e diritto al bene culturale: prospettive per una ricerca, in Federalismi, fasc. n. 15-2019, 2 ss.; A. Gualdani, I beni culturali immateriali: una categoria in cerca di autonomia, in Aedon, fasc. 1-2019, 83 ss. Si v. anche le riflessioni di A. Lalli, L’immateriale dei beni culturali nell’era digitale: valori culturali ed economici, in Dir. e proc. amm., 2022, 671 ss.
[xxix] Come ricordato, da ultimo, da Cons. Stato, Sez. VI, 10 luglio 2023, n. 6752, in Guida dir., 2023, 31 ss.
[xxx] Introdotto dall’art. 1, co. 1, lett. c), del d.lgs. 26 marzo 2008, n. 62.
[xxxi] In termini T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, 12 ottobre 2021, n. 2212, in Foro amm., 2021, 1504 ss.
[xxxii] Così Cons. Stato, Sez. VI, 10 marzo 2023, n. 2561, in Foro it., 2023, 6, III, 287 ss.
[xxxiii] Cfr. C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Diritto e gestione dei beni culturali, Bologna, Il Mulino, 2011, spec. 23 ss.
[xxxiv] In generale si consenta il rinvio a M. Ricciardo Calderaro, L’integrazione amministrativa e la tutela dei diritti. Problemi e prospettive alla luce della crisi sistemica dell’Unione Europea, Torino, Giappichelli, 2020.
[xxxv] Cfr., ad esempio, C. Videtta, Riflessioni sulla verifica dell’interesse culturale alla luce delle esigenze di semplificazione delle procedure di dismissione del patrimonio immobiliare pubblico espresse dal decreto c.d. “Semplifica Italia”, in Dir. econ., 2014, 309 ss.; in giurisprudenza di recente v. Cass. civ., Sez. II, 28 giugno 2023, n. 18423, in Guida dir., 2023, 29 ss.
[xxxvi] Si deve partire certamente da O. Ranelletti, Concetto, natura e limiti del demanio pubblico. Capitolo III: Teoria, in Riv. it. sc. giur., XXV, 1898, 1-55; G. Salemi, Natura giuridica dell’uso comune dei beni demaniali, Sassari, Tip. Gailizzi, 1923; P. Bodda, In tema di proroga legale delle concessioni di beni demaniali, in Riv. dir. comm., 1950; A. Barucchi, Riflessioni in tema di beni demaniali e di alcuni loro usi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1962, 329 ss.
[xxxvii] Cfr. le riflessioni di A. Romano, Demanialità e patrimonialità: a proposito dei beni culturali, in V. Caputi Jambrenghi (a cura di), La cultura e i suoi beni giuridici, Milano, Giuffrè, 1999, 406 ss.
[xxxviii] In tema si v. anzitutto A.M. Sandulli, Beni pubblici, in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1959, vol. V, 277 ss.
[xxxix] Cass. civ., Sez. II, 23 maggio 2023, n. 14105, in Giust. civ. Mass., 2023, ricorda, in tema, come l'immobile di proprietà di un Comune che, sebbene non iscritto nell'elenco di cui all'art. 4, co. 1, della l. n. 1089 del 1939, sia riconosciuto di interesse storico, archeologico o artistico, è soggetto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 822 e 824 cod. civ., al regime del demanio pubblico, con la conseguenza che non può essere sottratto alla propria destinazione, né può essere oggetto di usucapione, indipendentemente dal momento in cui sia apposto il vincolo, atteso che quest'ultimo ha una mera efficacia dichiarativa, volta ad attestare in capo all'immobile una prerogativa già esistente.
[xl] Così A. Crosetti, D. Vaiano, Beni culturali e paesaggistici, Torino, Giappichelli, 2014, 81 ss.
[xli] Su cui, in generale, cfr. V. Cerulli Irelli, Beni pubblici, in Dig. disc. pubbl., Torino, Utet, 1987, Vol. II, 275 ss.
[xlii] Cass. civ., Sez. Un., 14 febbraio 2011, n. 3665, in Giust. civ., 2011, 3, I, 595 ss. Al riguardo v. il commento di F. Cortese, Dalle valli da pesca ai beni comuni: la Cassazione rilegge lo statuto dei beni pubblici, in Giorn. dir. amm., 2011, 1170 ss.
[xliii] Da ultimo v. di S. Rodotà, I beni comuni e l’inaspettata rinascita degli usi collettivi, in Riv. critica dir. priv., 2022, 11 ss.
[xliv] Cfr. al riguardo S. Foà, I beni pubblici, in C.E. Gallo (a cura di), Manuale di diritto amministrativo, Torino, Giappichelli, 2023, spec. 367.
[xlv] V., in tema, V. Cerulli Irelli, Proprietà, beni pubblici, beni comuni, in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, 639 ss.; G. Arena, Da beni pubblici a beni comuni, in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, 647 ss.; M. Cafagno, Beni comuni, norme, comportamenti, in Riv. quad. dir. ambiente, 2022, 181 ss.; G. Fidone, Dai beni comuni all’amministrazione condivisa, in Dir. e proc. amm., 2022, 435 ss.; U. Mattei, L’innesto della giustizia ecologica nel codice civile. Eguaglianza e beni comuni fra legge e diritto, in Quest. Giust., 2020, 53 ss.; V. Molaschi, Economia collaborativa e beni comuni: analogie, differenze e intersezioni nella prospettiva di uno sviluppo urbano sostenibile, in Dir. econ., 2020, 345 ss.; E. Boscolo, I beni ambientali (demaniali e privati) come beni comuni, in Riv. giur. amb., 2017, 379 ss.
[xlvi] Sul punto cfr. S. Marotta, Per una lettura sociologica-giuridica dei beni culturali come beni comuni, in Munus, 2016, 439 ss.; V. Caputi Jambrenghi, Bene comune (obblighi e utilità comuni) e tutela del patrimonio culturale, in GiustAmm, 2015.
[xlvii] Per una critica della categoria cfr. G. Perlingieri, Criticità della presunta categoria dei beni c.d. “comuni”. Per una “funzione” e una “utilità sociale” prese sul serio, in Rass. dir. civ., 2022, 136 ss. Si v. anche S. Staiano, “Beni comuni” categoria ideologicamente estenuata, in Dir. e soc., 2016, 415 ss.
[xlviii] L’orientamento della pronunzia in commento, come detto, è innovativo rispetto a quanto sostenuto anche dal Consiglio di Stato in passato. Cons. Stato, Sez. V, 25 marzo 2019, n. 1933, in www.giustizia-amministrativa.it aveva affermato, ad esempio, che per i beni culturali in senso proprio non è consentito, di regola, il vincolo di mera destinazione d'uso, salvo che per gli studi d'artista, in ragione della specifica previsione dell'art. 51, co. 1, Cod. beni culturali, con la conseguenza che deve ritenersi di dubbia legittimità anche il vincolo di destinazione merceologica per i negozi storici, dato che sotto il profilo della tutela costituiscono un minus rispetto ai beni culturali.
[xlix] Come chiarito da Cons. Stato, Sez. VI, 5 dicembre 2017, n. 5737, in Foro amm., 2017, 2401 ss., lo speciale vincolo previsto dall'art. 51, co. 1, Codice beni culturali, per gli studi d'artista, comporta sia il divieto di modificare la destinazione d'uso dello studio ove l'artista ha operato sia il divieto di rimuoverne il contenuto, costituito da opere, documenti, cimeli e simili, qualora esso, considerato nel suo insieme ed in relazione al contesto in cui è inserito, sia dichiarato di interesse particolarmente importante per il suo valore storico.
[l] Che sussiste, in attuazione dell’art. 9 Cost., per rendere immodificabili l'ambiente e i luoghi nei quali effettivamente operò l'artista, al fine di conservare intatta la testimonianza dei valori culturali in esso insiti, testimonianza che giustifica il valore storico del bene: così T.A.R. Abruzzo, Sez. L’Aquila, Sez. I, 14 febbraio 2013, n. 121, in Foro amm. TAR, 2013, 2, 573 ss.
[li] Corte cost., 24 giugno 2004, n. 185, in Giur. cost., 2004, 5, 3278 ss.
[lii] Pronunzia commentata da G. Botto, Tutelare il valore culturale immateriale: il vincolo di destinazione d’uso, in Giorn. dir. amm., 2023, 517 ss., secondo cui quanto affermato dall’Adunanza Plenaria “pone le basi per una notevole valorizzazione della disciplina vivente in chiave evolutiva, affermando la possibilità di implementare i principi maturati a livello internazionale e sovranazionale tramite un'interpretazione della disciplina nazionale alla loro luce”.
[liii] Cons. Stato, Ad. Plen., 13 febbraio 2023, n. 5, in Foro amm., 2023, 2, II, 162 ss.
[liv] In tema v., ad esempio, G.P. Cirillo, Il diritto al borgo come una delle declinazioni del diritto alla bellezza e come luogo “dell’altrove”, in Giustiziainsieme, 30 marzo 2023; P. Carpentieri, Valore culturale dei centri storici “vs.” concorrenza e mercato, in Riv. giur. edil., 2019, 425 ss.; A. Sau, La rivitalizzazione dei centri storici tra disciplina del paesaggio, tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, in Le Regioni, 2016, 955 ss.; C. Videtta, I “centri storici” nella riforma del Codice dei beni culturali, in Riv. giur. edil., 2010, 47 ss.
[lv] Cons. Stato, Sez. V, 25 marzo 2019, n. 1933, in www.giustizia-amministrativa.it.
[lvi] Ad esempio, Cons. Stato, Sez. VI, 12 luglio 2011, n. 4198, in Foro amm. CdS, 2011, 2511 ss.; Cons. Stato, Sez. VI, 6 maggio 2008, n. 2009, in Foro amm. CdS, 1515 ss.
[lvii] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 16 settembre 1998, n. 1266, in Cons. Stato, 1998, I, 1346 ss.
[lviii] Anche Cass. pen., Sez. III, 29 settembre 2011, n. 42065, in Dir. & Giust., 2011 ha ricordato che gli interventi che incidono sulla conservazione e l'integrità del bene storico sono possibili e, dunque, autorizzabili, esclusivamente qualora essi mirino a valorizzare o meglio utilizzare il bene protetto, anche mediante modifiche d'uso che ne salvaguardino, pur in una prospettiva di adeguamento al mutare delle esigenze, la natura e il valore.
[lix] In tema cfr. altresì P. Marzaro, Vincolo culturale di destinazione d’uso: il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni della p.a. e il rischio dell’”effetto paradosso”, in Aedon, 2023.
[lx] Si rinvia anzitutto a M.S. Giannini, Sull'articolo 9 Cost. (la promozione culturale), in Aa. Vv., Scritti in onore di Angelo Falzea, Milano, 1991, 435 ss.
[lxi] Su questa cfr. G. Poggeschi, La “Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità e delle espressioni culturali” dell'Unesco entra a far parte del corpus legislativo italiano. Una novità nel panorama degli strumenti giuridici internazionali?, in Aedon, n. 2/2007.
[lxii] L. Casini, “Giochi senza frontiere?”: giurisprudenza amministrativa e patrimonio culturale, in Riv. trim. dir. pubbl., 2019, 914 ss., sottolineando il ruolo di “custode” del giudice amministrativo in materia di beni culturali, osserva come questo “ha spesso avallato e condiviso alcune scelte coraggiose dell'amministrazione, specialmente quando si è trattato di applicare in modo estensivo la disciplina di tutela anche ad attività o comunque a situazioni di confine: si pensi alle pronunce in materia di locali storici o sulla tutela del decoro”.
[lxiii] Su questo principio si rinvia a L. Lamberti, F.G. Scoca, Valutazioni tecniche, tutela del patrimonio culturale e principio di proporzionalità, in Federalismi, fasc. n. 22-2023, 224 ss.
[lxiv] Così, ad esempio, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 19 maggio 2021, n. 5864, in Riv. giur. edil., 2021, 4, I, 1355 ss. Contra, però, in senso quasi anticipatorio Cons. Stato, Sez. VI, n. 4147/2005, in www.giustizia-amministrativa.it, con riferimento al caso della Chincagliera La Coroncina, che ha ritenuto legittimo il provvedimento di vincolo impugnato in quanto con esso “non si è provveduto a tutelare l'attività commerciale, determinandone l'inamovibilità, ma si è disposto l'assoggettamento alla disciplina di cui alla l. n. 1089 del 1939 dei locali in cui l'attività stessa è situata. Ciò non comporta l'immodificabilità dell'esercizio commerciale ma impone l'esercizio d'attività compatibili con le caratteristiche storiche ed architettoniche dell'immobile”.
[lxv] In questo senso si esprimeva già Cons. Stato, Sez. VI, 2 marzo 2015, n. 1003, in Riv. giur. edil., 2015, 3, I, 446 ss.
[lxvi] Il problema era già stato evidenziato da A.L. Tarasco, Diversità e immaterialità del patrimonio culturale nel diritto internazionale e comparato: analisi di una lacuna (sempre più solo) italiana, in Foro amm. CdS, 2008, 2261 ss.
DE ROBBIO: Alcune settimane fa è stato depositato un disegno di legge costituzionale che modifica profondamente il Titolo IV della Seconda parte della Costituzione, quello dedicato alla Magistratura. Oltre alla separazione delle carriere, sono previste la creazione di due distinti CSM, la modifica della composizione di entrambi con parificazione dei componenti laici e di quelli togati, il divieto per lo stesso CSM di esprimere pareri in materia di riforma della Giustizia, l’abrogazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’abolizione della norma che distingue i magistrati solo per funzioni e tante altre modifiche destinate a mutare profondamente non solo l’assetto della magistratura ma anche il rapporto tra questa e gli altri poteri dello Stato.
Il disegno di legge è stato accolto da veementi critiche da parte dell’ANM e, più recentemente, degli esponenti di Area DG nel corso del congresso tenutosi a Palermo alla fine di settembre.
La nostra rivista ha pensato di proporre, sotto forma di doppia intervista, un momento di confronto e riflessione tra il professor Giorgio Spangher, professore di procedura penale, ex componente del Comitato Direttivo della Scuola Superiore della Magistratura e da sempre attento osservatore del mondo della giustizia, de Eugenio Albamonte, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, ex Presidente ANM ed ex Segretario di Area DG. Il confronto è stato esteso altresì ad alcuni temi attualmente al centro del dibattito politico-giudiziario.
(prima domanda) Il disegno di legge costituzionale presentato dal Governo modifica quasi tutte le norme della Costituzione dedicate alla magistratura. Presentato come un provvedimento idoneo a restituire efficienza ad un sistema cronicamente in difficoltà nel fornire adeguate risposte alla domanda di giustizia, è stato indicato dall’organo di rappresentanza dei magistrati come un tentativo di alterare profondamente il principio di separazione dei poteri riconducendo il potere giudiziario sotto il controllo di quello esecutivo. Qual è la verità tra queste due interpretazioni e come giudicate le linee generali del provvedimento in discussione in Parlamento?
ALBAMONTE: Le riforme ordinamentali, soprattutto quelle che incidono sui principi costituzionali che governano la magistratura, non hanno alcun riverbero sull’efficienza della giustizia, sui tempi dei processi, sulla qualità delle decisioni e sulla loro effettività. Riguardano, invece, la ridefinizione dei rapporti tra i poteri dello Stato che la Costituzione ha disegnato in modo da creare un adeguato equilibrio tra prerogative, responsabilità e controlli. Alterare questo equilibrio è molto pericoloso per la tenuta dell’intero sistema. Rischia di sbilanciarlo in favore di uno dei poteri consentendogli di esondare e sottrarsi ai controlli, diventando onnipotente.
SPANGHER: Non credo che queste preoccupazioni siano fondate. È vero proprio il contrario. Credo che per molti anni la politica, cioè, l’esecutivo sia stato subordinato al potere giudiziario, subendone le iniziative processuali, non tutte fondate, con ricadute significative sulla vita del paese, ma anche sotto il profilo normativo, subendo le richieste di adeguamento legislativo.
Proprio alcuni più recenti episodi, mi hanno indotto a riflettere sulla necessità che la politica rivendichi il suo ruolo e la magistratura debba limitarsi alla sua funzione. Sotto questo aspetto il ruolo della procura nazionale antimafia, del pubblico ministero europeo, costituiscono un tema di riflessione in tema di separazione dei poteri.
Il discorso si salda con i profili più strettamente processuali, del giusto processo, connessi alle modalità con le quali il procuratore della repubblica esercita il suo ruolo nel processo, diciamo accusatorio.
L’attuale C.S.M. a livello costituzionale è frutto della ricaduta del sistema inquisitorio codificato dagli artt. 13 e segg. Cost., dove si parla di carcerazione preventiva e di autorità giudiziaria.
In altri termini il discorso ordinamentale, C.S.M. compreso, va adeguato alle modifiche strutturali del ruolo del p.m. nel giusto processo.
Non vale il principio della comune cultura della giurisdizione che se valesse, assegnerebbe al p.m. gli stessi poteri e le stesse decisioni del giudice. Ciò non è: il p.m. è parte; il giudice terzo.
Sul punto le opinioni prospettate sono diverse da questa. I giudici – sottovoce – ad esempio, ritengono che la separazione rafforzerebbe ancora di più di quanto sia adesso i pubblici ministeri.
Se i p.m. fossero subordinati all’esecutivo si porrebbe un problema a livello europeo.
In ogni caso non capisco come ciò possa avvenire in un C.S.M. modulato su quello esistente per i giudici, con le stesse garanzie di autonomia e indipendenza, disciplinato dalla Costituzione e presieduto dal Capo dello Stato.
DE ROBBIO (seconda domanda): La separazione delle carriere è la bandiera e il cardine di tutte le riforme della giustizia messe in cantiere dall’attuale maggioranza governativa. Un’attenzione difficilmente giustificabile sulla base dei numeri (nel 2023 ci sono stati 9 trasferimenti da pubblico ministero a giudice e solo 1 in senso inverso) e evidentemente frutto di un’opzione culturale che vuole allontanare i magistrati inquirenti dalla giurisdizione. Quali sono a vostro avviso le ragioni della volontà di procedere ad una revisione costituzionale in tal senso e cosa pensate delle norme che la prevedono nel d.d.l? Esiste il rischio che questa riforma porti all’assoggettamento del pubblico ministero all’esecutivo o chi paventa questo pericolo lo fa, come ha riferito di recente il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, “perché non vuole la separazione delle carriere per altri motivi?”
ALBAMONTE: La separazione delle carriere è stata da sempre la bandiera di una parte dell’avvocatura e del mondo politico, sventolata nel tentativo di ridimensionare il potere, sia formale che sostanziale, esercitato dalla magistratura requirente. Sarebbe una riforma priva di effetti sulla qualità della giustizia e sulla sua efficienza e non inciderebbe di certo sull’esercizio della funzione giudicante, che già adesso non subisce alcuna interferenza o limitazione, al di là degli slogan e delle affermazioni apodittiche ed indimostrate dei sostenitori della riforma. Nel perseguire il progetto non si tiene in considerazione il fatto che i poteri conferiti dalla legge al PM sono strettamente dimensionati con riferimento all’esercizio delle funzioni. Conseguentemente meno poteri equivarrebbero ad una minore capacità di accertamento dei fatti di reato e, in ultima analisi, ad un minore contrasto alle attività criminali. Questo non vuol dire che talvolta i poteri requirenti non siano stati utilizzati in modo sbagliato o persino eccedente i parametri di legalità formale. Ma questa è una patologia che deve essere trattata con severità. Patologia che rischierebbe di diffondersi in una categoria di magistrati requirenti sganciati dai giudicanti e più facilmente condizionabili dalla logica del perseguimento del risultato anche a scapito del rispetto delle regole processuali.
SPANGHER: Ribadendo quanto appena detto, in tema di sistema, non voglio attribuire finalità recondite e di potere alla opposizione della magistratura alla riforma.
Se ci fossero, non sarebbero decisive, in una materia che sottende questioni di principio sul sistema costituzionale dei poteri, delle funzioni e dei ruoli.
DE ROBBIO (terza domanda): Oltre alla duplicazione (con la creazione di un CSM dei giudici ed uno dei PM), il CSM è interessato da un’ulteriore importante previsione: la parificazione del numero dei componenti laici con quello dei componenti togati. Qual è a vostro avviso la ragione di questa previsione e cosa ne pensate?
ALBAMONTE: La modifica della composizione del CSM, attraverso la parificazione dei componenti laici a quelli eletti dai magistrati, è finalizzata ad alterare profondamente la struttura costituzionale dell’organo per come è stata disegnata dalla Costituzione. Una composizione paritaria determinerà inevitabilmente un ruolo di maggior peso della componente politica che diventerà sempre decisiva nell’assunzione delle determinazioni consigliari. Quelle di indirizzo e quelle di gestione. Quindi un governo autonomo molto meno autonomo e più etero determinato dalla politica. Peraltro, già da molto tempo il Parlamento si è orientato nello scegliere non avvocati o giuristi insigni ma parlamentari in carica, talvolta con incarichi di governo, o ex parlamentari. Questa torsione fa sì che la componente laica, anziché farsi portatrice della cultura dell’accademia e dell’avvocatura, diventa espressione di specifici valori, istanze ed interessi che sono propri della politica, dei partiti e, prevalentemente del Governo che ne esprime la maggior parte. Né credo che questa modifica possa arginare il c.d. potere delle correnti all’interno del CSM. Infatti le vicende della consiliatura attuale evidenziano come si sia determinata una forte e stabile saldatura tra un gruppo della magistratura associata e la componente laica espressa dal Governo. Questa dinamica non è certo caratterizzata dalla riduzione del peso della specifica corrente ma, all’opposto, dal suo rafforzamento e predominio sulla vita e su tutte le scelte del Consiglio. Non sicuramente un passo avanti verso la trasparenza e l’autorevolezza delle delibere assunte con tali modalità.
SPANGHER: Non sono favorevole ad una eventuale modifica di questo tenore, considerate le dinamiche che si determinerebbero dentro il C.S.M., anche al di là del possibile preponderante peso che avrebbero i laici, anche alla luce della modalità della loro elezione parlamentare, seppur temperata – solo parzialmente – dal quorum richiesto per la loro elezione. Già ora emerge collateralismo (politico-culturale) tra la componente laica e quella togata.
DE ROBBIO (quarta domanda) : È previsto il divieto per il CSM di rendere pareri in tema di giustizia. La concentrazione dell’organo di autogoverno ai soli compiti di alta burocrazia della giustizia è un vantaggio o uno svantaggio?
ALBAMONTE: Credo sia uno svantaggio, innanzitutto per il legislatore. Infatti i pareri del CSM sulle riforme in materia di giustizia sono sempre stati orientati ad evidenziare le aporie dei testi in discussione, i rischi di contrasto con altre leggi e con la Costituzione, i problemi di coordinamento con la normativa preesistente, l’impatto delle nuove norme sull’organizzazione giudiziaria. Normalmente i pareri sono molto analitici nelle motivazioni giuridiche prospettate e hanno suggerito modifiche e correttivi che, talvolta, adottati dal Parlamento in sede di approvazione, hanno migliorato le norme poi introdotte. Privare il CSM di questa prerogativa vuol dire quindi impoverire il percorso legislativo di un valido contributo. Questo riguarderebbe in modo ancor più incomprensibile le riforme dell’Ordinamento giudiziario le quali norme devono poi essere applicate prevalentemente dal CSM. Non vi è dubbio che il Consiglio sia il principale luogo di studio, oltre che di applicazione, dell’Ordinamento giudiziario ed elidere la possibilità di un contributo sulle leggi di modifica sarebbe estremamente dannoso oltre che contraddittorio.
SPANGHER: Il Consiglio Superiore della Magistratura vive di “stagioni” nei rapporti tra magistratura e politica. A parte la considerazione che l’art. 10 della l. del 1958, sembrerebbe indicare che il C.S.M. riferisca a richiesta del Ministro, la norma sembrerebbe limitare l’intervento consigliare alle ricadute organizzative e non, invece, interferire con le scelte che ne costituiscono la premessa anche se il confine tra le due situazioni non è e non può essere stretto. Ad un osservatore attento come lo sono stato nel periodo 2002 – 2006, le differenze a volte sono macroscopiche e configura il C.S.M. come organo di opposizione politica e non solo tecnico-organizzativa.
Per chiarire il punto, venendo all’attualità: una cosa è la prospettazione delle conseguenze della ipotizzata riforma della prescrizione sul funzionamento degli uffici della Corte d’appello, altra l’opposizione all’iniziativa parlamentare e forse governativa.
Escluderei iniziative in relazione a possibili ipotesi riformatrici, non ancora materializzatesi.
Peraltro, il tema trova ampia tutela nelle c.d. audizioni davanti alle Commissioni parlamentari che costituiscono la sede istituzionali per evidenziare la problematicità delle iniziative riformatrici.
DE ROBBIO (quinta domanda) Ha ancora senso il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale data l’impossibilità attuale per gli uffici di procura di occuparsi di tutte le notizie di reato? Quali sono i rimedi per restituire effettività all’articolo 112 della Costituzione o in alternativa che ricadute avrebbe la sua sostanziale abrogazione?
ALBAMONTE: Il principio di obbligatorietà dell’azione penale discende direttamente da quello di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Abolirlo ci porterebbe fuori dal perimetro disegnato dalla Costituzione al fine di garantire la parità dei diritti dei cittadini. La sua effettività è condizionata dalle risorse destinate alla Giustizia che spetta al Governo e al Ministro della Giustizia approntare e mettere a disposizione. Quello che è avvenuto è invece che, a fronte di un carico di lavoro sempre crescente, determinato dalla continua introduzione di reati e dall’appesantimento del rito penale, le risorse, anziché essere proporzionalmente incrementate, sono state ridotte. Questo fa sì che non sia sempre possibile trattare nei tempi dovuti tutte le notizie di reato che gravano sugli uffici requirenti. Per risolvere il problema non si deve abdicare al principio, si devono invece incrementare le risorse o ridurre i reati e semplificare le procedure. È come se a fronte dell’inidoneità del sistema sanitario ad offrire servizi adeguati anziché potenziarlo si decidesse di abolire il diritto costituzionale alla salute. E lo stesso esempio si potrebbe fare per il diritto alla casa, al lavoro, all’istruzione ecc. Un paradosso inaccoglibile.
SPANGHER: Ritengo che il principio di obbligatorietà dell’azione penale vada presidiato e non condivido una riforma che rinvii alla legge le individuazioni di casi e modi del suo esercizio.
Ritengo maggiormente significativa una previsione di criteri di priorità per i quali il Parlamento possa indicare, con maggiore incisività, di quanto ora previsto, i contenuti. Il tema è complesso perché la criminalità non è distribuita omogeneamente, così come le risorse giudiziarie e amministrative, nei vari uffici di procura. Gioverebbe all’obbligatorietà una maggiore trasparenza e controllo nel suo esercizio da parte dei pubblici ministeri.
DE ROBBIO (sesta domanda): Quanto può spingersi a vostro parere un giudice nell’interpretazione della legge che è chiamato ad applicare?
ALBAMONTE: Uno dei temi ricorrenti nel dibattito pubblico sulla giustizia è collegato alla frequente accusa, rivolta ai giudici, di sostituirsi al legislatore attraverso l’attività di interpretazione c.d. “creativa” del diritto. A mio giudizio si tratta di una accusa infondata. L’interpretazione delle norme è dettata da canoni stringenti ai quali i magistrati si attengono con scrupolo. Tra questi canoni vi è quello di conformità delle norme ai principi costituzionali e al diritto sovranazionale. Spesso è proprio questo il tema della critica. Si vorrebbe che il magistrato si attenesse al testo letterale della normativa nazionale e trascurasse la sua conformità ai sistemi normativi sovraordinati alla legge ordinaria. D'altronde questo tema non è soltanto italiano e le stesse tensioni si ritrovano in altre democrazie occidentali (e a dire il vero anche in sistemi che difficilmente potremmo ritenere sostanzialmente democratici) ma sempre quando i relativi Governi sono sostenuti da forti maggioranze e pertanto, proprio grazie a tali investiture, sono portati a superare la cornice nell’ambito della quale soltanto si può esercitare la legislazione, a ritenersi completamente svincolati da qualsiasi limite. Non sono quindi i magistrati ad esondare dall’ambito del loro potere ma spesso sono i Governi a tentare di forzare i principi costituzionali e a disattendere le norme sovranazionali che invece ne condizionano il potere in modo insuperabile.
Al fianco di tale dinamica ne ritroviamo spesso un’altra, che è diretta conseguenza della cattiva tecnica di drafting delle leggi. Tanto più il legislatore è generico ed impreciso tanto più inconsapevolmente concede spazi interpretativi al giudice. Salvo poi accusarlo di supplenza.
Credo che una maggiore cultura del diritto da parte di chi governa e di chi legifera (sempre più spesso lo stesso Esecutivo) sarebbe necessaria, al fine di superare questo corto circuito nocivo per il corretto equilibrio dei poteri costituzionali.
SPANGHER: il tema è complesso perché il superamento del principio del giudice “bocca della legge”, si riconnette alla più generale crisi della legalità, intesa come primato della legge, determinato dalla pluralità delle fonti, spesso ispirate e sorrette da principi e valori, nonché dalla presenza di normative secondarie, non ultimi i protocolli, le intese, le best practices, le softlaw, variamente intersecate e inserite nei percorsi ricostruttivi di situazioni processuali e sostanziali, accentuati da ritardi dell’intervento del legislatore da una normativa alluvionale, contraddittoria, variamente lacunosa e “ambigua”. Si tratta di dati noti agli operatori di giustizia, mentre si accentuano le istanze di certezza e prevedibilità delle decisioni, non ultime delle quali, al di là di quelle esistenti, potrebbe trovare posto il c.d. rinvio pregiudiziale e l’adesione dell’Italia al protocollo 16 della Cedu.
Tra i valori, tuttavia, che il giudice non potrebbe porre a fondamento delle sua interpretazione, potendosi configurare come una invasione di campo cioè quella della funzionalità del sistema (Battistella, Galtelli, Bajrami, per citare esempi direi eclatanti), che seppur anticipatori, di modifiche normative variamente estrinsecatisi, rappresentano una attività di supplenza che deroga alla funzione nomofilattica della Cassazione, pur nel contesto di una possibile interpretazione estensiva, ma non estesa.
DE ROBBIO (settima domanda : I magistrati hanno diritto di esprimere pubblicamente la loro opinione su qualsiasi tema o devono tenere conto delle refluenze che le manifestazioni del loro pensiero possono avere sulla immagine di imparzialità che sono tenuti a trasmettere?
ALBAMONTE: Il tema dell’essere ed apparire imparziali è stato portato al centro del dibattito a causa di recenti accese polemiche suscitate da esponenti di Governo. Nella vicenda della collega Apostolico, giudice della sezione di Protezione Internazionale del Tribunale di Catania, si è cercato di suggerire una sua presunta parzialità di giudizio non dall’esame delle motivazioni dei suoi provvedimenti ma da suoi comportamenti estranei all’esercizio delle funzioni e assunti da privata cittadina, quali la partecipazione a manifestazioni pubbliche del tutto legittime e pacifiche. Ritengo che ciò sia un grave errore. Il nostro sistema normativo prevede che l’unico strumento di verifica circa la terzietà del giudizio sia la motivazione del provvedimento. Cercare riscontri altrove ci porta al di fuori del sistema, in una terra di nessuno dove non sono fissate regole formali che limitino la libertà di manifestazione del pensiero del magistrato (che gode degli stessi diritti sociali, civili e politici degli altri cittadini) ovvero che limitino la ricerca, nella sfera privata, di comportamenti del magistrato che, pur essendo assolutamente legittimi, possono essere portati a testimonianza di una sua pretesa faziosità. Mi sembra ovvio che tutto ciò ha poco a che fare con la civiltà giuridica che dovrebbe costituire il terreno di confronti tra le istituzioni e tra queste ed i cittadini.
SPANGHER: Discorso anche questo complesso. Ritengo che un self restraint sia necessario sia nei comportamenti sia nelle esternazioni. A me piace il riferimento all’”opacità” che, per effetto del comportamento non necessariamente suscettibile di valutazioni disciplinari, il giudice manifesta nel luogo dove esercita la sua funzione.
Il potere del RUP di determinare l’esclusione dalle procedure di gara nel vecchio Codice 2016 e la nuova impostazione del D.Lgs. n. 36/2023. Nota a Consiglio di Stato, sez. V, 10 gennaio 2024, n. 353.
di Stefania Caggegi
Sommario: 1.- Fatti di causa e oggetto di indagine; 2.- La figura del Responsabile Unico del Procedimento come disciplinata dal D.Lgs. n. 50/2016, linee guida ANAC e Regolamento Unico; 2.1- (segue) competenza del RUP in materia di esclusione delle offerte. Rapporto con la commissione giudicatrice; 2.2. - (segue) cumulo dei ruoli di responsabile unico del procedimento e componente della commissione; 3 - Il punto del Consiglio di Stato sui motivi legati alla figura del RUP; 4 - Il nuovo Responsabile Unico di progetto del D. Lgs. n. 36/2023. Cenni.
1. Fatti di causa e oggetto di indagine.
La pronuncia in commento offre lo spunto per svolgere una serie di riflessioni sul ruolo del Responsabile Unico del Procedimento (di seguito RUP) nelle procedure di appalto ed in particolare sulla sua competenza a determinare l’esclusione dalla gara di un operatore economico, nonché sulla compatibilità di siffatto ruolo con quello di componente della commissione giudicatrice.
Il tutto secondo l’impostazione del vecchio Codice Appalti del 2016, applicabile ratione temporis alla fattispecie sottoposta al vaglio del Consiglio di Stato.
I fatti sottesi alla pronuncia ruotano intorno ad un appalto finalizzato alla sistemazione ed al ripristino di un torrente nella provincia di Avellino. La società - poi ricorrente in primo grado - veniva esclusa sia per mancata presentazione di alcuni documenti (segnatamente: organizzazione del personale e progetto migliorie), sia perché aveva formulato un’offerta tecnica del tutto sovrapponibile rispetto ad altre due offerte presentate da altre società, con la conseguente configurazione di una ipotesi di sostanziale unicità del centro decisionale [1].
Per quanto qui di interesse, la società censurava il provvedimento di esclusione facendo leva su un primo assorbente profilo di illegittimità, fondato sulla presunta autonoma e/o arbitraria iniziativa del Responsabile del procedimento, che avrebbe istruito ed adottato tale decisione, in spregio alle disposizioni della lex specialis che riservavano alla Commissione – nel caso di specie mai nominata – le verifiche e le valutazioni dell’offerta tecnica. Il provvedimento del RUP veniva censurato anche per avere lo stesso illegittimamente cumulato le qualità di responsabile del procedimento di gara, di responsabile unico del procedimento e di componente unico del Seggio di gara, in violazione dell’art.77, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016.
Il Tar Salerno [2], rigettava il ricorso e rispetto al suddetto impianto difensivo affermava, in sintesi, che: a) la competenza a determinare le esclusioni dalla gara è del RUP e non della commissione giudicatrice; b) non è stata data alcuna dimostrazione di incompatibilità tra il ruolo di RUP e quello di commissario di gara; c) la mancata nomina della commissione di gara è ininfluente ai fini della decisione di esclusione del RUP.
La società ricorrente proponeva appello ed il Consiglio di Stato, investito della questione, con la pronuncia in commento, confermava le statuizioni del Tar elaborate in riferimento alla questione oggetto di indagine, cogliendo l’occasione per definire l’ambito di competenza del RUP in questo tipo di procedure, anche a confronto con le competenze proprie delle commissioni esaminatrici.
Pertanto, nel presente scritto ci si occuperà preliminarmente di delineare il quadro normativo afferente le competenze del RUP, figura centrale invero in tutti i procedimenti amministrativi, ma con particolare riguardo al suo ruolo nelle procedure ad evidenza pubblica, analizzando il modo in cui questa figura è stata disciplinata dal vecchio codice del 2016. Ci si soffermerà, poi, sulla natura delle competenze allo stesso affidate, operando - sulla scorta delle conclusioni elaborate dai Giudici di Palazzo Spada - un confronto con le competenze proprie delle commissioni di gara, e analizzando anche l’ipotesi di cumulo del ruolo di RUP e membro della commissione giudicatrice.
In conclusione, per completezza espositiva, non ci si può esimere dal far cenno alle principali novità introdotte dal nuovo Codice, il D.Lgs. n. 36/2023, che hanno interessato il ruolo e le competenze di quello che oggi è definito dal legislatore il Responsabile Unico del Progetto.
2. La figura del Responsabile Unico del Procedimento come disciplinata dal D.Lgs. n. 50/2016, linee guida ANAC e Regolamento Unico.
Il Responsabile del procedimento, quale istituto regolamentato dalla Legge n. 241 del 1990, può definirsi come una figura organizzativa con compiti istruttori, caratterizzati da una c.d. discrezionalità procedimentale e solo eventualmente decisori: la sua funzione si esaurisce all’interno della macchina amministrativa, di cui il Responsabile è parte e di cui cura gli interessi, allo scopo di mediare i contrapposti interessi per il raggiungimento del “giusto provvedimento”[3].
Tuttavia, nell’ambito delle procedure di appalto – e anche di concessione – questa figura assume anche una veste diversa. Rimane sempre personalizzazione dell’amministrazione, che in questo caso è stazione appaltante, ma la sua funzione non è più solo quella appena descritta di mediatore degli interessi, ma propende verso un’attività più propriamente decisionale.
La figura del responsabile unico del procedimento negli appalti è stata innovata in questi termini dalla disciplina del D. Lgs. n. 50/2016 [4], che ha operato una vera e propria svolta “culturale”, attuata sulla spinta delle direttive europee che hanno costituito le fondamenta del codice del 2016 [5].
Nel dettaglio, l’art. 31 del Codice, dopo aver definito le modalità di nomina ed i compiti del RUP al comma 4 [6], al comma 5 demandava, in un primo momento, all’ANAC il compito di definire una disciplina di dettaglio, rispetto a quanto disposto dal Codice, su: compiti del RUP, presupposti e modalità di nomina, nonché sugli ulteriori requisiti di professionalità [7].
Rispetto alla decisione di affidare all’ANAC l’elaborazione della “disciplina di dettaglio”, si è detto che la stessa fosse giustificata [8] in ragione della rilevanza centrale della figura di che trattasi nelle procedure disciplinate dal Codice. Per tale via, si è valutata conveniente l’opportunità che i suoi compiti non fossero definiti in maniera tassativa dal disposto legislativo, così da lasciare al RUP il giusto margine di “movimento” nella gestione delle procedure. Così facendo, peraltro, si è risposto all’esigenza di rendere meno rigido l’ingresso delle nuove funzioni attribuitegli.
Con la legge 14 giugno 2019 n. 55, sono state abrogate le linee guida dell’ANAC e sono state sostituite, per quanto riguarda la figura del RUP, con l’emanazione del Regolamento Unico di cui al comma 27 octies, art. 261 D. Lgs. n. 50/2016.
L’insieme di queste fonti ci hanno consegnato, come detto, una figura di Responsabile del procedimento parzialmente diversa da quella della 241/90.
Resta fermo che lo stesso conserva comunque anche nelle procedure di appalto la sua funzione di garanzia, propria della figura disciplinata dalla legge sul procedimento, e pur rappresentando gli interessi particolari della stazione appaltante, tende comunque al perseguimento dell’interesse pubblico, e non solo al corretto svolgimento della gara, ma anche a quello dell’intera collettività e del sistema economico, affinché l’appalto costituisca effettivamente uno strumento di sviluppo sociale ed economico [9].
Il tutto con qualcosa in più. In particolare, il Codice del 2016 ne ha previsto la partecipazione attiva già nella fase di pianificazione e programmazione e ha attribuito allo stesso significativi poteri decisionali, come ad esempio il potere di ammissione od esclusione dalla procedura di gara all’esito della mera verifica dei requisiti di partecipazione.
2.1. (segue) Competenza del RUP in materia di esclusione delle offerte. Rapporto con la commissione giudicatrice.
Come si accennava, la funzione del RUP nelle procedure di appalti si presenta come un qualcosa di più pervasivo, con poteri decisionali precisi che gli sono stati affidati espressamente dal legislatore del 2016 e dalle successive integrazioni dell’ANAC prima e del Regolamento Unico dopo. Tra questi poteri decisionali rientra, come detto, anche quello di procedere alla verifica del possesso dei requisiti degli operatori economici che partecipano alla procedura, al fine di determinarne l’ammissione ovvero l’esclusione.
Infatti, il provvedimento di esclusione dalla gara è un atto di stretta competenza della stazione appaltante, della quale il RUP è non solo parte integrante ma anche rappresentazione massima e quindi deputato a prendere decisioni come questa.
La giurisprudenza, cui il Consiglio di Stato mostra di aderire nella pronuncia in commento, ritiene questa una regola di carattere generale, le cui basi vadano rintracciate nell’art. 80, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016, a tenore del quale è la stazione appaltante a procedere all’esclusione, nei casi stabiliti. [10]
La commissione giudicatrice, di contro, quale organo “straordinario” non è deputata a tale compito, piuttosto alla stessa spetta esclusivamente la valutazione delle offerte pervenute. È vero che la documentazione di gara può demandare alla Commissione giudicatrice ulteriori compiti, di supporto ed ausilio al RUP, ma per l’appunto tali ulteriori compiti devono essere espressamente affidatigli.
Può ritenersi di acquisizione pacifica, il principio secondo il quale, in caso di procedura di gara che preveda l'affidamento con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, competenza esclusiva della commissione giudicatrice sia l'attività valutativa, mentre il R.U.P. può svolgere tutte le attività, anche non definite dal Codice, che non implicano l'esercizio di poteri valutativi [11].
La commissione giudicatrice è, dunque in definitiva, responsabile della valutazione delle offerte tecniche ed economiche dei concorrenti e fornisce, ove ritenuto necessario, ausilio al RUP nella fase di verifica della documentazione amministrativa e di verifica dell’anomalia delle offerte [12].
Da quanto detto, è agevole concludere che il RUP, secondo quanto disposto dalla normativa di settore, nell’ambito delle procedure di appalti e concessioni può senz’altro essere definito il dominus della procedura di gara, titolare di tutti i compiti che non siano espressamente attribuiti ad altri soggetti [13].
2.2. (segue) cumulo dei ruoli di responsabile unico del procedimento e componente della commissione.
Sulla base del modo in cui è stata delineata fino a questo punto la figura del RUP, anche in relazione alla diversità della funzione allo stesso affidata in “contrapposizione” alla funzione affidata alla Commissione giudicatrice, parrebbe potersi concludere per l’incompatibilità dei due ruoli e quindi per l’impossibilità che uno stesso soggetto possa cumulare su di sé il ruolo di RUP e quello di componente della commissione di gara.
Invero, l’art. 77 comma 4, del d.lgs. n. 50/2016, precisamente nell’ultimo periodo, andava esattamente in questa direzione. Tuttavia, la modifica introdotta dal D. Lgs. n. 56 del 2017, ha determinato che questa ipotesi fosse tutt’altro che esclusa e, ancorché sia rimasta ferma la disposizione secondo la quale “i commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun’altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”, rispetto al RUP il legislatore si è preoccupato di specificare che la sua nomina a membro delle commissioni di gara “è valutata con riferimento alla singola procedura”.
A detta della giurisprudenza recente, tale fattispecie di incompatibilità deve ritenersi integrata nell’ipotesi di concentrazione in capo alla medesima persona delle attività di preparazione della documentazione di gara, implicante la definizione delle regole applicabili per la selezione del contraente migliore, e delle attività di valutazione delle offerte, da svolgere in applicazione delle regole procedurali all’uopo predefinite [14].
Del resto, tale norma risponde all’esigenza di una rigida separazione tra la fase di preparazione della documentazione di gara e quella di valutazione delle offerte in essa presentate, a garanzia della neutralità del giudizio ed in coerenza con la ratio generalmente sottesa alle cause di incompatibilità degli organi amministrativi [15], al fine di evitare la partecipazione alle commissioni giudicatrici di soggetti, interni o esterni, alla stazione appaltante che abbiano avuto un ruolo significativo, tecnico o amministrativo, nella predisposizione degli atti di gara [16].
Non valga a smentire quanto detto che, in ogni caso, il legislatore inserendo la disposizione a tenore della quale permette questa possibilità, specificando che debba essere valutata caso per caso, legittima tale scelta nel caso in cui venga compiuta dalle stazioni appaltanti, ovviamente in assenza di ulteriori profili di specifica incompatibilità.
A conferma di ciò, la giurisprudenza ha, infatti, costantemente affermato che la violazione del disposto di cui all’art. 77 comma 4 D.Lgs. n. 50/2016 viene integrata nel caso in cui emergano elementi idonei a un’evidenza concreta che valga, su un piano sostanziale, a denotare l’incompatibilità tra i ruoli svolti, desumibile da una qualche comprovata ragione di interferenza e di condizionamento tra gli stessi [17].
3. Il punto del Consiglio di Stato sui motivi legati alla figura del RUP.
Il Consiglio di Stato nella pronuncia in commento, dopo aver ricostruito la disciplina del Codice del 2016 che viene in rilievo nella definizione delle competenze e della funzione del Responsabile Unico del procedimento, richiama gli orientamenti della giurisprudenza che: ribadiscono la legittima competenza del RUP all’emanazione del provvedimento di esclusione; distinguono le sue funzioni da quelle della Commissione eventualmente nominata; definiscono i limiti dell’ipotesi di cumulo dei ruoli di responsabile unico del procedimento e componente della commissione, nei termini richiamati nei paragrafi precedenti.
In conclusione rigetta l’appello proposto, concludendo che nel caso oggetto di causa, peraltro, anche sulla base del disposto della lex specialis, risulta chiara la distinzione tra i compiti del “soggetto deputato all’espletamento della gara” (ossia il RUP) e la commissione di gara: mentre quest’ultima è chiamata ad esprimere un giudizio su aspetti tipicamente tecnico-discrezionali, in particolare, la valutazione offerte tecniche ed assegnazione dei relativi punteggi, il primo è tenuto ad operare scelte di carattere più vincolato ossia ad adottare talune decisioni allorché ne ricorrano i presupposti.
Tra le decisioni c.d. a carattere vincolato il Consiglio di Stato, nel solco definito dalla giurisprudenza precedente, fa rientrare anche quelle relative alla esclusione dei concorrenti.
Del resto, aggiungono i Giudici di Palazzo Spada, “se previsto dalla lex specialis [come nel caso deciso con la sentenza in commento], il provvedimento di esclusione può essere comminato anche in seguito all’esame dell’offerta tecnica, allorché essa contenga elementi tali da comportare l’esclusione dei concorrenti”. E nel dire questo viene, ancora una volta, sottolineata la differenza tra questo tipo di operazione, ovvero l’esame dell’offerta tecnica - certamente di legittima competenza del RUP - da un’operazione di tipo diverso, ovvero la sua valutazione, questa si di competenza della commissione giudicatrice, ove nominata.
Ed è proprio sulla base di tale distinzione che l’attività del RUP nel caso di specie viene ritenuta legittima, perché lui ha comminato l’esclusione a seguito dell’esame acritico delle offerte, dal quale sono emersi elementi tali da provare l’esistenza di un unico centro decisionale. Il RUP non ha svolto alcuna valutazione nel merito delle offerte e quindi è rimasto legittimamente nell’ambito delle sue funzioni, come delineato dal legislatore.
Nella qualità di “soggetto deputato all’espletamento della gara” (indicazione letterale che il Consiglio di Stato riprende dalla lex spcialis della procedura oggetto di causa), conferma che il RUP era certamente abilitato ad aprire preliminarmente i plichi contenenti le offerte tecniche, e ciò non per valutarle sul piano della loro rispettiva meritevolezza - compito questo sicuramente da riservare alla commissione di gara - ma soltanto per accertarne la rispondenza in ordine ai requisiti del disciplinare e del codice dei contratti ai fini della loro possibile esclusione.
E pertanto, ritenendo che “l’apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche non era dunque preordinata ad una loro valutazione ma ad un mero esame di rispondenza rispetto ai requisiti di gara e di legge prescritti ai fini della loro mera ammissibilità”, accerta la legittimità del provvedimento di esclusione ad opera del RUP.
Infine, rispetto all’invocata incompatibilità del ruolo di RUP e di componente del seggio di gara, il Consiglio di Stato si limita a richiamare ormai pacifica giurisprudenza, a tenore della quale “nelle procedure di gara ad evidenza pubblica, il ruolo di responsabile unico del procedimento può anche coincidere con le funzioni di commissario di gara e di presidente della commissione giudicatrice, e tanto ad eccezione dei casi in cui sussista la concreta dimostrazione che i due ruoli siano incompatibili, per motivi di interferenza e di condizionamento tra gli stessi” [18], circostanza che ritiene del tutto assente nel caso sottoposto al suo esame.
4. Il nuovo Responsabile Unico di progetto del D. Lgs. n. 36/2023. Cenni.
L’impostazione del nuovo Codice Appalti è emblematica di un cambiamento del modo di intendere l’intervento pubblico che diventa quasi un progetto. Un progetto che deve portare dei risultati utili per la collettività, quali l’esecuzione tempestiva e il migliore rapporto qualità/prezzo, sempre nel rispetto dei principi dell’attività amministrativa, quali la trasparenza, la legalità, il buon andamento [19].
La nuova impostazione di base del Codice influenza inevitabilmente anche la disciplina del Responsabile del Procedimento, in capo al quale si assommano ulteriori responsabilità e compiti rispetto al passato.
Il nuovo approccio del legislatore del 2023 alla figura del Responsabile del Procedimento, lo si desume preliminarmente da una mera valutazione del dato letterale. Difatti l’art. 15 del D. Lgs. n. 36/2023 disciplina la figura del “Responsabile Unico di Progetto (RUP)”. Questo deve essere nominato dalle stazioni appaltanti e dagli enti concedenti “nel primo atto di avvio dell’intervento pubblico”, ed allo stesso viene affidata la responsabilità di dirigere e coordinare tutte le fasi di ciascuna procedura soggetta al Codice. Il nuovo Responsabile Unico del Progetto è coinvolto a partire dalla fase di pianificazione e programmazione, passando dall’espletamento della procedura di selezione del contraente, per finire alla successiva fase di esecuzione contrattuale con l’opportuno coinvolgimento del Direttore dell’Esecuzione Contrattuale.
Per mitigare la forte implementazione di responsabilità affidate al RUP, il legislatore al comma 4 prevede la possibilità di individuare un modello organizzativo ad hoc attraverso la nomina di responsabili di procedimento per ognuna delle fasi dell’appalto, che però agiscono sempre sotto diretta responsabilità del RUP, il quale mantiene le funzioni di supervisione, indirizzo e coordinamento [20]. Al comma 6 è, poi, prevista la possibilità di istituire una vera e propria struttura di supporto al RUP, il quale affida direttamente eventuali incarichi di assistenza, il tutto purché l’affidamento comporti un impegno di spesa non superiore all’1% dell’importo a base d’asta.
Forse la previsione normativa che più di tutte da l’idea della rinnovata veste del RUP è quella contemplata al comma 5 del suddetto articolo, a mente del quale la sua funzione primaria è quella di assicurare “il completamento dell’intervento pubblico nei termini previsti e nel rispetto degli obiettivi connessi al suo incarico”, rispettando, quindi, le tempistiche preventivate, il livello di qualità richiesto e la manutenzione programmata. Tale previsione non può non considerarsi diretto corollario del principio del risultato di cui all’art. 1, posto alla base della nuova disciplina [21].
Altra significativa differenza rispetto al passato dal punto di vista quanto meno della tecnica legislativa utilizzata, è rappresentata dal fatto che la disciplina di dettaglio è sancita nell’Allegato I.2, rubricato “Attività del RUP”, che – essendo parte integrante del nuovo Codice – è auto-esecutivo con valenza di legge. Il RUP dovrà possedere i requisiti individuati nel predetto allegato e le competenze professionali adeguate in relazione ai compiti affidatigli, nel rispetto dell’inquadramento contrattuale e delle relative mansioni. Dovrà aver maturato un’adeguata esperienza nello svolgimento di attività analoghe a quelle da realizzare, con riguardo alla natura, complessità e/o importo dell’intervento.
Viene comunque riconfermato il ruolo del RUP come Project Manager, l’articolo 5 comma 4 dell’allegato, dispone che “nelle procedure di affidamento di lavori particolarmente complessi, il RUP possiede, oltre a un’esperienza professionale di almeno cinque anni nell’ambito delle attività di programmazione, progettazione, affidamento o esecuzione di appalti e concessioni di lavori, una laurea magistrale o specialistica nelle materie oggetto dell’intervento da affidare nonché adeguata competenza quale Project Manager, acquisita anche mediante la frequenza, con profitto, di corsi di formazione in materia di Project Management”.
In definitiva, può dirsi che – in linea con il nuovo impianto codicistico – il nuovo Responsabile Unico del Progetto, oggi, non deve non solo governare e sovraintendere le procedure, ma anche “portare a casa il risultato”, in termini di raggiungimento degli obbiettivi della pubblica amministrazione alla quale appartiene. Il tutto nei tempi previsti (in molti casi sensibilmente ridotti) e senza che questo comporti né un abbassamento del livello qualitativo, né tanto meno un aumento dell’impiego di risorse economiche. Si passa, dunque, da un soggetto responsabile della procedura, in senso stretto intesa, ad un soggetto che è responsabile, invece, dell’intero progetto e quindi non più solo della procedura, intesa come mezzo attraverso il quale il progetto viene realizzato.
Quanto all’oggetto di indagine del presente scritto, il nuovo codice non modifica l’impostazione delineata, anche il Responsabile Unico del Progetto è personificazione della stazione appaltante – anzi, come visto, più di prima – e, dunque, certamente legittimato ad esercitare il potere di esclusione degli operatori economici. La differenza è che, prima la base legale di tale potere veniva rintracciata nella disposizione dell’art. 80, a mezzo della quale il potere di esclusione era affidato alla stazione appaltante, nella nuova disciplina, invece, il potere di esclusione del RUP viene esplicitamente menzionato dall’art. 7, lettera d), dell’allegato I.2.
[1] Per una panoramica sulla giurisprudenza afferente la questione dell’unicità del centro decisionale, ipotesi sanzionata nel vecchio codice dall’art. 80 del D.Lgs. n. 50/2016, comma 5, lett. m), si veda: Consiglio di Stato, sez. V, 23 maggio 2023, n. 5107; Cons. Stato, sez. III, 7 giugno 2022; Cons. Stato, Sez. V, 3 gennaio 2019, n. 69; Cons. Stato – Sez. V, 4 gennaio 2018 n. 58; Cons. Stato, Sez. V, 6 febbraio 2017, n. 496; Cons. Stato, V, 10 gennaio 2017, n. 39; nonché sentenza della Corte di Giustizia della Comunità europea, 19 maggio 2009, in causa C-538/07.
[2] pronuncia di primo grado: Tar Campania – Salerno, Sez. I, n. 1334/2023.
[3] Per un’analisi generale sulla figura del responsabile del procedimento si veda: Il Responsabile del procedimento: funzioni istruttorie e poteri di regolarizzazione, in Azione amministrativa e disciplina del diritto pubblico, a cura di F. LUCIANI E R. ROLLI, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane, 2008, 189 ss.; M.A. SANDULLI e L. MUSSELLI, Commento agli artt. 4, 5, 6 in AA. VV., L’azione amministrativa. Commento alla legge 7 agosto 1990 n. 241 modificata dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15 e dal d.l. 14 marzo 2005 n. 35, Milano Giuffrè, 2005, 191 ss.; V. CERULLI IRELLI, Verso un più compiuto assetto della disciplina generale dell’azione amministrativa. Un primo commento alla legge 11 febbraio 2005 n. 15, recante modifiche ed integrazioni della legge 7 agosto 1990 n. 241, in Astrid Rassegna, 2005, n. 4.
[4] D.Lgs. n. 50 del 2016, art. 31, rubricato <<Ruolo e funzioni del responsabile del procedimento negli appalti e nelle concessioni>>.
[5] in questo senso C. SALTELLI, Responsabile del procedimento negli appalti e nelle concessioni, in Trattato sui contratti pubblici, II - Soggetti qualificazione regole comuni alle procedure di gara, 2019, diretto da M.A. Sandulli, R. De Nictolis, Cap. 36, p. 49 ss. Per una disamina generale delle novità introdotte dal Codice del 2016 si rinvia anche a: Codice dei Contratti pubblici. Il D.L.vo 18 aprile 2016 n.50 commentato, a cura di G.F. FERRARI e G. MORBIDELLI, Piacenza, La Tribuna, 2017; Il nuovo diritto dei contratti pubblici. Commento organico al D.Lgs. 18 aprile 2016 n.50, diretto da F. CARINGELLA, P. MANTINI e M. GIUSTINIANI, Roma, Dike, 2016.
[6] L’articolo 31, comma 4 coincide con quella del precedente codice del 2006; i compiti sono stati specificati dall’art. 10 del D.P.R. n. 207 del 2010.
[7] Ci si riferisce alle Linee guida n. 3, di attuazione del D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, recanti «Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico del procedimento per l’affidamento di appalti e concessioni»”, approvata con deliberazione n. 1096 del 26 ottobre 2016 e aggiornata e al d.lgs. 56 del 19/4/2017 con deliberazione n. 1007 del’11 ottobre 2017, alla quale fa riferimento anche il Consiglio di Stato nella pronuncia in commento.
[8] Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 2 agosto 2016 n. 1767
[9] in questi termini C. SALTELLI, Responsabile del procedimento negli appalti e nelle concessioni, op. cit.; in tal senso cfr. anche: C. Conti, Sez. Giurisd. Calabria, 27 dicembre 2017, n. 372; Cons. Stato, Sez. V, 5 febbraio 2018, n. 738
[10] Consiglio di Stato, Sez. VI, 08/11/2021, n.7419.
Consiglio di Stato, Sez. V, 01/06/2021, n. 4203
[11] Consiglio di Stato, Sez. V, 01/06/2021, n.4203; Consiglio di Stato, Sez. V, 13 settembre 2018, n. 537; Id., 6 maggio 2015, n. 2274; Id., 21 novembre 2014, n. 5760; Sez. III, 19 giugno 2017, n. 2983.
[12] cfr. Linee guida n. 3 del 26 ottobre 2016, cit.
[13] in questo senso: TAR Veneto, Sez. I, 27 giugno 2018 n. 695; Cons. St., Sez. III, 19 giugno 2017 n. 2983.
[14] Cfr. ex multis Cons. Stato, VI, 8 novembre 2022, n. 7419
[15] Cons. Stato, III, 8 gennaio 2021, n. 6744
[16] Cons. Stato, V, 10 gennaio 2022, n. 167
[17] Consiglio di Stato, Sez. V, 27 febbraio 2019 n. 1387; T.A.R. Catania, sez. I, 25/01/2021, n.209; T.A.R. Roma, sez. II, 22/02/2019, n. 2420.
[18] Cons. Stato, sez. III, 26 ottobre 2018, n. 6082.
[19] Utile in proposito la Relazione agli articoli e agli allegati, che precede lo Schema definitivo di Codice dei contratti pubblici in attuazione dell’articolo 1 della legge 21 giugno 2022, n. 78, recante “Delega al Governo in materia di contratti pubblici”, trasmesso dal Consiglio di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri il 7 dicembre 2022. In dottrina si veda: M.A. Sandulli, Prime considerazioni sullo Schema del nuovo Codice dei contratti pubblici, in giustiziainsieme.it, Diritto e processo Amministrativo, 22 dicembre 2022; L. Carbone, La scommessa del “Codice dei contratti pubblici” e il suo futuro (Relazione al Convegno su: «Il nuovo codice degli appalti – La scommessa di un cambio di paradigma: dal codice guardiano al codice volano?» - Roma, 27 gennaio 2023), in giustizia-amministrativa.it, 12.; A. CIOFFI, Prima lettura del nuovo Codice dei contratti e dei suoi tre principi fondamentali, in ApertaContrada.it, 16 gennaio 2023; S. PERONGINI, Il principio del risultato e il principio di concorrenza nello schema definitivo di codice dei contratti pubblici, in L’amministrativista, 2 gennaio 2023; M.A. SANDULLI, Procedure di affidamento e tutele giurisdizionali: il contenzioso sui contratti pubblici nel nuovo codice appalti, in federalismi.it, fasc. 8/2023, 5 aprile 2023; F. SAITTA, I principi generali del nuovo Codice dei contratti pubblici di Fabio Saitta, (Relazione al Seminario di studi su: «Il diritto dei contratti pubblici alla luce del nuovo Codice» - Cosenza, 16 maggio 2023), in giustiziainsieme.it, 08 giugno 2023;
[20] Sul ruolo del Rup e del Responsabile di fase si veda Tar Calabria sentenza n. 782 del 23.10.2023, il quale – nel delineare la natura delle due figure – ne tratteggia le differenze e in particolare sull’impugnabilità degli eventuali atti specifica che quelli del responsabile di fase sono atti endoprocedimentali e quindi privi di contenuto decisorio. Anche la proposta di aggiudicazione predisposta dal responsabile di fase può al massimo far nascere un’aspettativa nell’aggiudicatario. Tuttavia, non trattandosi di un’aggiudicazione definitiva non può essere impugnata. Al contrario, spiega il Tar, il Rup ha la competenza per valutare la proposta di aggiudicazione, verificare i requisiti dell’offerente e disporre l’aggiudicazione definitiva. L’atto del Rup potrebbe quindi essere impugnato.
[21] per l’analisi del principio del risultato si rinvia alla dottrina già citata (n. 19)
Sommario: 1. L’impegno, la giurisdizione e la narrazione – 2. Da “I pascoli di carta” a “L’inferno non prevarrà” - 3. Apologo del p.m. ingenuo e curioso – 4. Un racconto senza prove – 5. Se irredimibile è la speranza.
1. L’impegno, la giurisdizione e la narrazione
“Ormai è diventato quasi ridicolo parlare di impegno ma io continuo a ritenermi uno scrittore impegnato”, rispondeva Leonardo Sciascia a Danilo Dolci nel corso di un dibattito svoltosi al Circolo Culturale di Palermo il 15 aprile 1965. E dopo quasi sessant’anni, quando addirittura parlare di impegno può creare fastidio e diffidenza, per un magistrato che già è impegnato nell’esercizio della giurisdizione in un ufficio giudiziario tanto periferico quanto strategico può valere la pena affaticarsi a scrivere delle storie al fine di combattere i mali della società e riscattare la dignità dell’uomo, come voleva fare Sciascia?
Andrea Apollonio, sostituto procuratore presso il Tribunale di Patti, con il suo romanzo dal titolo “L’inferno non prevarrà” ha risposto di sì. E non è la prima volta. Perché questo non è il suo primo romanzo.
Segue infatti un’altra pregevole opera letteraria, “I pascoli di carta”, che egli dedicò alla Sicilia “che mi ha reso adulto”, introducendola con una frase tratta da “Il nome della rosa” di Umberto Eco, che per un magistrato tenuto a scrivere atti giudiziari, è tutta un programma: “di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare”
Sciascia diceva di essersi messo ad affilare la penna, per ristabilire il diritto e fugare l’ingiustizia e il sopruso, perché non riusciva a sentirsi sufficientemente incisivo facendo il maestro elementare.
Chissà se un magistrato che esercita i suoi compiti come deve, cioè nei limiti fissati dalla legge, si sente sufficientemente incisivo nel contrastare le ingiustizie; talvolta potrebbe persino rendersi conto di non essere in grado nemmeno di farle emergere con gli strumenti a sua disposizione. Resta il fatto che alla legge egli deve attenersi, accettando anche l’inadeguatezza dei risultati che riesce a conseguire. Sempre che ci riesca.
La giurisdizione è giurisdizione e non si può piegare né distorcere per giungere a qualcosa di più o a qualcosa di diverso da quanto è consentito dalla legge di accertare, descrivere e, se del caso, sanzionare. Ma ciò che non può essere oggetto di un provvedimento giudiziario, si può comunque narrare? Si può. E fors’anche si deve, al pari di come si deve con ciò che non si può teorizzare.
2. Da “I pascoli di carta” a “L’inferno non prevarrà”
Il protagonista de “L’inferno non prevarrà” è Salvatori, un sostituto procuratore di un Tribunale dei Nebrodi con sede in una città chiamata Pasicò, non un luogo immaginario ma un nome immaginato dall’autore del romanzo. Che appella il suo protagonista, così come si è fatto sopra, sempre con il solo suo cognome, come si faceva con i compagni di scuola o come si fa con certi colleghi con quell’effetto paradossale quanto consueto, per cui l’omissione del nome del battesimo e l’insistenza sul solo cognome sembra essere il modo più intenso per esprimere fratellanza e confidenzialità.
Salvadori era stato nei “Pascoli di carta” un giovanissimo sostituto alle prime armi, appassionato e ingenuo, alle prese con un’indagine su un eclatante duplice omicidio, che aveva condotto incontrando sviluppi imprevisti, inciampando in barriere improvvise dietro l’angolo di varchi aperti, acquisendo prove che erano trappole, ottenendo qualche aiuto che si rivelava impedimento. Ma infine commettendo un ingenuo quanto imperdonabile errore.
Chiusasi con un bruciante insuccesso investigativo, la storia di “Pascoli di carta” si riapre in questo nuovo romanzo in cui Salvatori, ammorbidito dalla nascita di un figlio e ammaccato dalle prime delusioni professionali, si ritrova ancora giovane ma con due anni di anzianità di servizio in più. Cambiano i procedimenti da trattare, cambia il suo procuratore, in qualche modo è cambiato anche lui, ma attorno al suo ufficio giudiziario le vicende che affliggono il territorio in cui opera proseguono il loro corso producendo nuovi delitti, nuova ricchezza, poco sviluppo, tanta rassegnazione e qualche segno di reazione.
Mentre si confronta con l’umanità dolente che con qualche flebile speranza o forse solo per disperazione riversa le proprie sofferenze nel processo penale, mentre prosegue l’attività ordinaria fingendo di non pensare più a quel duplice omicidio rimasto irrisolto e invece intimamente avvertendolo come una ferita non rimarginata della sua anima e di quella terra oramai divenuta sua, Salvatori non appare più quell’”animale esotico condotto in un piccolo centro da un circo internazionale di passaggio”, quale lo aveva percepito il maresciallo di Alzapietra, dove avvenne il delitto dei “Pascoli di carta”.
Si confronta con un mondo che ora conosce non perché gli si sia svelato ma perché ora egli si rende meglio conto di quante sono le cose che ancora deve capire; più accorto, ma forse nemmeno più di tanto, egli ancora fatica a canalizzare la sua passione nell’equilibrio e quando sente crescere in lui o attorno a sé la disillusione, nello stesso momento in cui ne comincia ad avvertire le suggestioni, reagisce con vigorosa insofferenza.
È la morte per cause naturali di un alto magistrato, tanto alto quanto chiacchierato, in pensione da tempo, a rimettere in moto le sopite tensioni di Salvatori verso un mondo che gli sfugge e che vuole capire.
Un sopralluogo per dovere d’ufficio, quasi una mera formalità, nella casa del Procuratore generale Ficarra nel paese di Alcara, dove viveva da solo e dove era stato trovato cadavere, riaccende nel giovane sostituto sentimenti di rivalsa e rinfocola curiosità sugli interessi border line che, lungo un crinale tracciato a partire da Bruxelles fino ai paesi spopolati dei Nebrodi, affratellano classi dirigenti, professionisti, operatori economici ed esponenti mafiosi, “lembi di un’unica rete”, scrive Apollonio; ma individuati i lembi, comunque la rete “non era visibile ad occhio nudo”.
Dove tutto è mafia e nulla è mafia, dove il tutto sta nel nulla e nel nulla, nelle campagne incolte, nei pascoli deserti, nelle comunità senza popolo, proprio lì sta tutto.
3. Apologo del p.m. ingenuo e curioso
Salvatori porta un nome che evoca il desiderio di un giovane magistrato di salvare il mondo o almeno di concorrere a salvarlo e Apollonio sembra averglielo scelto con un filo di ironia sorniona visto che di lui racconta l’impotenza dinanzi ad un mondo sottilmente complesso e solidamente potente, che gli compare senza farsi afferrare, che si rappresenta dinanzi a lui come mistificazione quando è reale e come reale quando è mistificazione e che comunque infine gli sfugge.
Questo senso di inadeguatezza egli lo confessa al suo procuratore, una donna trapiantatasi in Sicilia all’inizio della sua carriera, divenuta negli anni “più siciliana dei mafiosi siciliani, su cui aveva indagato e per cui aveva chiesto e ottenuto montagne di ergastoli”.
A lei che gli rimproverò l’ennesima ingenuità dice: “io ho scelto di fare questo lavoro perché voglio cambiare le cose secondo un senso di giustizia, appunto, e invece mi sento intrappolato, come dentro una montagna di fatti, e di leggi da applicare automaticamente”.
Appena insediatasi, nel primo incontro con lei Salvatori le aveva sentito spiegare la differenza tra il siciliano e il mafioso: “mentre un siciliano, per congenita diffidenza nei confronti dell’ambiente, del contesto, del sistema di cose in cui si colloca, prima di compiere un’azione – parlare, ad esempio – pensa alle conseguenze che essa può avere due o anche tre passaggi causali dopo, un mafioso riesce ad arrivare a cinque o sei passaggi successivi”.
Salvatori non voleva disfarsi dell’ingenuità degli inizi “perché gli era diventata scudo e protezione” e per questo cade nell’errore che il procuratore gli aveva predetto: “lascia che te lo dica: se non ci si attrezza con una buona dose di realismo si rimane alla mercé del moto inesorabile delle cose”.
È il “mare di oggettività”, di cui parla Italo Calvino, più volte citato nello svolgimento della storia, che con il flusso ininterrotto di ciò che esiste sovrasta e confonde le coscienze. E sovrasta e confonde il giovane sostituto alla ricerca dei “nessi imperscrutabili”, che gli si affacciano persino quando assume a sommarie informazioni le persone che sporgono denuncia e che sembrano raccontare fatti e riferire informazioni del tutto estranei alle vicende da investigare.
E mentre a capo della sua procura Salvatori incontra una donna che dice di essere interessata al fenomeno generale che muove le vicende particolari, il maresciallo di Alzapietra riceve ordine dal suo colonello di togliere dalle pareti la cartina geografica delle campagne della Sicilia perché “secondo lui invogliava l’immaginazione e le fantasticherie”.
Un percorso ad ostacoli per un investigatore, dove ora si elabora il contesto senza i fatti ora si raccontano i fatti senza il contesto. Lo stesso percorso che riesce invece del tutto agevole alle mafie, che “a ben vedere, sono prevedibili da circa duecento anni”, pensa tra sé e sé Salvatori, mentre rilegge un albo di Tex. Per poi aggiungere: “era un pensiero terribile, eppure rassicurante nella sua ineluttabilità”.
4. Un racconto senza prove
A casa del Procuratore Generale Ficarra Salvatori si introduce per prendere atto di una morte per cause naturali, ma, approfittando della situazione, sfoglia con attenzione alcuni documenti posti nello studio del defunto, che pure non sembrano significare nulla; intravede uscendo una testa di gesso fracassata sul pavimento e non dispone alcun ulteriore atto istruttorio.
Ma poi si reca dal maresciallo di Alzapietra con il quale aveva condotto l’indagine fallita sul duplice omicidio di due anni prima, delitto che gli era sembrato legato agli interessi della mafia dei pascoli che controlla i terreni dei Nebrodi e che li sfrutta per ottenere i finanziamenti europei. Salvatori cerca stimoli e trova disillusioni. Vi incrocia un allevatore che vuole sporgere una denuncia per un fatto difficile a credersi e al quale lo stesso maresciallo del paese non sembrava voler credere.
Un misto di ingenuità e di istinto lo porta senza alcun apparente motivo ai funerali di Ficarra, a fiutare l’ambiente, ad inquadrare i volti dei partecipanti e degli officianti.
Due giorni dopo nel suo ufficio giungono due investigatori a portargli una prova inutilizzabile, raccolta un po' per errore, forse anche per abuso, in un’indagine che non era coordinata da lui ma da altro magistrato. Una prova che dimostrava un fatto che però non poteva esistere perché era la prova non sarebbe potuta esistere.
Da qui l’intreccio delle vicende che seguono portano Salvatori a scoprire l’esistenza di una struttura semiconventuale, denominato Malò, dove un innominato ordine di suore offre ospitalità a personalità autorevoli e potenti di quel territorio in cerca di tranquillità e meditazione.
Proprio a partire da quel luogo che tratteggia un Todo modo nebroideo, la storia si snoda in un pellegrinaggio laico con il quale Apollonio rende omaggio a Leonardo Sciascia, autore del quale è devoto lettore e colto cultore, evocandone personaggi, storie e persino citazioni e soprattutto introducendosi con le chiavi narrative nell’attualità del fenomeno mafioso, insuscettibile di essere definito arcaico o moderno, perché capace di essere contemporaneo in ogni epoca.
Incontriamo richiami di A ciascuno il suo con il personaggio di un prete unico abbonato del paese all’Osservatore romano (il titolo del romanzo è tratto dall’iscrizione riportata dalla testata – portae inferis non praevalebunt – che sembra fare il paio con la sconsolata considerazione del maresciallo di Alzapietra: “A volte i Nebrodi, anche con la loro impareggiabile bellezza, mi paiono le porte dell’inferno”); e ci viene da pensare a ciò che fa somigliare Salvatori all’ingenuo prof. Laurana.
Ci troviamo una citazione di Friedrich Dürrenmatt, riportata da Sciascia in Una storia semplice, e ripensiamo all’ambasciatore Giorgio Roccella, alla denuncia che avrebbe voluto fare sul rinvenimento del quadro misterioso in casa sua e al suo successivo apparente suicidio che nessuno voleva decodificare.
Affiora il vescovo di Patti, monsignor Angelo Ficarra, protagonista di Dalle parti degli infedeli, che a Salvatori viene ricordato da Carmine Ragusano, uno dei colletti bianchi che aveva fatto processare e che era stato assolto, anch’egli ospite di Malò. E Salvatori è costretto a masticare amaro in silenzio, sentendosi dire da lui: “sa, per noi siciliani Sciascia è come il maestro che ai suoi allievi apre gli occhi sul mondo”.
Molte altre ancora sono le risonanze e le movenze narrative che rimandano allo scrittore di Racalmuto; e scovarle, mentre si dipanano gli intrighi della storia, rende la lettura ancor più appassionante per gli amanti di Sciascia.
5. Se irredimibile è la speranza
Fra errori tattici, irritualità procedurali, ingenue arditezze e disvelate inconsapevolezze, Salvatori non riesce a dominare il corso degli eventi, talvolta non riesce a comprendere pienamente i fatti, ma dinanzi ai suoi fallimenti e alle sue delusioni è davvero fino in fondo un personaggio sciasciano.
Perché nonostante tutto, pur talvolta assalito dalla tentazione di lasciare la toga, non perde mai la fiducia nel diritto e nella giustizia, non rinuncia mai ad affilare i suoi strumenti spuntati per tutelare la dignità delle persone e giunge persino ad ammettere e ad accettare i turbamenti che procura il senso di impotenza, ben noto a investigatori e magistrati, e che gli viene rinfacciato dal maresciallo di Alzapietra, quando sconfitto e amareggiato, decide di andare in pensione.
“Cosa se ne fa lei di questi turbamenti?” gli chiede l’investigatore disilluso. “Me li tengo dentro”, gli risponde Salvatori, “Li seppellisco da qualche parte, tra lo stomaco e il cuore. Sono semi che, spero, prima o poi daranno frutto”.
Sciascia, lo scrittore della Sicilia irredimibile, è in realtà quello che si svela uomo di fede e di speranza in un’intervista rilasciata a Ian Thomson nel 1985 per il London Magazine, ripubblicata da Rubbettino nel 2022: “io credo nei siciliani che parlano poco, nei siciliani che non si agitano, nei siciliani che si rodono e soffrono dentro”.
Sciascia si diceva ammiratore degli uomini che sembravano non avere molte speranze e che riuscivano però ad essere il cuore della speranza, “la silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori”. Come continuano ad esserlo oggi certi suoi personaggi, per quanto sconfitti. Come ci si presenta Salvatori, che anche in questo da una storia all’altra siciliano lo è sempre di più. E sempre meglio.
Un marziano a spasso per il processo amministrativo (divertissement sul non-processo)[1]
di Francesco Volpe
A un certo punto, la depressione per quel cielo, sempre rosso e sempre aranciato, divenne insostenibile.
Arthur Dent prese una decisione e, dopo aver strofinato tre volte il naso con sua mamma Trillian (i marziani si salutano così), salì a bordo della sua astrocar. Aveva sentito parlare di un pianeta bianco e azzurro: doveva essere bello vivere lì.
L’astrocar era una vecchia utilitaria e ci vollero venti giorni standard, ma alla fine Arthur arrivò sulla Terra e, scelto un posto a caso, fece landing in Italia.
Fu il paradiso. Conobbe la pasta al pomodoro, il frico e la malvasia. Anche il sole, immerso in quei cieli blu, era una tiepida e piacevole scoperta. Arthur si sentiva finalmente bene e, poiché era di spirito gentile, si fece presto degli amici.
Un giorno venne a sapere che l’Università aveva bandito un concorso per un posto a cattedra di lingua e letteratura marziane.
“È proprio quello che fa per me” – pensò - “È vero che su Marte facevo il consulente legale e che, a scuola, prendevo sempre cinque in marziano, ma qui sono l’unico che conosce la lingua, senza tenere conto che ho anche una discreta conoscenza della letteratura, perché ho letto tutti i gialli di Douglas Hactar!”.
Con stupore apprese, tuttavia, che il concorso era stato vinto da una studiosa di filologia ugrofinnica con dottorato a Kuala Lumpur. Arthur era arrivato terzo, perché gli era stato preferito anche un associato di fisica dei corpi fluidi che veniva dall’Università di Capo Passero.
“Non è possibile!”, pensò Arthur.
Poiché era entrato in confidenza con Santino, che faceva l’avvocato, una sera lo invitò in birreria e, davanti a un wurstelpallido e a un piatto di patatine lutee, disse: “Voglio rivolgermi al giudice”.
“Un momento”. – replicò Santino – “Non basta dire che vuoi andare dal giudice. Si deve prima stabilire davanti a qualegiudice”.
Il dialogo che seguì si svolse più o meno in questi termini.
“Come?” – fece Arthur – “Qui non c’è un solo giudice?”.
“No. Ce ne sono diversi e per la tua causa quello giusto è il giudice amministrativo”.
“Boh, io, questa cosa, non la capisco tanto. La giustizia dovrebbe essere applicata in modo uguale per tutti e un giudice che decide su cause particolari è un giudice che riserva ad alcuni soggetti un trattamento speciale. Ma, alla fine, basta che sia indipendente e che possa giudicare in modo imparziale. Sarà così anche per questo giudice amministrativo”.
“Dipende da quello che intendi” – fece Santino – “I giudici del primo grado, in effetti, sono assunti per concorso. Ma i giudici di secondo grado – quelli che metteranno la parola fiat sulla tua causa – sono nominati per un quarto dall’esecutivo. Cioè, proprio da quell’amministrazione su cui saranno chiamati a giudicare. Spesso, inoltre, questi giudici vanno e vengono dai ruoli della pubblica amministrazione. Ora fanno i consiglieri dei ministri, altre volte dirigono importanti autorità. Poi tornano a fare i magistrati e il loro posto nei ministeri viene preso da altri loro colleghi con cui si danno il turno”.
“Questo non è tanto bello” – osservò Arthur – “Ma immagino che, se i giudici commettessero delle birbanterie, ci sarebbero dei procedimenti disciplinari…”.
“Sì e no. Nel senso che è vero: ogni tanto se ne celebrano. Ma è sempre uno psicodramma, perché il procedimento disciplinare non è mai stato ben regolato e così si va all’impronta. Non esiste neppure un vero e proprio organo di autogoverno perché quello che c’è si limita a dare le autorizzazioni sugli incarichi esterni e ad assegnare le sedi, senza avere competenze disciplinari. In realtà, il Consiglio di Stato è governato dal suo presidente, che è nominato anch’egli dall’esecutivo. È il presidente colui che dice quali siano le competenze delle sezioni, ripartendole sulla base dell’amministrazione resistente. Con la conseguenza che tutte le cause contro il Ministero delle Infrastrutture sono decise da un’unica sezione e da quegli otto o nove magistrati che la compongono. Il presidente stabilisce anche da quali magistrati siano composte queste sezioni oltre che la sezione più importante, da lui presieduta, che si chiama Plenaria. Su tutte queste cose il consiglio di presidenza si limita a dare un parere. Ma ti faccio osservare che anche questo consiglio è presieduto dal presidente del Consiglio di Stato. Inoltre, se gli garba, il presidente può acciuffare una particolare causa per farla decidere dalla sua Plenaria, invece che dalla sezione a cui è stata assegnata”.
A Arthur venne un senso di vertigine: su Marte le cose funzionavano in modo diverso. Ora, però, lui era qui e bisognava accettare le regole del gioco.
“Adesso, spiegami… concretamente… come si fa a presentare la causa?”.
“Beh, è abbastanza semplice” – rispose Santino – “Per prima cosa, devi notificare un ricorso all’Università e almeno a uno dei controinteressati”.
“Oh, bella! Perché mai a uno solo? A tutti o a nessuno, non ti pare?”.
“Perché se sono di più, poi si dovrà integrare il contraddittorio anche nei confronti degli altri”.
“Ho capito” – rispose Arthur – “ma, se è così, allora tanto vale non notificare il ricorso a nessun controinteressato e poi integrare il contraddittorio verso tutti. Cosa succede se non notifico a quell’unico?”.
“Succede che il giudice ti respinge il ricorso senza nemmeno leggere le carte”.
“Siete davvero bizzarri…” – chiosò il marziano – “Ma, dopo, come si va avanti?”.
“Dopo che hai notificato, devi depositare il ricorso”.
“E poi?”.
“E poi, aspetti”.
“Aspetto? Aspetto cosa?”.
“Aspetti. Aspetti che ti fissino l’udienza in cui la tua causa sarà decisa. Diciamo che puoi aspettare per anni, anche perché ti passeranno davanti altre cause che sono più importanti: appalti, interventi PNRR, opere pubbliche, mi capisci? Così può capitare che tu debba aspettare parecchio tempo. Al punto che, se l’udienza non sarà stata fissata entro cinque anni, tu dovrai dichiarare che vuoi proprio - ma proprio proprio, eh! - che il tuo ricorso venga deciso. Se non lo farai, la causa verrà cancellata”.
“Ma come! Anche questa! Non voglio sembrare scortese, ma su Marte, dopo che è stata presentata la causa, il giudice ha il dovere di deciderla, senza che questo dovere cada in prescrizione. Da noi non esiste che il giudice possa non fare la sua parte perché è rimasto a lungo inadempiente. E, poi, durante tutti questi anni, si farà pur qualcosa! Si ammetteranno delle prove, ad esempio. Io stesso vorrei chiamare a testimoniare il signor Lino, che era presente all’orale del concorso, perché riferisca che né la dottoranda di Kuala Lumpur né il professore di Capo Passero sono riusciti a spiccicare un’acca stracca di marziano e tanto meno conoscono i fondamentali romanzi di Douglas Hactar!”.
Santino sorseggiò la sua birra. La schiuma inzuppò i baffi che da neri divennero bianchi per tutto il tempo che ci volle prima che lui se li pulisse con il palmo della mano. Poi prese una patatina, l’intinse nella ciotola del ketchup e se la portò, meditabondo, alla bocca.
“In realtà, no. In quei cinque anni non si fa proprio niente. Anzi, non c’è nemmeno un momento preciso in cui si decide se una prova debba essere ammessa o no. Si fanno queste cose solo insieme ad altre, quando si valuta la domanda cautelare o si decide il merito. E, la tua testimonianza, forse riuscirai a portarla nel processo, ma non pensare di convocare Lino davanti al collegio, perché Lino potrà rendere solo dichiarazioni scritte”.
“Ma che testimonianza è, se il teste non viene nemmeno ascoltato dal giudice e dalle altre parti!” – sbottò Arthur, sempre più stupefatto - “Però, senti, io vorrei chiedere anche una perizia per dimostrare che chi ha scritto libri di filologia ugrofinnica e articoli sulla fisica dei corpi fluidi non ha le competenze per insegnare lingua e letteratura marziane. Almeno questo, potrò farlo?”.
“Fino a un certo punto, Arthur…” – disse Santino, inghiottendo un’altra patatina - “… intanto il giudice potrebbe dirti che queste verifiche ricadono nella discrezionalità dell’Università su cui lui non può mettere il naso…” – e qui Santino sprofondò il naso nel boccale di birra - “… in secondo luogo, anche se il giudice ti ammettesse la perizia, non ti aspettare che nomini un consulente esterno. Chiamerà, invece, un verificatore da un’altra Università”.
“Ma è pur sempre un’Università! Amici del mio avversario! Siamo sicuri che questo verificatore, come lo chiami tu, sia davvero imparziale?”.
“Eh…!” – Santino non aggiunse altro.
“Fatto sta che io non posso aspettare tutto questo tempo prima di sapere se avrò un lavoro. Ho le bollette da pagare e sulla Terra andate avanti con il combustibile fossile che è carissimo, quando su Marte usiamo il nucleare da almeno dieci millenni. Inoltre, atterrando ho rotto un sospensore dell’astrocar e il carrozziere mi ha chiesto un botto. Ho bisogno di uno stipendio. C’è niente che si possa fare nel frattempo?”.
“Sissì! Puoi provare a chiedere un provvedimento cautelare. Ne fanno anche di molto stravaganti, che la legge neppure prevede. E decidono in fretta, sai? Ma devi dimostrare di avere un danno grave e irreparabile”.
“Ah, beh!” – fece Arthur, finalmente sollevato – “questo è facile. Tiro fuori le bollette e la fattura del carrozziere”.
“Al tempo!” – lo fermò Santino, che era stato caporale istruttore a Udine – “Guarda che il danno grave e irreparabile non è mica solo il tuo. Anche se la legge non lo dice chiaro e tondo, il giudice valuta pure quello che subirebbe l’Università e poi fa una comparazione per stabilire chi dei due abbia il danno grave più grave. Di solito, il giudice dice che quello dell’Università è più grave del tuo, perché è legato a un interesse pubblico, che merita di essere tutelato di più”.
“Anche questa non me la spiego. Mi hai appena detto che il giudice non può fare valutazioni di questo tipo. Come l’hai chiamata? Discrezionalità?”.
“Però quando vuole le fa e fa anche di peggio, perché, se gli comoda, si sostituisce senza troppo discutere all’amministrazione e fa di testa sua. Egli è Giano. Ora fa il giudice, ora, invece, è la più alta di tutte le pubbliche amministrazioni, ora è tutti e due.
In ogni caso, si deve stare attenti a presentare una domanda cautelare, perché il giudice potrebbe ritenere che la causa sia già pronta per essere decisa e così ti fa sentenza subito. In questo modo, però, tu perdi la possibilità di presentare altre memorie e di produrre altri documenti, perché la causa viene definita così com’è”.
“Ma senti questa! Il giudice che mi confisca il diritto di difesa!” – Arthur era sempre più sconsolato – “Potrò pure oppormi o no?”.
“Oh, sì, puoi farlo, ma non servirebbe a nulla, perché è il giudice che decide se ricorrere alla sentenza in forma semplificata. Tu non riusciresti a evitarlo neppure se rinunciassi alla domanda cautelare. Ormai sei lì. Basta che tu passi per la camera di consiglio e… zac… sei preso al laccio”.
Arthur, perturbato e intontito, fissava i graffiti lasciati sul tavolo da precedenti avventori. Un cuore frecciato e una frase: Luana, tu sei la luna dei miei lunedì.
“Ma consolati,” – riprese Santino – “il giudice può cambiare il rito anche in altre occasioni. Ad esempio, se ritiene che la causa possa essere decisa subito, fissa lui, senza che nessuno glielo chieda, la camera di consiglio e questo anche prima che siano scaduti i termini per la costituzione. In questo modo, la causa si chiude in quattro e quattr’otto e magari alcune parti neppure lo sanno”.
“Ma ci sarà un appello!”.
“Ovvio che c’è un appello. E ci diciamo anche che l’appello ha carattere devolutivo perché si dovrebbe riprendere la causa in mano come se si fosse in primo grado. Ma non è mica del tutto vero, sai? Non si possono portare nuove prove, non si possono sollevare nuove eccezioni, quali esse siano, e si intendono rinunciate tutte le domande e tutte le eccezioni che non siano state riproposte con appello incidentale o nei termini di costituzione, se per caso il t.a.r. non le avesse valutate”.
“Funziona così, in Consiglio di Stato?”.
“Sì”.
“E sopra al Consiglio di Stato?”.
“Sopra, c’è la Cassazione. Anche lì capitano cose curiose, ma non serve che te ne parli, perché ci vai solo se è stato sbagliato il giudice e la Cassazione non può dire se il Consiglio di Stato abbia deciso bene o male la tua causa. In passato, poverina, ci ha anche provato, inventandosi un arzigogolo, ma poi l’hanno stoppata”.
“Quindi il Consiglio di Stato fa una giurisprudenza tutta per conto suo?”
“È così”.
“Un’altra cosa, Santino. Se vincessi la causa, poi mi assumerebbero in Università?”.
“Beh, non è scontato. Si dovrebbe rifare il concorso e se tu risultassi il candidato migliore avresti il posto. Del resto, neppure la sentenza è scolpita sulla pietra perché il giudicato, ormai, è a formazione progressiva. Perciò, l’Università potrebbe chiedere chiarimenti al giudice su come la sentenza debba essere eseguita e sai bene come funziona… ogni volta che si spiega qualcosa, inevitabilmente la si interpreta e ogni volta che si interpreta qualcosa, inevitabilmente la si cambia…”.
“Senti” – aggiunse Arthur – “se non ci fosse modo di vincere il concorso, potrei anche lasciar perdere. Ma io ero davvero il candidato migliore. Che almeno mi riconoscano i danni!”.
“I danni… sì, vero, … ma prima devi avere impugnato nei termini gli atti del concorso e il giudice deve averli annullati. Altrimenti, non ti verrà risarcito quasi nulla”.
La birra era diventata acida. Restava solo la domanda più importante.
“Tu cosa faresti al posto mio, Santino?”.
L’avvocato tirò il fiato: “Lascerei stare, Arthur. Rischi seriamente di buttare via tempo e quattrini e intanto ci staresti male. Mettiti, se mai, a fare qualche lavoretto in nero: dà qualche ripetizione, aggiusta gli scarichi dei lavandini... ti conviene…”.
Si salutarono davanti all’ingresso della birreria.
Arthur Dent era triste: caelum non animum mutant qui trans sidera currunt.
Qualche incivile aveva lasciato sul marciapiede una copia della Gazzetta Ufficiale del Pianeta Venere.
Per curiosità, Arthur la prese in mano. Conosceva bene il venusiano, che aveva imparato a scuola.
Vide così che l’Università di Frac aveva bandito un concorso di lingue e letterature marziane.
Arthur sollevò la testa. Di nuovo, aveva preso una decisione.
Montò sull’astrocar, tirò la levetta dell’aria, accese il motore a onde quantiche e partì, verso il secondo pianeta del sistema solare.
[1] Relazione tenuta il 29 febbraio 2024 al Convegno Giudicati e riti del processo amministrativo, svoltosi a Trieste il 29 febbraio 2024 per la cura di Andrea Crismani.
L’intervento trae ispirazione da una suggestione del saggio di Alberto Romano, Giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa dopo la legge n. 205 del 2000 (epitaffio per un sistema), Dir. proc. amm., 2001, 602 s. Esso è, dunque, dedicato al suo Autore, tanto più che gli si è profondamente grati per il suo insegnamento.
Si sente, inoltre, la necessità di riconoscere un certo debito anche nei confronti di Douglas Adams e di Giulio Cesare Croce.
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