ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Recensione di Il dolore della guerra di Bảo Ninh (2025 Neri Pozza Editore, Vicenza)
L’autore di questo romanzo ha quasi 73 anni, è nato ad Hanoi e, come si legge nella terza di copertina, a diciassette anni si è unito all’Esercito popolare del Vietnam del Nord ed ha combattuto fino all’ultima battaglia all’aeroporto di Saigon, il 30 aprile del 1975.
Quella guerra fu un conflitto ingiusto e brutale, che costò al Vietnam – secondo le cifre rilasciate dal Governo – oltre 5 milioni di vittime, in grandissima parte civili, mentre gli Stati Uniti persero circa 60mila uomini appartenenti alle forze armate.
Ma la storia, in questo romanzo scritto nel 1991, è raccontata da altra visuale, quella dei vincitori che però non vi sono affatto descritti come eroi, al punto da smontare i trionfalismi della propaganda vietnamita e da determinare la reazione negativa del governo dell’epoca che ne vietò la pubblicazione: il libro circolò a lungo solo in forma clandestina prima di diventare un best seller internazionale e di essere insignito dell’Indipendent Foreign Fiction Prize nel 1994, importante premio letterario inglese. Solo nel 2006, quindici anni dopo la sua pubblicazione, il divieto del libro fu revocato e l'edizione inglese apparve nelle librerie e nelle edicole in Vietnam.
Il romanzo si apre con una rappresentazione di soldati in missione nel dopoguerra, nel 1976, per raccogliere le ossa dei compagni caduti da seppellire. Così inizia la narrazione di Kien, il soldato nordvietnamita durante la guerra del Vietnam, che inizia a riflettere sul suo passato e racconta la sua perdita di innocenza, il suo amore e la sua angoscia per i ricordi della guerra.
La ricerca dei resti dei soldati caduti si svolge nelle zone impervie degli altipiani ed in quella che Kien immagina come la "giungla delle anime urlanti", ove 500 soldati del suo 27° Battaglione sono stati annientati dal napalm, ad eccezione di una decina di sopravvissuti tra cui lui stesso. I suoi flashback legano insieme il romanzo e spesso sono incentrati sull'amore tra Kien e la sua fidanzata d'infanzia, Phuong con cui ha nuotato in un grande lago fino a sera mentre altri studenti scavavano trincee nei cortili e dalla quale si è separato durante un drammatico viaggio a sud verso la linea del fronte, poco prima di iniziare a combattere.
Kien decide di scrivere un romanzo sulla vita vissuta, ma poi cambia idea e cerca di bruciarlo. Una ragazza muta che Kien conosce quando è ubriaco ed alla quale esprime i suoi pensieri, ottiene il testo dopo la sua partenza per destinazione incerta. Kien, nel libro, riflette sulle sue esperienze, sui molti sacrifici non riconosciuti, come quello della donna-guida militare Hoa che, vicino al Lago dei Coccodrilli, rinuncia alla sua vita per salvarlo dai soldati americani insieme ai suoi compagni feriti («Qualcuno muore perché qualcun altro sopravviva. Niente di più naturale, niente di più banale»), ma ricorda anche la sua prima uccisione personale, che avviene dopo aver assistito allo stupro di Phuong. Il romanzo si conclude con il racconto di un nuovo narratore, che spiega di aver ricevuto il romanzo di Kien dalla ragazza muta.
Il Dolore della Guerra – ha osservato un giornalista inglese - si eleva al di sopra delle rappresentazioni culturali della guerra del Vietnam, sia americane che vietnamite, piene di romanticismo e stereotipizzazione: «Si muove avanti e indietro nel tempo, e dentro e fuori dalla disperazione, trascinandoti giù mentre l'eroe-solitario ti guida attraverso il suo inferno privato nelle Highlands del Vietnam centrale, o sollevandoti quando il suo spirito si innalza. È un ottimo romanzo di guerra e un libro meraviglioso.» Il romanzo è stato spesso paragonato a Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque ed è stato anche definito “un romanzo di guerra e soprattutto di dopoguerra”, il cui protagonista, Kien, è certamente l’alter ego dell’autore: entrambi vogliono raccontare il dolore a chi vorrà ascoltarlo.
Kien – si legge nel romanzo - «scrive della guerra in modo personale, come se fosse stata una guerra sua e soltanto sua» e rammenta le parole che un vecchio gli rivolge quando sta per partire volontario: «Dunque parti per la guerra? Non che voglia dissuaderti, io sono vecchio, sappi solo che il dovere di un essere umano su questa terra è vivere, non immolarsi».
Dopo molti anni dalla fine della guerra, Kien torna ad Hanoi, «la città che cambiava volto di ora in ora, che tornava sé stessa di notte sotto la pioggia» ed inizia a frequentare un bar sul lago Hoan Kiem, ove si incontravano gli ex militari del “Club dei reduci”. Perché? Perché, spiega Kien come anche Bao Nihn avrebbe detto, «Mi aspetta una nuova vita..devo andare avanti. Ma la mia anima è ancora in tumulto. Il passato mi perseguita e mi imprigiona».
Memoria, testimonianze e ritratti di giuristi italiani del Novecento - a cura di Vincenzo Antonio Poso
Vita e opere di Gaetano Vardaro, intellettuale giuslavorista
Sommario: 1. La vita – 2. Le opere – 3. L’intellettuale giuslavorista – 4. Vardaro dopo Vardaro – 5. Minima personalia.
1. La vita
Gaetano Vardaro nacque a Montefalcione (AV) il 2 luglio 1949. Il padre, Libero, incarnava la tipica figura – oggi praticamente scomparsa – dell’erudito meridionale, conversatore colto e affascinante, e, tra l’altro, sensibile studioso di cose storiche; esercitò molta influenza sul figlio, che gli era legatissimo. Laureatosi in Giurisprudenza nel 1973 a Napoli, specializzatosi in diritto del lavoro nel 1975 a Roma, dove beneficiò di un contratto di ricerca, G.V. fu nel 1976 assegnista e nel 1981 ricercatore nell’Università di Salerno, inserendosi nel gruppo guidato da Fabio Mazziotti. Lì conobbe Anna Rita Marchitiello, che presto sarebbe divenuta sua moglie, dandogli l’unico figlio, Libero come il nonno.
In un’epoca nella quale la mobilità accademica era favorita e non ostacolata, nel 1982 si trasferì all’Università di Roma “La Sapienza”, per poter lavorare a più stretto contatto con Gino Giugni, da qualche anno suo imprescindibile referente scientifico e accademico, che lo aveva chiamato a far parte della redazione della rivista da lui fondata, il Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, della quale G.V. divenne in breve colonna portante e alla quale avrebbe regalato preziosi contributi.
Sempre da ricercatore, su sollecitazione di Umberto Romagnoli, l’altro studioso che ne aveva subito intuito le doti di studioso brillante e appassionato e al quale G.V. avrebbe costantemente fatto riferimento, approdò nel 1983 come professore a contratto nella Facoltà di Economia e commercio dell’Università di Urbino, primo docente non di scuola bolognese a insegnarvi il diritto del lavoro. La stagione urbinate fu breve, ma intensissima: G.V. vi lasciò un’impronta indelebile, il cui momento culminante fu l’organizzazione di uno straordinario seminario internazionale e interdisciplinare sul rapporto tra diritto del lavoro e corporativismi vecchi e nuovi (28-30 aprile 1986), che vide la presenza di alcuni dei più importanti giuslavoristi, sociologi, storici e scienziati politici italiani e stranieri: erano tempi in cui gli esperimenti di concertazione sociale avviati in Italia sembravano delineare un nuovo scenario delle relazioni industriali, trovando un referente teorico nel dibattito sul neocorporativismo; e in cui sembrava giunto il momento di avviare una riflessione critica sul ruolo svolto dalle dottrine corporative nella formazione e negli sviluppi del diritto del lavoro, soprattutto in un’Italia che, «in omaggio ad un antifascismo talvolta solo di maniera, aveva preferito rimuovere questo “peccato originale”» (Diritto del lavoro e corporativismi in Europa: ieri e oggi, Franco Angeli, 1988; qui l’introduzione, 15-30).
G.V., comunque, abitava sempre ad Avellino, sottoponendosi a faticosi spostamenti per raggiungere le Marche. E nella sua città, a cui era molto legato, viveva molto intensamente, continuando – come meglio si dirà in seguito – a dimostrarsi persona di cultura “a tutto tondo”.
A metà degli anni Ottanta, G.V., forte di due monografie appena pubblicate, partecipò contemporaneamente ai concorsi per professore associato e per professore ordinario. Il primo gli avrebbe consentito di consolidare la sua posizione all’Università di Urbino, che aveva bandito il posto, ma, com’era nell’ordine delle cose, arrivò subito, agli inizi del 1986, la vittoria in prima fascia. Perciò, dopo diverse vicissitudini accademiche, che lo amareggiarono non poco, fu chiamato da “straordinario” (come si diceva allora) all’Istituto universitario navale di Napoli, l’odierna Università “Parthenope”. Mantenne, però, a costo di notevoli sacrifici, una supplenza nell’amata Urbino. Anche in quel bel palazzo in riva al mare accanto al Maschio Angioino, dove rimase per pochissimi mesi, G.V. lasciò un segno profondo, organizzando nella primavera del 1988 un memorabile convegno internazionale sullo sciopero nei servizi pubblici in Europa, tema caldissimo di quel momento (Sciopero e servizi pubblici in Europa, Esi, 1989), incurante tra l’altro delle critiche che gli piovvero addosso perché di lì a pochi giorni il congresso nazionale dell’Associazione italiana di diritto del lavoro avrebbe avuto ad oggetto proprio il tema del conflitto collettivo.
Nell’estate del 1988 G.V. si recò a studiare negli Stati Uniti, quasi a seguire le orme del suo maestro di elezione, Gino Giugni, che alla fine degli anni Cinquanta, frequentata la scuola dell’istituzionalismo economico nell’Università del Wisconsin, aveva poi gettato le basi per il rinnovamento metodologico del diritto del lavoro italiano. Purtroppo, invece, per G.V. il ritorno dalla “Harvard” precedette di poco il gesto estremo con cui si chiuse la sua breve e intensa esistenza il 25 ottobre 1988.
2. Le opere
La produzione scientifica di G.V. si concentra in una dozzina d’anni, dal 1976 al 1988. Essa, comunque, appare estremamente ricca e poliedrica, sempre proiettata alla ricerca delle radici ideali e culturali del diritto del lavoro, che affondavano soprattutto nell’esperienza weimariana. Fin da subito, infatti, le coordinate della ricerca di G.V. furono costituite dalla storia del pensiero giuridico e dalla straordinaria passione per la cultura tedesca e per i giuristi weimariani in particolare. Primo terreno di elezione su cui sondare le direttrici di tale progetto scientifico fu la tematica dell’inderogabilità del contratto collettivo, i cui risvolti in termini di politica del diritto G.V. indagò con cura – e con grande attenzione al dibattito tedesco –, relativamente all’epoca liberale e a quella corporativa, in due importanti saggi usciti sulle riviste di Gino Giugni e di Giovanni Tarello (L’inderogabilità del contratto collettivo e le origini del pensiero giuridico-sindacale, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 1979, 537-584; Le origini dell’art. 2077 cod. civ. e l’ideologia giuridico-sindacale del fascismo, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1980, 437-469).
Lo studio dei classici weimariani indusse G.V. a tradurli e a farli conoscere in Italia, dove allora davvero in pochi ne avevano presente il ruolo, se non addirittura l’esistenza. Si trattò innanzitutto di importare il fecondissimo – e talvolta spigoloso – dibattito scientifico che i giuslavoristi della “Repubblica incantata” ingaggiarono prima di disperdersi per il mondo all’avvento del nazismo. Con Gianni Arrigo, G.V. curò pertanto l’antologia Laboratorio Weimar. Conflitti e diritto del lavoro nella Germania prenazista (Edizioni Lavoro, 1982), assolutamente aliena dall’azzardare simmetrie o profezie fuori luogo e allo stesso tempo portatrice di una linea diversa rispetto alla (forse tardiva) riscoperta che stava contemporaneamente avvenendo in una Repubblica federale tedesca troppo propensa a dimenticare in fretta, se non a rimuovere: l’originalità stava già nella scelta, oltre che dei “classici” (Sinzheimer, Fraenkel, Neumann, Kahn-Freund), anche di brani di autori scomodi e polemici come Karl Korsch. I contorni di quel substrato ideologico e scientifico all’interno del quale il “corporativismo” costituiva espressione di autonomia e pluralismo, lungi evidentemente dalle deviazioni semantiche che lo avrebbero legato necessariamente alle esperienze fasciste, emergeva forse ancora più nitidamente nella corposa antologia che l’anno successivo G.V. dedicò specificamente a uno dei giuslavoristi tedeschi dai percorsi più problematici, Franz Neumann (Il diritto del lavoro fra democrazia e dittatura, Il Mulino, 1983).
Subito dopo per G.V. iniziò una fase di grande concentrazione, in vista della pubblicazione di quel lavoro monografico che ne potesse corroborare un successo concorsuale. Il tema era quello prediletto del contratto collettivo, e di libri ne uscirono due. Il primo (Contrattazione collettiva e sistema giuridico, Jovene, 1984) era originale in maniera sorprendente, perché applicava al tema le teorie dei sistemi elaborate da Niklas Luhmann, sottoponendole a costante confronto con le prospettive ordinamentali di Gino Giugni: un libro difficile e duramente dogmatico, dalle premesse e dagli sviluppi sicuramente discutibili. L’altra monografia (Contratti collettivi e rapporto individuale di lavoro, Franco Angeli, 1985), al confronto, era molto più tradizionale: eppure in essa, sempre seguendo il fil rouge “storico” dell’inderogabilità, G.V. chiudeva mirabilmente il cerchio delle sue ricerche sul tema, proponendo conclusioni mai scontate, quando non esplicitamente innovative.
In quella metà degli anni Ottanta, uno dei temi trainanti il dibattito giuslavoristico fu quello dell’impatto dell’innovazione tecnologica nel mondo del lavoro, alcune delle cui certezze sembrarono vacillare di fronte alla velocità e alla portata dei cambiamenti. G.V. non si sottrasse certo a queste discussioni; anzi, vi contribuì con un saggio memorabile, di taglio praticamente monografico (Tecnica, tecnologia e ideologia della tecnica nel diritto del lavoro, in Politica del diritto, 1986, 75-140), nel quale l’approccio storico e la profondità teorica si fondevano a comprendere il nuovo tema in modo davvero singolare, in un affascinante viaggio tra realtà passate, situazione del momento e prospettive future.
Salito in cattedra, G.V. non tirò affatto i remi in barca, come accade a tanti in quella situazione. Anzi, se possibile, intensificò ancor più i ritmi di lavoro, che si fecero convulsi, scoprendo nuovi oggetti di indagine, senza però tralasciare di coltivare il tradizionale filone storico. Suo nuovo punto di riferimento divenne allora Paolo Grossi e la sua scuola fiorentina, sulla cui rivista pubblicò un’acuta indagine, scritta con Bruno Veneziani, sugli inizi della giuslavoristica italiana ricostruiti attraverso le pagine di uno dei più noti periodici dell’epoca (La «Rivista di diritto commerciale» e la dottrina giuslavorista delle origini, in Quaderni fiorentini, 1987, 441-483), mentre in una collana della stessa rivista uscì – postumo – un volume che raccoglieva gli scritti dell’ennesimo giurista polemico, Thilo Ramm, sulle diverse tappe della storia del diritto del lavoro tedesco (Per una storia della costituzione del lavoro tedesca, Giuffrè, 1989).
La ricerca instancabile, a volte frenetica, di nuovi percorsi di studio portò G.V. a frequentare maggiormente il mondo anglosassone e a sconfinare nei campi della sociologia e delle relazioni industriali, sempre coniugate con il suo tradizionale retroterra storico-giuridico.
Ne vennero fuori una lezione dal profondo impianto teorico all’Istituto universitario europeo di Fiesole sul rapporto di lavoro nelle società collegate, lette come forma organizzativa degli interessi imprenditoriali (Before and Beyond the Legal Person: Trade Unions, Group Enterprises and Industrial Relations, in Sugarman, Teubner, eds., Governance in Group Enterprises, Nomos, 1990, 217-251), al di fuori dei falsi pericoli delle teorie della persona giuridica (Chi ha paura della persona giuridica?, in Il progetto, 1988, 48, 102-106); e gli originali studi sulla giuridificazione, innanzitutto con un intervento breve ma molto denso, nel quale G.V. si preoccupava di portare chiarezza su un tema viziato da polemiche ed equivoci ingeneratisi tra studiosi nordamericani e tedeschi (Giuridificazione, colonizzazione e autoreferenza nel diritto del lavoro, in Politica del diritto, 1987, 601-610); per poi applicare originalmente queste categorie teoriche a un classico tema tecnico del rapporto di lavoro, quale il potere disciplinare (Il potere disciplinare giuridificato, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 1986, 1-42).
La mai abbandonata attenzione allo studio dei percorsi dei giuslavoristi weimariani si spostò, infine, su un tema molto particolare, cioè la verifica dell’esistenza – ed eventualmente dell’importanza – di radici ebraiche del diritto del lavoro. Il programma era già stato scritto («Arbeitsverfassung» ovvero la stella dell’assimilazione, in Sociologia del diritto, 1987, 17-39) e la tesi di fondo era – come d’abitudine – affascinante, provocatoria e discutibile. La ricerca necessitava ovviamente di approfondimenti, per cui G.V. accettò di buon grado – e con molto orgoglio – l’invito a recarsi per quel soggiorno di studi alla “Harvard”, al termine del quale tutto finì.
Il suo percorso si trasformò anch’esso in quello Holzweg heideggeriano – una viuzza di montagna stretta e infida, metafora di un (troppo) breve attraversamento – al quale egli volle paragonare l’itinerario giuslavoristico di Franz Neumann (Oltre il diritto del lavoro: un Holzweg nell’opera di Franz Neumann, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1983, 505-537).
3. L’intellettuale giuslavorista
G.V. «non è stato – in realtà – un giuslavorista, ma un erudito geniale che nel suo breve percorso esistenziale ha incontrato il giuslavorismo». L’affermazione di Luigi Mariucci (Il diritto del lavoro e il suo ambiente, in Scritti in onore di Giuseppe Federico Mancini, I, Giuffrè, 1998, 335-356) coglie assolutamente nel segno. Lo studio del diritto del lavoro non era mai per G.V. un fatto meccanicamente tecnico, ma costituiva una splendida occasione per approfondire la cultura europea delle idee. Nel tema trattato, egli trasfondeva naturalmente l’enorme curiosità intellettuale derivata dalle sue letture, testimonianza di un’erudizione fuori dal comune, imbevuta per lo più di studi extragiuridici (la sua biblioteca personale era ricchissima di libri, ben ordinati tematicamente, di discipline disparate, delle quali era capace di individuare legami insospettabili).
Per i più “puristi”, naturalmente, ciò poteva anche non costituire un pregio; essi, però, tendevano a dimenticare che G.V. si era brillantemente confrontato più volte anche con le tecnicalità più spinose della materia; e che – per dirla con Umberto Romagnoli – quella «vivacità degli interessi culturali ai limiti della sregolatezza», che «lo predestinava a esibire di sé l’immagine dell’irrequieto intellettuale del Sud», era stata invece disciplinata e indirizzata dall’incontro con Giugni (Ricordando Weimar con Gaetano Vardaro, in Giuristi del lavoro nel Novecento italiano. Profili, Ediesse, 2018, 251-259 e 333-334).
G.V è stato, dunque – continuando con Romagnoli –, un «giurista atipico», perché appartenente a «una generazione inquieta […] che le rassicuranti certezze dogmatiche del passato, prossimo o remoto, riescono appena a sfiorare, ma che – figlia di una società “senza vertice e senza centro”, secondo la formula luhmaniana assai cara a Vardaro – sa di essere a sua volta incapace di produrne di nuove, vincenti o convincenti. Cosa di cui soffre, e si vede» (Gaetano Vardaro, un giurista atipico, in Zanelli, a cura di, Gruppi di imprese e nuove regole, Franco Angeli, 1991, 21-33).
G.V. è sempre stato agli antipodi rispetto all’immagine dello studioso chiuso nella turris eburnea: sentiva anzi il bisogno di socializzare, di discutere ogni sua idea. Questa sua vocazione di “propagandista” culturale lo portò a essere assiduo frequentatore di convegni, mai per semplici passerelle. Qui emergeva un altro fondamentale tratto costitutivo della personalità di G.V., cioè il suo essere profondamente anticonvenzionale, caratteristica che si riverberava naturalmente anche nella dimensione professionale.
Perciò, se in generale la sua produzione scientifica fu largamente eterodossa, i suoi interventi ai convegni, forzatamente ristretti in angusti limiti di tempo, furono sempre particolarmente incisivi e spregiudicati (si possono ricordare, per tutti, l’incontro bolognese sulla rappresentanza sindacale: Nuove regole dell’organizzazione sindacale, in Lavoro e diritto, 1988, 218-234, e il convegno trentino sulla subordinazione: Subordinazione ed evoluzionismo, in Pedrazzoli, a cura di, Lavoro subordinato e dintorni, Il Mulino, 1989, 101-109), molto spesso polemici e provocatori, come ad esempio quello al convegno Aidlass di Fiuggi del 1988 (Verso la codificazione del diritto di sciopero, in Aa.Vv., Lo sciopero: disciplina convenzionale e autoregolamentazione nel settore privato e pubblico, Giuffrè, 1989, 221-228). Naturalmente, non appena ebbe la forza accademica per farlo, G.V. i convegni iniziò a organizzarli “in proprio”, come si è visto a proposito di quello urbinate sui corporativismi e di quello napoletano sullo sciopero.
Un’altra caratteristica che va sempre tenuta presente per cercare di comprendere la personalità umana e scientifica di G.V. è costituita dalle sue radici.
Vivere in “provincia” ha avuto per lui innanzitutto il risvolto positivo dell’attaccamento alla città, con la conseguenza di diventare persona sensibilmente impegnata nel suo contesto sociale, attiva politicamente (nel partito socialista di unità proletaria, che nel 1972 confluì nel partito comunista) e assai entusiasta e competente nell’organizzazione di manifestazioni culturali, per lo più nel campo musicale: per Avellino, fin dagli anni Settanta, grazie a lui passarono mostri sacri della musica classica come Claudio Abbado, Maurizio Pollini, Bruno Canino, Luciano Berio, Luigi Nono, Severino Gazzelloni, o del jazz come Giorgio Gaslini, o del rock come Lou Reed. Sull’altro versante, invece, le origini lo hanno sempre segnato nel suo sentirsi un outsider (oggi si direbbe un underdog), facendogli vivere ogni sua affermazione in termini di sofferta rivincita del self-made man nei confronti di chi invece partiva già da solidi piedistalli. In uno dei suoi ultimi contributi, G.V. ripercorse la vicenda di un illustre avellinese, il meridionalista Guido Dorso, delineando i tratti del suo rapporto conflittuale col mondo del diritto, relegato in una sfera nascosta e particolare della sua vita, ed evidenziandone quindi l’emigrazione “interna”, tanto simile – a suo dire – a quella degli studiosi weimariani (Guido Dorso giurista: ovvero Kafka in provincia, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1989, 503-515).
G.V. aveva così – forse inconsapevolmente – scritto la sua autobiografia di “studioso di provincia”: la stessa autobiografia, problematica e lacerante, che è andato scrivendo quando ha studiato Weimar o l’ebraismo.
Alla fine, nessuno meglio di Gino Giugni ha tratteggiato un ritratto autentico di G.V., quando ne pianse la scomparsa coi lettori della sua rivista: «Gaetano Vardaro non parteciperà più agli incontri della nostra redazione. Non leggeremo più i suoi saggi su questa rivista, che si onora di aver ospitato i primi di essi, quelli che subito lo imposero all’attenzione della comunità scientifica. Ci ha privato della sua impegnata collaborazione, della sua entusiastica fiducia nella ricerca e del suo appassionato rigore filologico, della sua eccezionale fantasia progettuale, della sua rara capacità di accumulare una sconfinata cultura storico-filosofica, e precipitarne il concentrato nell’analisi del diritto positivo. […] è stato un autore originale e forse unico, per la sua innata tendenza ad osservare il fenomeno particolare nella totalità culturale, in questo certamente degno erede della miglior tradizione intellettuale del nostro Mezzogiorno. Per questo possiamo anche affermare che ha rappresentato un tipo di giurista sui generis, non facilmente riproducibile» (Ricordo di Gaetano Vardaro, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 1988, VII-VIII).
4. Vardaro dopo Vardaro
L’impatto della prematura scomparsa di G.V. sul mondo del diritto del lavoro fu piuttosto forte. Anche chi era più lontano dal suo modo di approcciare il diritto del lavoro, spesso criticamente provocatorio, ne riconosceva comunque la cultura e la genialità. Numerosi furono i ricordi pubblicati a caldo sulle riviste da parte di chi gli era stato più vicino. Chi scrive, insieme con Anna Rita Marchitiello, curò subito un’antologia dei suoi scritti, non a caso intitolata Itinerari (Franco Angeli, 1989): un esplicito invito a continuare a percorrere i suoi sentieri impervi, bruscamente interrotti ma sempre aperti per chi avesse avuto desiderio di seguirli.
A poco più di un anno dalla morte, il 1° dicembre 1989, la “sua” Università di Urbino volle commemorare G.V. con un convegno su uno degli ultimi temi da lui trattati (Zanelli, a cura di, Gruppi di imprese e nuove regole, cit.). Così come fece dieci anni più tardi, il 23 aprile 1999, con un incontro aperto da un intervento di Umberto Romagnoli, che sottolineava l’importanza dei suoi studi e delle sue soluzioni anche a distanza di tempo (L’opera di Gaetano Vardaro, oggi, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 1999, 1-8; poi compreso tra i profili dei Giuristi del lavoro nel Novecento italiano, cit.). Più tardi, G.V. venne annoverato tra i maestri che avevano illustrato l’Ateneo urbinate nel secolo scorso (Pascucci, Gaetano Vardaro, in Tonelli, a cura di, Maestri di Ateneo. I docenti dell’Università di Urbino nel Novecento, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, 2013, 547-553).
Col trascorrere degli anni, venne il tempo delle riletture. Il 4 e 5 marzo 2010, all’Università di Brescia si svolse un convegno dedicato alla memoria di G.V., nel quale si discusse del tema a lui più caro, l’autonomia collettiva (gli interventi in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2010, 303-399); in quell’occasione, Roberto Romei dedicò un’approfondita analisi al riesame delle due monografie di G.V. sul tema, ripercorrendo poi criticamente gli sviluppi dottrinali successivi (L’autonomia collettiva nella dottrina giuslavoristica: rileggendo Gaetano Vardaro, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2011, 181-223).
Il 14 giugno 2014, l’associazione “SU & giù – giuslavoristi di Siena e Urbino”, fondata da chi scrive, organizzò a Urbino una rilettura del saggio di G.V. sui rapporti tra tecnologia e diritto del lavoro, affidandola a Luca Nogler, che pose in luce la perdurante attualità delle sue riflessioni sull’impatto che l’evoluzione della tecnica esercita sulla gestione del tempo della vita delle persone (Tecnica e subordinazione nel tempo della vita, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2015, 337-357). Più di recente, il ciclo di “letture e riletture” promosso da Oronzo Mazzotta all’Università di Pisa ha visto il 19 aprile 2023 Marco Novella analizzare in profondità gli scritti di G.V. sull’inderogabilità del contratto collettivo, dei quali ha evidenziato le inevitabili obsolescenze ma anche le significative eredità metodologiche e culturali (Gaetano Vardaro e l’inderogabilità del contratto collettivo, in Mazzotta, a cura di, Introduzione al diritto sindacale. Letture e riletture. Volume 2, Giappichelli, 2024, 19-37).
È interessante da ultimo ricordare che quando, a maggio 2025, è rinata – sotto la direzione di Antonio Di Stasi – una rivista giuslavoristica che negli anni Ottanta del Novecento aveva interpretato un importante ruolo di contropotere culturale, si è potuto scoprire che il suo articolo di apertura consisteva in un lungo inedito di G.V. sulle sanzioni civili e sull’art. 28 dello statuto dei lavoratori, ripescato da Anna Rita Marchitiello tra le carte del marito e donato a Giorgio Fontana (Rivista critica di diritto del lavoro, 2025, 11-62).
La cosa più importante, però – e lo sottolinea Fontana, cui non fa sicuramente velo l’origine irpina –, è che ancora oggi «continuiamo a leggere, amare ed utilizzare» le opere di G.V. Non è frequente, infatti, che saggi di quaranta e più anni fa, il cui autore non c’è più da quasi altrettanto tempo, continuino a essere ampiamente citati dagli studiosi di diritto del lavoro, che ormai solo in pochissimi casi hanno conosciuto chi li ha scritti.
Le monografie sul contratto collettivo restano ancora una lettura obbligata per chi intenda occuparsi della materia, mentre il saggio sulla tecnologia è diventato ormai un classico, che sta peraltro rivivendo un suo momento d’oro in tempi di intelligenza artificiale; chiunque, anche solo di passaggio, accenni al diritto del lavoro di Weimar non può prescindere dal ricordare chi ebbe il merito di farne conoscere i protagonisti al pubblico italiano; e anche i suoi scritti più severamente teorici, per non dire di quelli di taglio squisitamente storico, continuano a figurare costantemente nelle citazioni.
Eppure, tutta la produzione di G.V. non è certo il classico esempio di “dottrina dominante”, ma esprime praticamente sempre un pensiero critico e anticonformista: opinioni originali, che definire “minoritarie” è poco.
5. Minima personalia
Gli autori di questo ricordo sentono di essere in qualche modo gli unici allievi lasciati da G.V., senza che naturalmente lui ne sia mai stato consapevole. L.G., ancora studente a Salerno, ne divenne subito «amico e compagno di percorsi», venendone indirizzato agli studi storici e alla conoscenza del mondo tedesco; P.P. venne attratto inesorabilmente nella sua orbita, diventandone il braccio destro a Urbino e ricevendone l’incoraggiamento a prendere la strada della ricerca universitaria.
La scomparsa del comune punto di riferimento significò per entrambi un distacco insopportabile, che li costrinse, però, nella ricerca di una precoce autonomia, a camminare più saldamente solo con le proprie gambe sostenendosi a vicenda. Col tempo, quella ferita difficilmente rimarginabile significò per loro il cementarsi di una profonda e duratura amicizia, non limitata alla sola sfera privata, ma fatta anche di ricerche comuni, di solidarietà e affinità istintive, di pubblicazioni “a quattro mani”, di inserimento in circuiti accademici e scientifici condivisi, della costituzione di una benemerita associazione. Quel che siamo stati dopo, lo siamo stati “per” lui (Gaeta, Pascucci, Da Salerno a Urbino “per” Avellino. Un ricordo comune di Gaetano Vardaro, Aras, 2010).
Successione a titolo particolare nel diritto controverso e trasferibilità dell'interesse legittimo. Il caso della cessione di esercizio farmaceutico (nota a Consiglio di Stato, Sezione III, 8 gennaio 2025, n. 104)
di Clotilde Angela Caforio
Sommario: 1. Premessa; 2. I fatti di causa; 3. Posizioni della dottrina; 4. Considerazioni finali.
1. Premessa
La sentenza in esame merita di essere segnalata per una interessante applicazione dei principi in tema di trasferibilità dell’interesse legittimo[i] e della conseguente successione a titolo particolare[ii] ex art. 111 c.p.c[iii].
Nell’affermare che la regola generale è quella della non trasferibilità dell’interesse legittimo e che la stessa è tuttavia passibile di eccezioni, la sentenza muove dalla considerazione secondo cui, al fine di ammettere o negare la trasferibilità dell’interesse legittimo, occorre innanzi tutto distinguere l’interesse legittimo quale situazione giuridica sostanziale legittimante l’iniziativa processuale, dalla posizione sottostante cui esso inerisce, potendo essere costituita anche da una situazione di diritto soggettivo. Precisa poi come, per aversi translatio, sia necessario che l’interesse legittimo sia relativo al patrimonio giuridico del disponente in cui sono possibili fenomeni di successione e, dunque, sussista una stretta inerenza dell’interesse legittimo alla situazione soggettiva sottostante. Solo in questa eventualità, secondo la decisione, sarà possibile la veicolazione della titolarità della medesima situazione di interesse legittimo già esistente nel patrimonio del soggetto coinvolto dall’esercizio del potere amministrativo a favore del terzo successore.
Muovendo da tali premesse, il Consiglio di Stato esclude l’applicabilità dell’art 111 c.p.c. perché ritiene che il trasferimento della titolarità di farmacia integri una fattispecie mista o complessa, che si perfeziona non soltanto con l’atto di cessione tra privati, ma richiede necessariamente anche l’atto amministrativo di assenso: l’interesse legittimo, si legge nella sentenza, non transita «unitamente o simultaneamente alla titolarità del bene o diritto soggettivo sottostante (la proprietà dell’azienda farmaceutica), poiché esso in realtà si estingue in capo al soggetto cedente e si ricostituisce in una consistenza nuova e diversa in capo al cessionario, per effetto delle verifiche di idoneità soggettiva che l’Amministrazione è tenuta a compiere prima di autorizzare il trasferimento dell’autorizzazione».
2. I fatti di causa
Al fine di meglio comprendere l’importanza del principio affermato, è opportuno ricostruire la vicenda che è all’origine della pronuncia e lo svolgimento del giudizio di primo e di secondo grado.
La parte ricorrente in primo grado, già titolare della sede farmaceutica, impugnava una serie di atti, tra cui il diniego al trasferimento adottato dalla Regione Campania in considerazione del fatto che i locali individuati per l'esercizio dell'attività farmaceutica non coincidevano più con quelli originari. Il Tribunale amministrativo dichiarava improcedibile il ricorso, ravvisando la perdita dell’interesse ad agire attuale e concreto al trasferimento della sede farmaceutica, in quanto il ricorrente aveva ceduto il diritto alla sede farmaceutica ad altri e per questo non avrebbe potuto più trarre alcuna utilità dalla definizione del giudizio, sottolineando l’impossibilità della trasmissibilità di un eventuale interesse legittimo pretensivo per atto “inter vivos” in capo al nuovo titolare.
Secondo il giudice di prime cure, infatti, in caso di successione a titolo particolare nel rapporto controverso il processo prosegue tra le parti originarie ai sensi dell’art. 111 comma 1 c.p.c., ma non sarebbe sotto questo profilo possibile assimilare un diritto soggettivo ad un interesse legittimo, in quanto si tratta di posizioni giuridiche diverse che hanno pertanto distinti riflessi sul piano della trasmissibilità[iv]. Nell’ipotesi in cui in pendenza di termine per il ricorso giurisdizionale avverso provvedimento amministrativo il titolare dell'interesse legittimo venisse a mancare, secondo il giudice di prima istanza sarebbe da escludere la possibilità che i suoi aventi causa siano legittimati all'impugnazione dell'atto tutte quelle volte che l’oggetto della causa si presenti come mera utilitas - cioè possibilità di ottenere dall'esercizio del potere amministrativo un “risultato utile” - senza incidere su situazioni giuridiche già consolidate nel patrimonio del soggetto istante e non potrebbe, pertanto, ammettersi l’esercizio del potere di azione a tutela dell'interesse legittimo pretensivo, proprio perché vi sarebbe intrasmissibilità di tale posizione giuridica.
Il TAR ha conclusivamente ritenuto che, anche se fosse ammissibile la trasmissibilità della posizione di interesse legittimo in capo ad eredi o aventi causa del titolare originario, considerato il grado di autonomia di cui gode il rapporto amministrativo, sarebbe in ogni caso da escludere che ciò possa avvenire in modo automatico. Il lato, per così dire, esterno dell'interesse legittimo - cioè la relazione tra soggetto e pubblica amministrazione, avente come riferimento un bene della vita - distinto dal suo lato interno - cioè il rapporto tra un soggetto ed il medesimo bene - potrà essere soggetto di un’automatica successione tutte volte in cui l'individuazione del successore avvenga in applicazione di criteri predefiniti, come in caso di successione mortis causa in universum ius o di fallimento. Quando, invece, la vicenda circolatoria trovi causa in un atto espressione di autonomia negoziale inter vivos, occorre che, attraverso una manifestazione espressa di volontà, il nuovo titolare confermi il carattere attuale dell'interesse legittimo. La possibilità di prosecuzione del giudizio tra le parti originarie, quale effetto della successione a titolo particolare nel rapporto controverso, è stata conseguentemente esclusa in base al carattere personale e diretto dell’interesse legittimo, che ne determinerebbe l’intrasferibilità[v].
La decisione di primo grado è stata confermata dalla sentenza del Consiglio di Stato oggetto della presente nota, che, come già accennato, ha precisato come il trasferimento di farmacia dia luogo ad una fattispecie complessa che si perfeziona non con il solo atto di cessione tra privati, ma richiede anche l’intervento dell’atto amministrativo di assenso; con conseguente esclusione della possibilità di ritenere che l’interesse legittimo transiti automaticamente unitamente alla titolarità del bene sottostante.
Nella pronuncia, il Consiglio di Stato dà atto che quello della trasferibilità dell’interesse legittimo e della conseguente configurabilità della successione a titolo particolare ex art 111 c.p.c. sono temi assai controversi in giurisprudenza[vi]richiamandola[vii].
In primis viene richiamata la sentenza del Consiglio di Stato n. 1403 del 2013, che considera regola generale la non trasferibilità dell’interesse legittimo, in quanto «l’interesse è personale» e «si appunta solo in capo al soggetto che si rappresenta come titolare»[viii]. Tuttavia, questa regola ammetterebbe eccezioni in virtù delle quali è necessario distinguere «tra casi in cui il “contatto” tra interessato e potere amministrativo è intervenuto in riferimento ad aspetti del suo patrimonio giuridico in cui sono possibili fenomeni di successione, da casi in cui tale contatto attiene a profili personali, e non trasmissibili, dello stesso patrimonio giuridico»[ix].
La pronunzia in commento riporta, poi, anche indirizzi giurisprudenziali che ammettono la “cessione a titolo particolare” dell’interesse legittimo, sia isolatamente che unitamente al trasferimento di un diritto soggettivo sottostante.
Vengono richiamate da una parte, la pronuncia Consiglio di Stato, Sez. VI, 30 novembre 2020, n. 7520, la quale precisava che le fattispecie considerate non trasmissibili in base all’orientamento del 2013 si spiegano «non nella logica del divieto di cessione quanto per la normale mancanza dell’interesse a ricorrere»[x], e dall’altra, pronunce[xi] che, ritenendo l’art. 111 c.p.c. applicabile anche nel processo amministrativo, implicitamente risolvono in senso favorevole la questione pregiudiziale dell’ammissibilità di una successione a titolo particolare anche nella titolarità dell’interesse legittimo.
Visto tutto ciò, il Consiglio ha ritenuto di condividere l’impostazione data in Cons. Stato, sez. IV, 15 novembre 2011, n. 1403, ritenendo che sono proprio i tratti caratteristici della fattispecie in questione che giustificano la soluzione come prospettata in primo grado, anche se in base ad un percorso motivazionale parzialmente differente da quello del TAR.
Il primo giudice aveva basato la propria decisione partendo dall’assunto secondo cui è necessario distinguere l’interesse legittimo quale situazione giuridica sostanziale che legittima l’iniziativa processuale, dalla posizione sottostante cui esso inerisce e che può essere costituita anche da una situazione di diritto soggettivo: negli esempi riportati nella sentenza n. 1403 del 2013 nei quali si ammette la trasmissibilità dell’interesse legittimo, come la successione nella proprietà di un’area interessata da un esproprio, ciò che viene trasmesso è in realtà detta posizione sottostante, cioè il diritto soggettivo sul bene immobile interessato dalla procedura espropriativa. Dunque, la traslazione in capo al cessionario dell’interesse legittimo è soltanto una conseguenza del fatto che, per effetto della successione, è mutato il soggetto che sarà interessato e coinvolto dall’esercizio del potere amministrativo.
Allo stesso modo, il Consiglio prendeva in analisi il caso trattato in Cons. Stato, sez. VI, 15 ottobre 2020, n. 7520, il cui oggetto era un’impugnativa di diniego di autorizzazione paesaggistica alla recinzione del fondo, dove si verificava analoga successione nell’interesse legittimo pretensivo unitamente e come conseguenza del trasferimento del diritto soggettivo avente ad oggetto il bene interessato dall’intervento di recinzione.
Considerato tutto questo, ciò che rileva secondo la pronunzia in commento è che, ai fini di detta translatio, ci sia una stretta inerenza tra l’interesse legittimo e la posizione giuridica sottostante, poiché è solo questa stretta inerenza al bene/diritto trasferito che determina la veicolazione in via immediata e diretta della titolarità della medesima situazione di interesse legittimo già esistente nel patrimonio del soggetto coinvolto dall’esercizio del potere amministrativo.
Per quanto attiene alla fattispecie in analisi, il giudice ritiene di non concordare con la parte appellante, che sostiene come l’interesse legittimo dovrebbe intendersi trasferito per effetto del trasferimento del “bene farmacia”, e che, dunque, andrebbe applicato l’art 111 c.p.c., avendo così la prosecuzione del giudizio nei confronti dell’originario ricorrente.
Questo perché, in primis, oggetto della cessione è l’autorizzazione all’esercizio dell’attività farmaceutica[xii] e non la sola azienda farmaceutica[xiii]. Inoltre, ai fini del valido trasferimento della titolarità della farmacia, occorrono ex lege sia il contestuale trasferimento dell’azienda ovvero della sede farmaceutica sia l’autorizzazione al trasferimento da parte dell’Amministrazione, rilasciabile all’esito della verifica di idoneità del farmacista subentrante.
Dunque, il trasferimento del bene aziendale costituisce una mera vicenda negoziale privata, rilevante quale presupposto per l’esercizio del potere amministrativo, ma è solo per effetto di quest’ultimo impulso pubblicistico che un soggetto diverso da quello originario può subentrare nella titolarità dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività farmaceutica. Il Consiglio definisce le fattispecie come questa miste o complesse, in quanto si perfezionano al ricorrere di un atto di cessione privata e di un atto amministrativo, che riguarda la qualità soggettiva del subentrante.
Ciò porta ad escludere che l’interesse legittimo transiti unitamente o simultaneamente alla titolarità del bene o diritto soggettivo sottostante (la proprietà dell’azienda farmaceutica), in quanto esso si estingue in capo al soggetto cedente e si ricostituisce in una consistenza nuova e diversa in capo al cessionario per effetto delle verifiche di idoneità soggettiva che l’Amministrazione compirà prima di concedere il trasferimento dell’autorizzazione.
L’esclusione dell’applicabilità dell’art. 111 c.p.c. consegue, quindi, al fatto che nel corso del giudizio non c’è stato il trasferimento del medesimo interesse legittimo in origine sussistente in capo al ricorrente, ma quell’interesse si è estinto ed è venuto ad esistenza un interesse nuovo in capo al suo avente causa.
Tutto ciò, peraltro, non porta a negare la presenza di strumenti di tutela in capo a quest’ultimo, poiché proprio l’effetto novativo di questa vicenda traslativa abilita il subentrante a far valere la sua posizione soggettiva, originaria e non derivata, attraverso la proposizione di una autonoma istanza di trasferimento e successivi eventuali strumenti di tutela giudiziale, senza che le sue ragioni siano pregiudicate dalle iniziative precedentemente assunte dal suo dante causa.
3. Posizioni della dottrina
La diversità di orientamenti sul tema della trasferibilità dell’interesse legittimo non è un problema soltanto della giurisprudenza, ma contraddistingue anche la teorizzazione dottrinale.
Una delle principali ragioni per cui parte della dottrina e della giurisprudenza ha sostenuto l’indisponibilità e, dunque, l’intrasferibilità dell’interesse legittimo è la contrapposizione dei caratteri dell’interesse legittimo rispetto a quelli del diritto soggettivo[xiv]. Ciò, nonostante il riconoscimento della risarcibilità dell’interesse legittimo[xv], che ha attenuato le differenze tra le due situazioni giuridiche soggettive.
Tra le tesi che negano la trasferibilità dell’interesse legittimo si possono distinguere almeno due orientamenti che sottolineano la presenza di differenze tra diritti soggettivi e interessi legittimi.
In primis, l'indisponibilità dell'interesse legittimo viene ricondotta alla sua qualificazione come posizione giuridica soggettiva di natura strumentale[xvi], finalizzata alla tutela dell'interesse pubblico e caratterizzata da una dimensione essenzialmente processuale, piuttosto che sostanziale[xvii]. Tale impostazione - invero datata - si allinea alle teorie che descrivono l'interesse legittimo come una situazione giuridica protetta in maniera indiretta o meramente occasionale[xviii]. Da questa concezione discende la conseguenza che la protezione dell'interesse legittimo sia subordinata alla realizzazione dell'interesse pubblico perseguito dal potere amministrativo.
L'idea di una correlazione tra gli interessi tutelati dall'amministrazione e l'interesse legittimo appare coerente con il principio della non transigibilità dei rapporti giuridici amministrativi nei quali il potere amministrativo e l'interesse legittimo risultano inscindibilmente connessi[xix]. Questa prospettiva interpreta il rapporto tra interesse legittimo e potere amministrativo come due aspetti complementari di un medesimo fenomeno, entrambi orientati alla salvaguardia dell'interesse pubblico e alla legittimità dell'azione amministrativa. Di conseguenza, l'indisponibilità dell'interesse legittimo si fonda sulla stessa logica che caratterizza l'indisponibilità del potere amministrativo[xx]: poiché quest'ultimo è vincolato al perseguimento dell'interesse pubblico, anche l'interesse legittimo non può essere considerato disponibile, essendo tutelato solo in maniera riflessa attraverso il rispetto dei principi di legalità e buon andamento dell'azione amministrativa.
A questo orientamento se ne contrappone un altro che, invece, si basa sulla natura personale e/o diretta della posizione giuridica soggettiva, impostazione seguita da chi sostiene il carattere infungibile del rapporto cittadino-amministrazione[xxi]. In base a ciò, una parte della dottrina, pur senza negare espressamente la trasferibilità dell’interesse legittimo in capo a un terzo, evidenzia tuttavia come, quando mutano le parti di un procedimento amministrativo, mutano anche gli interessi privati coinvolti in esso. Dunque, tranne che al momento della cessione, l’interesse legittimo in capo al terzo non sarebbe lo stesso, ma «si conformerebbe autonomamente, proprio in quanto il momento di confronto con il potere non può essere indifferente se rapportato alla sfera soggettiva di un soggetto piuttosto che di un altro»[xxii].
Ciò, di fatto, significa sostenere che l’interesse legittimo non sia davvero trasmissibile, in quanto personale, posto che il terzo diverrebbe titolare di una posizione giuridica autonoma rispetto a quella originaria. Alla luce di questo, nell’ambito di un procedimento amministrativo in corso, il potere amministrativo dovrebbe confrontarsi con un soggetto diverso dall’iniziale destinatario dei suoi effetti.[xxiii]
A questi orientamenti se ne contrappongono altri favorevoli alla trasferibilità dell’interesse legittimo.
Un filone della dottrina, se da una parte afferma che le posizioni giuridiche di vantaggio degli amministrati non si trasferiscono, dall’altra accetta che se vi è consenso dell’amministrazione e se il “sottraente” ha i requisiti per la posizione giuridica in questione, sia possibile il passaggio ad un terzo delle posizioni di vantaggio “a fondo patrimoniale”. Chi afferma ciò ritiene pure che esistano delle posizioni di vantaggio ob rem, connesse alla titolarità di un diritto su una cosa, rispetto alle quali la circolazione si compie insieme al trasferimento della cosa stessa[xxiv].
La miglior dottrina accetta la trasferibilità dell’interesse legittimo[xxv] in modo indipendente rispetto alla cessione del rapporto giuridico sostanziale sottostante[xxvi]. Dunque, il fatto che non sia possibile disporre dell’interesse legittimo non ne esclude la sua trasferibilità[xxvii].
Sempre secondo questo orientamento, il trasferimento dell’interesse legittimo, insieme all’interesse di fondo al quale è finalisticamente legato, è cosa ovvia che dipende dalla natura strumentale dell’interesse legittimo e dal suo essere una situazione dinamica, che si colloca nello spazio dell’esercizio del potere unilaterale altrui, allorché questo “intercetta” l’interesse sostanziale del suo titolare[xxviii].
Secondo l’indirizzo in esame l’interesse legittimo è sì “personale”, ma non più di qualsiasi diversa situazione giuridica soggettiva, cioè in quanto collegata ad un soggetto che ne è il titolare. Da tale carattere “personale” della situazione soggettiva non può, dunque, farsi derivare alcuna intrasferibilità[xxix].
L'ammissione di eccezioni da parte di chi sostiene l’intrasmissibilità dell’interesse legittimo finisce per attenuare la portata della tesi stessa, trasformandola in una teoria dell’intrasmissibilità relativa. In quest’ottica, si ammette l’esistenza sia di interessi legittimi trasmissibili sia di interessi legittimi intrasmissibili, e il criterio distintivo risiederebbe nella consistenza dell’interesse che sta alla base dell’interesse legittimo.
Tale dottrina sottolinea, comunque, che l’interesse legittimo, in quanto situazione dinamica, è altresì strumentale rispetto a situazioni aventi ad oggetto beni della vita; pertanto, la sua trasferibilità sarà possibile solamente quando tale situazione è in corso, ossia nei limiti dell’esercizio del potere unilaterale altrui[xxx].
In breve, secondo la dottrina esaminata, il fatto che l’interesse legittimo sia finalisticamente legato all’interesse di fondo sotteso giustifica l’appartenenza della situazione giuridica soggettiva al patrimonio del singolo[xxxi] e la sua trasmissibilità[xxxii].
Tale orientamento si appoggia sulla teoria “strumentale” dell’interesse legittimo che si contrappone alla teoria “finale”. Partendo da quest’ultima, altra parte della dottrina ha invece ritenuto ammissibile la trasmissibilità dell’interesse legittimo, a condizione che risultino cedibili sia la posizione legittimante sia, se è in questione un interesse pretensivo, il bene della vita da acquisire.[xxxiii]
Questo indirizzo parte dal presupposto che il fine dell’interesse legittimo è il bene della vita, che in caso di interessi oppositivi inquadra anche la posizione legittimante e, dunque, «se si reputa trasferibile tale posizione perché di carattere non strettamente personale […] risulterà per ciò solo trasferibile anche l’interesse legittimo»; invece, in caso di interessi pretensivi il bene della vita «non è ancora acquisito al patrimonio di chi lo richieda e non costituisce parte della posizione legittimante. Sicché non basta la trasferibilità di tale posizione legittimante, ma è necessario che il test sul carattere strettamente personale o meno vada esteso anche alla relazione con detto bene»[xxxiv].
Un’ulteriore corrente dottrinale ammette in modo implicito la trasferibilità degli interessi legittimi basandosi sul riconoscimento ex lege della circolazione dei diritti edificatori[xxxv] in modo autonomo rispetto al diritto di proprietà sottostante[xxxvi]. Ciò in base all’art. 2643, n. 2 c.c.[xxxvii] che prevede la trascrizione dei relativi atti di cessione[xxxviii].
4. Considerazioni finali
Dall’adesione o meno alla teoria della successione a titolo particolare dell’interesse legittimo derivano significative conseguenze sia in ambito procedimentale, che processuale[xxxix].
Per quanto riguarda il procedimento, se si muove dalla considerazione che ciò che viene ceduto è il medesimo interesse legittimo, si compirà il subentro nella stessa posizione dell’originario titolare della situazione giuridica ed anche il potere amministrativo, che ha già iniziato ad essere esercitato, rimarrà lo stesso. Per questo, tutti gli atti endoprocedimentali già posti in essere continueranno ad avere effetto anche nei confronti del nuovo titolare[xl]. Se, invece, si rifiuta la possibilità di un “acquisto a titolo derivativo” dell’interesse legittimo, ma si prospetta, al massimo, un acquisto “a titolo originario”, si escluderà una successione nella stessa posizione giuridica e si potrà, al limite, accettare l’assunzione di titolarità di un nuovo ed autonomo interesse legittimo. In quest’ultimo caso, tuttavia, l’originario potere non potrà continuare ad essere esercitato e il procedimento già iniziato non proseguirà, ma dovrà essere ripetuto dall’inizio.
Dal punto di vista del processo, invece, è solo nel caso in cui si accetti la trasferibilità dell’interesse legittimo che si potrà ammettere l’applicabilità degli artt. 110 e 111 c.p.c. anche nel giudizio amministrativo[xli], con le annesse conseguenze processuali, e dunque, ad esempio, la possibilità per il successore di intervenire o di essere chiamato in giudizio e di estromettere l’alienante, l’estensione anche al successore a titolo particolare della legittimazione ad agire, la decorrenza dalla stessa data del termine decadenziale per l’impugnazione del provvedimento e degli effetti della sentenza definitiva del giudizio già pendente.
La risoluzione della questione in analisi è meritevole di attenzione in quanto utile a molteplici finalità. In base alla soluzione data, sarà possibile stabilire se, in caso di successione, il nuovo titolare può subentrare automaticamente nel processo amministrativo o se sia necessaria una nuova impugnazione dell’atto amministrativo lesivo; valutare come la successione influenzi il rapporto tra il nuovo titolare dell’interesse legittimo e la Pubblica Amministrazione, soprattutto in materia di concessioni, autorizzazioni o appalti pubblici, ma anche approfondire se la successione dell’interesse legittimo sia coerente con i principi di effettività della tutela giurisdizionale e buona amministrazione[xlii].
Ammettere la trasferibilità dell’interesse legittimo ha indubbi vantaggi ai fini del buon funzionamento del processo e del procedimento, se solo si considerano la speditezza e i vantaggi in termini di economicità di tempo e mezzi che ne deriverebbero. La soluzione appare anche coerente con l’essenza dell’interesse legittimo, intesa come posizione giuridica di vantaggio condizionata dall’esercizio del potere amministrativo attraverso la quale il privato può far valere il principio di legalità ottenendo la tutela giurisdizionale o risarcitoria nei confronti della Pubblica Amministrazione[xliii]. Se è vero, infatti, che l’interesse legittimo è una situazione giuridica soggettiva personale e diretta, ciò non ne impedisce la disponibilità e, di conseguenza, la cedibilità a titolo particolare ai sensi dell’art. 111 c.p.c., anche qualora non ci sia stretta inerenza tra il suddetto interesse e la posizione giuridica sottostante. Tutto ciò richiamando la teoria “finale” dell’interesse legittimo[xliv], che porta ad accettare la possibilità della sua trasmissibilità in tutti i casi in cui risultino cedibili la posizione legittimante e, qualora sia in questione un interesse pretensivo, il bene della vita da acquisire[xlv].
[i] Per una disamina dell’interesse legittimo e dei suoi profili più rilevanti si veda: F. G. SCOCA, L’interesse legittimo Storia e teoria, Giappichelli, Torino, 2017.
[ii] Per approfondire l’argomento ex multiis: M. BOVE, Lineamenti di diritto processuale civile, Giappichelli, Torino, pp. 359 ss., A. P. PISANI, Profili dogmatici e valori costituzionali nella successione a titolo particolare nel diritto controverso, in Rivista di diritto processuale, 3/2022, pp. 807-820, A. D'ADDAZIO, M. PAGNOTTA, B. LIMONGI, Il processo esecutivo e la successione nel diritto controverso, in Rassegna dell'esecuzione forzata, 2/2020, pp. 533-541.
[iii] Art. 111 c.p.c.: “Se nel corso del processo si trasferisce il diritto controverso per atto tra vivi a titolo particolare, il processo prosegue tra le parti originarie.
Se il trasferimento a titolo particolare avviene a causa di morte, il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto.
In ogni caso il successore a titolo particolare può intervenire o essere chiamato nel processo e, se le altre parti vi consentono, l'alienante o il successore universale può esserne estromesso.
La sentenza pronunciata contro questi ultimi spiega sempre i suoi effetti anche contro il successore a titolo particolare ed è impugnabile anche da lui, salve le norme sull'acquisto in buona fede dei mobili e sulla trascrizione”.
[iv] L. FERRARA, Diritto soggettivo e interesse legittimo: una distinzione sfumata del tutto?, in L'amministrazione nell'assetto costituzionale dei poteri pubblici. Scritti per Vincenzo Cerulli Irelli. Tomo I, Giappichelli, Torino, 2021, p. 83-102.
[v] TAR Campania, Napoli, sez. III, 12 marzo 2024, n. 3777.
[vi] Decisioni conformi: Cons. Stato, sez. II, 20 novembre 2024, n. 9333; Cons. Stato, sez. V, 18 marzo 2024, n. 2606; Cons. Stato, sez. IV, 7 marzo 2013, n. 1403. Decisioni difformi: Cons. Stato, sez. VI, 30 novembre 2020, n. 7520 secondo cui l’interesse legittimo può essere normalmente, oggetto di trasferimento a titolo universale o particolare, con conseguente successione nel rapporto giuridico; Cons. Stato, sez. II, 26 aprile 2021, n. 3342; Cons. Stato, sez. III, 26 giugno 2020, n. 4103 che, ritenendo il disposto dell’art. 111 c.p.c. applicabile anche nel processo amministrativo, implicitamente risolve in senso favorevole la questione pregiudiziale dell’ammissibilità di una successione a titolo particolare anche nella titolarità, oltre che del diritto soggettivo, anche dell’interesse legittimo.
[vii] Sono richiamate e necessariamente da citare per la tesi a sostegno dell’intrasferibilità dell’interesse legittimo anche Cons. Stato, sez. II, 5 novembre 2024, n. 9333 e Cons. Stato, sez. V, 8 marzo 2024, n. 2606.
[viii] Cons. Stato, sez. IV, 15 novembre 2011, n. 1403, depositata 7 marzo 2013, punto 6.
[ix] Cons. Stato, sez. IV, 15 novembre 2011, n. 1403, depositata 7 marzo 2013, punto 7.
[x] Cons. Stato, sez. VI, 15 ottobre 2020, n. 7520, punto 4.
[xi] Cons. Stato, sez. VI, 24 marzo 2015, n. 3727 e Cons. Stato, sez. III, 11 giugno 2020, n. 4103 e, infine, Cons. Stato, sez. II, 27 ottobre 2020, n. 3342, pubblicata 26 aprile 2021 .
[xii] Ai sensi dell’art. 12 della legge 2 aprile 1968, n. 475.
[xiii] Intesa come complesso di beni organizzato all’esercizio dell’impresa, coincidente con i locali adibiti all’esercizio farmaceutico e con le dotazioni ad essa afferenti.
[xiv] Capacità o attitudine del diritto soggettivo ad essere trasferito da una sfera giuridica per essere imputato ad un’altra sfera giuridica. Cfr. M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, Il Mulino, Bologna, 2024, pp. 139 ss.
[xv] Cass., Sez. Unite, sent. 500 del 1999. Per approfondire: A. ORSI BATTAGLINI, C. MARZUOLI, La Cassazione sul risarcimento del danno arrecato dalla pubblica amministrazione: trasfigurazione e morte dell'interesse legittimo, in Dir. pubbl., 1999; R. CAROCCIA, Risarcimento dell'interesse legittimo - Chance, tutela dell'affidamento e regole di validità e responsabilità, Giappichelli, Torino, 2022.
[xvi] Per approfondire: R. ALESSI, Interesse sostanziale e interesse processuale nella giurisdizione amministrativa, in Arch. giur., 1943, pp. 132 ss.
[xvii] E. FAZZALARI, Istituzioni di diritto processuale, Cedam, Padova, 1986, p. 249.
[xviii] V. SPAGNUOLO VIGORITA, Principio individualistico nel processo amministrativo e difesa dell’interesse pubblico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1962, p. 635.
[xix] E. GUICCIARDI, Le transazioni degli enti pubblici, in Arch. dir. pubbl. 1936, 71/134, secondo cui «la connessione esistente tra l’interesse delle parti e l’interesse pubblico (...) rende inammissibile in tali casi una composizione transattiva».
[xx] M. D’ARIENZO, Trasferibilità dell’interesse legittimo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2017, p. 90.
[xxi] A. NICOLUSSI, Diritto soggettivo e rapporto giuridico. Cenni di teoria generale fra diritto privato e diritto pubblico, in Colloquio sull’interesse legittimo - Atti del Convegno in memoria di Umberto Pototsching (Milano, 19 aprile 2013), Jovene, Napoli, 2014, p. 76, secondo cui «L'interesse legittimo si inserisce in modo infungibile e indisponibile nel rapporto amministrativo tra p.a. e soggetto privato coinvolto, in quanto l’interesse tutelato del soggetto privato è quello e soltanto quello su cui insiste l’atto amministrativo».
[xxii] M. DELSIGNORE, La compromettibilità in arbitrato nel diritto amministrativo, Giuffré, Milano, 2007, pp. 191-192.
[xxiii] A. DI CAGNO, Riflessioni sul problema della trasmissibilità dell’interesse legittimo: profili ricostruttivi e prospettive di analisi, in Federalismi.it, 26/2023, pp. 51 ss.
[xxiv] A. M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Jovene, Napoli, 1980, p. 158.
[xxv] F.G. SCOCA, Contributo sulla figura dell’interesse legittimo, Giuffrè, Milano, 1990, p. 37.
[xxvi] F.G. SCOCA, L’interesse legittimo, cit., p. 468.
[xxvii] F.G. SCOCA, Contributo, cit., p. 37. La circolazione dell’interesse legittimo separatamente dal trasferimento delle
«condizioni sostanziali che lo avevano generato» è stata interpretata, sul piano teorico, come trasformazione dell’interesse legittimo in una situazione soggettiva «astratta, quasi cartolare», che possa circolare «a prescindere dalla circolazione del rapporto sottostante» (C. RUSSO, Trasmissibilità a terzi del risarcimento del danno, in www.treccani.it, 2014, p. 6).
[xxviii] La trasferibilità dell’interesse legittimo è ipotizzabile, chiaramente, ove esso sia presente; quindi, quando viene esercitato il potere dell’amministrazione, cioè dal momento in cui si apre il procedimento a quando si chiude.
[xxix] F.G. SCOCA, L’interesse legittimo, cit., p. 470.
[xxx] Op. cit., p. 471-475.
[xxxi] F.G. SCOCA, Attualità dell’interesse legittimo?, in Dir. proc. amm., 2011, 2, pp. 379 ss.
[xxxii] F.G. SCOCA, Contributo, cit., p. 37.
[xxxiii] G. GRECO, Il rapporto amministrativo e le vicende della posizione del cittadino, in Foro amm., 2014, pp. 585 ss.
[xxxiv] G. GRECO, Il rapporto amministrativo e le vicende, cit., p. 619.
[xxxv] A. BARTOLINI, Profili giuridici del c.d. credito di volumetria, in Riv. giur. urb., 2007, p. 305.
[xxxvi] M.C. D'ARIENZO, Trasmissibilità dell'interesse legittimo e circolazione dei diritti edificatori tra previsioni codicistiche e suggestioni giurisprudenziali, in Diritto e processo amministrativo, 2016, pp. 965 ss.
[xxxvii] Si devono rendere pubblici col mezzo della trascrizione: […] 2) i contratti che costituiscono, trasferiscono o modificano il diritto di usufrutto su beni immobili, il diritto di superficie, i diritti del concedente e dell'enfiteuta.
[xxxviii] G.P. CIRILLO, La trascrizione dei diritti edificatori e la circolazione degli interessi legittimi, in Riv. notariato, 2013, 3, pp. 601 ss.
[xxxix] F.G. SCOCA, L’interesse legittimo, cit., p. 459, ove l’interesse legittimo appare come «l’interesse all’esito favorevole dell’esercizio del potere precettivo altrui, tutelato mediante facoltà di collaborazione dialettica, dirette ad influire sul merito della decisione (precetto) finale, esperibili lungo tutto il corso dell’esercizio del potere».
[xl] La dottrina che pare ammettere la successione nel rapporto procedimentale ritiene che «tutte le situazioni che si formano dialetticamente e progressivamente nel procedimento […] diventano (immediatamente) riferibili anche al successore (come, ad es., il possesso di determinati requisiti per l’ottenimento di un determinato bene della vita) »; cfr. F. GASPARI, Successione a titolo particolare nel diritto controverso nel processo amministrativo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2020, p. 67.
[xli] Come sembrerebbe riconoscere la giurisprudenza, tra cui Cons. Stato, Sez. VI, 28 luglio 2015, n. 3727; Cons. Stato, Sez. IV, 31 marzo 2010, n. 1842.
[xlii] Artt. 24 e 97 Cost., art. 6 CEDU.
[xliii] Ex multiis E. CASETTA, L'interesse legittimo: una situazione giuridica a “progressivo rafforzamento”, in Dir. Ec., 2008, 1, pp. 7-16; M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, Il Mulino, Bologna, 2022, pp. 132-135.
[xliv] Teoria che pare ormai accolta pacificamente dalla giurisprudenza civile (ex multiis: Cass., Sez. Un., 22 luglio 1999, n. 500, punto 5, Cass., Sez. Un., 4 settembre 2015, n. 17586), amministrativa (ex multiis, Cons. Stato, ad. plen. 29 luglio 2011, n. 15, punto 6.4.1; Cons. Stato, ad plen. 23 marzo 2011, n. 3, punto 3.1.) e persino della Corte costituzionale. Infatti, è stato da ultimo riconosciuto, anche dalla Corte costituzionale, che «gli artt. 24, 103 e 113 Cost., in linea con le acquisizioni della giurisprudenza del Consiglio di Stato, hanno posto al centro della giurisdizione amministrativa l’interesse sostanziale al bene della vita» (Corte cost. 13 dicembre 2019, n. 271, punto 11.2). Cfr. G. GRECO, Interesse legittimo ed effettività della tutela (a proposito della sentenza 1321/19 del Consiglio di Stato), pubblicato il 14 gennaio 2020 in sito giustizia amministrativa - dottrina.
[xlv] G. GRECO, Il rapporto, cit., pp. 585 ss.
Sommario: 1. Il caso - 2. L’ordinanza di rimessione - 3. La decisione della Corte - 4. Osservazioni.
1. Il caso
Il caso da cui origina la pronuncia d’incostituzionalità dell’art. 35 della legge 23 dicembre n. 833 del 1978, resa dalla Corte cost. con sentenza n. 76 del 30 maggio 2025, riguarda una donna che, trascorso circa un mese dalle dimissioni dall’ospedale, dopo un ricovero in regime di T.S.O., aveva proposto opposizione al Tribunale di Caltanissetta avverso il decreto di convalida del Giudice Tutelare.
Il Tribunale aveva respinto il ricorso, poiché riteneva che il grave scompenso psichico della donna e il suo comportamento oppositivo alle cure fossero idonei a integrare i presupposti per l’applicazione della misura coattiva.
La Corte d'appello nissena aveva confermato la pronuncia di primo grado, valorizzando, in particolare, a riprova della legittimità del trattamento, il fatto che la donna avesse manifestato in passato idee suicidarie e che, il giorno prima dell’esecuzione del T.S.O., avesse assunto dosi eccessive di psicofarmaci.
La sentenza della Corte d’appello era stata impugnata con ricorso per cassazione, con il quale la ricorrente lamentava di non essere stata informata del provvedimento del Sindaco, che disponeva il T.S.O. e, conseguentemente, di non essere stata in condizione di far rilevare la mancata allegazione della relazione medica richiamata dal provvedimento sindacale; inoltre, la ricorrente si doleva di non aveva ricevuto la notifica del decreto di convalida e di non aver potuto opporvisi, se non dopo la scadenza del trattamento; infine, la ricorrente deduceva di non essere stata sentita, prima della convalida, dal Giudice Tutelare, che aveva, perciò, deciso solo in base agli atti di causa, peraltro incompleti.
Nel corso del giudizio dinanzi alla S.C., la Procura Generale aveva prospettato la non conformità a Costituzione della disciplina sui T.S.O., nella parte in cui la legge non prevedeva un’adeguata e tempestiva informativa al soggetto interessato in ordine ai presupposti applicativi della misura coattiva.
Il Collegio ha ritenuto condivisibili i rilievi svolti dalla Procura Generale ed ha, quindi, sollevato la questione di costituzionalità, con ordinanza n. 24124 del 9 settembre 2024[1].
2. L’ordinanza di rimessione
La S.C. ha, innanzitutto, ricostruito il quadro giuridico di riferimento, prendendo le mosse dall’art. 32 Cost., così come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale.
Focalizzando l’attenzione sul tema della salute mentale, la S.C. ha dato conto del passaggio dalla legge 14 febbraio 1904, n. 36, recante "disposizioni sui manicomi e sugli alienati", alla legge 13 maggio 1978, n. 180 (cosiddetta legge Basaglia), il cui impianto è, poi, confluito nella legge 23 dicembre 1978 n. 833.
Il Collegio, dopo aver esaminato dettagliatamente gli artt. 33, 34 e 35 della legge n. 833 del 1978, ha colto il vulnus di costituzionalità nella parte in cui la vigente disciplina non prevede che il paziente sia informato degli atti che precedono la convalida giurisdizionale del T.S.O e neppure che egli sia messo a conoscenza del provvedimento conclusivo del procedimento.
Il deficit informativo ravvisato dai Giudici di legittimità non può essere colmato per via interpretativa, trattandosi, peraltro, di materia soggetta a riserva di legge.
Da qui allora la necessità di sollevare la questione di costituzionalità.
Il T.S.O. – osserva la S.C. – è “un caso di limitazione parziale e temporanea della capacità di agire, cui si accompagna la coazione fisica e, pertanto, richiede un giudizio, assistito dalle relative garanzie e non soltanto una valutazione medica sottoposta ad un controllo giurisdizionale esterno”.
Il deficit informativo pone uno iato tra gli artt. 13 e 32 Cost., da una parte, e gli artt. 24 e 111 Cost., dall’altra, perché, senza il rispetto del contraddittorio, non può esservi diritto di difesa e controllo giurisdizionale in un procedimento che si traduce nella compressione della libertà personale e della sfera di autodeterminazione del soggetto.
In estrema sintesi, il “cuore” della questione di costituzionalità può essere compendiato nel seguente passaggio dell’ordinanza di rimessione: “si ritiene che l’attuale sistema normativo in materia di trattamenti sanitari obbligatori in condizione di degenza ospedaliera, disegnato dagli artt. 33,34 e 35 della legge n. 833/1978 non sia conforme agli artt. 2, 3,13,24, 32 e 111 della Costituzione, nonché all’art. 117 della Costituzione in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU, per la mancata previsione, cui non può rimediarsi attraverso la via dell’interpretazione affidata al giudice, della notificazione dei provvedimenti, nonché di passaggi procedimentali a garanzia del diritto al contraddittorio, alla difesa e ad un ricorso tempestivo ed effettivo avverso decisioni che limitano il diritto di autodeterminarsi in materia di trattamenti sanitari e la libertà personale, compresa l’audizione del soggetto interessato”.
In conclusione, il Collegio rimettente formula la richiesta di una pronunzia additiva di incostituzionalità dell’art. 35 della legge n. 833 del 1978, tanto nella parte in cui non è prevista la notifica all’interessato, o al suo eventuale legale rappresentante, del provvedimento sindacale che dispone il trattamento quanto nella parte in cui non è prevista la notifica del provvedimento giurisdizionale di convalida.
3. L’ordinanza di rimessione
Anzitutto, la Corte definisce il trattamento sanitario in condizioni di degenza ospedaliera come un vero e proprio trattamento sanitario coattivo, in quanto disposto contro la volontà dell’interessato e incidente sulla sua libertà fisica[2].
Questo trattamento si colloca al crocevia di due valori costituzionali, compendiati nell’art. 32 Cost. e, segnatamente, la salute (comma 1) e la libertà di autodeterminazione terapeutica (comma 2).
La misura si pone, così, sul crinale tra la libertà di autodeterminazione in materia di salute e la regola del consenso, da un lato, e l’esigenza di protezione della salute della persona stessa, dall’altro, che giustifica, in via d’eccezione, un trattamento contro la sua volontà imposto mediante coazione fisica.
Peraltro, proprio l’incidenza del trattamento sulla libertà personale richiede che esso sia eseguito nel rispetto delle garanzie previste anche dall’art. 13 Cost.
Partendo dal rilievo che il ricovero coatto “non è disposto contro il soggetto a titolo di pena o di misura di sicurezza, ma, quanto meno prevalentemente, a favore di lui, a protezione della sua salute e della sua integrità fisica”[3], la Corte ne sottolinea la differenza rispetto all’assegnazione alle REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), in quanto soltanto la misura di sicurezza presuppone una manifestazione della pericolosità sociale nel compimento di fatti costituenti reato e una valutazione della pericolosità stessa anche in termini prognostici, a tutela della collettività: “La «natura “ancipite”» della misura di sicurezza, la sua duplice «polarità», di cura e tutela dell’infermo e di contenimento della pericolosità sociale (sentenza n. 22 del 2022), difettano nel trattamento sanitario coattivo in degenza ospedaliera, che resta, invece, ispirato al principio personalista e finalizzato essenzialmente alla cura della persona”[4].
La Corte riconosce che, a fronte della discrezionalità del legislatore nel modulare le forme di tutela giurisdizionale, l’art. 35 della legge n. 833 del 1978 determina una significativa compressione del diritto di difesa e al contraddittorio, cioè dei contenuti minimi della tutela giurisdizionale.
Un diritto, quello di ricevere la comunicazione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, che – osserva la Corte - non è inficiato dalla condizione di alterazione psichica in cui versa la persona sottoposta a trattamento sanitario coattivo.
Infatti, l’ordinamento esclude, attraverso plurimi istituti, che la sola incapacità naturale, intesa come incapacità di intendere e di volere, momentanea o persistente, possa di per sé sola riverberarsi sulla capacità processuale[5].
La condizione di alterazione psichica momentanea, tuttavia, può essere di ostacolo all’effettiva comprensione del contenuto delle comunicazioni/notificazioni dei provvedimenti restrittivi.
Muovendo da tale considerazione, la Corte giunge, così, ad affermare che, per garantire l’effettività di tali diritti, assume particolare rilievo l’audizione della persona interessata da parte del Giudice Tutelare prima della convalida.
Secondo la Corte, l’audizione della persona sottoposta a T.S.O. assolve a diverse funzioni.
In primo luogo, l’audizione è necessaria per la verifica in concreto dei presupposti sostanziali che giustificano il trattamento ed è funzionale alla sua convalida.
In secondo luogo, l’audizione presso il luogo in cui la persona si trova – normalmente un reparto del servizio psichiatrico di diagnosi e cura – garantisce che il trattamento venga eseguito nel rispetto dell’art. 13, quarto comma, Cost., che sancisce il divieto di violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni della libertà personale, e nei limiti imposti dal rispetto della persona umana, ai sensi dell’art. 32, secondo comma, Cost.
Infine, l’audizione assume la valenza di “strumento di primo contatto”, che consente di conoscere le reali condizioni in cui versa la persona interessata, anche dal punto di vista dell’esistenza di una rete di sostegno familiare e sociale e di individuare il percorso in cui instradare le forme di miglior ausilio del destinatario della misura in relazione alla sua situazione soggettiva.
In conclusione, la Corte afferma che l’omessa previsione della comunicazione del provvedimento sindacale e della notificazione del decreto di convalida alla persona interessata o al suo legale rappresentante, ove esistente, nonché l’omessa previsione dell’audizione della stessa persona interessata prima della convalida, determinano la violazione degli artt. 13, 24, 32 e 111 Cost.
4. Osservazioni
La sentenza della Corte costituzionale - pur avendo apprezzabilmente innestato un surplus di garanzie a tutela del destinatario del T.S.O. in un impianto normativo ormai obsoleto e che necessiterebbe di essere ripensato ab imis dal legislatore[6] - non si sottrae a critiche “di metodo” e “di merito”.
Per quanto riguarda le prime, si è in presenza di un caso nel quale la Corte si è discostata dalla “domanda” posta dal giudice a quo ed ha finito con il pronunciarsi “oltre" il perimetro della questione di costituzionalità tracciato dal rimettente.
Un caso di ultrapetizione, per dirla come i processualcivilisti.
Si tratta, tuttavia, di una tecnica decisoria niente affatto nuova nella giurisprudenza costituzionale[7].
Occorre, subito, precisare che, pure a fronte di un orientamento[8] che impone di circoscrivere la decisione della Corte al dubbio di costituzionalità, così come questo proviene dal giudice a quo e dal caso concreto, anche per ineliminabili esigenze di tutela del contraddittorio, il Giudice costituzionale, tuttavia, non di rado interviene sul thema decidendum, allentando quel vincolo tra la "domanda" e la pronuncia, viceversa saldamente mantenuto dal lato del giudice a quo e delle parti del giudizio di costituzionalità.
Si tratta di una flessibilizzazione del “principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato”, che impone al Giudice delle leggi di pronunciarsi nei limiti dell'impugnazione, secondo quanto dispone l’art. 27 legge 11 marzo 1953, n. 87 e che agisce, tuttavia, in senso unidirezionale.
La Corte ha, infatti, escluso che un simile effetto possa prodursi ad opera di interventi della parte ovvero anche del giudice a quo, ma ha riservato a sé stessa un più o meno ampio margine di intervento nella definizione o ri-definizione dell'oggetto della questione di costituzionalità.
In tal modo si vuole impedire che, tramite un'interpretazione restrittiva del citato art. 27 e del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, la Corte possa essere vincolata ad una prospettazione della questione di costituzionalità, che non le consentirebbe di pronunciarsi sulla intera norma o sulla situazione normativa sospettata di incostituzionalità.
Senza indugiare ulteriormente su questioni che sono tuttora oggetto di acceso dibattito nell’ambito della dottrina giuspubblicistica[9], si vuole osservare come, nel caso in esame, la modificazione del thema decidendum da parte della Corte riguardi – per utilizzare categorie mutuate dal diritto processuale civile – la causa petendi ed il petitum della questione di legittimità costituzionale.
La “causa petendi” può ravvisarsi nel deficit informativo che, come detto, è stato sapientemente colto dalla S.C. nelle pieghe del procedimento disciplinato dagli artt. 33, 34 e 35 l. n. 833 del 1978; deficit informativo tale per cui la persona sottoposta al trattamento non ha notizia degli atti del procedimento che sfociano nella convalida giurisdizionale.
Il “petitum”, invece, può essere tratto dal dispositivo dell’ordinanza di rimessione nel quale si censurano le norme impugnate che non prevedono la notifica né del provvedimento sindacale che dispone il T.S.O. né dell’ordinanza di convalida.
Così perimetrato il thema decidendum, emerge con tutta evidenza come la Corte costituzionale non si sia limitata ad esaminare il denunciato deficit informativo ed accogliere le richieste “additive” del rimettente[10], prevedendo la “comunicazione” del provvedimento sindacale all’interessato e la “notificazione” al medesimo della convalida giurisdizionale, ma sia andata “ultra petita”, avendo introdotto anche l’obbligatorietà dell’audizione della persona sottoposta al trattamento prima della convalida.
L’audizione dell’interessato, nella prospettiva del rimettente, era concepita come oggetto di un diritto, che avrebbe potuto esercitato, volta che il destinatario della misura avesse ricevuto la notificazione del provvedimento del Sindaco, contenente un avviso ad hoc.
Ora, per effetto dell’intervento del Giudice costituzionale, questo “diritto” diventa un “obbligo”, un incombente, cioè, necessario, da espletarsi sempre e comunque (almeno così parrebbe ad una prima lettura) da parte del Giudice Tutelare, prima della convalida del trattamento.
Una questione “di metodo” - quella, cioè, relativa all’audizione prevista ex officio dalla Corte, sebbene non richiesta dal rimettente - che trasmoda in una questione “di merito”, relativa, cioè, al fatto che l’audizione, da “diritto” per l’interessato, diventa “obbligo” per il Giudice Tutelare, con prevedibili gravi ricadute di carattere pratico-organizzativo sul lavoro degli uffici giudiziari.
In particolare, la Corte introduce l’obbligatorietà dell’audizione dell’interessato nel procedimento di convalida del T.S.O. attraverso la seguente affermazione: “La condizione di alterazione psichica momentanea in cui versa la persona interessata, tuttavia, può essere di ostacolo alla effettiva comprensione del contenuto delle richiamate comunicazioni. Queste, dunque, benché necessarie, non sono sufficienti alla effettiva garanzia dei diritti costituzionali di difesa e al contraddittorio. Per l’effettività di tali diritti assume particolare rilievo l’audizione della persona interessata da parte del giudice tutelare prima della convalida”.
Dunque, secondo la Corte, l’audizione dell’interessato assume un ruolo decisivo al fine di garantire l’effettività dei diritti costituzionali di difesa (art. 24 Cost.) e di contraddittorio (art. 111 Cost.).
E, tuttavia, questa conclusione - che si traduce nella pronuncia additiva di incostituzionalità del citato art. 35 nella parte in cui non prevede che l’interessato sia sentito dal Giudice Tutelare prima della convalida del T.S.O. - non può essere condivisa nella sua assolutezza.
Potrebbe darsi, infatti, che l’interessato (o il suo legale rappresentante, se nominato[11]), abbia ricevuto la comunicazione del provvedimento sindacale e, pur essendo in condizioni tali da comprenderne appieno le ragioni, non abbia inteso opporvisi o esercitare le facoltà previste dalla legge[12].
In questo caso, l’audizione dell’interessato, intesa come strumento per garantire i diritti di difesa e di contraddittorio, non parrebbe necessaria, essendo stati tali diritti già tutelati al momento della comunicazione del provvedimento sindacale.
Potrebbe ancora darsi il caso che, per una qualsivoglia ragione, la comunicazione del provvedimento sindacale non sia giunta a conoscenza del destinatario oppure che quest’ultimo, al momento della comunicazione, fosse privo di un legale rappresentante e versasse in condizioni di totale alterazione psichica.
Ebbene, in queste ipotesi, neppure l’audizione giudiziale potrebbe valere a garantire il rispetto dei diritti di difesa e di contraddittorio dell’interessato e ciò per una duplice ragione: in primo luogo, perché ove persistessero le originarie condizioni di alterazione psichica, il destinatario della misura continuerebbe a non comprendere le ragioni per le quali è stato ricoverato in ospedale; in secondo luogo, perché la lesione dei suoi diritti si è già consumata, giacché egli è stato sottoposto coattivamente all’esecuzione del trattamento, senza aver avuto preventivamente la possibilità, siccome psichicamente alterato, di prenderne coscienza e di svolgere, conseguentemente, le relative difese, eventualmente opponendosi e chiedendone la revoca, anche prima del ricovero.
Inoltre, nessuna delle tre ragioni per le quali la Corte ritiene necessaria l’audizione – vale a dire, a) quella di verificare in concreto la sussistenza dei presupposti sostanziali della misura; b) quella di garantire l’esecuzione del trattamento nel rispetto dell’art. 13, comma 4 Cost.; c) quella di fungere da “strumento di primo contatto” con il destinatario della misura – appare in collegamento con la finalità di tutela dei diritti di difesa e di contradditorio.
In sintesi, si vuol dire che si sarebbe potuta evitare la previsione di un obbligo generalizzato di audizione dell’interessato, non apparendo la stessa strettamente necessaria per rispondere al dubbio di costituzionalità del rimettente.
Piuttosto, sarebbe stato sufficiente limitarsi ad accogliere le richieste contenute nell’ordinanza della Suprema Corte, aggiungendo nel testo normativo gli obblighi di comunicazione del provvedimento sindacale e di notifica dell’ordinanza di convalida.
Alla comunicazione del provvedimento sindacale si sarebbe, poi, dovuta accompagnare la comunicazione anche dell’avviso “che il provvedimento sarà sottoposto a convalida del giudice tutelare entro le 48 ore successive e (…) che l’interessato ha diritto di comunicare con chiunque ritenga opportuno e di chiedere la revoca del suddetto provvedimento, nonché di essere sentito personalmente dal giudice tutelare prima della convalida”.
La comunicazione di tale avviso era stata molto opportunamente formulata dal Giudice rimettente ma non è stata recepita dal Giudice costituzionale, senza che di tale mancato recepimento siano state spiegate le ragioni.
Anzi, proprio l’omessa previsione dell’avviso - che, in base all’ordinanza di rimessione, si sarebbe dovuto comunicare unitamente al provvedimento sindacale - porta a ritenere che, nella logica della Corte, l’audizione non sia più soltanto un “diritto” del cui possibile esercizio l’interessato debba essere informato, ma sia divenuto un “obbligo” per il Giudice, che “deve” provvedervi, prima della convalida.
Il Giudice delle Leggi ha, tuttavia, seguito la via dell’ultrapetizione, introducendo, ex officio, l’obbligo generalizzato di audizione, anche per dare una risposta alle sollecitazioni provenienti in tal senso da vari organismi internazionali[13].
Una soluzione più ragionevole sarebbe stata, forse, proprio quella lumeggiata dal rimettente che, nel prevedere, in sostanza, un’audizione a richiesta, avrebbe contemperato le due opposte esigenze: da un lato, quelle di tutela del soggetto fragile e dei suoi diritti di difesa e di contraddittorio, e, dall’altro, quelle di un controllo effettivo sulla legittimità del procedimento, anziché un controllo meramente formale, basato soltanto sulla regolarità e tempestività degli atti.
Soluzione, quella dell’audizione a richiesta del destinatario della misura (o, eventualmente, del suo legale rappresentante), che avrebbe, inoltre, consentito una selezione “a monte” dei casi meritevoli di un più diretto e penetrante approfondimento da parte del Giudice Tutelare e che avrebbe avuto l’ulteriore, ma non secondario, pregio di ridurre le ricadute della pronuncia d’incostituzionalità sull’organizzazione del lavoro degli uffici e sul loro buon funzionamento, in termini di risposta attenta ed efficiente alle istanze di giustizia dei soggetti deboli.
[1] Per un commento all’ordinanza di rimessione sia consentito un rinvio al mio contributo, “La Cassazione solleva la questione di costituzionalità della legge sui T.S.O.”, in Nuova giur. Civ. comm., 2025, 1, parte I, 53 ss.
[2] Sulla distinzione tra trattamento sanitario obbligatorio e trattamento coattivo, che si configura ogni qual volta la legge attribuisca alla pubblica autorità non solo poteri sanzionatori in caso di inottemperanza, ma anche poteri coercitivi sulla salute individuale, si veda D. VINCENZI AMATO, Art. 32, in Comm. Cost. Branca, Zanichelli, 1976, 170; B. CARAVITA DI TORITTO, La disciplina costituzionale della salute, in Dir. e soc., 1984, 55; M. COCCONI, Il diritto alla tutela della salute, Cedam, 1998, 96. Per la tesi secondo cui l’art. 13 Cost. riguarda esclusivamente le misure che implichino un giudizio di disfavore e rivestano, in questo senso, carattere ‘‘afflittivo’’ e ‘‘degradante’’ si veda A. BARBERA, I principi costituzionali della libertà personale, Giuffre,1971, 98 ss.
[3] Corte cost., sent. 27 giugno 1968, n. 74.
[4] La REMS “costituisce così, a tutti gli effetti, una nuova misura di sicurezza, ispirata ad una logica di fondo assai diversa rispetto al ricovero in OPG o all’assegnazione a casa di cura o di custodia, ma applicabile in presenza degli stessi presupposti, salvo il nuovo requisito della inidoneità di ogni misura meno afflittiva introdotto dall’art. 3-ter, comma 4, del d.l. n. 211 del 2011, come convertito. Al punto che l’art. 1, comma 1-quater, del d.l. n. 52 del 2014, convertito nella legge n. 81 del 2014, include espressamente il «ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza» tra le «misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive»” (così Corte cost., sent. 27 gennaio 2022, n. 22).
[5] Corte cost., sent. 27 luglio 2023, n. 168.
[6] La contrapposizione ‘‘autodeterminazione’’/‘‘coercizione’’, che emerge in maniera netta dall’attuale disciplina legislativa sui T.S.O., finisce per ‘‘ingabbiare’’ in maglie, forse, troppo strette un fenomeno complesso, quale è quello della malattia mentale, spesso ulteriormente complicato dalle particolarità delle situazioni e dei contesti esistenziali, spesso drammatici, in cui si trova a vivere il malato psichiatrico. Come è stato condivisibilmente osservato da taluno in dottrina (G. RECINTO, Per una tutela ‘‘complessiva’’ e ‘‘multidimensionale’’ delle persone con disabilità, in AA.VV., Funzione amministrativa e diritti delle persone con disabilità, Editoriale scientifica, 2022, 21 ss.), l’unica prospettiva perseguibile è quella di considerare, nel solco delle indicazioni della Convenzione delle Nazioni, Unite sui diritti delle persone con disabilità, le persone fragili, e quindi anche quella caratterizzate da infermità mentale o da disturbi psichici, nella loro complessità e in una visione multidimensionale, attenta, non solo ai bisogni materiali, ma anche a quelli esistenziali, relazionali, affettivi, formativi, culturali e di contesto, in modo da garantire ad ognuno la concreta possibilità di sviluppare un percorso di vita indipendente.
[7] A questo riguardo, valga, infatti, sottolineare che la Corte costituzionale non è nuova a rivisitazioni dell'ordinanza di rimessione, specie quando si trovi a dover (e voler) decidere “questioni importanti”. Un esempio di manipolazione del thema decidendum si è avuto, di recente, in occasione del c.d. “caso Cappato", nel quale la Corte, con la sent. 22 novembre 2019, n. 242, emessa a seguito della precedente ord. 16 novembre 2018, n. 207 del 2018, ha circoscritto gli effetti del proprio intervento ablativo, allontanandosi dalla prospettazione del giudice a quo, anzitutto con riferimento alla norma oggetto dell'impugnativa del remittente. Si vedano, in tema, le acute osservazioni di M. D'AMICO, Il "Caso Cappato" e le logiche del processo costituzionale, in Quaderni Costituzionali, 2019.
[8] Si tratta di un orientamento giurisprudenziale che si afferma sin dalle prime pronunce della Corte costituzionale. Tra le molte, si vedano Corte cost., sent. 29 maggio 1957, n. 64 e sent. 25 maggio 1957, n. 80, ove il Giudice costituzionale ha affermato il principio secondo cui il giudizio della Corte costituzionale può avere ad oggetto solo le questioni proposte dall'ordinanza di rinvio, senza che sia consentito seguire le parti nei loro sviluppi ed amplificazioni e, ancora, che “la Corte esaminerà le sole questioni che sono state enunciate nelle ordinanze e nei limiti nei quali queste risultano formulate nelle ordinanze stesse, tenendo conto delie deduzioni difensive solo in quanto esse sviluppino ed illustrino il contenuto delle ordinanze e non in quanto sollevino questioni nuove” (così Corte cost., sent. 6 luglio 1962, n. 65).
[9] Si rinvia sul punto a C. NARDOCCI, Il diritto al giudice costituzionale, in Editoriale Scientifica, 2020, in particolare, pag. 218 e ss.
[10] L. ELIA, Le sentenze additive e la piú recente giurisprudenza della Corte costituzionale, in Scritti Crisafulli, I, Padova, 1985, 299 e ss.
[11] Al fine assicurare l’effettività del contraddittorio nella fase prodromica rispetto all’esecuzione della misura, si potrebbe pensare, in quei casi nei quali lo stato di alterazione psichica del beneficiario non gli consenta di comprendere il contenuto del provvedimento sindacale e di esercitare le facoltà che legge gli riconosce, alla nomina di un legale rappresentante ad acta, ai sensi dell’art. 405, comma 4, c.c., da parte del Giudice Tutelare, su impulso del medico che ha proposto il trattamento ex art. 33, comma 3 della legge n. 833 del 1978 o di quello che lo ha convalidato ex art. 34, comma 3, della medesima legge.
[12] Art. 33, commi 6 e 7, della legge n. 833 del 1978: “Nel corso del trattamento sanitario obbligatorio, l’infermo ha diritto di comunicare con chi ritenga opportuno. Chiunque può rivolgere al sindaco richiesta di revoca o di modifica del provvedimento con il quale è stato disposto o prolungato il trattamento sanitario obbligatorio”.
[13] Il riferimento è al Report del 24 marzo 2023, adottato dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o dei trattamenti disumani e degradanti (CPT) del Consiglio d’Europa in seguito a una visita periodica svoltasi in Italia, e a Corte EDU, sezione seconda, decisione 8 ottobre 2013, Azenabor contro Italia).
Sommario: 1. Premessa – 2. Il femminicidio: quadro storico. Un nome nuovo per un vecchio problema -3. Le cause della violenza : studi psicologici sulle cause del femminicidio e dei reati spia e riscontri fattuali – 4. Patriarcato, maschilismo e i giovani: un problema non sempre connesso all’età – 5. I dati: l’importanza dello studio statistico per uscire dalla invisibilità - 6. I rimedi, quelli attuali e quelli immaginabili per il futuro. L’obiettivo culturale.
1. Premessa
Dietro lo stillicidio di aggressioni contro le donne c'è il fallimento di una società. Il numero delle donne vittime di aggressioni e sopraffazioni denuncia l'esistenza di un fenomeno non legato soltanto a situazioni anomale a fronte del quale non possiamo limitarci a contrapporre indignazioni a intermittenza.
Queste parole del Presidente della Repubblica Mattarella in occasione della celebrazione del 25 novembre, Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, focalizzano l'attenzione sui femminicidi che insieme alle varie forme di violenza di genere costituiscono oggi fenomeni sociali gravissimi di estrema attualità sia in Italia che in molti altri Paesi di ogni continente, tali da assurgere ormai al ruolo di vere e proprie emergenze sociali.
Raccogliendo l’invito a non indignarsi solo nel momento del lutto, quando la riprovazione e il cordoglio sono pressoché generali, la finalità di questo contributo, senza pretesa di vantare competenze non possedute, è quella di svolgere una breve analisi del fenomeno, rivisitato anche nel suo profilo storico, che non va mai sottovalutato allorché si vogliano davvero comprendere le cause sottese agli effetti e possibilmente ideare soluzioni concrete.
Ma la finalità è anche quella di indagare il mondo quasi sommerso, almeno fino a qualche tempo fa, dei cosiddetti reati spia, o meglio sarebbe chiamarli reati sentinella - atti persecutori, maltrattamenti contro familiari o conviventi insieme con le violenze sessuali - che, su un piano apparentemente meno eclatante ma ugualmente odioso manifestano, in modo purtroppo massivo, la violenza di genere.
Reati che, almeno finora, non sono stati valutati come effettive manifestazioni della violenza di genere, specialmente quando non trasmodati in aggressioni fisiche importanti per gli effetti di danno alla persona, e sono stati spesso relegati, in particolare per quanto riguarda i maltrattamenti in famiglia ma non solo, nell'ambito della sfera privata di un rapporto di coppia degradato o finito male.
L'analisi dei dati e anche delle dinamiche processuali può consentire di far uscire questi reati dalla bolla della invisibilità, che più di ogni altra cosa lede le vittime, il diritto e complessivamente l’intera società.
2. Il femminicidio: quadro storico. Un nome nuovo per un vecchio problema
«Il femminicidio è vecchio quanto il patriarcato. Il femminicidio è il misogino assassinio di una donna da parte di un uomo come forma di violenza sessuale intesa quest'ultima come qualsiasi atto che consista in una minaccia , un'invasione o in una aggressione, verbale o per immagini o sessuale, che abbia l'effetto, nella percezione della donna, di ferirla, degradarla o di eliminare la sua capacità di controllo della propria sessualità.[1]»
Questa breve ma puntuale definizione, elaborata da Kelly come report sulle testimonianze di 60 donne che nel 1988 scelsero di partecipare all'indagine, contiene già alcuni punti saldi dei successivi studi sulla violenza di genere e sul femminicidio.
I due punti di arrivo di maggiore rilevanza sono che da un canto il concetto di uccisione di una donna non è connesso soltanto alla sua morte fisica ma a qualunque forma di atto che porti al suo annientamento e quindi alla sua morte anche quando questa non sia fisica; dall'altro è che per la prima volta in assoluto il concetto di violenza viene osservato dal punto di vista della donna che la subisce.
Si inizia dunque a scardinare una visione tutta maschile, riduttiva e talora negazionista, del concetto di violenza di genere, che ancora oggi si ritrova nella visione sociale comune e anche negli atti giudiziari, dove spesso atti di abitudinaria violenza, vissuti drammaticamente dalle donne, vengono letti come normali scaramucce familiari con manifestazioni di reazioni, magari un tantino eccessive, a normali crisi del rapporto amoroso.
La citazione dell'indagine di Kelly apre un testo che generalmente è considerato fondamentale per l'analisi e la comprensione del problema della violenza di genere e del suo più tragico epilogo qual è il femminicidio, (Femicide: The Politics of woman killing – Diana E.Russell e Jill Radford – 1992 ), opera giustamente definita come un disturbante testimone delle donne senza voce che sono state vittime di femminicidio e al tempo stesso un inno alla resistenza.
L'immagine scelta per illustrare il frontespizio dell'opera, un gruppo di donne vestite all'occidentale ma ugualmente interamente velate come se indossassero un burqa, rappresenta plasticamente l'obiettivo di dar voce e di togliere il velo a un problema per troppo tempo visto come una questione “privata”.
Lo studio ha avuto in primo luogo l'obiettivo, raggiunto, di evidenziare che il termine femminicidio - già utilizzato nel XVI secolo in ambito anglosassone per definire genericamente azioni particolarmente violente sia dal punto di vista fisico che da quello psicologico effettuate da un individuo di genere maschile nei confronti di una donna - non sta ad indicare genericamente l’assassinio di qualunque persona di genere femminile bensì l'uccisione di una ben specifica donna da parte di un uomo per motivi di piacere, odio, disprezzo e soprattutto senso di possesso.
Grazie a questo studio, dunque, il termine femminicidio può ritenersi oggi riferito a un ben preciso sottoinsieme all'interno della totalità dei casi di omicidio che hanno come vittima una persona di genere femminile, in quanto definisce un tipo di crimine che si caratterizza non solo per il genere femminile della vittima ma anche e soprattutto per i motivi psicologici individuali o sociali nonché emotivi e culturali che ne sono alla base.
Da questo punto di vista la scelta anche normativa di dare un nome specifico ed una disciplina ad hoc a questo tipo di fenomeno è significante di un cammino in corso, che non tocca solo l'aspetto punitivo ma più in generale quello socio-culturale, nonostante le infinite resistenze che ancora si possono riscontrare in campo sia giuridico che sociale e politico, in particolare nelle “moderne” destre estreme, particolarmente arretrate culturalmente nella visione della figura femminile e tuttora arroccate sul concetto dell'egemonia maschile e del ruolo ancillare delle donne ,di cui propongono un modello che ancora costituisce un ostacolo all’inquadramento e al superamento della violenza di genere, in tutte le sue forme.
Tornando allo studio di Redford e Russell, i più importanti punti di arrivo nell'opera, che, benché, come detto, sia datato manifesta ancora la sua modernità, sono l’aver portato alla luce con chiarezza la violenza domestica e le sue radici e aver analizzato la connessione tra il femminicidio - e ancor prima ogni forma di violenza, compresa quella domestica- e le motivazioni misogine che lo supportano.
Ancora una volta le autrici utilizzano un’immagine, quella della marcia femminista Take Back the Night, svoltasi a Cambridge (Massachusetts) nel 1980 , il cui logo è No Woman is safe on the Street or in her home, per evidenziare che anche la casa può essere un luogo di degrado, di violenza e anche di morte.
In particolare nell’opera si segnala che la sexual violence – intesa come violenza generata dal sesso della vittima e non necessariamente connesso a una violenza sessuale nel senso giuridico-legale- è rappresentativa di una forma di controllo finalizzata al mantenimento del patriarcato e che le motivazioni misogine dei femminicidi sono spesso ignorate dai media e dagli stessi attori legali che leggono il fenomeno o rimproverando la donna per suoi comportamenti (quella che le autrici chiamano la trivializzazione del femminicidio, sì che la vittima diventa “causa” della violenza perpetrata contro di lei) o negando l'umanità e la “normalità” dell’uccisore, spesso descritto come una bestia, un animale in senso dispregiativo, in modo tale da relegare il femminicidio all'atto scomposto, occasionale e anomalo di una persona non normale.
Quanto al primo aspetto la lunga storia della colpevolizzazione sociale della donna che denuncia o che si sottrae a un rapporto violento e non più gradito e quella della vittimizzazione secondaria per lungo tempo agita anche negli atti processuali, ci raccontano che ciò che accadeva negli anni ‘80 non ha smesso di accadere oggi.
Quanto al secondo, il punto di arrivo degli studi psicanalitici e di psicologia sociale e criminologica sembra essere nel senso che la prevalente scienza medica ha rifuggito la tentazione di patologizzare la violenza, rappresentando chiaramente che la questione psichiatrica rischia di distrarre dalle radici reali del problema.
Ciò in quanto la patologizzazione della violenza di genere porta a giustificare un fenomeno che non è soltanto un'esperienza che ha significati e cause nelle dinamiche intrapsichiche del maltrattante ma è il risultato logico di relazioni sociali fondate su rigide dinamiche di potere e disuguaglianza giustificate da consuetudini culturali, tradizionali, religiose, economiche e politiche che creano quella irrinunciabile illusione di sicurezza su cui taluni fondano il proprio equilibrio[2], giungendo a dire che le condizioni psichiatriche possono sì avere un ruolo ma non come causa scatenante bensì come fattore che slatentizza l'emergere della violenza di genere e che comunque anche se la violenza di genere è stata commessa da una persona che ha una qualche diagnosi di disturbo mentale la forma della violenza agita rispetta quasi sempre gli stereotipi del sistema sessista della cultura patriarcale.
Non può essere valida, quindi, l’obiezione critica alle analisi di Redford e Russell secondo cui quest'opera, pubblicata nel 1992, si avvale di indagini e di valutazioni effettuate su una realtà lontana dai nostri tempi, sicché quelle considerazioni non sono utilizzabili per la lettura di fenomeni che si svolgono nel mondo attuale. Infatti, per condividere quest'opinione, sarebbe necessario poter affermare che oggi il patriarcato non esiste più, che tutte le istanze maschiliste che volevano la donna rinchiusa nelle pareti domestiche ad occuparsi esclusivamente della cura del marito, dei figli e degli anziani sono state ampiamente superate, che la nuova libertà che connota la vita e le scelte delle donne oggi le ha completamente affrancate dal controllo dei loro compagni e che, infine, le donne sono libere di scegliere il loro destino allontanandosi dai loro compagni allorché ne percepiscano comportamenti limitanti e violenti.
I dati statistici allarmanti sui femminicidi, l'aumento esponenziale delle denunce di violenza domestica e di aggressione sessuale, i dati parimenti allarmanti del Revenge porn e dell'uso strumentale del web a fini di violenza ci dicono che malauguratamente le cose non stanno così.
E anzi, il fenomeno della Manosphere -la galassia virtuale di spazi in cui si esaltano la supremazia della maschilità e la subordinazione delle donne – e quello dei gruppi on line, sempre più diffusi in rete, che frequentano echo chambers che condividono linguaggi violenti e discorsi di odio contro le donne, ci segnalano un trend negativo che non può che preoccupare, anche perché raccoglie soprattutto uomini giovani o comunque non più figli, almeno per ragioni di età, della cultura patriarcale.
In un recente studio pubblicato sull'International Journal of Gender Studies[3] il fenomeno è stato analizzato in generale, anche sulla base di studi inglesi[4] e italiani[5] sia con specifico riferimento a due di questi siti, InCel (Involontariamente Celibe) e Red Pill (la pillola rosa del risveglio di Matrix).
Tutti i gruppi hanno caratteristiche comuni, utilizzano toni aggressivi e violenti, esaltano la supremazia della maschilità e la subordinazione delle donne e criticano le loro conquiste, che vengono presentate come motivo di erosione dei diritti degli uomini. Insomma, e in breve, ripropongono una mistica della mascolinità attaccando il femminismo e ritenendo le donne colpevoli delle crisi economiche politiche e sociali delle società contemporanee.
Posizioni condivise anche da parte di certe destre o neo-destre, anche quelle italiane che le condividono con le altre europee, con affermazioni che attribuiscono alle conquiste delle donne nel campo del lavoro e più in generale all’emancipazione femminile nel nostro Paese la riduzione dei posti di lavoro per gli uomini, la disgregazione del tessuto sociale e non ultimo il problema della crisi della natalità.
Non a caso nei discorsi di queste organizzazioni le citazioni e le interlocuzioni positive con il femminile riguardano prevalentemente le madri, segno di una postura culturale che ancora non vuole sganciare la figura della donna dalla sua funzione riproduttiva e di cura della famiglia e della prole, non riuscendo ad accettare, in linea con visioni che si sperava essere state sorpassate, anche alla luce del dettato costituzionale, che la libertà e l'autonomia delle donne possono camminare di pari passo con la libera scelta della maternità.
E del resto che il problema esista e che esistano ancora tanti cattivi maestri è testimoniato da un recente studio del Censis[6] che evidenzia che, a fronte del 70 % circa degli italiani che è convinto che la violenza sulle donne sia un problema reale della nostra società e che rileva che effettivamente in Italia sia ancora presente una forte disparità tra uomini e donne, la restante percentuale ritiene che si tratti di un problema che riguarda soltanto una piccola minoranza emarginata dal punto di vista economico e sociale e che comunque si tratti di casi isolati cui viene data una eccessiva attenzione mediatica.
3. Le cause della violenza: studi psicologici sulle cause del femminicidio e dei reati spia e riscontri fattuali
Non c'è dubbio che le cause psicologiche alla base di un femminicidio e dei reati siano particolarmente complesse e si intreccino a fattori di carattere culturale e sociale, oltre che a specifiche cause individuali, sì che riuscire ad analizzarle potrebbe fornire un apporto importante per fronteggiare un fenomeno che, come mostrano le statistiche, in Italia e altrove, non accenna a diminuire
Non è indifferente dunque provare a identificare il profilo psicologico dell'uomo che commette un femminicidio o comunque atti di violenza grave contro le donne, ancora una volta utilizzando uno studio molto datato[7] che, nonostante il tempo trascorso, fornisce spunti di riflessione ed elementi di riscontro rispetto alla realtà attuale.
Lo studio individua varie tipologie di uomini violenti, che descrive partendo da colui che teme la perdita della propria autorità e del proprio dominio e che pertanto esige il totale controllo sugli altri membri della famiglia sui loro movimenti e su qualunque loro azione; segue colui che è incapace di concepire l'autonomia altrui, che vede come una minaccia di possibile abbandono, ragione per cui sviluppa una forma di dipendenza nei confronti delle donne a cui si lega non potendo accettare un'eventuale rifiuto o un allontanamento della donna dal rapporto; e ancora colui che ha bisogno di un continuo rinforzo di autostima dall'esterno e che si abbandona a reazioni rabbiose in caso di critica per il suo comportamento, anche ove questo consista in abusi di sostanze; ed infine colui che cerca un rapporto fusionale con la sua compagna agendo con una violenza proporzionata al timore di perdere l'oggetto del suo affetto.
Quasi sempre, rileva l'autrice, il quadro psicologico dell'uomo che maltratta include quindi un desiderio ossessivo di controllo nelle relazioni, desiderio che spesso si manifesta attraverso un'eccessiva gelosia e alla necessità di dominare la propria compagna, reagendo con comportamenti violenti, con l’insulto, la denigrazione continua, le offese, la limitazione della libertà fino alle percosse e la morte, quando si sente minacciato dalla perdita di controllo, quindi utilizzando la punizione come mezzo per ristabilire il proprio dominio.
La descrizione di queste tipologie trova ancora oggi pieno riscontro negli atti processuali dei reati di violenza di genere dove effettivamente le denunce delle vittime e le stesse dichiarazioni degli autori del reato raccontano e documentano la mania del controllo ossessivo, la gelosia altrettanto ossessiva utilizzata come strumento di legittimazione della propria condotta violenta, la vittimologia applicata a se stessi al fine di rinviare alla condotta della controparte la responsabilità della propria, quando agita sotto l'effetto di droghe o di alcol; ed infine la frustrazione per la propria inadeguatezza di fronte a un rapporto in cui la vittima gli si rappresenta come superiore o comunque portatrice di una istanza di autonomia che gli risulta inaccettabile.
Si può dire che ogni processo per violenza di genere contenga uno, molto spesso più d’uno, talora persino tutti, questi sintomi i quali evidenziano nelle condotte agite, fattori di rischio il cui minimo comune denominatore è una mascolinità tossica, termine con cui si indica l'insieme di credenze culturali che porta a considerare la donna come un oggetto privo di identità e di autonomia e soprattutto privo del diritto di essere considerato un essere umano con tutti i diritti che ne conseguono poiché vista esclusivamente in un'ottica di stereotipia di genere.
Le cause, ricercate proprio attraverso le costanti che ricorrono negli episodi di femminicidio e di violenza , possono essere trovate talora nella scolarizzazione di basso livello, o anche nella violenza subita o nelle violenze domestiche cui l’agente ha assistito da bambino, nell’abuso di alcol e di droghe. Ma soprattutto nell’accettazione, come fatto culturale, della legittimità della violenza e del ricorso ad essa per disciplinare i rapporti sentimentali: e quindi, nel sistema patriarcale, che ancora impronta di sé la società.
4.Patriarcato, maschilismo e i giovani: un problema non sempre connesso all’età
Il termine patriarcato è stato usato per la prima volta nel diciannovesimo secolo dagli antropologi per definire il modello familiare verticale dove la figura del pater familias aveva un ruolo assolutamente preponderante.
La definizione di cultura patriarcale, però, si è allargata nel corso della storia e non identifica più un modello di società familiare ma un modello culturale, un dogma sociale e un format comportamentale.
È questo tipo di cultura ad aver prodotto quegli atteggiamenti maschilisti e fondamentalmente misogini che mirano a suggerire una supremazia dell'uomo nei confronti della donna, sì che può dirsi che la cultura patriarcale sia quindi un insieme storico-politico che ha prodotto la mentalità maschilista caratterizzata da atteggiamenti misogini.
È per questo che può dirsi che oggi il patriarcato non attinge soltanto colui che è vissuto in un mondo che conosceva, coltivava e accettava quel modello come l'unico possibile e quindi quasi “naturalmente” relegava le donne in precisi ambiti e le escludeva categoricamente da alti, consentiti soltanto agli uomini: insomma il mondo dei nostri nonni e in parte anche dei nostri padri.
Se così fosse dovrebbe essere escluso a priori che reati di genere possano essere commessi da giovani cresciuti in una realtà in cui questo non è più il modello vigente, visto che oggi le donne possono scegliere di laurearsi, di fare i medici al Pronto Soccorso, di guidare TIR con rimorchio e taxi di notte, di giocare a pallone e di fare l'astronauta.
E tuttavia è da chiedersi perché in un mondo in cui il delitto d'onore non esiste più da tempo, anche se non da tanto tempo, la dichiarata gelosia quale forma di amore continua a mietere vittime e continua paradossalmente a essere una causa psicologica di autoassoluzione o almeno di giustificazione in punto di difesa rispetto a una serie di violenze contro le donne, psicologiche e fisiche fino ad arrivare all'estremo dell'uccisione.
La risposta non può che essere che il patriarcato, che si nutre di maschilismo, non è stato sradicato e ancora esiste in tutte le fasce sociali e in tutte le età come forma culturale tuttora esistente, talora in forma strisciante e quasi occulta, talora in forma manifesta che ancora permea la realtà di molti paesi cosiddetti civilizzati tra i quali il nostro.
5. I dati: l’importanza dello studio statistico per uscire dalla invisibilità
Che il problema della violenza di genere sia reale lo confermano anche i dati sulla delittuosità a essa connesse anche se non è facile comporre tutti i pezzi di un puzzle complesso dove il sommerso e la mancata denuncia hanno ancora oggi un peso determinante.
Alcuni dei dati tratti dalle statistiche sui reati di genere, seppur non completi e riferiti ad anni diversi, possono però contribuire a delineare le caratteristiche dei reati di cui sono vittime le donne.
In primo luogo le statistiche rivelano che le donne costituiscono la maggior parte delle vittime di tutti i reati a sfondo sessuale, che nella maggior parte dei casi si configurano come veri e propri reati di genere: violenze sessuali, pornografia infantile, corruzione di minori, atti sessuali con minori, sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione e stalking.
Nel Rendiconto di Genere 2024 pubblicato nel marzo 2025 dal CIV (Consiglio di indirizzo e vigilanza dell'Inps) si analizzano, per il 2021, 2022, 2023, attraverso un'analisi sia di tipo sia quantitativo che qualitativo la condizione delle donne in Italia nei diversi contesti economici e sociali e tra questi anche la violenza di genere precisando che quest'ultima fa riferimento all'insieme degli atteggiamenti e dei comportamenti discriminatori prevaricatori o lesivi, di tipo fisico, psicologico, sessuale ed economico nei confronti delle donne.
Lo studio precisa di aver preso in considerazione diversi indicatori statistici tra cui soprattutto i cosiddetti reati spia (in particolare maltrattamenti in famiglia e violenze sessuali) che si configurano come dei veri e propri segnali di allarme da monitorare per individuare situazioni di rischio e intervenire in modo tempestivo.
I dati, tratti da quelli forniti dal Ministero dell'Interno- Direzione Centrale della polizia criminale- evidenziano che complessivamente, dal 2023 al 2024, si è registrato un aumento di tali reati; e infatti in entrambi gli anni la maggioranza delle vittime è di sesso femminile. Precisamente, delle 24.154 vittime nel primo semestre del 2023, più di 19.000 sono donne e delle 26.684 vittime nel primo semestre del 2024 più di 21.000 sono donne.
L’analisi rivela altresì nello specifico che l'incidenza delle vittime di genere femminile nel periodo temporale analizzato è del 74% per gli atti persecutori, dell'81% per i maltrattamenti contro familiari e conviventi e del 91% per le violenze sessuali.
Per quanto riguarda invece gli omicidi volontari l'analisi evidenzia l’elevata correlazione tra contesti relazionali stabili e violenza di genere: infatti nonostante ci sia stata in Italia una lieve diminuzione complessiva dal 2022 al 2023, rimane elevata la percentuale di vittime di genere femminile, soprattutto in ambito familiare e affettivo dove si registra il 72% nel 2022 e il 65% nel 2023 di cui ben il 91% nel 2022 e l’87% nel 2023 posti in essere da partner o ex partner.
6. I rimedi, quelli attuali e quelli immaginabili per il futuro. L’obiettivo culturale
Sicuramente la normativa vigente in Italia ha fatto passi da gigante rispetto a una legislazione che contemplava il delitto d'onore e il matrimonio riparatore, solo per citare gli istituti più eclatanti, sintomi evidenti di una società che collocava uomini e donne su piani completamente diversi sancendo per tabulas il predominio assoluto degli uni rispetto alle altre.
I reati di genere, di cui le donne troppo frequentemente sono state vittima fino al caso estremo del femminicidio e che rappresentano l'aspetto più drammatico e preoccupante della discriminazione di genere, sono finalmente usciti dalle mura domestiche dove erano stati per anni reati sommersi e nascosti.
Finalmente di violenza di genere si parla e sulla violenza di genere si interviene attraverso iniziative di prevenzione e di sensibilizzazione con una rete di servizi di assistenza e supporto alle vittime soprattutto attraverso il sistema normativo.
Da ultimo, la legge 69 del 2019 rappresenta un punto di arrivo non soltanto per l’aspetto punitivo ma anche educativo.
Come noto la legge, oltre a inasprire le pene nei confronti di reati già esistenti, a introdurre nuove circostanze aggravanti e a introdurre una corsia preferenziale per accelerare i procedimenti penali relativi ai reati di genere e rendere più rapida l'adozione di eventuali provvedimenti di tutela, ha introdotto nuovi reati tra cui il Revenge porn ovvero la diffusione non consentita di immagini o video sessualmente espliciti, la deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti viso, il matrimonio forzato e la violazione del provvedimento di allontanamento da casa ovvero di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
Ma ha anche introdotto sistemi che vanno oltre il processo e che si occupano dell’autore della violenza al di là e oltre l’applicazione di una sanzione.
Tra queste la previsione della obbligatoria subordinazione della sospensione della pena a seguire percorsi rieducativi presso enti o associazioni a ciò deputate per uomini maltrattanti, la cui responsabilità sia stata accertata in sentenza.
Lo strumento è importante ed esprime bene il concetto dell’acquisizione necessaria di strumenti di comprensione su quanto agito in chi ha dimostrato di non averne.
Anche se va supportato adeguatamente con strutture idonee e gratuite che consentano a tutti i condannati di accedervi e di accedervi immediatamente affinché la previsione non resti sulla carta o crei discriminazioni tra chi può aderire con mezzi propri e chi non può farlo, questa previsione rappresenta la prova che anche per questi reati, forse più che per altri, la funzione rieducativa e dunque il dato culturale è fondamentale.
Altri strumenti si pongono fuori dal campo del reato e prima dell’avvio della macchina processuale: tra questi, oltre ai call center del numero verde di pubblica utilità, attivo 24 ore su 24 e con servizio di ascolto multilingue, di importanza strategica fondamentale la possibilità per le donne di avere aiuto usufruendo di un sistema di tutela e di supporto di cui fanno parte operatori pubblici e del privato sociale e che fa capo ai centri antiviolenza attivi su tutto il territorio.
Non da sottovalutare, ma certamente da implementare, la previsione del Fondo per il Reddito di Libertà per le donne vittime di violenza, contributo economico mensile erogato dall'Inps a donne seguite dai Centri Antiviolenza riconosciuti dalle Regioni e dai servizi sociali nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza: misura introdotta nel nostro ordinamento nel 2020, che, anche se limitata in relazione alle effettive disponibilità del Fondo e al gran numero di donne che vi hanno fatto ricorso, è senz’altro un sostegno utile a favorire l'indipendenza economica e quindi l'autonomia personale e abitativa di donne vittime di violenza, cui sono state costrette a soggiacere a causa della mancanza di disponibilità economica e quindi in ragione della loro condizione di particolare fragilità e povertà.
Quanto al futuro, oltre a perseguire e implementare tutte le misure esistenti che possano arginare e possibilmente estinguere i reati di violenza di genere, la misura realmente più adeguata, meglio dire essenziale e imprescindibile, è quella di programmare a tutti i livelli un piano culturale che cominci fin dalle scuole primarie.
I Dipartimenti di studi sulla violenza di genere costituiti presso molte università sono un passo importante ma non sufficiente. Chi approda a tali corsi di studio già manifesta una sensibilità verso il problema, una consapevolezza e una scelta culturale che certo può contribuire a migliorare la percezione nel sociale ma che non basta.
Occorre agire nelle scuole, superando il pregiudizio che vede nei bambini e nei ragazzi degli esseri che vanno protetti rispetto a problematiche quali quella della violenza di genere. I bambini e i ragazzi informati adeguatamente oggi saranno donne e soprattutto uomini del domani consapevoli e rispettosi dei diritti umani tra i quali sicuramente si colloca quello delle pari opportunità tra uomo e donna e del rifiuto di ogni forma di discriminazione e di violenza.
Così facendo si darà una bella eredità a quei tanti, tantissimi uomini che già oggi rifuggono da una visione maschilo-centrica della società e su cui bisogna confidare affinché essa sia definitivamente superata.
[1] Liz Kelly, Surviving Sexual Violence, Ed Policy production, 1988.
[2] Massimo Sandal : Il femminicidio ha radici psichiatriche? Riflessioni di Mauro Masini- Associazione Confini –Uomini Maltrattanti.
[3] Annalisa Dordoni e Sveva Magaraggia 2021 Università Bicocca Milano.
[4] Banet – Weiser 2019.
[5] Vingelli 2019, Farci e Righetti 2019.
[6] WEB BOOK 2025- Studi Sociali e Cittadinanza.
[7] Theoretical consideration of violent marriage - Margareth Elbow 1977.
Immagine: “Take Back the Night photograph,” 1980s. Duke University Archives via Flickr.
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