ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Marco Imperato
La legge 69 del 2019 (il c.d. Codice Rosso), in vigore dallo scorso 9 agosto, è l’ennesimo intervento del legislatore che si occupa del fenomeno della violenza domestica e di genere.
Sono introdotte numerose novità di natura sostanziale, a cominciare dall’ennesimo aumento delle pene edittali e dall’introduzione di nuove figure di reato: diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate (cd. revenge porn), deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, costrizione o induzione al matrimonio e la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
La norma manifesto dell’intero provvedimento, tuttavia, è quella che stabilisce l’obbligo di assumere informazioni dalla persona offesa e da chi ha presentato denuncia entro 3 giorni dall’iscrizione nel registro delle notizie di reato.
Il vero intento della regola, sintomatica di profonda sfiducia verso la magistratura, è quello di esercitare pressione sulle Procure affinché garantiscano l’ascolto delle vittime in tempi strettissimi: da un’eventuale violazione del termine, infatti, non deriverebbe alcuna sanzione processuale e l’unica conseguenza effettiva sarebbe solo un procedimento disciplinare a carico del Pubblico Ministero inadempiente. Questo monito non credo contribuirà in alcun modo a garantire un servizio migliore; anzi, toglie serenità a chi deve valutare quotidianamente moltissimi fatti potenzialmente delicati ma ciascuno diverso dall’altro (e se io fossi una vittima o un indagato ci terrei molto alla serenità dell’autorità giudiziaria…).
L’ urgenza presunta ex lege per casi tra loro eterogenei (maltrattamenti e atti persecutori di qualsiasi gravità, violenze sessuali, lesioni aggravate di vario tipo) è incongrua e illogica perché costringe a trattare allo stesso modo e con analoga urgenza situazioni che dovrebbero consentire scelte e valutazioni differenziate.
Sarebbe come pretendere di diminuire i tempi di attesa al Pronto Soccorso solo stabilendo che tutti i malati vanno trattati con codice rosso (appunto…) e quindi massima priorità: è lapalissiano che senza aumentare le risorse a disposizione non vi potranno essere miglioramenti, ma si rischierà soltanto di ingolfare ancor di più il lavoro di chi deve gestire l’emergenza, senza alcun beneficio per le vittime in sala d’attesa.
Si tratta di scelte che non rispondono a logiche di funzionalità ma a strategie di propaganda.
La legge si preoccupa anche della formazione degli operatori ma non bastano enunciati generici; in questa materia l’esperienza è necessaria e la sfida sarebbe garantire un approccio adeguato anche da parte delle forze dell’ordine più “periferiche”, baluardo indispensabile nel Paese dei centri medio-piccoli (due terzi degli italiani vivono in comuni da meno di 50.000 persone), ma a cui è difficile chiedere una gestione professionale quando manca loro la possibilità stessa di specializzarsi. Senza dimenticare la difficoltà a districarsi in una giungla di novità legislative compulsive in cui si disorientano anche gli operatori giuridici più esperti.
Soprattutto agli operatori di prima linea sarebbe di aiuto un quadro normativo chiaro, stabile e semplificato, per aiutarli ad orientarsi nelle prime decisive scelte dell’indagine e nelle indicazioni da dare alla vittima al primo contatto.
Per gestire in modo più razionale l’emergenza del fenomeno, nella Procura Bologna si è data disposizione di utilizzare un protocollo di valutazione del rischio denominato SARA (Spousal Assault Risk Assessment), che consente di dare maggiore uniformità ed oggettività alla verifiche di rischi e priorità, ma non si potrà mai prescindere da esperienza, sensibilità personale e contesto culturale.
In questo quadro, la previsione dell’audizione automatica e immediata della vittima entro 3 giorni (spesso la seconda audizione, perché in molti casi l’indagine scaturisce da una denuncia\querela) rischia per un verso di essere inutile perché ripetitiva, per altro verso di risultare dannosa, perché si traduce nella c.d. vittimizzazione secondaria della persona offesa, cui ogni rievocazione delle condotte subite può provocare sofferenza ulteriore. Tanto è vero che nel recente passato la scelta legislativa era stata di segno opposto, mirando ad un’audizione unica della vittima, mediante la previsione dell’incidente probatorio per le persone offese dei medesimi reati per cui oggi si pretende invece un (secondo) ascolto frettoloso e senza contraddittorio.
Mi occupo di violenza domestica e di genere ormai dal 2004 e ho spesso ritenuto essenziale risentire le vittime di questi reati, ma non di rado è opportuno farlo solo dopo aver ampliato il ventaglio di conoscenze del contesto mediante altre indagini (così da saper porre anche le domande giuste); quando non emergono immediati ed evidenti elementi di rischio sarà anzi utile procedere ad una nuova audizione almeno dopo qualche settimana e non immediatamente.
Chi si occupa di queste vicende sa bene quanto fluide e instabili siano queste situazioni e quindi volta per volta va verificato l’andamento della vicenda e anche se vi siano dei cambiamenti nell’approccio della persona offesa. Eventuali ripensamenti della vittima non sono sempre determinanti o affidabili, potendo a volte essere il segnale anzi di situazione di vulnerabilità e paura, ma nemmeno possono essere ignorati: la persona che subisce dei maltrattamenti non va spremuta ma accompagnata, con un lavoro e un’attenzione che non sono mai meramente investigativi ma che devono farsi carico del contesto concreto.
Ancora una volta il profilo che manca in questa iniziativa legislativa è la prevenzione (non potendosi ritenere tale la mera previsione di misure di prevenzione in senso tecnico): ci si illude di risolvere un fenomeno così complesso e radicato concentrandosi solo sui sintomi e sulle conseguenze, senza fare alcuna seria riflessione o investimento sulle cause culturali, sociali ed economiche.
Si è di fatto investito il procedimento penale anche di funzioni preventive, che possono essere svolte dai nostri Uffici solo in casi specifici e comunque solo in presenza di gravi indizi di colpevolezza e concrete esigenze cautelari. Questo approccio non solo è inadeguato, ma complica le cose nel momento in cui il processo penale pone (giustamente e inevitabilmente) standard molto alti dal punto di vista probatorio e delle garanzie.
Se vogliamo davvero invertire la tendenza che vede questi fenomeni crescere inesorabilmente (e con loro crescono i costi umani e sociali della violenza), le vere sfide da affrontare sono al di fuori del processo penale:
- Prevenzione culturale che rimetta al centro la donna, la sua dignità e indipendenza nella società e all’interno dei nuclei familiari
- Sostegno alle pari opportunità come primo passo di emancipazione delle donne (la fragilità economica è un fattore non secondario nel rafforzare situazioni di maltrattamento e abuso)
- Forte campagna di informazione ed educazione per aiutare a riconoscere e prevenire gli abusi e per rendere le vittime consapevoli dei propri diritti
- Sostengo alle famiglie e alle comunità
- Politiche di integrazione in particolare verso il mondo dell’immigrazione, nel quale spesso la condizione femminile è ancor più vulnerabile e isolata
- Sostegno dopo il processo: cosa ne è della vittima una volta terminata la misura cautelare o emessa la sentenza?
Tutto questo poi deve trovare alla fine un sistema giustizia complessivamente credibile ed efficace, perché le vittime devono poter riporre fiducia nelle forze dell’ordine, nella magistratura e nella capacità delle istituzioni di non lasciarle da sole.
Nel contrasto alle violenze domestiche e di genere bisogna uscire dall’eterna emergenza di una stagione di propaganda, per avviare una percorso di serio investimento in cultura e risorse, affinché le regole già esistenti siano conosciute ed applicate con effettività e al contempo si diffonda consapevolezza di quanto sia prioritario proteggere le donne e sostenere la loro piena emancipazione e realizzazione.
di Giuseppe Fichera
Sommario: 1. – L’antefatto processuale. 2. – L’ordinanza interlocutoria delle Sezioni Unite del 2018. 3. – Il contraddittorio nel procedimento di approvazione del piano di riparto. 4. – Le conseguenze della violazione del contraddittorio. 5. – La decisione delle Sezioni Unite del 2019.
1. – L’antefatto processuale.
La vicenda che si commenta con queste brevi note ha certamente un tratto assai singolare: la violazione del contraddittorio tra tutti i creditori ammessi al concorso fallimentare nell’ambito del procedimento di approvazione di un piano di riparto delle somme da distribuire tra i medesimi creditori, viene rilevata d’ufficio per la prima volta dalle Sezioni Unite della S.C., dopo che la questione era passata sostanzialmente inosservata – nessuna delle parti avendo sollevato eccezioni di sorta sul punto – sia davanti al giudice delegato alla procedura che al tribunale fallimentare e pure innanzi ad un collegio della Prima sezione civile della medesima S.C.
In fatto la questione portata all’esame della S.C. può così riassumersi in breve: il commissario straordinario di una società, già posta in amministrazione straordinaria ex d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 (la c.d. Prodi bis), depositò un piano di riparto parziale dell’attivo disponibile tra taluni creditori già ammessi al concorso.
Avverso il detto piano di riparto venne proposto reclamo dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, dal Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (di seguito breviter i “Ministeri”), tutti soggetti che risultavano non ancora ammessi al concorso, essendo pendente il relativo giudizio di opposizione innanzi al tribunale fallimentare; il giudice delegato accolse il reclamo, ordinando l’accantonamento di tutte le somme appostate nel detto piano di riparto.
I Ministeri reclamanti, in particolare, contestavano la possibilità di procedere al riparto, sussistendo un loro credito di natura prededucibile – conseguente a danni da disastro ambientale cagionato dall’attività industriale svolta dalla società debitrice – pari complessivamente a circa 3,439 miliardi di euro, destinato ad essere pagato in via preferenziale; il giudice delegato, in prime cure, ritenne che fosse necessario un accantonamento integrale dell’attivo liquidato, in vista del relativo accertamento dei crediti all’esito del cennato giudizio di opposizione pendente.
Un creditore concorrente, già ammesso alla distribuzione dell’attivo disponibile in base al progetto di riparto parziale originario, propose allora reclamo avverso il decreto del giudice delegato, che venne accolto dal tribunale; il collegio del reclamo affermò che, alla luce delle risultanze dello stato passivo, non poteva tenersi in considerazione il credito vantato dalle amministrazioni – escluso dal concorso e dunque senza titolo idoneo a fondare una pronuncia interinale di accantonamento –, non potendosi includere i crediti degli opponenti allo stato passivo tra quelli di cui all’art. 110, comma quarto, l.fall., posto che la detta norma si riferisce esclusivamente ai crediti già inclusi nel piano di riparto anche se contestati; in mancanza quindi di una giustificazione dell'accantonamento, il tribunale dichiarò l’esecutività del progetto di ripartizione depositato dal commissario.
I Ministeri reclamati a questo punto proposero ricorso per cassazione avverso il decreto del tribunale; ad esso resistettero con controricorso il creditore concorrente e, in unica difesa, la società in amministrazione straordinaria e il suo commissario straordinario.
Con ordinanza interlocutoria n. 9250 del 13 aprile 2018, la Prima sezione civile, rimise gli atti al Primo presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
In particolare, le Sezioni Unite furono sollecitate dall’ordinanza interlocutoria a decidere la seguente questione di massima di particolare importanza: «se sia ammissibile il ricorso per cassazione, ex art. 111, comma settimo, Cost., nei confronti del decreto del tribunale fallimentare che, decidendo sul reclamo contro il provvedimento del giudice delegato, abbia ordinato l’esecuzione del piano di riparto parziale, avuto riguardo alla sua idoneità a stabilire, in maniera irreversibile o meno, da un lato, il diritto del creditore concorrente a partecipare al riparto dell’attivo fino a quel momento disponibile e, dall’altro, il diritto degli altri interessati ad ottenere gli accantonamenti nei casi previsti dall’art. 113 l.fall.».
2. – L’ordinanza interlocutoria delle Sezioni Unite del 2018.
Va premesso che con Cass. S.U. 26 settembre 2019, n. 24068, le Sezioni Unite in commento hanno risolto, in maniera abbastanza agevole, la questione di massima di particolare importanza sottoposta dalla cennata ordinanza interlocutoria della prima sezione civile, dando continuità a quello che si può definire un orientamento “granitico” della S.C. (a partire già dalle remote Cass., Sez. 1, 27 gennaio 1961, n. 124 e Cass., Sez. 1, 4 aprile 1962, n. 703, cui fecero seguito una serie di arresti tutti in assoluta continuità, tra i quali merita di essere menzionata la fondamentale Cass., Sez. 1, 6 maggio 1992, n. 5358), pronunciando il seguente principio di diritto: «il decreto del Tribunale che dichiara esecutivo il piano di riparto parziale, pronunciato sul reclamo avente ad oggetto il provvedimento del giudice delegato, nella parte in cui decide la controversia concernente, da un lato, il diritto del creditore concorrente a partecipare al riparto dell'attivo fino a quel momento disponibile e, dall'altro, il diritto degli ulteriori interessati ad ottenere gli accantonamenti delle somme necessarie al soddisfacimento dei propri crediti, nei casi previsti dall'art. 113 l.fall, si connota per i caratteri della decisorietà e della definitività e, pertanto, avverso di esso, è ammissibile il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111, co. 7°, Cost.».
Quello che ci interessa approfondire in questa sede, invece, è il tema sollevato con una precedente ordinanza interlocutoria – la n. 31266 del 4 dicembre 2018 – delle medesime Sezioni Unite della Corte di Cassazione; con il cennato provvedimento il S.C. aveva espressamente richiesto all’Ufficio del Massimario del Ruolo della S.C. una “relazione di approfondimento” (ai sensi del § 71.2. delle vigenti tabelle di organizzazione della Cassazione), evidenziando l’esistenza di una questione processuale, mai sollevata da alcuna delle parti nel corso del procedimento né rilevata d’ufficio dai giudici, concernente la esatta individuazione di chi sia legittimato all'impugnativa di un piano di riparto e, conseguentemente, sui soggetti nei cui confronti vada sempre integrato in contraddittorio in sede di reclamo endofallimentare.
3. – Il contraddittorio nel procedimento di approvazione del piano di riparto
La problematica sollevata d’ufficio dalla cennata ordinanza interlocutoria delle Sezioni Unite, tra origine dal singolare iter processuale seguito dalle impugnazioni al piano di riparto sottoposto all’esame del Giudice di legittimità.
E invero, l’iniziale progetto di ripartizione in favore dei creditori in prededuzione e di ripartizione parziale in favore dei creditori pignoratizi, ipotecari e privilegiati generali fino al nono grado, già ammessi al concorso, presentato dal commissario straordinario al giudice delegato, venne comunicato, su ordine di quest’ultimo, a tutti i creditori concorrenti a mezzo PEC.
Nei quindici giorni successivi avverso il detto progetto di riparto parziale i Ministeri proposero reclamo ex art. 36 l.fall.; il giudice delegato, con decreto inaudita altera parte, dispose la sospensione dell’esecuzione del riparto delle somme, ordinando ai reclamanti di dare comunicazione del reclamo a mezzo PEC al commissario straordinario.
La società in amministrazione straordinaria depositò quindi una memoria difensiva, in seno alla quale chiedeva di respingere il reclamo; pure taluni tra i creditori ammessi al concorso con il privilegio generale mobiliare ex art. 2751-bis, n. 2), c.c. (tutti professionisti che avevano reso le proprie prestazioni in favore della società quando era ancora in bonis), intervennero volontariamente nel procedimento, concludendo senz’altro per il rigetto del reclamo.
Il giudice delegato, in primo luogo ritenne inammissibile l’intervento volontario in giudizio sia della società in amministrazione straordinaria che dei creditori non reclamanti – essendo, secondo il suo parere, unici contraddittori, nel reclamo ex art. 36 l.fall., il reclamante e il commissario della società in amministrazione straordinaria – e, invece, giudicò ammissibile il reclamo proposto dai creditori non ancora ammessi al concorso; accolse poi integralmente il reclamo, rigettando la richiesta di esecutività del progetto di ripartizione parziale avanzata dal commissario straordinario e disponendo nel decreto che le somme indicate nel piano di riparto restassero “accantonate”.
Uno soltanto tra i creditori concorrenti che erano intervenuti volontariamente nel reclamo, propose allora reclamo, ex art. 26 l.fall., avverso il detto decreto del giudice delegato. Fissata dal presidente della sezione fallimentare udienza per la comparizione delle parti, il reclamo venne notificato, a cura del medesimo reclamante, ai Ministeri – che si costituirono con memoria difensiva –, nonché alla società in amministrazione straordinaria e al suo commissario straordinario, che invece non spiegarono alcuna difesa.
Il tribunale, sovvertendo integralmente la decisione del giudice delegato, ritenne ammissibile senz’altro l’intervento dei creditori concorrenti nel procedimento di impugnazione del piano di riparto; accolse pure il reclamo proposto dal professionista intervenuto volontariamente in prime cure, dichiarando esecutivo il progetto di ripartizione parziale in precedenza depositato dal commissario straordinario.
A questo punto i Ministeri proposero ricorso per cassazione avverso il decreto del tribunale fallimentare reso sul reclamo proposto dal professionista; ad esso resistettero con controricorso il creditore concorrente vittorioso in sede di reclamo, e, in unica difesa, la società in amministrazione straordinaria e il suo commissario straordinario.
Ora, per capire meglio il tema di indagine, è forse utile qui ricordare che il testo dell’art. 110, comma terzo, l.fall., come introdotto dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, prevedeva che il giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, ordinasse il deposito del progetto di ripartizione in cancelleria, disponendo che tutti i creditori, compresi quelli per i quali era in corso un giudizio di opposizione allo stato passivo, ne fossero avvisati mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento o altra modalità telematica.
I creditori, entro il termine perentorio di quindici giorni dalla ricezione della comunicazione di cui al secondo comma, potevano «proporre reclamo contro il progetto di riparto nelle forme di cui all’articolo 26».
Ai sensi del quarto comma dell’art. 110 l.fall., decorso il termine per proporre reclamo, il giudice delegato, su richiesta del curatore, dichiarava esecutivo il progetto di ripartizione.
Con il d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 (il c.d. “decreto correttivo”), si è stabilito invece che il giudice ordina il deposito del progetto di ripartizione in cancelleria, disponendo che tutti i creditori, compresi quelli per i quali è in corso uno dei giudizi di cui all’articolo 98 l.fall., ne abbiano conoscenza integrale a mezzo PEC; non è più previsto invece, dopo il decreto correttivo del 2007, che il giudice delegato debba acquisire il parere del comitato dei creditori.
I creditori, entro il termine perentorio di quindici giorni dalla ricezione della detta comunicazione, possono proporre reclamo al giudice delegato contro il progetto di riparto, ai sensi dell’art. 36 l.fall.
La riformulazione dell’art. 110, terzo comma, l.fall., che ha sostituito al reclamo ex art. 26 l.fall. quello ex art. 36 l.fall., è espressione della scelta della riforma di ridefinire le attribuzioni degli organi delle procedure fallimentari, residuando in capo al giudice delegato soltanto le funzioni di controllo per decidere le impugnative avverso un atto del curatore .
Ora, mentre l’art. 26 l.fall. stabilisce che «Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato, a cura del reclamante, al curatore ed ai controinteressati entro cinque giorni dalla comunicazione del decreto», non potendosi dubitare che nella categoria vi rientrino tutti i creditori che potrebbero subire modifiche nelle quote di riparto loro assegnate, il discorso appare diverso per l’art. 36 l.fall., norma che – essendo prevista in tema di impugnazione dei provvedimenti di amministrazione del curatore – si limita seccamente a disporre che sono legittimati al reclamo il fallito e ogni altro interessato, mentre sotto il profilo procedurale stabilisce che «Il giudice delegato, sentite le parti, decide con decreto motivato, omessa ogni formalità non indispensabile al contraddittorio».
Orbene, sulla legittimazione attiva a proporre reclamo avverso il progetto depositato dal curatore non sembrano sorgere soverchi dubbi, dovendo farsi coincidere i creditori interessati con i destinatari della comunicazione tramite PEC del progetto medesimo; forse più problematico, invece, riuscire a stabilire se il reclamo, da chiunque proposto, debba essere comunicato, oltre al curatore come espressamente presuppone la norma («sentito il curatore»), anche a tutti gli altri creditori concorrenti controinteressati.
L’opinione della dottrina sul punto, peraltro, è unanime nel ritenere che il contraddittorio vada esteso anche ai controinteressati, da intendere qui quali creditori in qualche modo potenzialmente pregiudicati dalla diversa ripartizione auspicata dal reclamante, poiché la relativa quota di riparto potrebbe subire una variazione, ovviamente in peius.
Tuttavia, si pone il problema di affidare al curatore – il cui atto è esattamente quello oggetto del reclamo – la scelta dell’individuazione dei creditori concorrenti controinteressati; sembra allora più opportuno sottrarre una tale valutazione al medesimo reclamato, onerando il curatore di dare avviso del reclamo, ovvero in caso di più gravami, dei reclami proposti, a tutti i creditori concorrenti già destinatari del progetto di ripartizione, mettendoli così in condizione di valutare se intervenire nel procedimento per sostenere o contrastare le ragioni del reclamante.
Va rimarcato, poi, come nella giurisprudenza della S.C., già nel vigore della precedente disciplina introdotta dalla legge del ’42, non erano sorti soverchi dubbi sulla necessità di integrare il contraddittorio, nel caso di reclamo ex art. 26 l.fall. – l’unico allora disciplinato dalla legge fallimentare – avverso il provvedimento del giudice delegato che stabiliva l’esatto contenuto del piano di riparto parziale rendendolo esecutivo.
In un primo tempo, anzi, la S.C. (Cass., Sez. 1, 14 marzo 1985, n. 1983) aveva affermato che poiché la sentenza n. 42 del 1981 della Corte Costituzionale (la quale dichiarò illegittimo l’originario art. 26 l.fall. nella parte in cui assoggettava a reclamo, disciplinato nel modo ivi previsto, i provvedimenti decisori emessi dal giudice delegato in materia di piani di riparto dell'attivo), aveva caducato gli aspetti della disciplina positiva dell’istituto in contrasto con la tutela costituzionale del diritto di difesa (dovendo essere colmata la lacuna discendente dalla pronuncia di incostituzionalità, con le regole generali disciplinanti il procedimento in camera di consiglio), il tribunale, in sede di reclamo contro il provvedimento del giudice delegato che stabiliva e rendeva esecutivo il piano di riparto, fosse tenuto (a pena di nullità rilevabile d’ufficio in sede di impugnazione) all’osservanza del principio del contraddittorio e, quindi, a sentire oltre al reclamante, anche il fallito, il comitato dei creditori, il curatore ed eventualmente anche tutti gli altri controinteressati che ne avessero fatto richiesta.
Successivamente, peraltro, la medesima Corte di legittimità (Cass., Sez. 1, 1 ottobre 1997, n. 9580) aveva chiarito che in sede di reclamo al tribunale fallimentare, contro i provvedimenti resi dal giudice delegato in tema di vendita dei beni acquisiti all’attivo, ai sensi dell'art. 26 l.fall., l’osservanza del principio del contraddittorio richiedeva che il reclamo ed il provvedimento che ordinava la comparizione delle parti per la decisione in camera di consiglio, fossero notificati – spontaneamente dal reclamante o, in difetto, su ordine del tribunale, ed a pena di inammissibilità del rimedio – al curatore fallimentare ed ai soggetti che, con riferimento alla specifica materia che costituisce oggetto del giudizio, erano destinatari degli effetti della decisione; non anche al comitato dei creditori, il quale non aveva, sub Julio, nessun potere di gestione attiva o di rappresentanza del fallimento, ma solo una funzione interna, consultiva e di controllo.
4. – Le conseguenze della violazione del contraddittorio.
Per giurisprudenza costante della S.C., (Cass., Sez. 6-3, 16 marzo 2018, n. 6644; Cass., Sez. 1, 26 luglio 2013, n. 18127; Cass, Sez. 3, 13 aprile 2007, n. 8825; Cass., Sez. 3, 26 febbraio 2004, n. 3866), quando risulta integrata la violazione delle norme sul litisconsorzio necessario, non rilevata né dal giudice di primo grado, che non abbia disposto l’integrazione del contraddittorio, né da quello di appello, che non abbia provveduto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354, primo comma, c.p.c., resta viziato l’intero processo e s’impone, in sede di giudizio di cassazione, l'annullamento, anche d’ufficio, delle pronunce emesse ed il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure, a norma dell’art. 383, terzo comma, c.p.c.
Questo principio ha trovato in passato applicazione anche nell’ambito dei procedimenti in camera di consiglio, esattamente in tema di impugnazione del piano di riparto dell’attivo.
E invero già la S.C. (Cass., Sez. L, 9 luglio 1991, n. 7555) ebbe modo espressamente di affermare la nullità per violazione del principio del contraddittorio – rilevabile di ufficio anche in sede di legittimità – del provvedimento del tribunale che decida sul reclamo avverso il decreto, col quale il giudice delegato aveva dichiarato l'esecutività del piano di ripartizione dell’attivo, allorché tale decisione era stata adottata senza che il reclamo sia stato notificato ai creditori non reclamanti o, comunque, senza che gli stessi siano stati posti in condizione di conoscere l’esistenza del relativo procedimento e di comparirvi, spiegandovi le proprie difese, al fine di non vedere modificata in peius la loro collocazione o compromessa la possibilità di soddisfacimento totale o parziale del loro credito, non rilevando in contrario né che l’esito di detto procedimento fosse stato, in concreto, favorevole a tali creditori, né che questi non avessero proposto, nella fase anteriore di accertamento del passivo, ritualmente la domanda di ammissione.
Di recente, sempre nell’ambito di procedimenti camerale endofallimentari e precisamente in tema di esdebitazione del fallito, la S.C. (Cass., Sez. 1, 9 giugno 2014, n. 12950; Cass., Sez. 1, 25 ottobre 2010, n. 21864) ha cassato, con rinvio al tribunale, il decreto della corte d’appello confermativo del rigetto dell'istanza volta a ottenere il beneficio richiesto dal fallito, perché la domanda con cui il debitore chiedeva di essere ammesso all’esdebitazione non era stata notificata a tutti i creditori concorrenti non integralmente soddisfatti (in applicazione di Corte Cost. 30 maggio 2008, n. 181), ritenendo che la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di tali creditori determini l’inesistenza della pronuncia e la necessità di rimettere la controversia al primo giudice ex art. 354 c.p.c..
E ancora in tema di procedimento camerale di esdebitazione, la medesima S.C. (Cass., Sez. 1, 13 novembre 2015, n. 23303) ha ribadito che i creditori non integralmente soddisfatti, in quanto litisconsorti necessari, non possono essere pretermessi neppure nella fase di reclamo, dovendosi escludere, a pena di nullità rilevabile d'ufficio della decisione assunta, che il contraddittorio possa essere circoscritto a coloro che si siano costituiti innanzi al primo giudice, sicché, in tal caso, la decisione va cassata con rinvio al giudice del reclamo per l’integrazione del contraddittorio.
5. – La decisione delle Sezioni Unite del 2019.
Orbene, nella vicenda all’esame delle Sezioni Unite, come abbiamo visto in precedenza, è risultato incontroverso che il reclamo proposto dai Ministeri avverso il progetto di riparto parziale del commissario straordinario, non venne comunicato da quest’ultimo a nessuno tra i creditori concorrenti, né venne loro notificato su iniziativa dei medesimi reclamanti. E ciò nonostante in seno al reclamo le amministrazioni chiedessero, in sostanza, di accantonare integralmente tutte le somme destinate dal piano di riparto impugnato ai creditori ammessi al riparto, così pregiudicando concretamente il soddisfacimento delle loro ragioni di credito.
Peraltro, lo si è già ricordato sopra, taluni tra i creditori controinteressati ammessi al progetto di riparto parziale, depositarono un atto di intervento volontario – addirittura giudicato inammissibile dal giudice delegato –, mentre si è visto che tutti gli altri creditori concorrenti, pure destinatari delle somme previste nel riparto in base al progetto reclamato e, quindi, certamente controinteressati rispetto ai Ministeri, non spiegarono difese di sorta (è il caso dei creditori in prededuzione, di quelli ipotecari e pignoratizi, dei creditori muniti di privilegio generale ex art. 2751-bis n. 1) e 2) c.c. e degli altri creditori privilegiati generali, tutti ammessi al riparto parziale impugnato).
Quanto al secondo reclamo, quello proposto avanti al tribunale da uno solo tra i professionisti intervenuti nel primo reclamo celebrato davanti al giudice delegato, è sicuro che il ricorso venne notificato – a cura del medesimo reclamante – soltanto ai Ministeri, nonché alla società in amministrazione straordinaria e al suo commissario straordinario; nessuno degli altri creditori concorrenti, compresi quelli già intervenuti spontaneamente nel giudizio di prime cure, ricevettero notizia dell’impugnazione proposta da un loro sodale innanzi al collegio.
Né il tribunale, pure ritenuto ammissibile l’intervento volontario nel giudizio spiegato dal professionista, come quindi dagli altri creditori concorrenti intervenuti solo in prime cure, ritenne di disporre alcuna integrazione del contraddittorio, né nei confronti di questi ultimi, comunque parti processuali in prime cure – e però neppure destinatari della notifica del reclamo da parte del loro originale sodale –, né tantomeno nei confronti degli altri creditori controinteressati rimasti all’oscuro dell’intero procedimento, sia nella fase celebrata innanzi al giudice delegato che in quella davanti al collegio.
Le Sezioni Unite, allora, non possono che prendere atto delle plurime violazioni del contraddittorio che si erano consumate – nel singolare silenzio serbato da tutti i partecipanti al procedimento – nel corso dell’intero giudizio; e la S.C, in continuità con i suoi precedenti arresti, afferma il seguente principio di diritto: «In tema di riparto fallimentare, ai sensi dell'art. 110 l.fall. (nel testo applicabile ratione temporis come modificato dal d.lgs. n. 169 del 2007), sia il reclamo ex art. 36 l.fall. avverso il progetto – predisposto dal curatore - di riparto, anche parziale, delle somme disponibili, sia quello ex art. 26 l.fall. contro il decreto del giudice delegato che abbia deciso il primo reclamo, possono essere proposti da qualunque controinteressato, inteso quale creditore che, in qualche modo, sarebbe potenzialmente pregiudicato dalla diversa ripartizione auspicata dal reclamante, ed in entrambe le impugnazioni il ricorso va notificato a tutti i restanti creditori ammessi al riparto anche parziale».
In sostanza, quale che sia il tipo di impugnazione promosso dalla parte interessata, cioè sia che si tratti di reclamo davanti al giudice delegato, ex art. 36 l.fall., avverso il progetto presentato dal curatore (ovvero dal commissario straordinario), sia che si discuta di quello innanzi al collegio, ex art. 26 l.fall., contro il decreto del giudice delegato, è sempre necessario integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i controinteressati, id est i creditori concorrenti che siano risultati ammessi al riparto anche parziale e che, dall’accoglimento del reclamo, potrebbero subire un concreto pregiudizio discendente dalla diversa ripartizione dell’attivo auspicata dalla parte che abbia promosso il reclamo.
E nella vicenda processuale all’esame della Suprema Corte, plateale si mostra la violazione delle norme sul contraddittorio, non rilevata né dal giudice delegato, il quale non aveva infatti disposto la notifica dell’originario reclamo nei confronti di tutti i creditori ammessi a partecipare al riparto, né dal giudice del reclamo, visto che il tribunale non aveva rimesso la causa al primo giudice, ai sensi dell'art. 354, primo comma, c.p.c., né comunque disposto la necessaria integrazione; l’unica conclusione possibile, allora, è che risulta viziato l'intero procedimento camerale fin dalla sua prima fase celebrata innanzi al giudice delegato.
E infatti, la decisione in commento, a conclusione – ahimè ancora soltanto parziale – di un procedimento teso all’approvazione di un piano di riparto dell’attivo fallimentare, che si era già articolato attraverso ben tre distinte tappe processuali (davanti al giudice delegato, al tribunale fallimentare e ad una sezione semplice della Corte di Cassazione), decidono di cassare d’ufficio il provvedimento impugnato, riportando tutto l’iter direttamente innanzi al primo giudice, id est quel giudice delegato alla procedura concorsuale, che avrebbe dovuto disporre l’integrazione del contradditorio nei confronti di tutti i creditori ammessi al piano di riparto parziale e, quindi, controinteressati rispetto agli originari reclamanti.
Ruolo del giudice, soggetti vulnerabili e soft skills*
di Rita Russo
Sommario. 1. Utilità delle competenze trasversali . 2.- Soggetti vulnerabili e processo civile. 3.- Conclusioni.
1.- Utilità delle competenze trasversali
Le soft skills, dette anche competenze trasversali, sono abilità personali diverse dalle competenze tecnico scientifiche (hard skills) e che variano da individuo a individuo: tra queste, le capacità comunicative, gestionali, di risoluzione dei problemi, di adattamento, etiche.
Queste competenze sono dette anche life skills o interpersonal skills e sono tratti del comportamento, che definiscono la personale capacità di essere – ad esempio- un leader, un listener, un mediatore di conflitti[1].
Valorizzate specialmente nella cultura aziendalistica e utilizzate come criteri di selezione del personale, perché consentono di essere più efficienti ed efficaci nel raggiungimento degli obiettivi, non sono del tutto sconosciute nell’ambito dell’ordinamento giudiziario.
Sebbene non siano richieste per l’accesso in magistratura, giocano un ruolo più o meno importante, secondo i casi, per la progressione in carriera: nei pareri che i capi degli uffici e i consigli giudiziari rendono sui magistrati vi è sempre un riferimento, più o meno articolato, alla capacità del soggetto di organizzarsi e di rispettare gli impegni prefissati, al senso del dovere, alla disponibilità ad adattarsi alle esigenze dell’ufficio, alla capacità di interloquire correttamente con i colleghi, con il foro e con il personale amministrativo. Nelle procedure di nomina e conferma dei dirigenti, inoltre, si valorizzano le capacità organizzative e gestionali; anzi, sono previsti corsi di formazione obbligatori per aspiranti dirigenti, ove però una larga parte della offerta formativa si concentra sulle hard skills (ad esempio come elaborare correttamente un programma di gestione).
In verità, sembra che la magistratura non abbia ancora deciso se le soft skills (e quali) costituiscono competenze professionali su cui è doveroso che ogni magistrato -e non solo chi aspira ad incarichi dirigenziali- concentri la sua attenzione, oppure una dote in più, di cui taluni magistrati sono maggiormente provvisti ed altri meno, per ragioni insondabili ed insondate.
Ciononostante, può essere utile avviare una riflessione su queste competenze e chiedersi se esse possono essere impiegate in maniera strutturata nell’ordinario esercizio della giurisdizione e in quali aree della giurisdizione possono essere maggiormente utili.
Questa riflessione non può avviarsi senza muovere da una definizione, sia pure correndo il rischio di assumere a base del ragionamento definizioni non unanimemente condivise, non universalmente valide e non necessariamente esaustive. Un punto di partenza, ai fini che possono interessare un magistrato, potrebbe essere la definizione di cui sopra si è detto: le soft skills come capacità del soggetto di essere leader, listener, negotiator, ovvero conflict mediator.
Abbastanza ovvia appare l’utilità di avere dirigenti degli uffici capaci di essere leader, e cioè di avere quel carisma e quella credibility che induce gli altri a fidarsi; si potrebbe però dire che questa capacità dovrebbe armonizzarsi anche con altre, e cioè con la capacità di ascoltare e –di conseguenza- e di mediare i conflitti[2].
La capacità di essere un buon listener è però utile anche al singolo giudice o pubblico ministero, specialmente nella giurisdizione di primo grado, dove la corretta attenzione a ciò che comunicano le parti, gli avvocati, gli ausiliari e la conseguente adeguata selezione delle informazioni utili, è essenziale al fine di trasformare la magmatica realtà dei fatti in un buon processo e di giungere ad un giudizio equo.
In particolare, le competenze trasversali possono – e forse devono- essere utilizzate quando il processo riguarda i soggetti vulnerabili.
L’attività di interlocuzione del giudice e del P.M. con i soggetti vulnerabili ha conquistato negli ultimi anni sempre maggiore spazio nel processo, di pari passo con la sempre maggiore attenzione che la legislazione nazionale ed europea e le Convenzioni internazionali riservano a queste persone e alle loro specifiche esigenze[3].
Per i soggetti vulnerabili si deve assicurare non solo la tutela di merito, cioè rendere correttamente il provvedimento che attui i loro diritti, ma anche la tutela procedimentale: ciò vuol dire assicurare la loro partecipazione al processo rispettandone la condizione di vulnerabilità, in modo da evitare che detta partecipazione, anziché il momento in cui si esercita un diritto, divenga per il soggetto fonte di trauma e di danno.
Per questa ragione il magistrato ha necessità di acquisire delle competenze che gli consentano di interloquire con il soggetto vulnerabile in maniera da ridurre al minimo il disagio della partecipazione al processo; al tempo stesso sono necessarie le competenze che consentano di percepire correttamente le informazioni, istanze ed esigenze che il soggetto debole, a causa della propria condizione, talora stenta ad esprimere correttamente.
Con il soggetto vulnerabile, infatti, spesso si pone il problema della sua credibilità o attendibilità, ovvero ancora della sua idoneità ad esprimere una volontà libera e consapevole e giudizi critici fondati su una adeguata analisi dei fatti. Rispetto alla tipica interlocuzione del giudice con le parti e i testimoni, ragionata sullo schema dell’interrogatorio per capitoli, o comunque su circostanze predefinite, la interlocuzione con il soggetto debole richiede tempi più lunghi, capacità di ascoltare e di indirizzare le domande non solo al fine di ricostruire il fatto (come si fa con i testimoni) ma anche il contesto di vita in cui i fatti sono avvenuti.
Senza pretesa di completezza possiamo individuare quattro gruppi di soggetti vulnerabili con i quali, sia in sede civile che in sede penale, il magistrato può trovarsi ad interloquire: i minorenni; i soggetti in tutto o in parte privi della capacità di agire; le vittime di violenza domestica o di genere; gli immigrati non regolari e i richiedenti asilo.
L’attività di interlocuzione è poi ancora più complessa per il giudice civile: l’obiettivo del pubblico ministero e del giudice penale, quando si trova di fronte ad una vittima vulnerabile, e pur nella necessità di evitare la c.d. vittimizzazione secondaria, è quello di giungere alla punizione del colpevole, mentre il giudice civile deve non solo ridurre il disagio della partecipazione al processo per il soggetto debole, ma anche riconoscere ed attribuire (o negare) un bene della vita richiesto, e quindi deve fare sì che in quel processo egli riesca adeguatamente a rappresentare le proprie istanze ed esigenze e -in ultima analisi- riesca ad ottenere la tutela appropriata alla sue condizioni.
2.- Soggetti vulnerabili e processo civile.
Un soggetto vulnerabile che il processo civile conosce da tempo relativamente breve è il minorenne. Prima infatti della legge sull’affidamento condiviso (l.n.54/2006) si evitava accuratamente di coinvolgerlo nelle controversie che riguardavano i suoi genitori. Molto raramente i bambini e gli adolescenti entravano nelle aule di udienza, al più il giudice disponeva che il minore fosse esaminato, in talune circostanze, da uno psicologo o un neuropsichiatra infantile in veste di consulente tecnico. La legge sull’affidamento condiviso segna invece l’inizio di una rivoluzione copernicana, perché introduce l’ascolto del minore come adempimento doveroso e diretto da parte del giudice.[4] Nonostante qualche inziale perplessità è infatti questa l’interpretazione che prevale e la giurisprudenza italiana, in accordo con la dottrina più avveduta, individua la ratio della norma sull’ ascolto nel perseguimento delle finalità volute dalle Convenzioni di New York sui diritti del fanciullo e di Strasburgo sull’esercizio dei diritti dei minori, vale a dire di consentire al minore l’esercizio dei suoi diritti all’interno di un procedimento che lo concerne, senza tuttavia sottovalutare il valore cognitivo della audizione[5].
A distanza di sette anni dalla legge sull’affidamento condiviso, il D.lgs. n. 154/2013 (riforma della filiazione), recependo molte delle indicazioni già emerse nella prassi giudiziale, introduce nell'ordinamento l'art. 336 bis c.c., ove sono contenute indicazioni utili per eseguire un ascolto del minore rispettoso dei suoi diritti e della sua serenità. Si dispone ad esempio che l’ascolto è condotto dal giudice, anche avvalendosi di esperti o di altri ausiliari; che i genitori, anche quando parti processuali del procedimento, i difensori delle parti, il curatore speciale del minore, se già nominato, ed il pubblico ministero, sono ammessi a partecipare all’ascolto se autorizzati dal giudice, al quale possono proporre argomenti e temi di approfondimento prima dell’inizio dell’adempimento. Inoltre con l’introduzione nel codice civile dell’art. 315 bis (ad opera della legge n. 219/2012) l’ascolto è definitivamente consacrato quale diritto fondamentale del minore, da esercitare in primo luogo in famiglia e, comunque, in ogni procedura che lo riguarda.
Ciò che dal minore si deve raccogliere, nel corso dell’audizione, non è (soltanto) il racconto di fatti, ma anche e principalmente le sue opinioni ed esigenze, in quanto siano effettivamente sue e cioè frutto di una elaborazione personale; ciò non significa tuttavia che il giudice diventi un mero recettore della volontà del minore cui deve poi uniformare il provvedimento. E’ quindi importante avere tempo, informare il minore dei suoi diritti e non interrogare con domande troppo esplicite o stringenti, ma ricostruire il suo contesto di vita; se il caso farsi assistere da un ausiliario esperto di infanzia e adolescenza ex art. 68 c.p.c., il che consente, oltre che di eseguire un buon ascolto, anche di apprendere per via esperienziale un modus operandi adeguato. La giurisprudenza ha spesso avuto modo di evidenziare l’importanza del rapporto tra informazione ed opinione poiché non ogni opinione e segnatamente quelle velleitarie o che derivano da una rappresentazione dei fatti distorta dagli adulti, meritano considerazione; ma se correttamente informato, il minore può esprimere delle opinioni libere, scevre cioè dal condizionamento che gli adulti autorevoli (genitori, nonni) possono operare sulla sua psiche[6]. Per ottenere questi risultati il giudice deve necessariamente attrezzarsi per poter eseguire l’ascolto del minore in modo rispettoso ma anche utile, e la giustizia deve adattare le sue procedure per divenire child friendly, come suggeriscono le linee guida del Consiglio di Europa[7].
Non molto diverso è il caso in cui il giudice si trovi di fronte la persona incapace di provvedere ai propri interessi perché totalmente o parzialmente incapace di intendere e di volere o per altra condizione di fragilità psicofisica. La persona non compos sui è un soggetto processuale noto da sempre al nostro sistema, ma il cui esame, prima della emanazione della legge n. 6/2004 che introduce la misura di protezione dell’amministrazione di sostegno, avveniva essenzialmente in una ottica valutativa. Il giudice doveva verificare se il soggetto era totalmente incapace o solo parzialmente incapace e da ciò discendeva l’applicazione di misure rigide, quali l’interdizione o l’inabilitazione, con una disciplina legale predeterminata. Scarsa o nulla importanza in quest’ottica si attribuiva all’ascolto attivo, inteso come momento per capire i bisogni e le aspirazioni del soggetto e, soprattutto, per consentirgli di esercitare, nei limiti del possibile, i suoi diritti. Ciò non era necessario perché –una volta verificato che il soggetto non era capace- se ne decretava la morte civile e si conferivano i poteri di rappresentanza al tutore.
La prospettiva si è capovolta con l’introduzione dell’ordinamento dell’amministrazione di sostegno che è un “vestito su misura” ed è la misura principale di protezione, avendo ormai l’interdizione solo carattere residuale.[8] E’ il giudice che decide se, come e in che misura estendere al beneficiario le incapacità proprie del regime di interdizione o di inabilitazione, e quindi deve capire quali sono i suoi punti di forza e i suoi punti di debolezza, cosa è capace di fare da solo e per cosa invece è necessaria l’assistenza o la rappresentanza. Inoltre la volontà del soggetto incapace rileva nelle scelte dei trattamenti terapeutici e sanitari, anche quando all’amministratore o al tutore si attribuisce il potere di rappresentanza in questa materia; queste scelte si fanno tenendo conto della volontà del soggetto e se possibile rispettandola. Così la legge n. 219/2017 (DAT) dispone che il consenso informato ai trattamenti sanitari è prestato: dal genitore o dal tutore sentito il minore o l’interdetto; “anche” dall’amministratore se investito delle funzioni di assistenza necessaria in materia; solo dall’amministratore sentito il beneficiario se investito della rappresentanza esclusiva in materia[9].
Pertanto, non diversamente da quanto avviene con il minore, anche con il soggetto non compos il giudice deve porsi in posizione di ascolto e non eseguire un interrogatorio tradizionale, fondato su capitolati preconfezionati.
Vi è poi un altro protagonista processuale alla cui condizione si deve riservare una speciale attenzione e cioè la vittima di violenza domestica o di genere, la cui tutela non si non si realizza solo nel processo penale, ma anche nel processo civile. Di questo l’ordinamento italiano ha preso piena consapevolezza con la sentenza CEDU del 2 marzo 2017 (Talpis vs. Italia), che ha condannato lo Stato italiano per violazione degli art. 2 (diritto alla vita) 3 (divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti) della Convenzione EDU, nonché dell'art. 14 (trattamenti discriminatori). Da questa sentenza emerge che la tutela penale, sia pure attivata, non ha avuto effetto dissuasivo; la Corte EDU osserva che la tutela per essere effettiva deve prevenire il comportamento lesivo. Da ciò consegue che la tutela penale deve essere integrata con altre forme di tutela, opportunamente potenziate e rese anch'esse più efficienti, al fine di intervenire prima che il delitto sia consumato ed evitare la c.d. escalation della violenza. Tocca dunque al giudice civile prestare una speciale attenzione a questi casi e ogniqualvolta esamina una persona che deduce di essere vittima di violenza domestica, sia in un procedimento ex art. 342 bis c.c. che in procedimento di separazione, divorzio, affidamento di figli minori, deve essere capace di valutare sia il rischio di escalation che l’attendibilità del soggetto; nel processo civile la parte, contrariamente a quanto avviene nel processo penale, non acquista la qualità di testimone, ma ciononostante è sul racconto della persona offesa che ruota l’istruttoria e su quel racconto vanno cercati i riscontri.
Anche in questo caso la capacità del giudice si misura sulla capacità di ascolto, di valutazione e nel saper ricostruire non solo i fatti ma anche i contesti[10]. Ad esempio, è importante ottenere informazioni oltre che sul fatto materiale (la violenza agita) anche sui fattori di rischio (alcolismo, tossicodipendenza, licenziamento dal lavoro etc.). Il giudice deve quindi porsi in un’ottica di ascolto della parte, rispettandone anche le difficoltà nella narrazione, le incertezze, i tempi lunghi, elementi che data la qualità di soggetto vulnerabile non sono necessariamente indici di reticenza o inattendibilità.
Infine, deve farsi cenno ad un altro gruppo di soggetti vulnerabili, protagonisti di un fenomeno esploso statisticamente negli ultimi anni, quello dei flussi migratori, composti da aventi diritto all’asilo e migranti economici e tra i quali è spesso difficile distinguere, posto che la maggior parte di loro presenta comunque domanda di protezione internazionale.
Il richiedente la protezione internazionale è un soggetto vulnerabile, non di rado vittima di violenze e sfruttamento economico, che spesso rende il suo racconto in condizioni in cui è ancora provato dal trauma del viaggio.
È vero che non è il magistrato il primo ad ascoltare il richiedente asilo, perché l’intervista è eseguita dai componenti della Commissione territoriale, organo decisorio amministrativo, tuttavia il giudice deve essere in grado di valutare se essa sia stata eseguita correttamente o meno -ed in tal caso reiterala- e soprattutto cosa realmente emerge da questa intervista[11]. Qui vi è una difficoltà in più e cioè che il soggetto si esprime non solo in lingua straniera, spesso in dialetti locali, e per questo bisogna fare molta attenzione alla professionalità degli interpreti, ma secondo parametri culturali e modelli sociali difformi dai nostri[12].
Il richiedente la protezione, inoltre, è in una posizione peculiare perché ha l’onere di specifica allegazione dei fatti per i quali essa si richiede, e il racconto, se circostanziato e credibile può essere considerato prova dei fatti dedotti, se compatibile con le informazioni sui paesi di origine (COI) [13]. In questa materia i principi che regolano l'onere della prova devono infatti essere interpretati secondo le norme di diritto comunitario contenute nella Direttiva 2004/83/CE, recepita con il D.lgs. n. 251/2007. L'autorità amministrativa esaminante ed il giudice devono svolgere un ruolo attivo nell'istruzione della domanda, sussistendo un dovere di cooperazione del giudice nell'accertamento dei fatti rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione. In questo dovere di cooperazione rientra anche il dovere di porre attenzione alla vulnerabilità del richiedete asilo, quando lo si ascolta, e consentirgli di circostanziare il racconto perché è su questo che si fonda il giudizio di credibilità e quindi, in ultima analisi, l’accoglimento o il rigetto della domanda[14]. Ciò vuol dire che se il modus operandi del giudice è quello – magari divenuto un riflesso automatico dopo anni di interrogatori dei testimoni- di interrompere il narrante quando riferisce circostanze irrilevanti –o presunte tali – o esprime valutazioni, sarà stata preclusa al richiedente la possibilità di offrire la prova a sostegno della sua richiesta e cioè un racconto cui i dettagli, le valutazioni espresse, e talora persino le emozioni narrate, conferiscono attendibilità.
Il migrante, peraltro, non sempre è in condizione di esprimere una volontà libera, informata e consapevole: la sua volontà può essere viziata da ignoranza, da stati transitori di incapacità, spesso legati al trauma del viaggio, dalle altrui minacce o pressioni. Si pensi alle donne vittime di tratta, che sono molto restie a rivelare di essere state trattate per paura di ritorsioni -anche sulla famiglia rimasta in patria- o per superstiziosa soggezione a riti magici e che ignorano che esistono percorsi di speciale tutela per la loro situazione[15]. In questi casi è particolarmente importante prestare attenzione agli indicatori di una situazione di speciale vulnerabilità, ma anche dare tempo, per elaborare la decisione di svincolarsi dai trafficanti.
3.- Conclusioni
L’interlocuzione con i soggetti vulnerabili richiede al giudice di uscire dalla rigidità degli schemi del processo civile tradizionale, che vuole il giudice terzo non solo imparziale, requisito questo irrinunciabile, ma anche immobile, che analizza criticamente solo ciò che le parti gli mettono sul tappeto. Questa regola può essere valida – e non in termini assoluti – per i diritti disponibili, ma è di scarsa utilità nel settore della tutela dei diritti umani e in particolare della tutela dei soggetti vulnerabili, dove è richiesto un ruolo più attivo. Ciò non significa dismettere il ruolo del giudice o peggio non fare percepire al soggetto vulnerabile che la persona con cui interloquisce è il giudice, perché ciò costituirebbe un’inaccettabile mistificazione, ma aprirsi alla comprensione piena – cui poi deve seguire la valutazione critica – delle istanze, delle ragioni e delle fragilità del soggetto vulnerabile, per offrire la risposta di giustizia più adeguata.
La buona interlocuzione con i soggetti vulnerabili è una esperienza impegnativa, ma dovuta, e che ci insegna a ripensare il ruolo del giudice come soggetto che deve essere dotato non solo di competenze giuridiche, ma anche di altre competenze, prima fra tutte la capacità di essere un buon ascoltatore. Queste capacità, una volta apprese, possono essere utilmente impiegate anche in altri settori: non sfugge, ad esempio, come la capacità di ascoltare e di negoziare può rivelarsi utile nel processo civile ordinario, per favorire la conciliazione delle parti, con il conseguente effetto deflativo sui ruoli.
Se così è, i programmi di formazione dei magistrati dovrebbero concentrarsi anche sullo sviluppo delle predette competenze, pur se si tratta di abilità che difficilmente possono essere apprese con l’insegnamento tradizionale: questo tipo di apprendimento è infatti essenzialmente esperienziale. Inoltre, trattandosi di attitudini del soggetto che possono essere sviluppate così come mortificate, molto dipende dalla storia di ciascuno, dalla personalità e dagli studi compiuti prima dell’accesso alla attività lavorativa. Qui forse si dovrebbe aprire un capitolo sulle modalità di accesso in magistratura, perché il concorso pubblico è una modalità di selezione che richiede solo hard skills e ciò orienta i giovani a scelte formative e didattiche che trascurano completamente le soft skills, per poi accedere alla magistratura sprovvisti di queste ultime o comunque inconsapevoli della loro importanza.
E’ difficile pensare ad una modifica della prova d’esame che valorizzi le competenze trasversali, tranne forse che per la prova orale, dove, almeno in parte, queste abilità possono valutarsi; ma non è impossibile immaginare dei correttivi nei percorsi formativi dei laureati in giurisprudenza. Uno di questi correttivi è ad esempio il tirocinio formativo ex art. 73 del DL 69/2013 (convertito in legge n. 98/2013), percorso che consente di completare la formazione teorica con quella pratica, tramite un apprendimento esperienziale che trametta non solo il sapere, ma anche il saper fare.
Si tratta di aprirsi ad un modo nuovo e diverso di vedere il ruolo del giudice, che si costruisce anche attraverso la varietà delle esperienze.
*Lo scritto è fondato sul testo, riveduto e integrato, dell’intervento tenuto alla Suola Superiore della Magistratura – Scandicci, nella settimana di formazione dei MOT, 29 giugno 2019.
[1]BALARAM BORA, The essence of soft skills, in International Journal of Innovative Research and Practices Vol.3, 2015, così si esprime: “Soft skills are non-technical, intangible, personality specific skills which determines an individual's strength as a leader, listener and negotiator, or as a conflict mediator. Soft skills are the traits and abilities of attitude and behaviour rather than of knowledge or technical aptitude” Si veda anche la definizione del dizionario Collins: interpersonal skills, such as the ability to communicate well with other people and to work in team.
[2] Good leaders tend to be extremely good listeners, able to listen actively and elicit information by good questioning, BORA The essence , cit.
[3] Solo per citare alcune delle principali Convenzioni a tutela dei soggetti vulnerabili: la Convenzione di New York del 20.11.1989 sui diritti del fanciullo, ratificata con legge del 27.5.1991 n. 176; La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 13.12.2006 ratificata in Italia con legge del 3.3.2009 n. 18; La Convenzione di Istanbul, sulla prevenzione della violenza domestica dell’11.5.2011 ratificata in Italia con legge del 27.6.2013 n. 77; Convenzione di Strasburgo del 25.1.1996, sull’esercizio dei diritti dei minori, ratificata in Italia con legge del 20.3. 2003, n. 77
[4]LOVATI, Affidamento condiviso dei figli: luci ed ombre della nuova legge, in Riv. Crit. Dir. Priv 2006 165 ss; TOMMASEO, Rappresentanza e difesa del minore nel processo civile, in Fam. e dir. 4, 2007 412.
[5] Cass., sez. un., 21.10.2009, n. 22238; Cass. civ. sez. I 07.5. 2019, n. 12018
[6]Cfr. Cass. civ. 27.7.2007 n. 16753; Cass. civ. sez. I 15.2. 2008 n. 3798 Cass. civ. Sez. I , 15.05.2013, n. 11687
[7] Linee guida per una giustizia adatta ai bambini, (child-friendly) adottate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 17 novembre 2010; in www.coe.int/en/web/children/ita
[8] “vestito su misura” è l’ormai nota definizione data da CENDON, 2006, in www.personaedanno.it
[9] Sul punto si veda anche CONTI, Scelte di vita o di morte: Il giudice è garante della dignità umana?, 2019, 109 e ss. L’A. sottolinea come in questi casi viene in rilevo la capacità del giudice di essere “guardiano” degli interessi dei soggetti deboli.
[10] E’ questa la tecnica usata nel formulario Spousal Assault Risk Assessment Guide (S.A.R.A.). Sebbene non sia un formulario scientificamente validato, è molto usato nelle questure, e serve a ricostruire il contesto in cui è agita la violenza, anche con riferimento alla storia personale dell’individuo.
[11] Cass. civ. 5.7.2018 n. 17717; CGUE 26.7. 2017 nella causa C- 348/16.
[12] Per un approfondimento BREGGIA L’audizione del richiedente asilo dinanzi al giudice: la lingua del diritto oltre i criteri di sintesi e chiarezza, in Questione Giustizia n. 2/2018, www.questionegiustizia.it
[13] Cass. civ. 11.11.2019 n. 29056
[14] Si veda Cass. sez. un 17.11.2008 n. 27310; Cass. 14.11.2017 n. 26921.
[15] Report EASO ottobre 2015, Country of Origin Information. Nigeria, sex trafficking of women
di Paolo Veronesi
Sommario: 1. Premessa. – 2. Ancora sul reato di aiuto al suicidio (e sulla sua selezionata illegittimità). – 3. Il “non detto” delle pronunce sul “caso Cappato”. – 4. La sent. n. 242 del 2019: una pronuncia di accoglimento parziale (che cela un’audace additiva). – 5. Segue: la “parte additiva” della pronuncia e la dichiarata assenza di “rime obbligate”. – 6. Segue: ci sono “aggiunte” e “aggiunte”? – 7. Che fare per il pregresso? – 8. Conclusioni.
Premessa
Già era successo con l’ord. n. 207 del 2018[1] e lo stesso accadrà con la sent. n. 242 del 2019: è inevitabile che pronunce di tal genere producano fratture tra gli interpreti e nella stessa opinione pubblica (o, almeno, in alcuni strati di essa).
Anche perchè – nonostante le critiche che hanno investito la sua precedente ordinanza “interlocutoria”[2] – la Corte non arretra di un passo e non esita a “ripetersi”. Ciò avviene sia sul versante delle sue scelte squisitamente processuali, sia sul fronte dei profili sostanziali della quaestio. E se, in taluni passaggi della sentenza più recente, taluni argomenti (già utilizzati l’anno scorso) senz’altro si affinano e vengono ulteriormente messi a fuoco, in altri la Corte si muove su un terreno ancora più audace. Per certi versi – e come meglio si dirà – la sent. n. 242 del 2019 procede addirittura al di là della coraggiosa ord. n. 207 del 2018, generando, in tal modo, ulteriori perplessità (specie tra il pubblico dei più critici)[3].
2. Ancora sul reato di aiuto al suicidio (e sulla sua selezionata illegittimità)
La Corte afferma dunque che la sent. n. 242 «si salda, in conseguenza logica», con l’ordinanza che l’ha preceduta[4]. A riprova di ciò, essa ribadisce che il reato di aiuto al suicidio di cui all’art. 580 c.p., non è in contrasto con la Costituzione, né lo si può circoscrivere alla sola ipotesi in cui siano altri a incidere sulla volontà di chi agisce su se stesso.
Il reato in oggetto assolve dunque allo scopo di creare una «cintura protettiva» tesa a garantire, in primo luogo, i soggetti più deboli e influenzabili[5]. Né la sua pretesa illegittimità può scaturire da un ipotetico e più volte negato (dalla stessa Corte Edu)[6] diritto a morire quale profilo “negativo” del diritto alla vita o desumendola da un diritto di autodeterminazione assunto senza alcun paletto di confine.
Ciò tuttavia non significa che esso non abbia ormai messo in luce «una circoscritta area di illegittimità costituzionale» che originariamente non presentava affatto[7]. Tale “superficie critica” è oggi occupata dalle vicende già delineate nell’ord. n. 207 e ribadite nella sent. n. 242. Situazioni in cui – come nel caso di djFabo – una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma… (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli», chieda l’assistenza di terzi per porre fine alla sua esistenza[8]. In aggiunta, sia nell’ord. n. 207, sia nella sentenza in commento, la Corte sottolinea l’esigenza per cui «il coinvolgimento in un percorso di cure palliative»[9] deve costituire «“un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente”»[10]. Queste affermazioni (e altre analoghe) non precisano però se la mera proposta di terapie palliative sia più che idonea allo scopo (potendola il paziente rifiutare sin da subito), ovvero se tali trattamenti debbano comunque essere somministrati al malato prima di qualsiasi altra sua decisione[11]. Benché si tratti quasi certamente di un “caso di scuola”, va detto che il diritto fondamentale al consenso informato decisamente induce a optare per la prima soluzione[12].
Quelle delineate dalla Corte si caratterizzano per essere «situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta», e derivanti (anche) «dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia». Questa è infatti spesso in grado di recuperare alla vita soggetti che un tempo sarebbero senz’altro deceduti, senza però assicurare loro condizioni esistenziali che l’interessato ritenga consone e dignitose. Per questa parte, la previsione penalistica sarebbe insomma ormai “vittima” di un evidente anacronismo.
Nelle fattispecie così prese a modello – aggiunge la Corte – «la decisione di accogliere la morte potrebbe essere già presa dal malato, sulla base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua»[13]. Lo sancisce la legge n. 219 del 2017[14], la quale ha in tal modo assorbito la lezione offerta dalla giurisprudenza più recente[15].
Tuttavia, la normativa in vigore ancora «non consente… al medico di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte». Per raggiungere i propri scopi l’interessato è quindi «costretto a subire un processo più lento e carico di sofferenze» per sé e «per le persone che gli sono care»[16]. Un processo che il malato potrebbe giudicare lesivo della propria dignità e dei propri diritti, oltre che vedersi costretto ad affrontare con più che comprensibili ansie[17].
Quanto poi all’esigenza di tutelare le persone malate e vulnerabili, l’obiezione a simili possibilità prova troppo: è evidente che se l’ordinamento (opportunamente) consente loro, «a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede la ragione per la quale la stessa persona, a determinate condizioni, non possa ugualmente decidere di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri»[18].
In questi passaggi la Corte cita e ribadisce quanto già sostenuto nella sua precedente ordinanza. Essa dà ora per scontata l’esigenza di applicare (in queste circostanze, non in altre) una versione rigorosamente “soggettiva” del concetto di dignità[19]; chiama in causa, a controllate condizioni, il diritto all’autodeterminazione del malato che chieda di essere aiutato a suicidarsi[20]; sottolinea lo stretto “parallelismo” rintracciabile tra le due situazioni messe a confronto (le quali, però, continuano a essere disciplinate in modi molto diversi).
Se dunque, in prima battuta, la Corte evidenzia l’anacronismo della disciplina disponibile allo scopo, per questa parte la Corte pratica un ulteriore (e più classico) giudizio di ragionevolezza. Il tertium comparationis è quindi estratto dalla legge n. 219 del 2017: esso integra i parametri costituzionali incarnati dagli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost.[21].
Il dubbio che però attanaglia molti commentatori è se le due situazioni così poste a raffronto siano davvero analoghe. In altri termini, la vicenda “djFabo-Cappato” non aggiunge (forse) qualche ingrediente diverso a quanto già si è palesato nei casi Welby, Piludu ed Englaro (solo per citare i più noti)[22]?
La conclusione cui approda la Corte è che «entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita»[23].
Sono affermazioni con le quali la Corte evidenzia un’obbiettiva “incoerenza” dell’ordinamento. Anche il rifiuto di trattamenti salvavita impone ad esempio – già ora – qualche collaborazione di terzi (l’interruzione e il distacco dalla respirazione e dalla nutrizione artificiale; la contemporanea somministrazione di una sedazione profonda)[24]. Perché non ammettere, dunque, nelle stesse, peculiari situazioni, altre misuratissime attività esterne che, in presenza dei medesimi presupposti – e non provocando affatto l’esito finale – rispondano alle medesime esigenze del paziente, aiutandolo a compiere, su di sé, azioni peraltro non vietate?
La Corte traccia così non già un “diritto a morire”[25], bensì un diverso e ben più circoscritto diritto del malato ormai esausto e irreversibilmente immerso nel processo della sua fine a vedere affermata le proprie personalissime (e verificate) idee di dignità e di autodeterminazione anche in questa drammatica fase della propria esistenza. Rileva cioè il suo diritto ad autodeterminarsi scegliendo anche di accelerare la propria uscita di scena allorché ritenga ormai intollerabili le sofferenze che lo devastano. A tale scopo è pertanto necessario che gli sia riconosciuto un diritto alla salute davvero “a tutto tondo”, comprensivo, cioè, della scelta del “come” curarsi, fuggire dalla sofferenza, farla finita. Un diritto comprensivo, pertanto, anche della possibile autosomministrazione di sostanze letali: un’attività del tutto lecita e il cui esito – nelle condizioni date – è già consentito perseguire con l’aiuto di altri (seppure in forme diverse)[26].
In simili circostanze, chi presta aiuto nel modo anzidetto non provoca affatto la morte del paziente, ma ne agevola semplicemente il realizzarsi ormai inevitabile, ponendo termine a sofferenze divenute insopportabili con modalità, in definitiva, non tanto dissimili da chi asseconda la volontà del malato di “staccare la spina”[27].
Né convince la critica per cui esisterebbe – di contro – un dovere di vivere per solidarietà verso gli altri, e neppure l’idea per la quale, in queste personalissime ipotesi, dovrebbe vigere una versione oggettiva (e del tutto eteronoma) di dignità[28]: così ragionando si giunge infatti al paradosso di trasformare un diritto in un dovere; s’impone solidarietà a chi dovrebbe riceverla; si finisce per far coincidere l’idea di dignità con una sorta di “ordine pubblico ideale”, negandosi – al contempo – la piena e più liberale esplicazione dei principi personalista e pluralista.
3. Il “non detto” delle pronunce sul “caso Cappato”
Riproponendo l’iter argomentativo già inaugurato nell’ord. n. 207, la nuova pronuncia costituzionale non si occupa affatto di talune delicate questioni già emerse a seguito della sua prima decisione (ma “non rilevanti” nel caso che costituiva oggetto della quaestio)[29].
Non c’è, però, nulla di sorprendente nel fatto che la Corte rimarchi a chiare lettere come la sua «declaratoria di incostituzionalità» attenga, «in modo specifico ed esclusivo all’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza»[30]: questo era infatti il “tema” emergente dal giudizio a quo.
Certo, ciò lascia inevitabilmente inevasi taluni interrogativi riguardanti vicende cliniche che, per quanto simili, non presentino tutte le precondizioni imposte dalla Corte.
Che dire, ad esempio, del requisito per cui la persona che chieda di essere aiutata debba essere «tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale»? Potrebbe forse perdere d’importanza a certe condizioni e a fronte di fattispecie che ne evidenziassero l’inadeguatezza se non la crudele disparità di trattamento?
La mente corre immediatamente ai casi di pazienti affetti da patologie gravi, invalidanti e irreversibili ma non ancora sottoposti ad alcun trattamento salvavita. Lo stesso Fabiano Antoniani, come sottolinea la Corte, non viveva perennemente agganciato a simili strumentazioni.
Analoghe domande potrebbero sorgere con riguardo al requisito della patologia irreversibile (che non coincide certo con l’idea di una malattia allo stato terminale)[31].
Diversa – perché darebbe vita a un vero omicidio del consenziente – è invece l’eventualità di un malato senz’altro capace e informato, il quale però – in virtù della sua particolare patologia (ad esempio, una completa paralisi) – non possa in alcun modo azionare i meccanismi che darebbero finalmente seguito alle sue determinazioni suicide[32].
Altra situazione simile potrebbe essere quella di chi – pur essendo immerso in una situazione in toto conforme alle condizioni indicate dalla Corte – non voglia assolutamente compiere da sé il gesto destinato a darsi la morte (per paura di sbagliare, per il dolore fisico che anche quella minima azione gli provocherebbe, perché preferisce rimettersi alla collaudata esperienza del personale medico ecc.).
Tutte ipotesi che – senz’altro diverse da quella del giudizio a quo – sembrano determinare ingiustificate disparità di trattamento tra situazioni non certo uguali al millimetro ma senz’altro simili; esse potrebbero spesso causare sofferenze anche più intense di quelle sopportate da chi viene tenuto in vita mediante opportuni trattamenti essenziali[33].
La mancata previsione di calibrate forme d’intervento eutanasico in almeno talune delle circostanze appena richiamate potrebbe anzi indurre alcuni pazienti a dar luogo al loro suicidio assistito prima di quanto desidererebbero.
Una conferma indiretta della risposta che sembrerebbe opportuno offrire alle domande appena formulate, scaturisce dalla circostanza per cui un’eventuale, futura disciplina di simili vicende dovrebbe sostanzialmente ricalcare quanto la stessa Corte elabora nella sent. n. 242. Sebbene l’eutanasia – punita dall’art. 579 c.p. – preveda infatti che un terzo ponga in essere un’azione diretta non già ad aiutare il malato a farla finita da sé, bensì a determinarne la morte, non tanto diversi sembrerebbero infatti i requisiti, le cautele, i controlli, le procedure e le figure professionali da coinvolgere anche in tali circostanze[34].
Ma chi potrebbe spingersi su tali terreni? Se la risposta positiva, per quanto riguarda il legislatore, appare senz’altro più semplice – almeno a chi scrive – numerose perplessità suscita invece l’idea che sia la Corte a operare in tal senso. Sempre che cosi ritenesse, gli strumenti a sua disposizione sarebbero in grado di farle raggiungere simili approdi?
4. La sent. n. 242 del 2019: una pronuncia di accoglimento parziale (che cela un’audace additiva)
Nulla di tutto ciò affiora dunque dalla sent. n. 242 del 2019 né dall’ord. n. 207 del 2018. La Corte rimane, cioè, saldamente agganciata all’oggetto della quaestio: ciò è assolutamente giustificato dal dovuto rispetto per il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, oltre che in ragione della delicatissima fattispecie sulla quale essa è chiamata a esprimersi[35].
In prima battuta, viene quindi lasciato nella disponibilità del legislatore il compito di “muovere” dalla sentenza per offrire una più articolata disciplina allo specifico tema all’ordine del giorno[36].
È però assai probabile che la stessa Consulta dovrà, prima o poi, prendere posizione anche su talune delle fattispecie sopra illustrate: non sarebbe del resto la prima volta che una coraggiosa pronuncia d’illegittimità suscita “reazioni a catena” (a prescindere dal loro esito)[37].
Per ora, nel pronunciare l’illegittimità costituzionale “parziale” dell’art. 580 c.p. – nella parte in cui esso prevede la punibilità di chi agevola l’esecuzione del proposito suicida del malato che versi nelle condizioni indicate e pur nel rispetto di quanto la stessa Corte enuncia in motivazione – alla Consulta pare evidente che ciò impone di colmare le lacune di disciplina che la sua pronuncia finirebbe per portare alla ribalta. In questa prospettiva, la sent. n. 242 assume anche i tratti di una vera e propria sentenza additiva[38].
Quanto “aggiunto” dalla Corte, e l’iter logico da essa praticato a questo scopo, fanno sorgere però molte perplessità.
5. Segue: la “parte additiva” della pronuncia e la dichiarata assenza di “rime obbligate”
È la stessa Corte a sottolineare che, sebbene la (sua) dichiarazione d’illegittimità «faccia emergere specifiche esigenze di disciplina… suscettibili di risposte differenziate da parte del legislatore», ciò non può più bloccare una decisione d’accoglimento che appare essenziale per «garantire la legalità costituzionale». A fronte dell’inerzia del Parlamento deve infatti prevalere quest’ultima esigenza «su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolazione della materia»[39]. Si potrebbero altrimenti preservare sine die ampie «zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale», mantenendo intatta (per chissà quanto tempo ancora) la «menomata protezione di diritti fondamentali»[40].
In tal modo la Corte dà luogo a un particolare bilanciamento tra la necessità di rispettare scrupolosamente la discrezionalità legislativa e l’esigenza che essa stessa offra “normative” tese a colmare una grave situazione d’incostituzionalità. Se ne evince che la seconda occorrenza potrà anche prevalere sulla prima, almeno fino a quando il legislatore non avrà detto la sua[41].
È un primo (non piccolo) problema. Quando è in gioco la discrezionalità del legislatore sembrerebbe esserci davvero poco da fare per la Corte: essa dovrebbe – per definizione – tirare i remi in barca.
La Corte sostiene invece di potersi far carico di tutti questi oneri anche «non limitandosi a un accoglimento “secco” della norma costituzionale, ma ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorchè non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento»[42].
In queste poche battute, la Corte recita quindi l’ennesimo de profundis della c.d. teoria delle rime obbligate in materia penale (almeno nella sua versione più “radicale”). Non è peraltro la prima occasione in cui, negli ultimi anni, la Consulta esprime concetti simili. La stessa Corte menziona, a tal proposito, una significativa sequenza di sue recenti pronunce manipolative[43]. A essa vanno aggiunti casi in cui la Corte ha adottato, anche nella delicata materia penale, decisioni additive di principio[44].
È peraltro chiaro il motivo che ha indotto la Corte a simili (e sensibili) correzioni di rotta: esso trova origine nell’evidente necessità di supplire alla collaudata latitanza del legislatore, reagendo ad altrimenti invincibili zone franche di costituzionalità. Le stesse ragioni hanno del resto suggerito le innovative soluzioni processuali messe in campo mediante l’originale “uno-due” rappresentato dall’ord. n. 207 del 2018 e dalla sent. n. 242 del 2019 (ossia mediante l’affinamento di una nuova versione del «collaudato meccanismo della doppia pronuncia»)[45].
Ma anche ammesso che l’abbandono dell’applicazione più rigorosa della teoria in oggetto sia giustificato, nel caso in esame esso è forse andato oltre il consentito (se davvero lo è)?
6. Segue: ci sono “aggiunte” e “aggiunte”?
È a questo punto che s’impone l’aspetto più propriamente “creativo” dell’intervento della Corte.
Assumendo quale «preciso punto di riferimento» la disciplina contenuta negli artt. 1 e 2, legge n. 219 del 2017, essa forgia così la procedura destinata a far fronte «a buona parte delle esigenze di disciplina poste in evidenza nell’ordinanza n. 207 del 2018» (ma non prese in carico dal Parlamento)[46].
Si tratta, più precisamente, delle norme di legge che stabiliscono le modalità con le quali il paziente può esprimere il suo consenso al rifiuto delle cure (anche salvavita); i requisiti in base ai quali egli potrà perseguire i suoi obiettivi; come vada accertata la genuinità della sua richiesta; come dovrà atteggiarsi il rapporto tra medico e paziente; come sia da proporre al paziente l’accesso alle cure palliative.
Fin qui si rientra, tuttavia, ancora entro i binari di una rima sostanzialmente obbligata. I successivi passaggi logici escono invece da tale tracciato.
La Corte precisa pertanto che «la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio deve… restare affidata… a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale». E ciò «in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore»[47]. Si comprendono le esigenze che accompagnano questa scelta, ma le strutture pubbliche saranno effettivamente in grado di affrontare un tale compito? E chi se ne occuperà (o anche solo se ne farà carico), stante l’obiezione di coscienza generalizzata riconosciuta, in tal caso, al personale sanitario[48]? E poi: nell’ordinanza n. 207 la Corte aveva statuito che sarebbe spettato al legislatore scegliere se concentrare tali interventi nelle sole strutture pubbliche o anche altrove. Perché, dunque, essa compie ora una così decisa “scelta di campo”[49]?
Ancor più creativamente essa aggiunge poi che «la delicatezza del valore in gioco» impone «l’intervento di un organo collegiale terzo, munito di adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela di situazioni di particolare vulnerabilità». «Nelle more dell’intervento del legislatore, tale compito è affidato ai comitati etici territorialmente competenti». La Corte illustra sinteticamente i compiti dei quali tali organismi sono oggi investiti: essi affrontano «problemi di natura etica che possono presentarsi nella pratica sanitaria», oltre che operare per la «tutela dei diritti e dei valori della persona» con riguardo alle sperimentazioni di medicinali, al loro uso compassionevole e all’utilizzo di particolari dispositivi medici[50]. Si tratta, dunque, di competenze che – parrebbe – non paiono esattamente riferibili e trasferibili anche alla fattispecie sulla quale la Corte era chiamata e esprimersi[51]. E poi: quale specifico effetto avranno i responsi di un simile organismo? Saranno vincolanti (o no)[52]?
Ma ben più preoccupante è il passaggio sull’obiezione di coscienza dei medici[53]. In poche battute essa conclude infatti che la sua pronuncia d’illegittimità «si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere in capo ai medici». Dunque, «resta affidato… alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato»[54].
Con grande noncuranza la Corte riconosce pertanto un diritto all’obiezione praticamente generalizzato a favore del personale medico. Nessun accenno contiene la pronuncia sulla necessità che il sanitario (almeno) motivi il suo atteggiamento; tale obiezione non è inoltre presa in esame da un’esplicita norma di legge; non sono indicate neppure le contromisure atte a fronteggiare la ben nota tendenza a usare l’obiezione medica a scopi di autentico boicottaggio delle leggi; né viene fatto cenno alla necessità che il medico obiettore fornisca al malato le informazioni che gli consentano di ottenere altrimenti la prestazione; non è neppure ribadito quanto si trova enunciato nella legge n. 194 (ossia che la prestazione debba essere comunque assicurata al paziente) e che dunque poteva davvero ritenersi una “rima obbligata”; senza dire che la sentenza non aggiunge neanche un “principio” teso a costringere le strutture sanitarie a farsi carico di eventuali obiezioni a oltranza. I medici potranno insomma fare il bello e il cattivo tempo[55]. Ma se il diritto riconosciuto al malato sofferente ed esausto rimane in tal modo ostaggio delle convinzioni dei medici esso può davvero ritenersi un “diritto”?
Anche per questa evenienza l’ord. n. 207 del 2018 aveva inoltre rimesso alla discrezionalità del legislatore la scelta tra le varie opzioni sul tappeto: poteva dunque la Corte scegliere, adesso, ciò che diceva di non poter adottare prima? Evocare l’inerzia legislativa può essere sufficiente per giustificare questo suo passo[56]?
E poi: perché non usare anche qu il criterio adottato nella legge n. 219 del 2017, alla cui trama normativa la Corte aggancia i più significativi passaggi della sua decisione (giustificando così il suo intervento)? Legge che non prende affatto in considerazione l’obiezione di coscienza dei medici.
7. Che fare per il pregresso
Il problema era già segnalato dalla Corte nella sua ord. n. 207: s’invitava perciò il legislatore a farsene carico[57].
Adesso – posta la sua decisione di accoglimento – è la stessa Corte a doversi interrogare circa i problemi di diritto intertemporale che essa determina.
La Consulta stabilisce perciò che le procedure da essa delineate varranno solo ex nunc: di esse non potrà ovviamente imporsi il rispetto, «tal quali, in rapporto a fatti anteriormente commessi, come quello oggetto del giudizio a quo»[58].
Riguardo alle vicende pregresse, la Corte afferma dunque che la non punibilità dell’aiuto al suicidio rimarrà subordinata alla circostanza per la quale l’agevolazione sia stata prestata «con modalità anche diverse da quelle indicate, ma idonee comunque sia a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti». La Corte illustra altresì con precisione le coordinate che dovranno caratterizzare simili valutazioni[59]. Requisiti, controlli e cautele «la cui sussistenza dovrà essere verificata dal giudice nel caso concreto».
In questi passaggi la Corte delinea perciò un ulteriore contenuto additivo della sua pronuncia, cesellato in rapporto alle sole vicende del passato.
Quella delineata dalla Corte è, dunque, un classico esempio di “delega di bilanciamento in concreto”[60]. Caso per caso, dovranno dunque essere i giudici a stabilire se i requisiti isolati dalla Consulta si rinvengano nelle fattispecie ancora pendenti davanti a essi.
Si tratta certo di un compito non agevole, il quale lascia anche dubbi circa il rispetto dei requisiti della tassatività e determinatezza della fattispecie penale (benchè senz’altro si tratti di interventi in bonam partem). Senza dire che potrebbero emergere valutazioni assai diverse di ciò che deve ritenersi “sostanzialmente equivalente” a quanto deciso dalla Corte e cosa invece si allontani da esso.
Va peraltro detto che queste medesime vicende – ove deflagrassero davanti a un giudice o fossero comunque già al suo cospetto – potrebbero fornire i materiali necessari a sollecitare ulteriori questioni di legittimità con riguardo – appunto – a casi non esattamente sovrapponibili a quelli decisi dalla Corte.
8. Conclusioni
La Corte costituzionale non ha dunque “ritirato la mano”.
A fronte dell’ennesima inerzia del legislatore essa ha – in prima battuta – inaugurato una nuova strategia processuale[61]. Il particolare utilizzo dell’istituto del rinvio dell’udienza[62] le ha così permesso di prefigurare la sua successiva dichiarazione di illegittimità, da azionarsi se, alla data stabilita, il legislatore non si fosse rimesso in carreggiata.
Un simile modo di procedere ha intanto assicurato che il processo a quo non venisse concluso applicando norme ormai riconosciute incostituzionali oltre che particolarmente punitive: la più collaudata pratica della decisione d’inammissibilità con monito al legislatore non l’avrebbe garantito.
Contemporaneamente, essa ha altresì “suggerito” anche agli altri giudici impegnati nel decidere casi analoghi a sollevare ulteriori questioni di legittimità (senza però poterlo imporre).
Più che un mero rinvio, l’ord. n. 207 del 2018 ha insomma dato vita a un vero riscontro d’illegittimità (pur non ufficialmente dichiarata), rinviando a una data precisa l’udienza della sua piena affermazione.
Non si è tuttavia trattato di un percorso privo di rischi. Cosa sarebbe, ad esempio, accaduto se, nel frattempo, qualche giudice costituzionale avesse mutato opinione? La Corte avrebbe potuto rovesciare il suo precedente responso? Con quali conseguenze (almeno sul piano della credibilità e della sua legittimazione)? Che sarebbe successo, poi, se la prima decisione avesse suscitato “manifestazioni di piazza” o “allarme sociale”[63]?
Sono dubbi che lasciano senz’altro il segno, anche se stavolta la Consulta ha parato tutti i colpi.
Mantenuta la sua “promessa” la Corte è stata però costretta a una serie di audaci “passi in avanti”. In questo senso va letta l’articolata addizione contenuta della sent. n. 242. Essa suscita però i (non pochi) dubbi appena illustrati. Sono queste le tracce di un’abnorme ingerenza nel campo d’azione del Parlamento[64]?
A farne direttamente le spese è stata la più classica versione della teoria delle “rime obbligate”. E se certo sorprende l’attribuzione ai Comitati etici di una funzione assolutamente nuova, oltre che la scelta (per nulla obbligata) di consegnare la procedura nelle mani del solo servizio sanitario nazionale[65], preoccupa non poco il tono con il quale la Consulta ha riconosciuto un generalizzato diritto all’obiezione di coscienza del personale sanitario (dopo aver opportunamente affermato che sarebbe stato il legislatore a dover scegliere il da farsi)[66].
Emerge perciò un altro interrogativo: il legislatore potrebbe eventualmente limitare l’obiezione di coscienza che la Corte ora garantisce al personale sanitario o sottrarre le procedure all’esclusiva azione del servizio sanitario nazionale?
Tutte queste domande evidenziano quali enormi novità emergano dalle due pronunce che la Corte ha dedicato al “caso Cappato”. Viene dunque spontaneo chiedersi se la Corte non avesse potuto praticare strade più “semplici” e – magari – già sperimentate. Ad esempio, non sarebbe stato forse più rispettoso delle competenze dei diversi attori coinvolti nella circostanza se la Corte avesse adottato sin da subito una dichiarazione d’illegittimità costituzionale parziale, accompagnandola con un’addizione “di principio” e da uno stringente monito rivolto al legislatore (come fece nella celebre sent. n. 27 del 1975 e come, più di recente, ha praticato anche nell’assai diversa sent. n. 170 del 2014)[67]? Se non l’ha fatto è – forse – perché non ha voluto mettere in grave imbarazzo i giudici, dando per scontato di non poter contare sulla reattività (e sulla collaborazione) del Parlamento. Questo succede quando gli organi del “sistema costituzionale” non funzionano fisiologicamente: c’è sempre qualcuno che deve far carico dell’inefficienza. E non sempre ha buone intenzioni: la Corte, quanto meno, le ha indubbiamente avute.
* In corso di pubblicazione su Studium Iuris 2020, fascicolo 2
[1] Sulla quale si v. il mio Un’incostituzionalità (solo) “di fatto” del reato di aiuto al suicidio: in attesa del seguito del “caso Cappato”, in questa Rivista 2019, p. 277 ss.
[2] Si v., ad esempio, i rilievi di A. Ruggeri, Pilato alla Consulta: decide di non decidere, perlomeno per ora (a margine di un comunicato sul caso Cappato), in www.giurcost.org 2018, fasc. 3 (26 ottobre 2018) e Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale, cit. Si v. altresì molti dei contributi pubblicati negli atti del Seminario Dopo l’ord. n. 207/2019 della Corte costituzionale: una nuova tecnica di giudizio? Un seguito legislativo (e quale)?, organizzato dalla rivista Quaderni costituzionali, presso la casa editrice Il Mulino di Bologna, il 27 maggio 2019, e pubblicati su www.forumcostituzionale.it, spesso orientati a criticare gli approdi sostanziali e processuali dell’ord. n. 207.
[3] In tal senso si v. quel che costituisce probabilmente il più tempestivo tra i suoi commenti a prima lettura: A. Ruggeri, Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, la Corte dà alla luce la preannunziata regolazione del suicidio assistito, in www.giustiziainsieme.it (24 novembre 2019).
[4] Punto 2 del Considerato in diritto. Nell’attesa della sentenza (dopo l’ord. n. 207) R. Romboli, Caso Cappato, la pronuncia che verrà, in www.forumcostituzionale.it (23 giugno 2019) aveva (giustamente) sottolineato che la futura pronuncia della Corte non avrebbe potuto che «essere figlia, o comunque strettamente collegata con la ordinanza n. 207». Auspicava invece una completa rimeditazione della quaestio, tra gli altri, E. Grosso, Il “rinvio a data fissa” nell’ordinanza n. 207/2018. Originale condotta processuale, nuova regola processuale o innovativa tecnica di giudizio?, Relazione al già citato Seminario 2019 di Quaderni costituzionali.
[5] Ord. n. 207 del 2018, punto 4 del Considerato in diritto.
[6] Nel 2002, affrontando il noto caso Pretty, la Corte di Strasburgo ha recisamente escluso che il diritto alla vita, ex art. 2 Cedu, comprenda altresì un diritto a morire, precisando tuttavia che gli Stati possono disciplinare, con le opportune cautele, sia l’aiuto al suicidio, sia l’eutanasia assolutamente volontaria e controllata delle persone sofferenti. Successivamente, il favor verso la valorizzazione delle scelte individuali in tali frangenti dell’esistenza umana è apparso ancor più netto nella successione dei casi Haas c. Svizzera del 2011, Koch c. Germania del 2012 e Gross. c. Svizzera del 2013. La preoccupazione che la Corte di Strasburgo evidenzia, in tutte queste vicende, è che si proteggano senza indugi le persone vulnerabili, approntando efficaci procedimenti e altrettanti controlli. La stessa Consulta evidenzia questo profilo nell’ord. n. 207 (punto 7 del Considerato in diritto). Sulla giurisprudenza della Corte Edu in questa materia v., ad esempio, A. D’Aloia, Il caso Piludu e il diritto di rifiutare le cure (anche life-sustaining), in questa Rivista 2018, p. 1471 s. ed E. Malfatti, Sui richiami, nell’ordinanza Cappato, alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in www.forumcostituzionale.it (25 giugno 2019).
[7] Sent. n. 242 del 2019, punto 2.3 del Considerato in diritto.
[8] Punto 2.3 del Considerato in diritto.
[9] Cfr. legge n. 38 del 2010.
[10] Punto 2.4 del Considerato in diritto. A tal proposito essa fa altresì menzione del parere del 18 luglio 2019, reso dal Comitato Nazionale per la Bioetica (“Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito”).
[11] Il dubbio emergeva già dal tenore dell’ord. n. 207 e riaffiora nell’ambiguità del passaggio contenuto nella sent. n. 242, al punto 2.4 del Considerato in diritto (ove si ragiona indifferentemente della necessità di offrire al paziente «concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua», nonché di un vero e proprio «coinvolgimento in un percorso di cure palliative») (corsivo non testuale).
[12] Sul diritto fondamentale al consenso informato si v. le sentenze costituzionali n. 438 del 2008 e n. 253 del 2009.
[13] Punto 2.3 del Considerato in diritto. Critico su questo profilo, essendo persuaso della necessità di mantenere sempre distinte le ipotesi di letting die e di killing è, tra gli altri, A. D’Aloia, In attesa della legge (o del nuovo intervento della Corte costituzionale) sul suicidio medicalmente assistito, in www.forumcostituzionale.it (30 giugno 2019), § 5.
[14] Si v. l’art. 5, commi 5 e 6.
[15] A proposito della ben nota “sentenza Englaro” della Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. I, 16 ottobre 2007, n. 27148), U. Adamo, Costituzione e fine vita. Disposizione anticipate di trattamento e fine vita, Milano 2018, p. 48 s., ragiona, non a caso, di un «punto di non ritorno». R.G. Conti, Scelte di vita o di morte. Il giudice è garante della dignità umana?, Roma 2019, p. 44, analogamente afferma che la legge n. 219 del 2017, di fatto, raccoglie semplicemente il testimone della sentenza Englaro e lo «universalizza». Si v. anche C. Tripodina, Tentammo un giorno di trovare un modus moriendi che non fosse il suicidio né la sopravvivenza, Note a margine della legge italiana sul fine vita (n. 219 del 2017), in www.forumcostituzionale.it (12 gennaio 2018).
[16] Critico su questo passaggio A. Nicolussi, Lo sconfinamento della Corte costituzionale: dal caso limite della rinuncia a trattamenti salva-vita alla eccezionale non punibilità del suicidio medicalmente assistito, in G. it. - Corti supreme e salute 2019, 2, p. 14.
[17] Punto 2.3 del Considerato in diritto.
[18] Punto 2.3 del Considerato in diritto. Corsivo non testuale.
[19] Si v., ancor più chiaramente, l’ord. n. 207 del 2018, punto 9 del Considerato in diritto. Il concetto riaffiora (più debolmente) anche nella sent. n. 242 del 2019, al punto 2.3 del Considerato in diritto, ma tutta la pronuncia muove, in realtà, da una simile idea (seppur non così valorizzata come nella precedente ordinanza). Contra v. però i commenti di C. Tripodina (più oltre) e A. Nicolussi (nel testo citato alla nota 18). La Corte non esita invece a legittimare concezioni di diversa natura (“oggettive”) della dignità in altri ambiti della sua giurisprudenza: al proposito si v. l’eloquente sent. n. 141 del 2019, in materia di favoreggiamento della prostituzione, ove la Corte afferma, appunto, l’esistenza di contesti che ammettono visioni “soggettive” e/o “oggettive” di dignità. Su tale sentenza v. R. Bin, La liberta sessuale e la prostituzione (in margine alla sent. n. 141/2019), in www.forumcostituzionale.it (26 novembre 2019).
[20] Punto 2.3 del Considerato in diritto.
[21] Benché vada segnalato come l’ordinanza di rimessione non menzioni l’art. 3 Cost., mentre l’art. 32 Cost. – afferma la Corte – vi è più volte evocato per poi essere disatteso nel suo dispositivo (sent. n. 242, punto 2.3 del Considerato in diritto). Questa incongruenza è stata immediatamente rilevata dalla dottrina: A. Alberti, Il reato d’istigazione o aiuto al suicidio davanti alla Corte costituzionale. Il “caso Cappato” e la libertà di morire, in www.forumcostituzionale.it (20 marzo 2018). Taluno ha altresì messo in luce come ciò avrebbe potuto condurre a una dichiarazione d’inammissibilità; per evitarlo la Corte sarebbe stata costretta a correggere la portata della quaestio: P.F. Bresciani, Termini di giustificabilità del reato di aiuto al suicidio e diritti dei malati irreversibili, sofferenti, non autonomi, ma capaci di prendere decisioni libere e consapevoli, in www.forumcostituzionale.it (14 dicembre 2018) p. 3 e C. Salazar, «Morire si, non essere aggrediti dalla morte». Considerazioni sull’ord. n. 207/2018 della Corte costituzionale, Relazione al Seminario 209 di Quaderni costituzionali.
[22] Il tema è evidenziato da C. Salazar, «Morire si, non essere aggrediti dalla morte», cit., e da B. Pezzini, Oltre il perimetro della rilevanza della questione affrontata dall’ordinanza n. 207/2018: ancora nel solco dell’autodeterminazione in materia di salute?, in www.forumcostituzionale.it (22 giugno 2019). Analogamente si esprime C. Tripodina, Le non trascurabili conseguenze del riconoscimento del diritto a morire “nel modo più corrispondente alla propria visione di dignità nel morire”, in www.forumcostituzionale.it (14 giugno 2019). Per A. Ruggeri, Due questioni e molti interrogativi dopo la ord. n. 207 del 2018 su Cappato, in www.forumcostituzionale.it (27 maggio 2019), con le sue affermazioni la Corte si sarebbe proprio (illegittimamente) sostituita al legislatore, producendo inevitabili discipline “rabberciate” e incomplete. Di una forzatura ragiona A. Nicolussi, Lo sconfinamento della Corte costituzionale, cit., p. 8.
[23] Punto 2.3 del Considerato in diritto. Corsivo non testuale.
[24] Sentenza n. 242 del 2019, punto 2.3 del Considerato in diritto.
[25] La Corte ribadisce la centralità del (pur implicito) diritto costituzionale alla vita al punto 2.2 del Considerato in diritto.
[26] Sottolinea come la Corte appaia restia a usare in sentenza l’espressione “diritto”, valorizzando interpretativamente questa circostanza C. Tripodina, La “circoscritta area” di non punibilità dell’aiuto al suicidio, in G. it. - Corti supreme e salute 2019, 2, p. 8 ss.
[27] C. Cupelli, Il Parlamento decide di non decidere e la Corte costituzionale risponde a se stessa, in Sistema penale 2019, n. 12, p. 48.
[28] A. Ruggeri, Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale, cit., p. 571 s., il quale ribadisce, in tal modo, tesi da lui coerentemente espresse in molti altri lavori.
[29] Lo evidenziano (escludendo ogni ulteriore, possibile “avanzamento” della giurisprudenza costituzionale in materia) L. Eusebi, Il suicidio assistito dopo Corte cost. n. 242/2019. A prima lettura, in G. it. - Corti supreme e salute 2019, 2, p. 3 s. e A. Nicolussi, Lo sconfinamento della Corte costituzionale, cit., p. 5.
[30] Punto 5 del Considerato in diritto. Corsivo non testuale.
[31] A. D’Aloia, In attesa della legge, cit., § 6.
[32] Per ipotesi analoghe a questa e a quelle che s’indicheranno di seguito v. C. Tripodina, La “circoscritta area” di non punibilità, cit., p. 9 s. In Canada, dopo aver introdotto l’aiuto al suicidio del malato capace, è stata – di conseguenza – ammessa anche l’eutanasia del paziente capace ma totalmente paralizzato (nel c.d. “caso Carter”): lo rimarca C. Casonato, I limiti all’autodeterminazione individuale al termine dell’esistenza: profili critici, in D. pubbl. comp. ed europeo 2018, n. 1, p. 16 ss. Per altre significative esperienze comparatistiche si rinvia alla relazione di Marta Fasan ed Elisabetta Pulice, svolta nell’incontro di studio organizzato nell’ambito del modulo Jean Monnet-BioTell “Decisioni di fine-vita in Italia e in Europa. Le prospettive dopo l’ordinanza n. 207 della Corte costituzionale”, svoltosi presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento il 15 marzo 2019.
[33] Si rinvia ancora C. Casonato, I limiti all’autodeterminazione individuale, ibidem.
[34] A tal proposito risulta estremamente significativo il documento di sintesi del gruppo di lavoro in materia di aiuto medico a morire (Aiuto medico a morire: per la costruzione di un dibattito pubblico, plurale e consapevole) – riunitosi più volte nel corso del 2019 presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Trento – pubblicato nel fasc. 3/2019 della rivista on-line BioLaw Journal.
[35] Ex art. 27, legge n. 87 del 1953.
[36] Punto 9 del Considerato in diritto.
[37] Si pensi solo alla giurisprudenza in materia di astensione obbligatoria dal lavoro per la cura del neonato o sui permessi retribuiti per l’assistenza ai parenti vulnerabili, nonché la giurisprudenza costituzionale che ha progressivamente demolito la legge n. 40 del 2004 (in materia di procreazione medicalmente assistita).
[38] Di una sentenza ablativa parziale accompagnata altresì da un contenuto additivo ragiona anche C. Cupelli, Il Parlamento decide di non decidere, cit. p. 53.
[39] Punto 4 del Considerato in diritto.
[40] V. ancora il punto 4 del Considerato in diritto.
[41] Sembra dunque che la Corte dia in tal modo corpo a una sua supplenza sub condicione: C. Tripodina, La “circoscritta area” di non punibilità, cit., p. 12.
[42] Ibidem. Corsivo non testuale.
[43] In particolare, essa cita la sent. n. 236 del 2016, in cui ha inciso sulla misura di una pena, ritenendola irragionevole e sproporzionata rispetto all’effettiva gravità del comportamento contestato e alla sanzione già prevista per altri reati «rinvenibili nel sistema legislativo», mettendo in più specifica relazione due fattispecie che definisce «non identiche» ma dotate di alcuni «tratti comuni». Ancor più netta è però la sent. n. 222 del 2018: sempre in tema di proporzionalità e ragionevolezza di una pena, dando particolare risalto alla latitanza del legislatore nel settore delle sanzioni accessorie – pur a fronte dei suoi moniti – e considerata altresì la sua più recente giurisprudenza costituzionale in materia di «sindacato sulla misura delle pene», essa procede a una «complessiva rimeditazione dei termini della questione». «Nel senso che», afferma, «a consentire l’intervento di questa Corte… non è necessario che esista, nel sistema, un’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima, come quella prevista per una norma avente identica struttura e ratio, idonea a essere assunta come tertium comparationis. Essenziale, e sufficiente, a consentire il sindacato della Corte sulla congruità del trattamento sanzionatorio previsto per una determinata ipotesi di reato è che il sistema nel suo complesso offra alla Corte “precisi punti di riferimento” e “soluzioni già esistenti” (sent. n. 236 del 2016)». Affermazioni ribadite alla lettera e con convinzione anche nelle sentt. n. 40 e n. 99 del 2019.
[44] Cfr. la sent. n. 26 del 1999, ove si dichiara l’illegittimità delle norme dell’ordinamento penitenziario che non allestivano «una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della amministrazione penitenziaria lesiva dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale».
[45] Punto 4 del Considerato in diritto.
[46] Punto 5 del Considerato in diritto. Corsivo non testuale.
[47] Punto 5 del Considerato in diritto. La Corte cita, per analogia, le sue sentt. n. 96 e n. 229 del 2015, ove optò, «per ragioni di cautela», per le sole strutture pubbliche.
[48] C. Cupelli, Il Parlamento decide di non decidere, cit., p. 50. Se ne tratterà subito sotto.
[49] A. Ruggeri, Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, cit.
[50] Si v. ancora il punto 5 del Considerato in diritto.
[51] Da qui i dubbi sull’idoneità del Comitato etico ad assumere le funzioni che la Corte gli attribuisce: C. Cupelli, Il Parlamento decide di non decidere, cit., p. 50
[52] L. Eusebi, Il suicidio assistito dopo Corte cost. n. 242/2019, cit., p. 5.
[53] Sottolinea come questo sia un «passaggio cruciale» C. Tripodina, La “circoscritta area” di non punibilità, cit., p. 13.
[54] Punto 6 del Considerato in diritto.
[55] Critico anche C. Cupelli, Il Parlamento decide di non decidere, cit., p. 50.
[56] V. ancora A. Ruggeri, Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, cit.
[57] Ne sottolineavano l’importanza, ad esempio, M. Bignami, Il caso Cappato alla Corte costituzionale, cit., § 5 e U. Adamo, La Corte è “attendista”… «facendo leva sui propri poteri di gestione del processo costituzionale». Nota a Corte cost. n. 207 del 2018, in www.forumcostituzionale.it (23 novembre 2018), § 5.
[58] Punto 7 del Considerato in diritto.
[59] Le quattro condizioni illustrate devono aver formato «oggetto di verifica in ambito medico»; la volontà del malato deve essere stata «manifestata in modo chiaro e univoco», compatibilmente con le sue condizioni; egli deve essere stato «adeguatamente informato… in ordine alle possibili soluzioni alternative» (cure palliative e sedazione profonda continua» (punto 7 del Considerato in diritto).
[60] Secondo quanto illustrato da R. Bin, Giudizio “in astratto” e delega di bilanciamento “in concreto”, in G. cost. 1991, p. 3574 ss. Molti gli esempi ricavabili dalla giurisprudenza: si pensi a quanto la Corte afferma, in più pronunce, con riguardo la divario d’età tra adottanti e adottati; alla sent. n. 282 del 2002 (poi ribadita in ulteriori decisioni) sul tema della scelta delle terapie più idonee; alle sentenze in cui essa calca l’accento sull’esigenza di individualizzazione della pena (ex multis: n. 189 del 2010, n. 436 del 1999, n. 257 del 2006, n. 79 del 2007) e su quelle in cui respinge l’idea degli automatismi punitivi (tra le altre, la n. 189 del 2010, n. 68 del 2012, n. 57 del 2013, n. 105 del 2014, n. 239 del 2014, n. 149 del 2018).
[61] La quale viene perciò letta positivamente da M. D’Amico, Il caso Cappato e le logiche del processo costituzionale, in www.forumcostituzonale.it (24 giugno 2019), che ne auspica ulteriori utilizzi, anche a fronte della sempre più evidente necessità che, in presenza di casi “scabrosi” sul fronte dei diritti fondamentali, debba essere sempre più spesso la Corte a compiere la (prima) mossa decisiva. Interessanti considerazioni al riguardo anche in G. Sorrenti, Intervento al Seminario 2019 di “Quaderni costituzionali”, in www.forumcostituzionale.it (8 giugno 2019). Fortemente critica è invece l’impostazione di E. Grosso, Il “rinvio a data fissa” nell’ordinanza n. 207/2018, cit. e di A. Ruggeri, Due questioni e molti interrogativi, cit., il quale pronostica, tuttavia, che la Corte farà uso di queste tecniche processuali sempre più di frequente, a causa dell’immobilismo del legislatore (specie nelle delicate materie del biodiritto).
[62] Si tratta infatti del primo caso in cui il rinvio dell’udienza risulta corredato da un dettagliato esame della quaestio (e dalla promessa di una dichiarazione d’illegittimità “a data certa”): cfr. U. Adamo, La Corte è “attendista”, cit., § 2 e R. Romboli, Caso Cappato, cit.
[63] Al quale ultimo riserva notevole rilevanza nella recentissima sent. n. 188 del 2019.
[64] G. Salvadori, Lo stile dell’ordinanza per una nuova Corte costituzionale. Osservazioni a margine dell’ordinanza n. 17 del 2019 (e qualche suggestione sulla scia dell’ordinanza n. 207 del 2018), in Osservatorio sulle fonti 2019, 1, p. 11. A. Ruggeri, Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, cit., ragiona di una disciplina inventata «di sana pianta» e di una regolazione «ad alto tasso d’innovatività».
[65] Come affermava la stessa Corte nell’ord. n. 207 – e vi fa riferimento anche al punto 2.4 del Considerato in diritto della sent. n. 242 – il legislatore si sarebbe (appunto) dovuto esprimere sull’«eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale». Essa non è dunque una scelta “obbligata”.
[66] Si v. ancora il punto 2.4 del Considerato in diritto.
[67] G. Brunelli, Imparare dal passato: l’ord. n. 207/2018 (sul caso Cappato) e la sent. n. 27/1975 (in tema di aborto) a confronto, in www.forumcostituzionale.it (29 giugno 2019), § 3 ss.
Recensione di Dino Petralia
Arroccata sull’Aspromonte, popolata di miseria e calore, agli albori degli anni cinquanta, Africo vive l’agonia che la condurrà all’abbandono di case e cose per un’incontenibile alluvione d’acqua e di disincanto.
Uomini, donne e bambini, schiacciati dalla torchiante pressione di un’Autorità che non tollera rigurgiti sociali e da una altrettanto oppressiva malavita pronta a sedare impennate contestatrici, officiano uniti il loro riscatto esistenziale chiedendo quel poco che serve a non morire o anche a morire ma nella dignità del minimo: un medico condotto che salvi i nascituri e preservi i pochi abitanti del borgo da strenue e inutili discese giù al mare in cerca di ausilio sanitario.
Tra le orgogliose condotte di sfida - la discesa a piedi nudi in città per ottenere dalla viva voce e su carta scritta del Prefetto la promessa della condotta medica; la deliberata e rischiosa indifferenza alle minacciose ingiunzioni del capoccia locale (un Sergio Rubini in versione quasi caricaturale del mafioso don Totò); la costruzione di una strada di pietre e fango in grado di collegare il monte al piano - si consuma una storia semplice e vera, intrecciata al giusto e all’ingiusto, colorita di sofferenze, sogni e delicatezze rurali.
Promesse violate e odiose rappresaglie mafiose piegheranno gli sforzi ma non i cuori. Ed è così che Africo, umiliata dall’isolamento e martoriata dalle ostilità si trasforma in luogo ideale di lotta armonica e solidale, di sedizione pacifica, di competizione esistenziale, dove la povertà fiera degli africoti giganteggia sull’imperiosità dei potenti, istituzionali e non, assumendo un ruolo dominante e fascinoso dipinto da Calopresti con la maestria del semplice ricorso all’autenticità.
Autentica la suggestione rurale del paesaggio; autentico il lessico degli interpreti calabresi e dei due leader contadini Peppe (Francesco Colella) e Cosimo (Marco Leonardi); credibile il binomio bellezza e povertà, celebrato nella nobile dignità di un’umiliazione che diventa risorsa vitale di lotta all’ingiustizia; autentica la sapienza didascalica, rustica ed emozionale del poeta e pittore Ciccio (un incisivo Marcello Fonte neo attore da Archi) che fa da sottofondo narrante ad una storia che mescola geografia del cuore e aneliti di una civiltà immaginata ma non per questo meno reale; una civiltà lontana ma diventata ingegnosamente coeva sulle scene con l’arrivo di una maestra comasca - una naturalissima e sempre efficace Valeria Bruni Tedeschi - stupita e quasi disgustata sulle prime dei disagi della terra degli ultimi e tuttavia gradatamente conquistata dalla più sublime civiltà della giusta ribellione dei contadini del luogo, dalla seduzione dell’onesta determinazione degli ultimi a volercela fare, giungendo così a ribaltare il suo ruolo di insegnante con quello di consapevole apprendista del senso del margine sociale, promosso al rango di valore primario da tutelare.
Dallo Jonio di Africo e Bianco al Mediterraneo dal sole invincibile di Albert Camus corre idealmente l’intero Aspromonte, fatto di altezze e voragini, superficie e abisso, corse e frenate, potenze e miserie, antichità sontuose e cocenti attualità. Un Aspromonte che dal racconto di Pietro Criaco (“Via dall’Aspromonte”), cui il film si ispira, entra nel sogno nostalgico di Calopresti e Lucisano (il produttore) invitando entrambi alla costruzione di una storia sognata e agognata di ritorno alle origini comuni e, al tempo stesso, di riscatto di un’intera regione.
“Sognare non costa nulla” predica Ciccio disegnando il sogno accanto al suo animale; e il sogno degli africoti ha intatta e potente l’energia rivoluzionaria degli ultimi sprigionando nello spettatore, all’unisono con le note di Nicola Piovani, la seduzione di un gratificante contagio emozionale.
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