ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Accertamento dell’illegittimità del provvedimento ai fini risarcitori e condanna alle spese in caso di cessata materia del contendere (nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, 11 ottobre 2021, n. 6824).
Silia Gardini*
Sommario: 1. Inquadramento dell’istituto della cessazione della materia del contendere nell’ambito del processo amministrativo – 2. L’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse – 3. La sentenza 11 ottobre 2021, n. 6824 della VI sezione del Consiglio di Stato – 3.1 L’accertamento dell’illegittimità del provvedimento ai fini risarcitori – 3.2 Soccombenza c.d. “virtuale” e condanna alle spese
1.Inquadramento dell’istituto della cessazione della materia del contendere nell’ambito del processo amministrativoL’espressione “cessazione della materia del contendere” è una formula terminativa del processo emersa dalla necessità pretoria di fronteggiare – in pendenza del procedimento giurisdizionale – il sopraggiungere di un elemento che abbia diretta incidenza sulla vicenda dedotta in giudizio. Affrontare il tema della cessazione della materia del contendere vuol dire, dunque, esaminare tutti quei casi in cui l’irrompere sulla scena processuale di una sopravvenienza (fattuale o provvedimentale), atta a modificare la situazione che era stata cristallizzata al momento della proposizione del ricorso, possa produrre effetti estintivi sullo stesso giudizio. Sotto questo profilo, le dinamiche sottese al processo amministrativo sono del tutto peculiari e risultano strettamente connesse all’evoluzione che, nel corso degli anni, ha attraversato lo stesso sistema di giustizia amministrativa.
Diversamente da quanto è avvenuto nell’ambito del processo civile[1], nel processo amministrativo la declaratoria di cessazione della materia del contendere si riconnette storicamente alla necessità di inglobare nella vicenda processuale l’atto o il fatto sopravvenuto che incida sul provvedimento impugnato. Se il giudizio era, in una prima fase, proiettato alla sola verifica della legittimità di un determinato provvedimento, l’intero processo risultava inevitabilmente condizionato dalla vita di quello stesso atto, «con riferimento alla sua insorgenza, al suo decorso, alla sua estinzione»[2] ed appariva quasi doveroso per il giudice il rilevarne d’ufficio le relative implicazioni. Così, in tutti i casi di provvedimento sopravvenuto (anche laddove ciò non risultasse soddisfacente per l’interesse del ricorrente), veniva emessa una pronuncia di cessazione della materia del contendere sulla base della sola constatazione del venir meno dell’atto. Come rilevato in dottrina, questo assetto giurisprudenziale «deriva[va] direttamente dalla rigida concezione del processo amministrativo come processo di impugnazione di un atto: di un processo, cioè, i cui limiti sono rigorosamente posti dall’atto stesso»[3].
Il riconoscimento legislativo dell’istituto della cessazione della materia del contendere è avvenuto soltanto con la legge n. 1034/1971 (c.d. Legge T.a.r.), il cui art. 23, comma 7 disponeva che, se entro il termine per la fissazione dell’udienza, l’amministrazione avesse annullato o riformato l’atto impugnato in modo conforme alla istanza del ricorrente, il tribunale amministrativo regionale avrebbe dovuto “dare atto” della cessata materia del contendere e provvede sulle spese[4]. La portata innovativa della norma – già auspicata, de iure condendo, dalla dottrina – era evidente: circoscrivendo la declaratoria di cessazione della materia del contendere alle sole ipotesi in cui l’atto di annullamento o di riforma del provvedimento impugnato risultasse conforme alle istanze del ricorrente, la Legge T.a.r. rendeva il Giudice amministrativo conoscitore del fatto al fine di accertare il permanere di una lesione, pur nel venir meno del provvedimento amministrativo che aveva dato origine al giudizio.
La pronuncia di c.m.c. venne, così, ricondotta all’accertamento di una vicenda sostanziale, dal quale si fece discendere altresì la preclusione nei confronti dell’amministrazione a modificare la situazione giuridica posta in essere con il provvedimento, anteriormente emanato, da cui fosse conseguita l’integrale soddisfazione dell’interesse legittimo fatto valere dal ricorrente[5].
In una prima fase, però, nel silenzio del legislatore, non appariva ancora del tutto certo se alla sentenza – poi decreto[6] – di cessazione della materia del contendere dovesse attribuirsi natura di pronuncia di rito ovvero di merito. Ad ogni modo, dopo qualche incertezza, la giurisprudenza prevalente optò per il riconoscimento della natura di pronuncia di merito della c.m.c., facendo leva sulla tipologia di accertamento (relativo alla conformità della sopravvenienza rispetto all’interesse del ricorrente) che il giudice, con essa, era chiamato ad operare.
Le risultanze di questa lunga elaborazione dell’istituto sono, poi, confluite nel Codice del processo amministrativo che – com’è noto – ha inserito la disciplina della pronuncia di cessazione della materia del contendere nell’art. 34, dedicato alle sentenze di merito, disponendo che «qualora nel corso del giudizio la pretesa del ricorrente risulti pienamente soddisfatta, il giudice dichiara cessata la materia del contendere».
La novità più rilevante introdotta dalla norma codicistica si rinviene nell’impiego di una locuzione più chiara e sintetica rispetto alla formula lessicale adoperata dalla normativa previgente, che – espungendo il riferimento espresso all’annullamento o alla riforma dell’atto impugnato da parte dell’Amministrazione – connette, senza più alcun dubbio interpretativo, la pronuncia di cessata materia del contendere esclusivamente al pieno soddisfacimento della pretesa azionata con il ricorso, indipendentemente dalla domanda esperita.
Di conseguenza, oltre all’ipotesi tradizionale di annullamento con efficacia ex tunc – ovvero la riforma in chiave satisfattoria – del provvedimento impugnato, si avrà certamente una pronuncia di cessazione della materia del contendere ai sensi dell’art. 34, comma 5 c.p.a., ad esempio, nel casi di pagamento di una somma di denaro pretesa dal privato (anche nel corso di un giudizio risarcitorio), di rilascio del provvedimento richiesto nell’ambito del giudizio avverso il silenzio dell’Amministrazione, di esecuzione della sentenza da parte della P.A. in pendenza di un giudizio di ottemperanza. A contrario, non potranno in alcun modo determinare cessazione della materia del contendere l’atto di revoca del provvedimento impugnato, avente ex lege efficacia ex nunc, l’annullamento parziale dell’atto lesivo, la sostituzione dello stesso provvedimento con altro atto sostanzialmente confermativo delle decisioni precedentemente assunte, né – nell’ambito del rito avverso l’inerzia della p.a. – l’emanazione di un provvedimento espresso di diniego[7].
A ben vedere, il minimo comun denominatore di tutte le fattispecie di cessazione della materia del contendere si sostanzia nell’accertamento da parte del giudice – attraverso una pronuncia di merito idonea a formare giudicato sostanziale e, dunque, a condizionare, con effetti preclusivi e conformativi, il successivo esercizio del pubblico potere – della natura della sopravvenienza (fattuale o provvedimentale), che deve risultare capace di determinare una nuova configurazione del rapporto tra privato e pubblica amministrazione e riconoscere al primo le stesse identiche utilità che avrebbe potuto conseguire con l’accoglimento del ricorso[8].
2. L’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse
Prima della legge n. 1034/1971, le ipotesi di sopravvenienza idonee ad influire sul giudizio in corso di venivano fatte confluire indistintamente nelle due formule decisorie della “cessazione della materia del contendere” e della “improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse”. Solo successivamente all’emanazione della Legge T.a.r., la giurisprudenza si proiettò verso la piena scissione concettuale dei due istituti.
Il discrimine si coglieva in pieno volgendo lo sguardo agli effetti prodotti dalla sopravvenienza nella sfera giuridica soggettiva del ricorrente: se la pronuncia di cessazione della materia del contendere discendeva da eventi direttamente incidenti sull’oggetto del giudizio (fosse esso identificato con il provvedimento impugnato, ovvero con il rapporto instaurato tra amministrazione e privato), facendo conseguire al privato l’utilità agognata, la sopravvenuta carenza di interesse si ricollegava ad una modificazione della sfera personale del soggetto che interferiva con il mantenimento dell’interesse ad agire[9]. In altre parole, si rilevò che nella prima figura la sopravvenienza causava il venir meno dell’interesse materiale alla tutela giurisdizionale, in virtù del pieno soddisfacimento della pretesa sostanziale del ricorrente, laddove, nella seconda, essa incideva sul mantenimento di un presupposto processuale, determinando l’impossibilità per il ricorrente di conseguire un risultato vantaggioso da una eventuale pronuncia di accoglimento e, di conseguenza, l’inutilità di un pronunciamento giudiziale sulla fondatezza del ricorso[10]. Da qui la configurazione della dichiarazione di carenza sopravvenuta di interesse come pronuncia di mero rito, a fronte della natura di merito dell’accertamento posto alla base della cessazione della materia del contendere.
Il Codice del processo amministrativo, a differenza della Legge T.a.r. del 1971, ha previsto espressamente la figura della carenza sopravvenuta di interesse: l’art. 35, comma 1, lett. c) c.p.a. ricomprende tale formula processuale tra le sentenze di rito, stabilendo che «il giudice dichiara, anche d’ufficio, il ricorso (…) improcedibile quando nel corso del giudizio sopravviene il difetto di interesse di una delle parti alla decisione». L’art. 84, comma 4 c.p.a. – ad integrazione della disposizione precedente – prevede, poi, che il giudice, anche a prescindere da una rinuncia di parte, possa desumere dall’intervento di fatti o atti univoci, successivi alla proposizione del ricorso, nonché dal comportamento delle parti, argomenti che provino la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione della causa.
Sul punto, la giurisprudenza più recente ha sostanzialmente mantenuto l’orientamento già consolidatosi sotto la vigenza della l. n. 1034/1971, affermando a più riprese che la sopravvenuta carenza di interesse si verifica quando – a seguito della modificazione della situazione di fatto e di diritto cristallizzata al momento della proposizione della domanda – l’eventuale accoglimento del ricorso non produrrebbe più alcuna utilità per il ricorrente, facendo venir meno la condizione dell’azione dell’interesse a ricorrere[11]. L’esempio tipico di sopravvenuta carenza di interesse si verifica laddove l’Amministrazione adotti, nelle more del giudizio, un nuovo provvedimento che fissi un diverso assetto degli interessi, in modo che i rapporti con il privato risultino regolati dal nuovo atto e l’eliminazione giurisdizionale di quello impugnato non avrebbe più alcuna utilità. L’esclusione di ogni risultato utile può verificarsi, inoltre, quando l’atto del cui annullamento si discute abbia consumato la sua efficacia, ovvero quando il rapporto giuridico sotteso al provvedimento impugnato sia stato oggetto di una nuova regolazione intervenuta nel corso del giudizio, o – ancora – quando il ricorrente non abbia impugnato un atto presupposto o collegato da cui derivano effetti sfavorevoli.
In ogni caso, però, al fine di scongiurare la possibile elusione dell’obbligo di decidere sulla domanda proposta[12], l’indagine condotta dal giudice in tali circostanze è considerata particolarmente gravosa, sicché il mantenimento di qualsivoglia interesse di parte all’esame della censura (sia pure esso solamente strumentale o morale, ma pur sempre correlato ad una lesione attuale cagionata dall’azione amministrativa[13]) giustificherebbe l’esigenza di una decisione di merito[14].
In particolare, ciò si verifica quando il ricorrente, pur non potendo trarre più alcuna utilità dall’annullamento del provvedimento impugnato, mantenga tuttavia un interesse ad ottenere il ristoro per il pregiudizio patito in conseguenza dell’illegittimo esercizio dell’azione amministrativa. In altre parole, in tutti quei casi in cui viene meno l’interesse alla tutela in forma specifica consistente nell’annullamento dell’atto, ma permane l’interesse a conseguire una tutela per equivalente che risarcisca il privato dei danni eventualmente subiti.
La fattispecie, disciplinata espressamente dall’art. 34, comma 3 c.p.a. – a norma del quale «quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori» – ha dato vita ad un intenso dibattito giurisprudenziale ed è stata analizzata dall’annotata sentenza del Consiglio di Stato, che ne ha efficacemente chiarito l’ambito di applicazione, anche con riguardo all’istituto della cessazione della materia del contendere.
3. La sentenza 11 ottobre 2021, n. 6824 della VI sezione del Consiglio di Stato
Il caso oggetto della pronuncia in commento, esaminato dal Consiglio di Stato con la sentenza 11 ottobre 2021, n. 6824, si riferisce ad una procedura valutativa per la chiamata di due professori di seconda fascia, indetta nel 2016 dall’Università di Padova.
Dopo un primo annullamento della procedura ed a seguito della rinnovazione della stessa, uno dei candidati non vincitori impugnava gli atti dinnanzi al T.a.r. del Veneto che, ancora una volta, aveva deciso per l’accoglimento del ricorso. Incardinato il giudizio di appello dinnanzi al Consiglio di Stato, l’Università appellante aveva, però, fatto presente che il ricorrente vittorioso in primo grado era nel frattempo risultato vincitore di una nuova procedura concorsuale – indetta dalla medesima Università e per il medesimo ruolo – ed aveva, dunque, richiesto al giudice di dichiarare l’inammissibilità (improcedibilità) del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse. La parte appellata, dal canto suo, aveva rilevato l’impossibilità di dichiarare la sopravvenuta carenza di interesse, stante la necessità di ottenere una pronuncia di accertamento sull’illegittimità degli atti impugnati ai sensi dell’art. 34, comma 3 c.p.a., al fine del successivo risarcimento dei danni.
Il Consiglio di Stato, disattendendo le ipotesi prospettate da entrambe la parti, ha deciso per la declaratoria della cessazione della materia del contendere, rifacendosi a quell’orientamento – sopra ampiamente richiamato – che individua la linea di demarcazione tra c.m.c. e s.c.i. nel diverso accertamento sotteso alla loro adozione e connesso alla piena soddisfazione dell’interesse sostanziale sotteso alla proposizione dell’azione. Nel caso di specie, infatti, la parte appellata – con la chiamata come professore di seconda fascia da parte dell’Università di Padova – aveva conseguito interamente il bene della vita oggetto del giudizio, ottenendo, anzi, sul piano sostanziale più di quanto avrebbe potuto ricavare da una sentenza favorevole, la quale avrebbe potuto statuire, al più, l’obbligo di rinnovamento della procedura concorsuale.
La sentenza non ha, dunque, posto in essere particolari innovazioni sul piano della definizione della pronuncia di cessazione della materia del contendere, assestandosi invero sulle risultanze da tempo cristallizzate dalla giurisprudenza prevalente e già esaminate nei paragrafi precedenti. Essa contiene, tuttavia, delle riflessioni particolarmente interessanti con riguardo ai profili di connessione tra cessazione della materia del contendere, sopravvenuta carenza di interesse e declaratoria dell’illegittimità degli atti ai fini risarcitori che – nella prassi giudiziaria – tendono spesso ad essere sovrapposti ed alternativamente utilizzati e richiamati.
3.1 L’accertamento dell’illegittimità del provvedimento ai fini risarcitori
Come già anticipato, ai sensi dell’articolo 34, comma 3 del Codice del processo amministrativo, «quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori». La norma prevede, dunque, la possibilità di convertire l’azione di annullamento in azione di mero accertamento, regula iuris che si connette al più rilevante principio di effettività della tutela giurisdizionale ed al corollario che da tale principio deriva, costituito dall’ammissibilità di azioni di accertamento anche atipiche[15]. Prima di esaminare le direttive fornite sull’argomento dal Giudice amministrativo con la sentenza annotata, è – però – opportuno ripercorrere brevemente i principali filoni interpretativi formatisi sulla norma in esame.
Un primo orientamento, facendo leva sulla formulazione letterale della norma e sulle esigenze di economia processuale ad essa sottese, rinviene nell’art. 34, comma 3 c.p.a. un vero e proprio potere-dovere di decidere il merito della causa, esercitabile ex officio dal giudice. Appare evidente come, da un’applicazione rigorosa di tale orientamento, discendano difficoltà di coordinamento tra la disposizione normativa in esame ed il principio della domanda, problema – tuttavia – “risolto” dalla giurisprudenza ricorrendo al principio di continenza e considerando che la domanda di annullamento racchiuderebbe in sé, necessariamente, anche un’attività di accertamento[16].
Di contro, l’orientamento più restrittivo ritiene che l’accertamento dell’illegittimità degli atti ai fini risarcitori sia ammissibile soltanto laddove la domanda di risarcimento sia stata proposta nello stesso giudizio, oppure quando parte ricorrente dimostri di aver già incardinato un separato giudizio di risarcimento (o di essere in procinto di farlo)[17].
Ancora, secondo un’interpretazione più recente, meno stringente della precedente, l’art. 34, comma 3, c.p.a. non può essere inteso nel senso che – in seguito ad una semplice generica indicazione della parte e in mancanza di una specifica domanda in tal senso – il giudice debba automaticamente verificare la sussistenza di un interesse a fini risarcitori. Secondo questa impostazione, diversamente opinando, perderebbe di senso a livello sistematico il principio dell’autonomia dell’azione risarcitoria, così come enucleato dall’art. 30 c.p.a. e verrebbe svalutato anche il principio dispositivo che informa il giudizio amministrativo e che preclude la mutabilità ex officio del giudizio di annullamento, una volta azionato[18]. L’applicazione della norma de qua rimarrebbe, dunque, subordinata alla esplicita istanza di parte ed alla puntuale allegazione in relazione al perdurante interesse risarcitorio.
Orbene, con la sentenza n. 6824/2021, il Consiglio di Stato pare aderire all’ultimo degli orientamenti richiamati. La ricostruzione effettuata – partendo dalla precisazione che l’unica forma d’interesse che, una volta acclarata l’inutilità dell’annullamento, legittima la prosecuzione del giudizio è quella che sorregge l’azione risarcitoria e che qualsiasi diversa apertura si porrebbe contra legem[19] – assegna alla disponibilità della parte la deduzione dell’esistenza di suddetto interesse con apposita istanza, mentre onera il giudice dell’accertamento puntuale della sussistenza dei presupposti necessari ai fini dell’adozione della relativa pronuncia.
Definito il proprio orientamento sul punto, la sentenza precisa, poi, che l’istituto in esame non può trovare applicazione nei casi in cui la soddisfazione dell’interesse sostanziale del ricorrente determini una pronuncia sulla cessazione della materia del contendere, neppure ai fini di una statuizione limitata alla c.d. soccombenza virtuale per la condanna alle spese. L’ambito di applicazione dell’art. 34, comma 3 viene – dunque – riconnesso e circoscritto a quello della dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse, nel senso che, ove ne ricorrano i presupposti, l’illegittimità dei provvedimenti impugnati può essere accertata esclusivamente per evitare una pronuncia di rito relativa all’improcedibilità del ricorso.
L’interpretazione del Giudice appare coerente con la natura delle pronunce esaminate. Prendendo le mosse dagli effetti che l’intervento di una sopravvenienza – fattuale o provvedimentale – sulla scena processuale può determinare, le tre situazioni che possono configurarsi sono, infatti, le seguenti: 1) la piena realizzazione dell’interesse sostanziale del ricorrente, con pronuncia di cessazione della materia del contendere; 2) l’impossibilità dell’ottenimento del bene della vita per la via processuale, con pronuncia di sopravvenuta carenza di interesse al ricorso; 3) la necessità, pure in assenza di un interesse all’annullamento degli atti, di una pronuncia di accertamento della loro illegittimità ai fini risarcitori.
Ebbene, nei casi di cui al punto 1), sulla scorta della valenza di pronuncia di merito della declaratoria di c.m.c., l’illegittimità dei provvedimenti impugnati può essere desunta indirettamente dal riconoscimento della spettanza del bene della vita oggetto del giudizio da parte dell’Amministrazione. In altre parole, la declaratoria di cessazione della materia del contendere – per sua stessa natura – non necessita in alcun caso di essere “integrata” dall’accertamento di cui all’art. 34, comma 3 c.p.a., essendo essa già di per sé una pronuncia di merito idonea ad accertare il soddisfacimento della pretesa sostanziale dedotta in giudizio. Di conseguenza, la parte, per poter proporre una successiva azione risarcitoria, non avrebbe bisogno di un’ulteriore indagine giudiziale sulla illegittimità degli atti, rinvenendosi il presupposto oggettivo della illiceità della condotta pubblica nell’accertamento implicito alla pronuncia in esame.
Diversamente avviene nei casi di carenza sopravvenuta di interesse, laddove la pronuncia di mero rito che ne rileva l’operatività nulla potrebbe dire in merito al rapporto sostanziale sotteso al ricorso e, dunque, alla eventuale illegittimità dell’azione amministrativa. In definitiva, è solo per evitare una pronuncia di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse (nelle modalità sopra richiamate ed al solo dichiarato fine di consentire la proposizione dell’azione risarcitoria) che la parte può rappresentare al giudice la necessità di una pronuncia di accertamento ex art. 34, comma 3 c.p.a.
3.2 Soccombenza c.d. “virtuale” e condanna alle spese
Com’è noto, nel processo amministrativo il pagamento delle spese di lite è da sempre stato ancorato al principio di soccombenza[20]. Pertanto, in tutte quelle ipotesi in cui il giudice non giunga ad una pronuncia di espresso accoglimento o rigetto della domanda proposta, è necessario individuare un criterio per la corretta attribuzione degli oneri economici del processo.
Sotto questo profilo, la posizione del ricorrente nel processo amministrativo è stata – fino ad un certo punto – mortificata dall’esistenza di un orientamento giurisprudenziale che, in caso di cessazione della materia del contendere, stabiliva la doverosa compensazione delle spese giudiziali. Fu, infatti, soltanto dopo l’entrata in vigore della Legge T.a.r., che la giurisprudenza iniziò a mostrarsi più sensibile alla necessità di tutelare il privato che – pur in assenza di una sentenza di formale accoglimento del ricorso – risultasse parte sostanzialmente vittoriosa, spianando la strada all’operatività della c.d. soccombenza virtuale. Tale locuzione è ancora oggi ampiamente utilizzata dal giudice amministrativo e, con la sentenza in commento, il Consiglio di Stato ha colto l’occasione per chiarirne l’operatività laddove il giudice chiuda il processo con una sentenza di cessazione della materia del contendere ovvero di sopravvenuta carenza di interesse.
Nei casi in cui venga pronunciata una sentenza che dichiara la c.m.c., il Giudice ritiene che la norma di cui all’art. 34, comma 3 c.p.a. non risulti applicabile neppure ai fini dell’individuazione della parte virtualmente soccombente. Ciò perché, trattandosi di una pronuncia di merito, per sua natura idonea ad accertare il rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio, essa dovrebbe essere automaticamente in grado di orientare il giudice anche sul versante della regolazione delle spese. Ed è sulla scorta delle motivazioni che lo hanno indotto a dichiarare la c.m.c. che il giudice si pronuncerà in merito alla soccombenza (più o meno) virtuale dell’amministrazione.
Diversa e più complessa la situazione in caso di sentenza che, in rito, rilevi la carenza sopravvenuta di interesse. Si è detto che – in questi casi – l’art. 34, comma 3 c.p.a. può essere applicato se il ricorrente, pur non potendo trarre più alcuna utilità accoglimento della domanda, mantenga un interesse concreto ed attuale ad ottenere un ristoro patrimoniale per il pregiudizio patito in conseguenza dell’illegittimo esercizio dell’azione amministrativa. Ed è certo che, laddove il giudice si pronunci in tal senso, il relativo accertamento sia idoneo ad acquisite lo status di cosa giudicata sostanziale, utile ai fini della domanda risarcitoria.
Ciò non avviene, invece, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, con il capo della sentenza volto a regolare le spese di giudizio, che «non è mai idoneo alla formazione di un giudicato sul merito» e non incide dunque sul contenuto sostanziale della pronuncia principale, cui resta estraneo[21]. Pertanto, in assenza di un’espressa statuizione ex art. 34, comma 3 (e, dunque, di un interesse concreto ed attuale all’accertamento dell’illegittimità degli atti impugnati ai fini risarcitori) le considerazioni svolte ai fini della valutazione della c.d. soccombenza virtuale per la liquidazione delle spese di lite, anche nell’ambito di una pronuncia di rito dichiarativa dell’improcedibilità, non sono idonee ad acquistare autorità di giudicato sul merito delle questioni oggetto della controversia, ma valgono – se non impugnate – a rendere irrevocabili soltanto i rapporti di dare/avere tra le parti del processo relativamente, appunto, alla regolamentazione delle spese del giudizio.
Ne consegue che le due pronunce non possono essere in alcun caso sovrapposte, ma mantengono completa autonomia. Va da sé che, in tutti quei casi in cui il giudice, nel dichiarare l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, accerti pure l’illegittimità degli atti ai sensi dell’art. 34, comma 3 c.p.a., la soccombenza virtuale dell’amministrazione conseguirà in via diretta alla valutazione di merito compiuta dalla sentenza. Diversamente, laddove il giudice – pur non ravvisando la sussistenza delle condizioni necessarie per l’accertamento dell’illegittimità degli atti ai fini risarcitori – ritenga di non voler disporre la compensazione delle spese, ovvero di prevedere l’addebito delle spese per l’acquisto del contributo unificato in capo alla parte resistente, sarà necessaria una espressa pronuncia sulla soccombenza virtuale.
In definitiva, accertamento dell’illegittimità degli atti ai fini risarcitori e soccombenza virtuale sono due istituti distinti e non sovrapponibili: il primo consiste in una statuizione di merito utile ai fini risarcitori in caso di pronuncia si sopravvenuta carenza di interesse, mentre il secondo è volto a regolare la ripartizione delle spese di giudizio nei casi in cui il processo non si chiuda con una espressa pronuncia di accoglimento o di rigetto.
* Ricercatore di Diritto amministrativo, Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro.
[1] Nel processo civile la formula di “cessata materia del contendere” non è frutto di una particolare elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, ma si è sostanzialmente imposta nella pratica giudiziaria dei Tribunali in due distinte circostante: 1) in tutte le ipotesi di spontanea autocomposizione della lite tra le parti in giudizio, sia che ad essa si giungesse mediante reciproche concessioni, sia che la stessa dipendesse dalla sottomissione unilaterale di una parte alle pretese dell’altra; 2) nelle ipotesi di eventi estintivi delle ragioni sostanziali di contesa che, pur in presenza di una formale ragione di contrasto, avrebbero reso iniqua (o, quantomeno, inutile) una pronuncia di rigetto. Peraltro, diversamente da quanto avviene nel processo amministrativo, la giurisprudenza civile – nel silenzio del legislatore – ha da sempre assegnato alla dichiarazione di cessazione della materia del contendere natura di pronuncia di mero rito che determina, dunque, la conclusione del processo in assenza di una valutazione di merito sulla domanda (cfr., di recente, Cass. civ., 31 agosto 2015, n. 17312). Ai fini della declaratoria di c.m.c., la giurisprudenza civile richiede altresì che si registri il pieno accordo tra le parti in relazione all’idoneità dell’evento a rimuovere ogni motivo di contenzioso tra le stesse (cfr., Cass., 26 luglio 2002, n. 11038). Per un inquadramento dottrinale dell’istituto nell’ambito del processo civile, si vedano A. Panzarola, voce Cessazione della materia del contendere (diritto processuale civile), in Enciclopedia del diritto, Milano, agg. VI, 2002; E. Vianello, voce Cessazione della materia del contendere, in Digesto, discipline privatistiche, 2000, 129; B. Sassani, Cessazione della materia del contendere – Diritto processuale civile, in Enc. giur., VI, Roma, 1988; F. Carnelutti, Sistema di diritto processuale civile, Padova, 1939, spec. 490 ss.; G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1960, 153 ss.; S. Satta, Commentario al Codice di procedura civile, Milano, 1960, I, 426; A. Attardi, Riconoscimento del diritto, cessazione della materia del contendere e legittimazione ad impugnare, in Giur. It., 1987, IV, 482 ss.
[2] In tali termini, V. Caianiello, voce Cessazione della materia del contendere (diritto amministrativo), in Enciclopedia del diritto, Milano, agg. III, 2000. Si veda anche l’importante pronuncia dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, che – pronunciandosi in materia di silenzio-rifiuto – aveva riaffermato l’esatta coincidenza tra provvedimento impugnato ed oggetto del processo (in virtù della quale dal venir meno dell’atto si faceva discendere, in ogni caso ed a prescindere da qualsivoglia valutazione di merito, la conclusione del giudizio) ed aveva dunque consolidato la natura di pronuncia di rito della declaratoria di cessazione della materia del contendere: cfr., Cons. di Stato, Ad. Plen., 3 maggio 1960, n. 8, in Giur. it., 1960, III, 257 ss., con nota di E. Guicciardi.
[3] Così, A. Romano, Cessazione della materia del contendere e carenza sopravvenuta d’interesse, in Problemi del processo amministrativo, Atti del Convegno di studi di scienza dell'amministrazione promosso dalla Amministrazione provinciale di Como, Varenna, Villa Monastero, 19-22 settembre 1963, Milano, 1964, 353 ss.
[4] Cfr., in dottrina, C. Galtieri, La cessazione della materia del contendere davanti ai tribunali amministrativi regionali, in Cons. Stato, 1974, II, 1187 ss.
[5] Cfr., ex multis, Cons. di Stato, VI Sez., 30 marzo 1982; Cons. di Stato, sez. V, 19 novembre 1992, n. 1319; Cons. di Stato, sez. V, 20 aprile 1994, n. 331; Cons. di Stato, sez. VI, 7 luglio 1995, n. 661, tutte in www.giustizia-amministrativa.it. Per un approfondimento, si vedano le riflessioni di P. Numerico, voce Cessazione della materia del contendere - Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur., VI, Roma, 1988 e la giurisprudenza ivi richiamata.
[6] La l. n. 205/2000, con l’intento di semplificare le regole procedurali relative alla estinzione e conclusione del giudizio amministrativo, aveva successivamente integrato l’art. 26 della Legge T.a.r., stabilendo che la cessazione della materia del contendere – al pari della rinuncia al ricorso e della perenzione – fosse pronunciata con decreto monocratico del presidente della sezione competente o di un magistrato da lui delegato. Per un approfondimento sul punto, si rinvia alla ricostruzione di N. Saitta, Sistema di giustizia amministrativa, Milano, 2021, 515 ss.
[7] Cfr., Cons. di Stato, sez. IV, 16 giugno 2015, n. 2979, in www.giustizia-amministrativa.it.
[8] Sul punto la giurisprudenza è pacifica. Cfr., anche Cons. Stato, sez. V, 5 marzo 2009, n. 1316; Id., 24 novembre 2009, n. 7363; Id., 21 dicembre 2010, n. 9319; Id. 5 marzo 2012, n. 1258; Id., 5 aprile 2016, n.1332; Id., sez. IV, 14 ottobre 2011, n. 5533; Id., 28 giugno 2016, n. 2909; Id., 24 luglio 2017, n. 3638, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[9] Cfr., R. Villata, voce Interesse ad agire, Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur., vol. XVII, Roma, 1989.
[10] Cfr., V. Caianiello, voce Cessazione della materia del contendere (diritto amministrativo), cit.; A.M. Corso, Cessazione della materia del contendere ed oggetto del giudizio amministrativo, in Una giustizia per la pubblica amministrazione, a cura di V. Spagnuolo Vigorita, Napoli, 1983, 411 ss. In giurisprudenza, cfr., ex multis, Cons. di Stato, sez. V, 23 aprile 1998, n. 474; Id. 10 marzo 1997, n. 242, in www.giustizia.amministrativa.it.
[11] Cfr., ex multis, Cons. di Stato, sez. IV, 24 luglio 2017, n. 3638; C.G.A.R.S., 20 maggio 2019, n. 453, in www.giustizia-amministrativa.it.
[12] Cfr., Cons. di Stato, sez. IV, 12 aprile 2017, n. 1700; Id., sez. V, 8 aprile 2014, n. 1663; Id., sez. IV, 17 settembre 2013, n. 4637, in www.giustizia-amministrativa.it.
[13] Cfr., Cons. di Stato, sez. V, 12 maggio 2020, n. 2969, in www.giustizia-amministrativa.it.
[14] Cfr., Cons. di Stato, sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2224; Id., sez. IV, 15 settembre 2015, n. 4307; Id., sez. V, 6 novembre 2011, n. 5070; Id., 27 novembre 2015, n. 5379; Id., sez. IV, 14 dicembre 2015, n. 5663; Id., 16 dicembre 2016, n. 5340, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] Cfr., Cons. Stato, sez. V, 28 febbraio 2018, n. 1214; Id. sez. IV, 5 dicembre 2016, n. 5102; Id. 16 giugno 2015, n. 2979; Id., sez. V, 24 luglio 2014, n. 3957 Id., 17 luglio 2020, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[16] Cfr., Cons. Stato, sez. V, 12 maggio 2011, n. 2817; Id., 28 luglio 2014, n. 3997 e 24 luglio 2014, n. 3939; Id., sez. IV, 18 maggio 2012, n. 2916; Id., 4 febbraio 2013, n. 646; Id., sez. VI, 18 luglio 2014, n. 3848, in www.giustizia-amministrativa.it.
[17] Cfr., Cons. Stato, sez. VI, 18 luglio 2014, n. 3848; Id., sez. V, 24 luglio 2014, in www.giustizia-amministrativa.it.
[18] In questo senso, Cons. Stato, sez. III, 29 gennaio 2020, n. 736; Id., sez. IV, 17 gennaio 2020, n. 418; Id., sez. III, 8 gennaio 2018, n. 5771, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] Cfr., sul punto, anche Cons. di Stato, sez. III, 15 aprile 2021, n. 3086, in www.giustizia-amministrativa.it. Parte della giurisprudenza ha, invero, ritenuto sufficiente – ai fini della norma in esame – la sussistenza di un mero interesse “morale” alla pronuncia di accertamento dell’illegittimità dell’azione amministrativa (cfr., Cons. di stato, sez. V, 15 giugno 2015, n. 2952, in www.giustizia-amministrativa.it).
[20] La regola della soccombenza era espressamente prevista dalla l. n. 1034/1971 ed è stata confermata dal vigente art. 26, comma 1, c.p.a., secondo il quale il giudice provvede sulle spese a norma degli artt. 91, 92, 93, 94, 96 e 97 c.p.c., tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e di sinteticità degli atti. Cfr., M. Mengozzi, Spese di giudizio, in Codice della giustizia amministrativa, a cura di G. Morbidelli, Milano, 2015, 359 e ss. e dottrina e giurisprudenza ivi citate.
[21] Cfr., da ultimo, Cons. di Stato, sez. V, 25 febbraio 2020, n. 1394; Id, sez. VI, 18 marzo 2019, n. 1766, in www.giustizia-amministrativa.it.
Il Tribunale di Brescia fornisce un assist alla Corte Costituzionale e al legislatore per risolvere definitivamente la questione della natura di lavoratori subordinati dei magistrati onorari*
di Bruno Caruso
Importante decisione del Tribunale di Brescia che ha sollevato dinnanzi alla Corte la questione di costituzionalità riguardante la natura del rapporto di lavoro di tale categoria e l’indebito trattamento economico-normativo che lo Stato attualmente le riserva. La giudice, potendo scegliere, solleva la questione dall’angolatura dell’abuso del contratto a termine. In particolare ritiene rilevante e non manifestamente infondata «la questione di costituzionalità dell’art. 7 della legge n. 374 del 1991, nella parte in cui consente il rinnovo degli incarichi per 18 anni dei magistrati onorari, e dell’art. 1 del D. Lgs. n. 92 del 2016, nella parte in cui consente un ulteriore incarico di durata quadriennale, così da determinare una reiterazione abusiva degli incarichi, e ciò per contrasto con l'art. 117 co. 1 Cost., in riferimento alla clausola 5, punto 1, dell'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, alla quale ha dato attuazione la direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999».
L’ordinanza è di grande rilievo perché va molto al di là della specifica questione dell’abuso del contratto a termine: certamente questa è la madre di tutte le questioni della magistratura onoraria, ma il fatto che sia stata sollevata con corretti argomenti, potrebbe indurre la Corte cost. (ma anche il legislatore ordinario) a non aggirare più il problema, più ampio, della natura del rapporto di lavoro dei magistrati onorari, nascondendosi dietro il dito dell’art. 106 cost. La Corte dovrà pertanto confrontarsi con due capisaldi della sua stessa giurisprudenza: l’indisponibilità del tipo lavoro subordinato e il primato del diritto europeo (per un approfondimento si rinvia a B. Caruso e G. Minutoli, Cui prodest? La riforma della magistratura onoraria tra tutela di diritti negati ed efficienza della Giustizia).
Il primato del diritto europeo, nel caso della magistratura onoraria, si è già materializzato con la ormai conosciuta, ma troppo spesso ignorata, sentenza della Corte di giustizia del 16 luglio 2020, UX ,Causa C-658/18. I principi ivi enunciati sono infatti tetragoni, inequivocabili e non aggirabili, malgrado l’evidente “ammuina” del Governo italiano: si veda la relazione della Commissione Castelli; ma pure la giurisprudenza del Consiglio di stato: sent. 4 febbraio 2021, n.1062; della Corte di cass.: ex plurimis, Cass., sez. lavoro, 5 giugno 2020, n. 10774; Cass., sez. III, 14 ottobre 2019, n. 25767; Cass., sez. lavoro, 4 gennaio 2018, n. 99 e soprattutto l’ordinanza delle SS.UU. n. 21986 del 2021 che dichiara carente di giurisdizione il giudice del lavoro e competente il Tar, il quale a propria volta nega la sua giurisdizione a favore del giudice del lavoro: Tar Lazio 1.9.2121 n. 9484.
Vale soffermarsi brevemente sulla ordinanza delle SS.UU. che costituisce una summa teologica del rifiuto, di fatto, delle alte Corti di accettare i decisa del giudice europeo anche prendendo tempo e sollevando polveroni. Le SS.UU. negano la giurisdizione del giudice del lavoro sulla base dell’erronea lettura (rectius della non lettura) del petitum del ricorso sottopostole. Esse vi leggono infatti ciò che non c’è scritto e che non poteva orientare, quindi, la decisione sulla giurisdizione: vale a dire la richiesta, inesistente, di accertamento «di un rapporto di impiego di fatto con il Ministero della Giustizia per lo svolgimento delle stesse funzioni giurisdizionali espletate dai magistrati togati». La domanda dei ricorrenti presso il Tribunale di Ivrea era, invece, di tutt’altro tenore: verteva sulla richiesta di una remunerazione equiparata a quella del lavoratore comparabile in ragione della violazione della clausola di parità contenuta nella direttiva sul contratto di lavoro a termine, da determinare solo per relationem, come indicato dalla sentenza UX, a quella del magistrato togato. Nessuna costituzione di rapporto di lavoro equiparato a quello del magistrato togato, dunque. Nella domanda, infatti, non si faceva questione di status giuridico, né si chiedeva alcun accertamento circa la sussistenza di un rapporto di impiego assimilato, o assimilabile, a quello dei giudici ordinari seppure in via di fatto, essendo esclusivamente in gioco il diritto dei ricorrenti all’applicazione delle tutele fondamentali, minimali, riconosciute alla generalità dei lavoratori dipendenti di un’amministrazione pubblica. Una richiesta che non implica affatto, se non solo nella strumentale rilettura delle SS.UU., l’incardinamento nei ruoli della magistratura professionale, onde la presunta giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Ma tant’è. Non a caso, quella indicata dalle SS.UU., è la via di fuga utilizzata dai magistrati del lavoro che preferiscono non decidere sul merito[1].
Detto incidentalmente, i pronunciamenti della Corte di Cassazione, del Consiglio di stato e dei giudici di merito che continuano a negare la natura di lavoratori subordinati dei magistrati onorari e i relativi diritti, rischiano soltanto di rinviare il redde rationem; vale a dire, rischiano di aggravare le conseguenze del mancato riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato anche sotto il profilo del danno. Si tratta di pronunciamenti che espongono la Stato italiano (lo Stato giudice), infatti, a responsabilità per danni per acclarata violazione del diritto europeo, giusta la dottrina Francovich, oltre che esporlo a una ulteriore procedura di infrazione della Commissione europea, per altro già avviata[2].
Per tornare alla Corte cost., a cui si rivolge il Trib. di Brescia, quest’ultima è stata più volte, anche di recente, chiamata a occuparsi della questione della natura del rapporto di lavoro di tale categoria di lavoratori appartenente alla galassia del sistema giudiziario italiano; ma, in ragione dei limiti perimetrici delle ordinanze di remissione, non ha avuto modo di occuparsene direttamente (o ha preferito non farlo). La domanda fondamentale, che questa volta scaturisce inequivocabilmente dalla ordinanza di remissione del Tribunale Bresciano, è infatti la seguente: al di là delle funzioni svolte e dei riflessi sull’ordinamento giudiziario italiano, i giudici onorari sono lavoratori subordinati, sono lavoratori autonomi o sono invisibili (lavoristicamente parlando) funzionari onorari ai quali spetta al più un indennizzo, una sorta di rimborso spese, e non una retribuzione vera con tutti gli oneri e i diritti connessi?
Si è detto che, su questo snodo fondamentale, la sentenza UX - correttamente e ampiamente richiamata dalla ordinanza del Tribunale di Brescia - è quanto mai chiara ed esplicita: i compensi hanno natura retributiva e non indennitaria, le complessive modalità di svolgimento del rapporto di lavoro dei magistrati onorari, allorquando le funzioni siano reali ed effettive e non marginali e accessorie, attraggono questa categoria nell’area del lavoro subordinato pubblico (ma non certamente nei ruoli della magistratura professionale).
Che la Corte cost. non abbia potuto o voluto, sinora, rispondere al fondamentale quesito della natura del rapporto di lavoro dei giudici onorari, è esplicitamente dichiarato nella sua ultima sentenza: la n. 172/2021 (relatore il costituzionalista Zanon). L’ordinanza di remissione riguardava il problema di mancati compensi ai Got, formalmente per disparità di trattamento con i Vpo: si trattava, nel caso, della questione della remunerabilità del tempo di lavoro impiegato dai Got fuori udienza. Secondo la legislazione vigente il tempo per scrivere le sentenze non costituisce attività indennizzabile per i Got, mentre lo è certamente per i giudici professionali, pur essendo l’attività giurisdizionale funzionalmente identica; il Giudice Zanon, correttamente, non affronta il tema decisivo del tempo di lavoro e della natura retributiva della remunerazione dei Got, perché tale questione specifica era stata sollevata dalla parte e non dal giudice remittente[3].
Con l’ordinanza del Tribunale di Brescia questa volta la Corte non può evitare di affrontare direttamente il problema della natura del rapporto di lavoro dei giudici onorari. La questione non riguarda l’istituto delle ferie (come nel caso risolto dalla UX), né della remunerazione come nel caso della sent. n.172/2021, ma dell’acclarato abuso del contratto a termine da parte dello Stato italiano per questa categoria di lavoratori.
È evidente, infatti, che nel risolvere la questione dell’abuso del contratto a termine per violazione della normativa europea, il dato di fatto di cui la Corte deve prendere atto, così come mostra di aver fatto positivamente il giudice remittente, è quello della natura subordinata del rapporto di lavoro del magistrato onorario: se c’è stata violazione del contratto di lavoro a termine, la natura del rapporto di lavoro in essere non può che essere subordinata; a meno che la fantasia più volte dispiegata in questa vicenda dall’Avvocatura dello stato non si spingerà sino a sostenere, davanti alla Corte, che il contratto a termine e la violazione della relativa direttiva di per sé non implicano il riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro!
La vicenda, dunque, con l’ordinanza in oggetto, è portata davanti alla Corte costituzionale, finalmente, nei suoi corretti binari, con tutte le conseguenze che seguiranno e di cui non necessariamente la Corte deve prendere atto, potendolo fare certamente i giudici di merito che ne applicheranno i principi: non solo le conseguenze citate direttamente nell’ordinanza relative al risarcimento del danno per abuso del contratto a termine, ma tutte quelle che sono dispiegate nel ricorso da cui scaturisce l’ordinanza di rimessione e che si innestano nel riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato: dalla applicazione del principio di parità di trattamento con riguardo alla retribuzione dei lavoratori comparabili, tenuto conto dei ragionevoli e oggettivi parametri di adeguamento e proporzionalità suggeriti dalla Corte di giustizia e dal Tribunale di Vicenza[4], in un caso analogo; sino a tutto il resto: ferie, malattia, sospensione per maternità, ricostruzione del regime previdenziale per il rapporto di fatto intercorso.
A questo punto, per evitare di assumere una postura polacca[5], la Corte costituzionale non potrà che dar seguito a quanto già affermato dalla Corte di giustizia europea, principi che quest’ultima si appresta a ribadire in una probabile ordinanza che si attende a breve su una analoga questione pregiudiziale sollevata dal Tar Emilia Romagna[6]. Ma lo stile polacco non si addirebbe neppure allo Stato italiano nella veste di Parlamento: si sussurra di abborracciate soluzioni con ventilati, ma poco chiari, emendamenti alla legge di bilancio, questa volta con procedure di stabilizzazione e riconoscimento di “tutte le garanzie del rapporto di lavoro subordinato”[7]. Ma in attesa del Godot della pronuncia della Corte cost. o dell’intervento del legislatore che ponga rimedio ai propri avvitamenti con una stabilizzazione non punitiva, in grado di evitare un’ennesima condanna del giudice europeo o una ulteriore procedura di infrazione, lo Stato italiano può rimediare alla violazione del diritto europeo in atto anche con sentenze di Tribunali del lavoro che vadano nel senso del riconoscimento della natura subordinata del rapporto dei giudici onorari con tutte le conseguenze che seguono. Resta la possibilità, in caso di inadempimento, non certamente ideale sotto il profilo della partnership europe e del ruolo di protagonista che l’attuale governo intende avere in Europa, di rimediare affrontando il dovuto risarcimento del danno, che il giudice civile non potrà non concedere, se adeguatamente stimolato, per violazione del diritto europeo. Alterum non datur.
* Ordinanza 29 novembre 2021, giudice Laura Corazza.
[1] Si v. il Tribunale di Palermo, sentenza n. 4488/2021 che declina la sua giurisdizione con una motivazione apparente, neppure succinta «va immediatamente dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice adito in favore di quello amministrativo in ossequio al conforme insegnamento della giurisprudenza di legittimità (Cass., S.U., ordinanza n. 21986 del 30 luglio 2021), che in questa sede si condivide espressamente».
[2] Come ricorda R. Calvano, Corte di giustizia, primato del diritto Ue e giudici onorari, in Giustizia insieme, 2021 a seguito della sentenza UX, e a cinque anni dall’archiviazione di un primo caso EU-Pilot ( Procedura Eu Pilot 7779/15/EMPL – DPE 0007062 P-4 22.17.4.5 del 10.6.2016), relativo allo status dei giudici onorari, la Commissione è ora tornata sulla questione, inviando, ai sensi dell’art. 258 TFUE, una lettera di costituzione in mora molto dura al Governo italiano, con la quale si preannuncia l’avvio di una procedura d’infrazione, (procedura n. 2016/4081) chiedendo di uniformare la legislazione nazionale a quella dell’Ue, in quanto il mancato riconoscimento dello status di lavoratori impedisce ai magistrati onorari di beneficiare della protezione offerta nelle direttive 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato; 97/81/CE sul lavoro a tempo parziale; 2003/88/CE sull’orario di lavoro; 92/85/CEE sulle lavoratrici gestanti.
[3] Una approfondita disamina del problema che ha dato luogo alla sentenza della Corte e del merito della stessa, in L. Ciafardini, Sul compenso da riconoscere ai magistrati onorari di lungo corso: aspettando Godot, Consulta Online, 2021. Fasc. III. La complessiva e complessa vicenda della magistratura onoraria è ora ricostruita, sotto il prisma dei principi e delle norme giuslavoristiche, da G. Fontana, Giudici Precari. Il lavoro senza diritti, Rubettino, 2022, di prossima pubblicazione.
[4] Sent. 16 dicembre 2020,
[5] Il problema è posto con eleganza dalla dottrina giuscostituzionalistica che si è occupata del problema: si v. R. Calvano, Corte di giustizia, primato del diritto Ue e giudici onorari, cit.
[6] La questione pregiudiziale, sollevata quasi negli stessi termini di quella già risolta con il caso UX, è incardinata dinanzi alla Corte di giustizia come C-236/20. In essa sono presenti come soggetti intervenienti le principali associazioni dei magistrati onorari italiani, tra cui Assogot e Unigipa.
[7] Si v. in proposito L. Ciafardini, Il restyling prossimo futuro dello status della magistratura onoraria: cosa bolle davvero in pentola, in Giustizia insieme.
La diffusione della droga in Italia di Giulio Maira
Sommario: 1. Diffusione della droga in Italia - 2. Piante di cannabis, marijuana e hashish - 3. Interazione Cannabis-cervello - 4. Effetti della cannabis - 5. Considerazioni finali.
1.Diffusione della droga in Italia.
Quella delle droghe è una tragedia che affligge l’Italia da tanti anni. I dati purtroppo stanno peggiorando, con una forte recrudescenza del consumo e delle morti, specie in età più giovanili. Dati del Dipartimento per le Politiche Antidroga ci dicono che circa 650.000 giovani (il 19% degli studenti di 15-19 anni) ha assunto sostanze psicoattive illegali nel corso del 2020. Tra questi il 5.3% ha assunto due sostanze e il 4% almeno tre.
La Cannabis rappresenta la quota più ampia del mercato delle sostanze illecite, sia tra i giovani che tra gli adulti (in totale, 5.9 milioni di Italiani). Ne fanno uso poco più del 30% dei ragazzi e quasi il 21% delle ragazze. 90mila studenti riferiscono un uso pressoché quotidiano e 150mila un uso problematico. Il 21% degli studenti utilizzatori è a rischio di sviluppare dipendenza; il 4.9% nei 15enni, il 29% tra i 19enni. Ma salgono al 53% se poliutilizzatori.
Preoccupa il fatto che, dei ricoveri ospedalieri dovuti al consumo di droghe, il 12% sia dovuto ad intossicazioni da cannabis, un numero in crescita probabilmente correlato all’innalzamento delle concentrazioni del principio attivo, dato confermato dal fatto che il 7.2% delle utenze delle comunità terapeutiche lo è per la cannabis (mentre il 46% lo sono per cocaina/crack, e 28% per oppiacei). In aumento anche, all’interno dei servizi per tossicodipendenza, la quota di utenti presi in carico, per cannabis.
Certamente durante il lockdown lo spaccio di sostanze davanti alle scuole si è fermato, ma secondo l’European Drug Report del settembre 2020 c’è stata una larga immissione nel mercato di nuove droghe sintetiche con modalità di vendita differenti e maggiore coinvolgimento di internet.
Il mercato delle droghe muove attività per 16,2 miliardi di euro, di cui il 39% attribuibile al mercato della Cannabis e il 32% a quello della cocaina, aumentato negli ultimi 3 anni di 2.5 punti percentuali.
La battaglia per arrestare questo fenomeno non è facile. Anche se è importante vincerla a tutto campo per il bene del nostro Paese e dei nostri figli, c’è chi si chiede “se non sia meglio dedicare le limitate risorse dello Stato per combattere l’enorme traffico di cocaina e droghe sintetiche, piuttosto che inseguire micro spacciatori in possesso di piccole quantità di cannabis, arrestarli e rivederli agli angoli delle strade dopo pochi giorni” (Severgnini, Corriere della Sera, 2021). Secondo questa linea di pensiero, il vero fenomeno da combattere sarebbe il fiume di cocaina che ogni giorno invade le grandi città, mentre l’uso della cannabis andrebbe contrastato attraverso l’informazione, così come per il tabacco e i superalcolici, con un’opera di convincimento certamente lenta e parziale, ma non necessariamente inferiore a quella del divieto; ci sarebbe Inoltre la speranza che molti ragazzi, privati della possibilità di trasgressione, si allontanino dalla cannabis.
Il dilemma non è banale perché, dalla risposta che si dà, potrà dipendere l’atteggiamento sociale e istituzionale che si adotterà nel futuro.
Certamente ad altri competono le decisioni politiche, le azioni repressive e la lotta alla criminalità che della diffusione delle droghe si nutre. Ma è necessario che chi prende posizioni relativamente alle cosiddette “droghe leggere”, e chi legifera in merito, lo faccia basandosi su una conoscenza dei fatti. E i fatti, quando si parla di scienza, non sono modificabili.
Nel parlare di legalizzazione della cannabis si incorre spesso in un triplice equivoco, cosa che rende meno facile affrontare con chiarezza il problema:
1) Il primo è relativo alla confusione tra cannabis terapeutica e cannabis psicoattiva.
2) Il secondo si ha nel cercare di distinguere le droghe in leggere e pesanti.
3) Il terzo lo si compie quando si confonde la questione della legalizzazione con il problema di proteggere i giovani.
2. Piante di cannabis, marijuana e hashish.
La cannabis è la droga più utilizzata e diffusa a livello mondiale e viene ottenuta da una pianta erbacea a ciclo annuale, di cui possiamo distinguere due varietà, il chemiotipo CBD (cannabidiolo), non tossico e destinato ad usi agroindustriali e terapeutici (cannabis indica), e quello THC (9-tetra idrocannabinolo), fortemente psicoattivo (cannabis sativa). L’hashish e la marijuana sono costituiti dalla resina e dalle infiorescenze ottenute dalla varietà THC.
Molto è cambiato in questi anni nella coltivazione di queste piante. La sativa, che negli anni ’80 e ’90 aveva 1.5-4% di concentrazione di THC adesso arriva fino al 29%. Inoltre, per incrementare la velocità e l’intensità dello sballo (“high”), sono state introdotte nuove vie di concentrazione, come il riscaldamento (“dabs”) che permette di ottenere fino al 76% di THC, con maggiore rischio di intossicazione. Sono cambiati anche i prodotti contenenti cannabis (masticabili, estratti, sintetici, fumo, vaporizzazione, ingestione orale). In conseguenza di ciò, la tradizionale distinzione tra la più light marijuana (estratta dalle infiorescenze essiccate della parte femminile della pianta) e il più potente hashish (prodotto a partire dalla resina) ha perso in parte il suo significato. Oggi con gli ibridi e la grande varietà di metodi di coltivazione, ci sono canne fatte con certi tipi di marijuana più potenti di un corrispettivo fatto con l’hashish.
Poi vi sono i cannabinoidi sintetici, da 5 a 80 volte più potenti dei naturali, con vita-media estesa e maggiore durata degli effetti neurocognitivi (agitazione, coma, psicosi) a dosaggi più bassi. Molti di loro non sono stati ancora studiati sull’uomo.
La cannabis, legalizzata nel 1996 in California per situazioni mediche, quali nausea, perdita di peso, dolori, spasmi muscolari, è stata successivamente accettata anche per uso ricreativo. In seguito, molti stati ne hanno legalizzato la vendita, alcuni imponendo tasse aggiuntive. Oggi la cannabis ad uso ricreativo è usata nel mondo dal 4% della popolazione adulta. Ma questo dato aumenterà certamente con le possibili future liberalizzazioni, con la principale conseguenza che potranno aumentare i danni che ne derivano. Un referendum in Nuova Zelanda e il voto nel parlamento federale della Germania hanno recentemente rigettato la proposta di legalizzare l’uso ricreativo della cannabis (anche se il futuro cancelliere della Germania, Olaf Scholz, già parla di depenalizzazione della cannabis per gli adulti).
3.Interazione Cannabis-cervello.
Essendo una sostanza chimica con effetti psicotropi, anche la cannabis, come le altre sostanze illecite, agisce sul cervello legandosi ad alcuni recettori (CB1) presenti in diverse aree. Su questi agiscono normalmente gli endocannabinoidi, molecole prodotte dal nostro organismo, importanti per il normale funzionamento delle attività cerebrali. In particolare, il loro rilascio controlla la plasticità sinaptica, ovvero la capacità del sistema nervoso di modificare l’efficienza delle connessioni tra neuroni (sinapsi) e di instaurarne di nuove; sono sostanze essenziali per un’equilibrata attivazione neuronale, importanti per la maturazione del cervello e per la trasmissione degli impulsi da un neurone a un altro, senza cui il nostro cervello non potrebbe funzionare correttamente. I recettori CB1 sono di grande importanza per il normale funzionamento di molte aree cerebrali deputate a funzioni cognitive complesse e alla pianificazione dei comportamenti. Studi di neuroimaging hanno mostrato come il THC induca cambiamenti in aree cerebrali e neurotrasmettitori coinvolti, oltre che in molte funzioni vitali, nel controllo esecutivo ed inibitorio, nella memoria, apprendimento ed emozioni. La somministrazione di THC agisce anche incrementando il release di dopamina nel nucleo accumbens, meccanismo alla base della dipendenza di molte droghe. Altri studi mostrano effetti simili a quelli della cocaina.
L’uso della cannabis è associato anche a cambiamenti strutturali nella materia grigia di regioni fortemente associate con psicosi, incluse l’ippocampo, l’amigdala, lo striato, le regioni corticali prefrontale e le regioni cerebellari. Consumatori frequenti di cannabis che hanno cominciato prima dei 16-17 anni di età mostrano modificazioni cerebrali simili a quelle dimostrate nei pazienti con schizofrenia.
Molti studi indicano come frequenza ed età di insorgenza dell’uso sono le probabili variabili nel predire l’effetto della cannabis. Fattori negativi sono anche l’uso parentale di droghe, atteggiamenti permissivi verso il loro uso, disturbi mentali, sfavorevole educazione dei figli, numero di eventi negativi nella vita.
Vista l’importanza del sistema cannabinoide endogeno per la maturazione cerebrale, una sua perturbazione attraverso l’utilizzo di cannabinoidi esogeni o sintetici può influire in modo anche drammatico sul sistema nervoso durante le fasi maggiormente coinvolte nello sviluppo cerebrale, e cioè il momento della gravidanza e quello dell’adolescenza.
Nei paesi occidentali la cannabis è tra le droghe illecite più abusate dalla donna incinta. Negli USA, inoltre, il 15% delle donne in allattamento fa uso di cannabis. L’Associazione Statunitense dei Pediatri ha espresso forte preoccupazione per le conseguenze che i principi attivi della cannabis possono avere sullo sviluppo a lungo termine dei bambini, con il risultato finale di determinare un minore sviluppo di cellule cerebrali e delle loro connessioni, danni neurologici che possono protrarsi per tutta la vita, deficit nell’apprendimento, memoria, attenzione, e comportamenti aggressivi. Inoltre viene segnalata una maggiore tendenza a delinquere e a fare uso di droghe.
L’uso di droghe in gravidanza è inoltre causa di una nuova emergenza sanitaria che getta nello sconforto il mondo medico. Mi riferisco al drammatico problema dei bambini che vengono alla luce già in crisi di astinenza. In USA la percentuale di neonati che risultano positivi alla droga è cresciuta, dal 2014, fino a sfiorare, nel 2018, il 6% di tutti i parti. E l’uso in gravidanza è stato collegato, dall’American College of Obstetricians and Gynecologists, a pericoli per la sopravvivenza (bassi pesi alla nascita e aumentato rischio di mortalità).
Un altro momento delicato per l’evoluzione del cervello è l’adolescenza. Sappiamo che il cervello comincia la sua maturazione a partire dalla nascita, ma la completa tra i 20 ed i 21 anni. Il cervello dell’adolescente, quindi, non ha ancora completato il suo sviluppo e presenta una forte plasticità neuronale necessaria per la produzione di sinapsi, la mielinizzazione di fibre nervose e la formazione di recettori, processi fondamentali per la formazione del cervello adulto. Un cervello sotto l’effetto della cannabis sembra rallentare o compromettere il suo normale processo evolutivo, evidenziando deficit comportamentali (apatia, rallentamento motorio) e cognitivi (smemoratezza, rallentamento del pensiero). L’adolescenza, inoltre, è considerata un periodo critico per la corretta strutturazione dei processi emozionali e affettivi; da ciò deriva un’associazione aumentata tra uso della cannabis in questa età e rischio psichiatrico, ansietà, depressione, dipendenza e disordini psicotici, con il rischio di sviluppo di psicosi nella vita adulta. Uno dei più importanti fattori di rischio ambientali per schizofrenia è l’uso pesante di cannabis. Il 12% delle persone con disturbo depressivo maggiore e 1 su 4 con schizofrenia hanno disturbi psichici da cannabis.
Systematic review suggeriscono, per fortuna, una possibilità di recupero delle funzioni con l’astinenza, ma anche peggiori outcomes per storie di uso più severo, ancor più se con vari fattori di rischio associati (salute mentale, fattori psicosociali, ecc..). L’evidenza scientifica chiaramente indica che l’uso prolungato di marijuana porta a dipendenza in circa il 9%, secondo il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 4th edition – DSM-IV). Ma il rischio sale dal 25 al 50% tra quelli che fumano giornalmente.
Secondo osservazioni negli USA, individui che regolarmente usano cannabis sono molto più disponibili ad usare eroina o cocaina che non individui che non ne fanno uso. La causa può consistere nella “gateway hypothesis”, secondo cui l’uso di cannabis aumenta il rischio di usare altre droghe illecite e sviluppare disturbi psichici. Non è chiaro se in ciò la cannabis abbia un effetto causale o se l’associazione sia spiegata da una disponibilità mentale all’uso di differenti droghe o ancora dalla facilità all’accesso al mercato della droga o dalla affiliazione con altri utilizzatori di droghe. La cannabis di per sé non porta al consumo di altre sostanze, ma al desiderio di alterazione mentale, sì. Quindi, se è questo che si cerca, si tenderà anche a sperimentare altro, e nel mercato delle droghe certamente non mancano le proposte alternative.
4.Effetti della cannabis.
L’assunzione di prodotti della cannabis determina inizialmente sensazioni di rilassatezza, di benessere, di disinibizione, cui si accompagnano però distorsioni olfattive e visive, e un rallentamento delle funzioni motorie, della parola, della capacità di attenzione, e molta sonnolenza. L’assunzione abituale può essere causa di molti disturbi neurologici, comportamentali e sociali, come hanno documentato già da tempo molti studi scientifici.
Riporto i dati pubblicati, nel 2014, da una delle più autorevoli riviste scientifiche al mondo, il New England Journal of Medicine (NEJM), e ripresi nel 2018 dall’American Academy of Pediatrics:
L’uso abituale di marijuana negli adolescenti provoca le seguenti conseguenze dimostrate:
1. Riduzione della memoria a breve e lungo termine, e del QI.
2. Difficoltà nell’apprendimento, con ricadute negative sul rendimento scolastico e alta probabilità di interruzione degli studi.
3. Disturbi della coordinazione motoria.
4. Riduzione della capacità di reazione durante la guida e conseguente aumento del rischio di incidenti.
5. Aumento di impulsività con diminuzione della capacità critiche di giudizio, cosa che può favorire eccessi d’ira e risposte esasperate agli stimoli esterni, in particolare nei casi con disturbi latenti della personalità.
6. Dipendenza: 9 persone su 100 diventano dipendenti da questa droga, 1 su 5 tra coloro che cominciano a usarla in adolescenza, 1 su 2 tra coloro che la usano quotidianamente.
7. Alterazioni dello sviluppo cerebrale nell’embrione, nel feto e nell’adolescente
8. Frustrazione nel raggiungimento degli obiettivi lavorativi e sentimentali
9. Aumento del rischio di disordini psichici fino alla schizofrenia, in particolare in persone fragili e con predisposizione.
La Federazione Mondiale di Neurologia (2016) segnala come l’uso di marijuana a scopo ricreativo comporti un rischio aumentato del 17% di ospedalizzazione per ischemia cerebrale, soprattutto nella fascia di età fra i 25 e 34 anni. Se associato all’uso di tabacco, il rischio sale al 31%, al 42% se associato a cocaina.
L’uso di marijuana è un fattore di rischio non solo cerebrale ma anche cardiovascolare con ipotensione arteriosa, vasocostrizione, aritmie cardiache e embolie cerebrali a partenza dal cuore, eventi che possono giungere fino alla morte.
Le conseguenze dell’assunzione di cannabis possono accentuarsi per il simultaneo consumo di altre sostanze, come l’alcol, che sono in grado di esasperarne gli effetti. Uno studio ha dimostrato che guidare sotto l’effetto contemporaneo di cannabis (che già da sola modifica la percezione della velocità dell’auto, il comportamento esecutivo e quello automatico) e di alcol aumenta di sette volte il rischio di incidenti stradali rispetto a chi guida avendo assunto una sola di queste sostanze.
Da quanto riportato sopra si evince come i problemi legati all’uso di cannabis non siano trascurabili e che pertanto non esistano reali differenze tra droghe cosiddette “leggere” e droghe “pesanti”.
A prescindere dal dibattito politico o ideologico sulla legalizzazione delle droghe leggere, e anzi a supporto di un confronto serio sull’argomento, gli studi condotti evidenziano la necessità di campagne d’informazione scientificamente fondate sugli effetti della cannabis. E’ importante che vengano anche chiarite ancor più le differenze, persino chimiche, tra la cannabis usata a scopo terapeutico e quella a uso ricreativo. Altrimenti i termini legalizzazione e cannabis terapeutica possono indurre l’opinione pubblica e soprattutto i giovani a pensare in modo acritico che le cosiddette “droghe leggere” non solo non siano dannose, ma possano persino apportare benefici.
5.Considerazioni finali.
Da quanto ho cercato di far capire lungo questo articolo, l’assunzione di cannabis è pericolosa a qualunque età perché capace di alterare la funzione di molti importanti meccanismi cerebrali. Il pericolo aumenta quando la sostanza viene assunta in un’età formativa per il cervello, e cioè in gravidanza o nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza e fino all’età adulta.
Certamente la lotta alle organizzazioni criminali che con la droga si arricchiscono è un affare complesso che compete allo Stato. E speriamo che, rafforzando le leggi e perseguendo anche il mercato del dark web, si riescano a trovare soluzioni efficaci per salvare una generazione di giovani e, con loro, il futuro del nostro paese.
Ma da subito la battaglia deve essere combattuta nelle famiglie e nelle scuole, perché i giovani percepiscono sempre meno la cannabis come un pericolo per la salute. Attenzione e informazione: sono queste le parole chiave; attenzione a cogliere comportamenti dubbi e informazioni corrette sulle droghe. Prepariamo i nostri giovani a una resistenza contro la criminalità organizzata informandoli di quali possono essere le conseguenze, anche gravi, che, drogandosi o ubriacandosi, rischiano di portarsi dietro per tutta la vita. Diciamo loro che per una sola pasticca di qualche sostanza presa in discoteca si può anche morire e insegniamogli che non esiste una distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, perché tutte fanno male. Insegniamogli anche a meravigliarsi delle bellezze delle cose che ci circondano, a non estraniarsi dalla vita vera inseguendo surrogati della realtà che portano soltanto a un binario morto.
Come diceva Ovidio, esortiamoli a “Guardare in alto, rivolgere sempre gli occhi alle stelle, avere ideali, credere in essi e operare per la loro realizzazione”.
E allora cosa fare? Inizierei con un appello al Ministro dell’Educazione perché attivi, nelle modalità che riterrà migliori, delle ore di insegnamento dedicate a questo argomento, iniziando da subito dopo la scuola primaria, distribuendo materiale scolastico apposito, in modo da limitare le prime tentazioni alla trasgressione e trasformare i più giovani, da possibile bersagli di spacciatori senza scrupoli, in persone più consapevoli e capaci di difendersi. Una proposta potrebbe prevedere due ore obbligatorie l’anno dedicate all’argomento droghe, organizzando momenti di confronto e discussione, anche prevedendo la testimonianza di chi ha vissuto esperienze di droga e alcolismo, oppure di operatori di centri di recupero, con distribuzione di materiale informativo su questi temi.
L’età più delicata per i giovani sono i 12 anni, quando si cessa di essere bambini per diventare ragazzi, quando si comincia a uscire la sera da soli. Gli spacciatori si trovano fuori dalle scuole, all’angolo di un bar, nel web. I ragazzi sono ancora fragili, non hanno ancora sviluppato del tutto la parte razionale del cervello, è più facile che cedano alle lusinghe dei più grandi: provare non costa nulla e lo fanno tutti.
La lotta alla cannabis va vista, non solo come contrasto alla malavita, ma soprattutto come mezzo per proteggere i giovani, che sono il futuro del nostro paese. Lasciare gli spacciatori all’angolo delle scuole significa non interrompere mai quella catena che dall’approccio iniziale alla droga, “per gioco”, porta al consumo diffuso nella società e ad un alto numero di ragazzi tossico-dipendenti. La cannabis è la prima droga assunta da quelli che poi sono andati nei centri di disintossicazione; non tutti sviluppano dipendenza, ma nella maggioranza di quelli che l’hanno sviluppata, la cannabis è stato il primo approccio. E il primo anello di questa catena si spezza con un’azione che miri a togliere dalla mente dei nostri figli due assunti sbagliati: quello che esistano droghe leggere e quello che senza lo “sballo” non ci si diverta.
La legalizzazione della cannabis, che, come in tutti i paesi in cui è stata approvata, sarebbe valida solamente per persone adulte, agirebbe marginalmente sulla diffusione delle droghe in genere, e non eliminerebbe il mercato clandestino. Alla vendita illegale ricorrerebbero, non solo gli adulti in cerca di sostanze a più alto potere psicotropo di quelle vendute legalmente, ma soprattutto le categorie più deboli e meno protette, i giovani, ai quali sarebbe giustamente proibito l’accesso alla cannabis legale. La legalizzazione, inoltre, eliminerebbe un deterrente psicologico, quello della droga pericolosa per la salute: sarebbe un messaggio devastante che farebbe deragliare la legalità e i tanti anni di lavoro di prevenzione.
La vera questione della legalizzazione è che non sconfigge la malavita e lascia indifesi i più giovani, che sono il vero futuro, quello ancora sano, da proteggere. Quindi, facciamo prevenzione occupandoci dei nostri giovani e proteggendoli, e nel contempo facciamo una lotta spietata contro i malfattori che inondano il nostro paese di droghe, combattendo tutte le droghe.
Ricordiamoci che l’art. 32 della nostra Costituzione recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.
Riquadro 1
I giovani percepiscono sempre meno la cannabis come un pericolo per la salute. L’azione verso loro deve mirare a trasmettere i seguenti messaggi:
1) Non è vero che l’uso di sostanze illegali sia innocuo o che soltanto l’eccesso possa essere pericoloso.
2) La proibizione delle droghe non è solo una forma di moralismo, ma serve a prevenire i danni che derivano dall’uso, anche solo in piccole dosi, delle sostanze illegali.
3) Non esiste una distinzione tra droghe “leggere” o “pesanti”. Tutte le droghe, così come l’alcol, agiscono a livello cerebrale e possono provocare danni permanenti al cervello, soprattutto se assunti in età giovane, quando il cervello è ancora in fase di evoluzione e devono ancora strutturarsi la personalità e le funzioni cognitive. Anche la cannabis agisce a livello cerebrale frenandone lo sviluppo e modificandone il funzionamento.
4) Il cervello dei ragazzi matura intorno ai 21 anni, e quindi prima di quell’età qualunque sostanza psicotropa altera il normale sviluppo cerebrale e può compromettere la vita futura.
5) Marijuana e hashish danno dipendenza nel 10% dei consumatori assidui, un numero alto considerando l’alto numero di persone che fa uso di cannabis.
6) La cannabis è la prima droga assunta dai ragazzi che poi sono andati nei centri di disintossicazione. Non tutti sviluppano dipendenza, ma nella maggioranza di quelli che l’hanno sviluppata, la cannabis è stato il primo approccio.
Riquadro 2
Perché sarebbe sbagliato legalizzare l’uso ricreativo della Cannabis:
1) Fa male, soprattutto ai giovani
2) Si eliminerebbe un deterrente, quello della droga pericolosa per la salute: sarebbe un messaggio devastante che farebbe deragliare la legalità e i tanti anni di lavoro di prevenzione. Potrebbe Incidere negativamente sull’educazione dei minori, che crescerebbero, sempre di più, nella convinzione che l’utilizzo di cannabis sia innocuo e socialmente condiviso.
3) In qualunque paese in cui l’utilizzo della cannabis è legale, il provvedimento non riguarda i giovani sotto i 21 anni di età. Pertanto la legalizzazione non eliminerebbe affatto il mercato clandestino. Quello della malavita organizzata continuerebbe a rappresentare un mercato a basso costo, con offerta anche di cannabis sintetica a più alto effetto psicotropo e quindi più pericolosa.
Alla vendita illegale ricorrerebbero, non solo gli adulti in cerca di sostanze a più alto potere psicotropo, non vendute legalmente, ma soprattutto le categorie più deboli e meno protette, i giovani, ai quali sarebbe proibito l’accesso alla cannabis legale.
4) Aumenterebbe la base di potenziali aspiranti alle droghe pesanti.
5) La malavita sposterebbe il tiro e tenderebbe a mantenere il mercato riconvertendo la sua attività alla distribuzione di altre sostanze più pericolose, come le droghe sintetiche.
6) Infine, ma più importante: l’art. 32 della nostra Costituzione afferma che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.
Ponti versus muri, o muri e ponti. 1) Il ponte di La Pira contro la guerra del Vietnam
di Augusto D’Angelo*
Nel dicembre 1967 apparve un articolo di Giorgio La Pira dal titolo Per la pace in Medio Oriente[1]. Lo stesso articolo fu poi ripreso anche col titolo Abbattere i muri e costruire ponti in un volume apparso nel 1971 che raccoglieva diversi suoi interventi[2]. Quest’ultimo titolo è stato poi utilizzato in una voluminosa edizione delle lettere di La Pira a Paolo VI perché ben coglieva uno dei capisaldi dell’azione del sindaco «santo» che fece di Firenze, sua città d’adozione, un laboratorio di pacificazione[3]. Nata per descrivere l’esigenza di uscire dalla logica della contrapposizione in Medio Oriente dopo la guerra dei sei giorni, quella indicazione ha avuto il merito di definire una strategia di lungo periodo, che con alterni successi, ha accompagnato la vita di La Pira ma ha caratterizzato anche la politica estera italiana.
In queste poche pagine vorrei far riemergere una pagina della vicenda lapiriana che mi sembra illustri pienamente il senso di quella frase.
A metà degli anni Sessanta del secolo scorso c’era un tema che assillava le cancellerie mondiali e gran parte dell’opinione pubblica: la guerra del Vietnam. In quel Paese diviso in due lungo il 17° parallelo dagli accordi di Ginevra del 1954 si era accesa una delle pagine più roventi della guerra fredda, che si intrecciava con il processo di decolonizzazione in atto in molti paesi del sud del mondo. Parte del mondo cattolico guardò a quel conflitto con angustia e ci fu chi si incamminò alla ricerca delle vie praticabili per una pacificazione. Il papa – all’epoca Paolo VI – diede voce ad appelli di pace per la durata dell’intero conflitto. Amintore Fanfani – profondamente legato a La Pira - si attivò su quel fronte sia in qualità di Ministro degli esteri che come Presidente dell’Assemblea generale dell’ONU, al fine di individuare itinerari di distensione praticabili.
L’Italia si mosse in tre diverse occasioni per favorire un accordo per il cessate il fuoco e l’apertura di negoziati in Vietnam. La prima volta fu proprio La Pira, senza alcun mandato ufficiale, e parallelamente alla diplomazia, a prendere una iniziativa recandosi nel 1965 ad Hanoi. Raccolse l’apertura nordvietnamita ad un negoziato, ma gli statunitensi la lasciarono malamente cadere[4]. Fu poi la volta dell’operazione Marigold[5], che nel 1966 vide protagonisti l’ambasciatore Giovanni D’Orlandi, l’esponente polacco Janusz Lewandowsky e l’ambasciatore statunitense Cabot Lodge. Seguì l’operazione Killy, tra 1967 e 1968, che per la diplomazia italiana e lo stesso D'Orlandi rappresentò il momento di un formale riconoscimento da parte dei nordvietnamiti e degli statunitensi del ruolo di mediatori, anche se alla fine si trattò di un ulteriore insuccesso.
Furono tre tentativi segnati dal fallimento, ma ebbero l’immenso merito di tener vivo il tema della ricerca di un negoziato, della strategia dell’abbattere muri e costruire ponti. Al negoziato si sarebbe approdati solo nel 1968, con il Presidente americano Richard Nixon e il Segretario di Stato Henry Kissinger, e con la successiva apertura della Conferenza di Parigi.
Alcuni esponenti del mondo diplomatico, politico e religioso italiano, nonostante i venti contrari, avevano continuato a credere alla possibilità di giungere ad una soluzione pacifica del conflitto[6]. E
tra questi va ricordato sicuramente La Pira. Egli, che sin dall’inizio del conflitto chiese al papa di assumere iniziative decise[7], si rese poi protagonista in prima persona di un’azione politicamente coraggiosa.
Il 20/10/1965 La Pira decollò da Roma per raggiungere Hanoi, accompagnato dal giovane matematico Mario Primicerio che ha ricostruito recentemente in dettaglio l’azione del già sindaco di Firenze sul tema del Vietnam ed il viaggio compiuto per parlare con Ho Chi Min[8].
Di quel viaggio La Pira aveva dato comunicazione a Paolo VI con una lettera del 19/10/1965, mettendo l’iniziativa in rapporto con una sorta di mandato di cui egli si sentiva investito a seguito del discorso di papa Montini all’ONU contro la guerra:
«Sembra quasi, questo viaggio, una conseguenza del Vostro appello di disarmo e di pace; una esecuzione, in certo senso, del mandato che Voi avete affidato a tutti gli uomini per la edificazione "immediata" della pace! Se questo viaggio riesce (chissà! potrebbe anche riuscire) esso sarà davvero il primo frutto dell’albero di amore fraterno piantato da Paolo VI nella terra del Palazzo di Vetro»[9].
La Pira aveva lavorato a lungo a quella iniziativa, già dai primi momenti in cui si era avviato il conflitto, nel 1964. Quando era ancora Sindaco di Firenze aveva lanciato un appello al Segretario Generale dell’ONU e ai capi di Stato che facevano parte della Commissione internazionale di controllo per l’attuazione degli Accordi di Ginevra del 1954, perché si desse immediatamente inizio ad un negoziato tra le parti in conflitto, e ricevette una lettera di Ciu en Lai che lo invitava a favorire ulteriori interventi per la pace. Inoltre, a distanza di qualche mese, aveva organizzato un incontro internazionale di studio sulla questione del Vietnam[10]. L’iniziativa si era concluse con un appello ai governi di Canada, Francia, India, Polonia, Stati Uniti Unione Sovietica, Vietnam del Nord, Vietnam del Sud e ai rappresentanti del Fronte di liberazione del Vietnam del Sud in cui si leggeva, tra l’altro: «La nostra lettera è un segno augurale di questo spirito: è un messaggio da Firenze , indicante che il fuoco della guerra può cessare, che un incontro per la pace in Asia è realizzabile, che le basi di una pace totale nel Vietnam, nell’Asia e nel mondo possono gettarsi»[11].
Il leader del Vietnam del Nord, Ho Chi Minh, rispose a quella lettera, indicando le condizioni di Hanoi per ristabilire la pace[12].
E poi giunse il momento del viaggio verso Hanoi le cui tappe sono ricostruibili grazie al dettagliato diario di Primicerio: il 20 ottobre il volo da Roma a Varsavia con scalo a Zagabria; la lunga permanenza a Varsavia per attendere i permessi vietnamiti per continuare la missione, e la possibilità di visitare Cracovia e Auschwitz; il 31 /11 il volo a Mosca, il 5/11 quello per Omsk e Irkutsk, ed poi l’arrivo a Pechino il 6/11. L’8/11 l’arrivo ad Hanoi e l’11/11 l’incontro con Ho Chi Min al termine di diversi incontri interlocutori con i suoi collaboratori. Il 12/11 la partenza da Hanoi con scalo e Wuhan e l’arrivo a Pechino, il 13/11 il volo per Mosca ed il 14/11 il ritorno a Roma via Parigi.
Un viaggio che Primicerio ha definito «lungo e avventuroso»[13], ma che contribuì a lanciare un ponte tra due mondi in conflitto che non si parlavano. Non è questa la sede per ripercorrere i particolari del tentativo, ma è ormai possibile affermare che l’iniziativa di La Pira, che poteva contare sul sostegno di Fanfani, all’epoca Presidente dell’Assemblea dell’ONU, aveva ottenuto una disponibilità vietnamita ad aprire un canale di trattativa anche in assenza del ritiro statunitense. Era un elemento nuovo e sostanziale, che La Pira così raccontava al papa nel suo resoconto del viaggio: «[…] perché il negoziato cominci non si richiede preliminarmente (ecco la grossa e significativa novità) l'immediato ritiro delle truppe americane e straniere presenti nel territorio del Vietnam»[14].
Nella stessa lettera La Pira dava conto a Paolo VI delle posizioni del leader nordvietnamita e spiegava il valore della novità: «Ho Chi Minh ci disse: sono pronto ad andare dovunque e ad incontrarmi con chicchessia per cominciare questo negoziato! Per valutare il peso della novità emersa nei nostri colloqui di Hanoi, bisogna pensare che sino alla nostra visita ad Hanoi veniva sempre posta, come condizione per aprire il negoziato, la richiesta della partenza preliminare delle truppe americane e straniere da tutto il territorio del Vietnam ("sino a quando vi sarà un soldato americano non inizieremo alcun negoziato"): l'aver ceduto su questo punto così essenziale e di tanto peso militare e politico, costituisce, davvero una prova significativa e grande di buona volontà da parte del Vietnam (o dei Vietcong) per la edificazione effettiva della pace!».
Di questo era convinto La Pira, che pure in tanti consideravano ingenuo, troppo sognatore, un mistico lontano dalle dinamiche della realpolitik. Eppure l’uomo era completamente immerso nel suo tempo e ben lo conosceva. Le parole che nella lettera al papa dedica alle divisioni statunitensi mostrano una consapevolezza informata delle dinamiche in atto: «Le correnti politiche kennediane (Fulbright, Mansfield, B. Kennedy, Morse e tanti altri, e le università e gli studenti di America) si fanno più risolute nel chiedere la cessazione di questa guerra triste, inutile, ed anche stupida! Ma anche "i generali" hanno aumentato ed aumentano la loro pressione di terrore! Povera gente, quella del Vietnam, terribilmente sottoposta (con la scusa fasulla dell'anticomunismo) a bombardamenti crudeli ed a crudeli sofferenze senza ragione! Dove si giungerà per questa via? Al bombardamento di Hanoi? Delle dighe? Potrebbe scoppiare il mondo se si toccano queste polveriere della storia presente delle nazioni. Bisogna impedire ad ogni costo questo allargamento della guerra e questa "esplosione della terra"».
Ma da parte statunitense non ci fu la volontà politica di andare a verificare la possibilità.
Quella speranza fu “bruciata” dai settori statunitensi contrari a qualsiasi trattativa. Bastò un articolo di giornale. Il giornalista Richard Dudman, corrispondente da Washington del «Saint Louis Post Dispacth», nell’edizione del 17/12/1965 scrisse della missione di La Pira ad Hanoi; il giorno successivo i maggiori quotidiani USA, «New York Time», «Washington Post», «New York Herald» ed altri, resero noto un carteggio tra i Ministro degli Esteri Fanfani, il Presidente Johnson e il Segretario di Stato Rusk, bruciando l’iniziativa italiana[15], visto che la disponibilità negoziale di Ho Chi Minh era legata alla assoluta segretezza.
La Pira, nella sua visione, era consapevole che un muro innalzato porta ad altri muri, e che una barriera abbattuta può innescare un processo virtuoso di abbattimenti progressivi. Per questo il Vietnam mantenne per lui una importanza centrale. Nella mancata pacificazione vedeva la fonte di molti problemi che segnavano l’epoca e rispetto ai quali le leadership mondiali sembravano – a suo giudizio – guardare a modelli superati. Bisognava guardare a nuove frontiere verso le quali la pace in Vietnam era l’inevitabile primo passo.
Scriveva nell’aprile 1968 a Paolo VI: «Quali frontiere? Beatissimo Padre: chi può negare che queste frontiere nuove, inevitabili, siano quelle della pace universale (del disarmo), cominciando dalla pace del Vietnam? Il "punto sismico" è il Vietnam: esso ha prodotto in questi 3 anni (65/68) effetti paurosi:
1) ha condotto il mondo al limite del disastro nucleare (500.000 megaton sono pronti per distruggere il pianeta);
2) ha provocato la "rivolta dei giovani" e la "rivolta dei neri" in America, spezzando in due l'America;
3) ha provocato la "rivolta dei giovani" in tutti i continenti;
4) ha immesso nel mondo il veleno della violenza!
Non solo: ma esso ha provocato altri effetti paurosi:
1) ha scosso "i poveri" di tutti i continenti; gli affamati di tutti i continenti (la collera dei poveri!) (America Latina insegni!);
2) ha provocato il terremoto militare e politico del M. O. e del Mediterraneo;
3) ha scosso dalle fondamenta tutto l’edificio politico, culturale, economico, finanziario degli S.U., cioè del "pilota del mondo"! E questo edificio non può più restare così ferito: ha bisogno di trasformazioni qualitative capaci di modificarlo e di aprirlo (aprire finestre vaste) in tutte le direzioni del mondo»[16].
E tornava sul tema alla fine del 1968 in una nuova lettera a papa Montini: «La pace del Vietnam non è solo del Vietnam: essa non può non essere posta che nei termini della pace del mondo: soluzione del problema del mondo (unica, in certo senso; somma, in ogni caso: condiziona tutti gli altri problemi): quello del disarmo atomico; disarmo completo e generale: quello, cioè, della coesistenza pacifica »[17].
Di quell’esperienza rimane qualche traccia? Di getto, a guardare i dati della cronaca, verrebbe da rispondere di no.
Viviamo in una stagione in cui il conflitto è tornato ad essere considerato un modo per risolvere i contrasti di carattere internazionale. Le guerre hanno moltiplicato il loro numero. Inoltre, quanti avevano sognato dopo l’89 il crollo di tutti i muri oggi paiono increduli ed inermi di fronte ad una deriva che appare triste. Alcuni popoli, che dietro alla cortina di ferro avevano vissuto per parecchi decenni, si fanno protagonisti dell’innalzamento di nuovi muri. Chi da una barriera era reso prigioniero, e aveva sognato per decenni di abbatterla, oggi alza nuovi muri. Il fine? Evitare che uomini e donne, in cerca per sé e i propri figli di un futuro con pane, pace e libertà, possano trovarlo proprio in terre che da pochi decenni sono state liberate da penuria di beni, violenza ed oppressione.
Eppure dovrebbe essere ormai consapevolezza comune che non ci si difenderà da guerre e conseguenti migrazioni costruendo nuovi muri.
Papa Francesco sul volo di ritorno dal suo recente viaggio a Cipro e in Grecia non a caso ha affermato: «Ora è di moda fare muri o fili spinati o anche il filo con le concertinas (gli spagnoli sanno cosa significa). È usuale fare queste cose per impedire l’accesso. La prima cosa che io direi è: pensa al tempo in cui tu eri migrante e non ti lasciavano entrare. Eri tu che volevi scappare dalla tua terra e adesso sei tu a volere costruire dei muri. Questo fa bene. Perché chi costruisce muri perde il senso della storia, della propria storia. Di quando era schiavo di un altro Paese. Coloro che costruiscono dei muri hanno questa esperienza, almeno una gran parte: quella di essere stati schiavi»[18].
Il ricordo e la consapevolezza delle condizioni del proprio popolo in stagione passate dovrebbe rendere ogni Paese – tanto a livello di governo quanto nelle opinioni pubbliche - maggiormente prudente rispetto all’attitudine alla chiusura delle proprie frontiere.
In questo senso l’esempio e le indicazioni di La Pira restano preziose. Egli si dedicò ad edificare ponti tra mondi culturali, ideologici e geografici assai lontani. Non sempre ebbe un riscontro positivo alle sue iniziative, ma non rinunciò mai, convinto che fosse quella la strada maestra da percorrere, quello che chiamava «il sentiero di Isaia».
*Augusto D'Angelo insegna Storia Contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Politiche di «Sapienza».
[1] Giorgio La Pira, Per la pace in Medio Oriente, in «Note di cultura», 1968, pp. 55-60.
[2] Id., Unità, disarmo e pace, Cultura editrice, Firenze 1971, pp. 83-89.
[3] Id., Abbattere muri, costruire ponti. Lettere a Paolo VI, a cura di Andrea Riccardi e Augusto D’Angelo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2015.
[4] Giorgio La Pira, Il sentiero di Isaia. Scritti e discorsi, (1965-1977), a cura di Gianni Giovannoni e Giorgio Giovannoni, Cultura nuova, Firenze 19963 .
[5] Mario Sica, Marigold non fiorì. Il contributo italiano alla pace in Vietnam, Ponte alle Grazie, Firenze, 1991.
[6] Giovanni D'Orlandi, Diario Vietnamita (1962-1968), 30Giorni Edizioni, Roma 2006.
[7] Nel giugno 1965 gli aveva scritto: «Qualunque iniziativa di pace voi prenderete – anche la più ardimentosa, anche la più ardimentosa, anche la più impensata, anche la più “imprudente” – essa sarà accolta con gioia dai popoli e dagli stessi americani, i quali – in ultima analisi – desiderano che una somma autorità (quale è la Vostra) li faccia uscire dal pantano in cui si sono inoltrati senza sapere come fare a uscirne». La Pira a Paolo VI, 28/6/1965.
[8] Mario primicerio, Con La Pira in Vietnam, Edizioni Polistampa, Firenze 2015.
[9] La Pira a Paolo VI, 18-19/10/1965, in Giorgio La Pira, Abbattere muri, costruire ponti. Lettere a Paolo VI, cit., lettera n. 57.
[10] Il Symposium si svolse nell’aprile 1965 a Firenze, al Forte Belvedere. L'incontro fu promosso dopo una serie di contatti nel corso di un viaggio a Londra di La Pira. Vi parteciparono alcuni redattori della rivista fiorentina «Note di Cultura», Lord Fenner Brockway, William Warbey, Sidney Silverman, Hugh Jenkins del Parlamento britannico, Jules Moch ex primo ministro francese, Modest Rubinstein per l'Urss, e alcuni esponenti di organizzazioni internazionali italiane e americane. Giorgio La Pira, Il sentiero di Isaia: scritti e discorsi 1965-1977, Paoline Editoriale Libri, Milano 2004, p. 22.
[11] Il testo completo del documento ivi, pp. 36-37.
[12] Ho Chi Minn a La Pira 11/5/1965, ivi, pp. 237-39.
[13] Giorgio La Pira, Il sentiero di Isaia, cit., p. 43-44.
[14] La Pira a Paolo VI, 30/11/1965, in Giorgio La Pira, Abbattere muri, costruire ponti. Lettere a Paolo VI, lettera n. 58.
[15] Per il carteggio si veda Giorgio La Pira, Il sentiero di Isaia, cit., pp. 50 e ssg.
[16] La Pira a Paolo VI, 27/4/1968, Giorgio La Pira, Abbattere muri, costruire ponti. Lettere a Paolo VI, cit., lettera n. 110.
[17] La Pira a Paolo VI, 17/12/1968, ivi, lettera n. 127
[18] https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2021-12/papa-francesco-conferenza-stampa-viaggio-cipro-grecia.html
La riforma del processo di famiglia
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. Premessa - 2. Pronunce d’ufficio e terzietà del giudice - 3. Il diritto alla prova - 4. I diritti della famiglia come società naturale - 5. Le sanzioni - 6. Brevi conclusioni.
1. Premessa
Mi presto a qualche osservazione sulla recente riforma del processo di famiglia di cui alla legge delega approvata ora definitivamente dal Parlamento.
Premetto che, seppur la riforma si faccia apprezzare per l’intento di unificare i numerosi riti oggi esistenti, su aspetti più specifici, o, se si vuole, più di dettaglio, a mio sommesso parere lascia invece a desiderare.
Credo, intanto, che, esclusa l’idea della completa soppressione dei Tribunale per i minorenni, peraltro da più parti invece in passato avanzata, quello che ci si poteva aspettare era che al Tribunale per i minorenni fossero estese le garanzie e le regole del giusto processo esistente dinanzi al Tribunale ordinario; al contrario qui mi sembra qui si sia intrapreso il percorso inverso, ovvero si siano estese a quest’ultimo le officiosità tipiche della giustizia minorile.
Se questo è il percorso fatto, secondo quanto mi cingo a rilevare sinteticamente, è chiaro che lo stesso non può trovarmi consenziente, poiché credo che l’indisponibilità di molti diritti riconducibili alla famiglia e soprattutto ai minori, non giustifichino comunque la rinuncia alle garanzie del giusto processo; e penso, infatti che, tutto al contrario, debba essere monito di ogni operatore di giustizia che tutti i processi, anche se aventi ad oggetto diritti indisponibili, debbano in ogni caso assicurare ogni garanzia processuale.
2. Pronunce d’ufficio e terzietà del giudice
Un primo settore da analizzare concerne i poteri d’ufficio attribuiti al giudice.
Non che già il sistema attuale della famiglia non li conoscesse, solo che questa riforma, come anticipato, invece di sopprimere, contenere, o dare nuova regolamentazione a detti fenomeni secondo criteri di rispetto della terzietà del giudice, ha fatto la cosa inversa, ovvero ha mantenuto ogni potere officioso esistente, e in più ne ha ribaditi e/o aggiunti di nuovi, sparsamente contenuti nella legge delega.
2.1. E valga quanto di seguito si osserva.
a) In primo luogo, con riferimento ai procedimenti di cui agli artt. 330, 333, 334, vi erano già, e vi sono, poteri officiosi attribuiti al giudice dal 3° comma, dell’art 336 c.c., in quale recita che: “In caso di urgente necessità il Tribunale può adottare, anche d’ufficio, provvedimenti temporanei nell’interesse del figlio”.
Questa disposizione, che consente al giudice, quindi, d’ufficio, di provvedere in via d’urgenza alla sospensione della potestà genitoriale o all’allontanamento di un genitore dalla vita familiare, e che da molti è considerata di dubbia costituzionalità, e in ogni caso espressione del periodo storico del codice civile, ovvero del 1942, non viene soppressa dalla odierna riforma del processo di famiglia ma anzi questa, dapprima addirittura riteneva di poter estendere il potere officioso del giudice dal terzo comma al primo comma, prevedendo così in generale che “all’art. 336 del c.c. sono apportate le seguenti modificazioni: a) al primo comma dopo le parole sono adottati sono aggiunte le seguenti: “d’ufficio o” e dopo le parole “dei parenti” sono aggiunte le seguenti “del curatore speciale del minore qualora nominato”; poi si è evitato di intervenire sul primo comma dell’art. 336 c.c. e si è previsto solo, sempre fermo il 3° comma, di “modificare l’art. 336 c.c. prevedendo la legittimazione a richiedere i relativi provvedimenti anche al curatore speciale del minore” (così punto 26); e il curatore speciale al minore può essere nominato, anche d’ufficio, in ogni momento.
b) Cosa analoga è stata fatta con riferimento all’art. 403 c.c. (v. punto 27).
Lì si prevede che se il minore si trovi esposto nell’ambiente familiare a grave pregiudizio e pericolo per il suo benessere fisico, il provvedimento di allontanamento e di sua messa in sicurezza può essere preso dalla pubblica autorità, ovvero da un organo amministrativo.
Dopo di che si prevede che la pubblica autorità trasmetta la decisione al P.M. , il quale poi chiede la convalida nelle 72 ore al Tribunale per i minorenni, il quale la concede nelle 48 ore ancora successive con decreto, ovvero con provvedimento privo del contraddittorio, con il quale nomina, sempre senza contraddittorio, il curatore speciale del minore.
Soltanto successivamente, e con un termine, direi non perentorio, di ulteriori 15 giorni, viene fissata una udienza “di comparizione personale delle parti” (chi siano le parti non è indicato, e i genitori non sono espressamente nominati), a seguito della quale si provvede alla conferma, modifica o revoca del decreto di convalida.
Trattandosi in questi casi di limitazione della libertà personale, la scelta legislativa non sembra conforme ai limiti e alle regole previste dall’art. 13 Cost.
c) Seppur, poi, i poteri officiosi del giudice richiamati alla lettera m) del punto 23 possono considerarsi equivalenti a quelli già esistenti oggi all’art. 708 c.p.c., v’è comunque da rilevare che poteri officiosi del giudice sono in seguito ribaditi alla lettera r), visto che il giudice può pronunciare ogni provvedimento “anche d’ufficio per i minori”; al punto t) “adottare provvedimenti relativi a minori d’ufficio e anche in assenza di istanze”, e: “possa disporre d’ufficio mezzi di prova a tutela dei minori nonché delle vittime di violenza, anche al di fuori dei limiti del codice civile”; ed ancora statuito al punto z) dd), il quale prevede “la nomina anche d’ufficio del curatore speciale del minore”, disposizione che va ad incidere e modificare l’art. 78, 79 e 80 c.p.c., che fino ad oggi, e tutto al contrario, prevedevano che la nomina di un curatore speciale avvenisse solo a seguito di domanda di parte; e infine la medesima disposizione considera “la possibilità di nomina di un tutore del minore, anche d’ufficio, nel corso e all’esito dei procedimenti di cui alla lettera a) (quindi: in tutti i procedimenti di famiglia) e in caso di adozione di provvedimenti ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c.”.
d) Dunque, in estrema sintesi, invece di sopprimere i residui poteri officiosi ancora presenti nei codici, la riforma li ha ribaditi e introdotti di nuovi.
Mi sembra un primo punto sul quale porre una riflessione, poiché la pronuncia d’ufficio pone deroga al principio della domanda, e il principio della domanda, tutelato dall’art. 24 Cost., è posto a salvaguardia della terzietà del giudice.
Né può replicarsi che la deroga al principio della domanda è giustificata dalla indisponibilità dei diritti o dall’interesse superiore del minore, poiché questi interessi sono assicurati dalla presenza del PM e del curatore speciale del minore, mentre il giudice, anche dinanzi a questi diritti, e anche a fronte dell’interesse superiore del minore, deve comunque rimanere terzo e imparziale; e la terzietà e l’imparzialità del giudice escludono che questi possa provvedere d’ufficio.
Peraltro, a mio sommesso parere, contrasta con la terzietà del giudice anche la previsione di cui al punto 24 lettera f) per la quale ai giudici della famiglia non si “applica il limite dell’assegnazione decennale nella funzione”.
Il giudice della famiglia, ancorché si occupi di problemi particolari, deve rimanere, a mio sommesso parere, egualmente un giudice, sotto tutti i profili e nessuno escluso, e non può dunque trasformarsi in un funzionario, come diceva Piero Calamandrei, che “si mette in viaggio alla scoperta dei torti da raddrizzare” (CALAMANDREI, Istituzioni di diritto processuale civile, Padova, 1941, 113), poiché ciò comprometterebbe la terzietà della sua funzione.
Dal che io credo che, proprio in ossequio alla sua indipendenza, anche i giudici della famiglia dovrebbero sottostare tanto al principio della domanda quanto al limite decennale dell’assegnazione della funzione.
2.2. La pronuncia d’ufficio trova poi due altre discutibili conseguenze:
a) la prima è che normalmente una pronuncia d’ufficio è anche una pronuncia che si emana inaudita altera parte, ovvero senza il contraddittorio; cosicché la scelta della decisione d’ufficio non infrange, normalmente, soltanto il principio della domanda ma anche quello della difesa.
Ciò, peraltro, trova conferma nel testo di legge al punto 23, lettera f) ove si prevede che il giudice possa “assumere provvedimenti d’urgenza nell’interesse delle parti e dei minori prima dell’instaurazione del contraddittorio”.
Dal che, direi, dal combinato disposto delle norme sopra menzionate, si arriva alla conclusione che tutti i provvedimenti in questione, se urgenti, possono essere assunti d’ufficio e senza contraddittorio.
b) La seconda, in questi casi, è data dall’individuazione del giudice che debba pronunciare d’ufficio questi provvedimenti.
Ebbene, al riguardo il punto 23 lettera c) afferma che “la prima udienza di cui alla lettera l) e le udienze alle quali devono essere adottati provvedimenti decisori, anche provvisori, sono tenute dal giudice relatore (ovvero un giudice monocratico) con facoltà dello stesso di delegare ai giudici onorari specifici adempimenti”.
Dunque, la pronuncia delle gravi misure sopra viste sono adottate da un giudice monocratico, il quale addirittura, per la relativa pronuncia, può delegare un giudice onorario per specifici adempimenti.
Credo che chiunque abbia a cuore le garanzie processuali non possa condividere scelte di questo genere.
3. Il diritto alla prova
Un secondo settore d’analisi deve essere quello attinente al diritto alla prova.
Mi sembra che in molte parti della riforma il principio dell’onere della prova non sia rispettato; e poiché anche il diritto alla prova attiene, evidentemente, ad aspetti del giusto processo assicurati dalla nostra costituzione, l’analisi di questi momenti mi sembra necessaria.
3.1. La prima questione sulla quale porre l’attenzione è quella che si trova disciplinata alla lettera b) del punto 23, la quale prevede che “in presenza di allegazione di violenza domestica o di genere”, ecc……. discendano misure di salvaguardia delle vittime.
La norma è giustissima nella misura in cui tende a reprimere ogni forma di violenza, ma i provvedimenti restrittivi non possono discendere da una semplice allegazione e devono al contrario trovare riscontro in una prova, quanto meno sommaria e/o prima facie, della sussistenza della violenza allegata.
Immaginare viceversa che la sola allegazione, ovvero la sola denuncia che una parte faccia nei confronti di un'altra, possa costituire, di per se’ sola, il presupposto per l’emanazione di provvedimenti di cui agli artt. 342 bis e ter c.c., ovvero provvedimenti di allontanamento del coniuge dalla propria casa e dai propri luoghi, e disporre altresì l’intervento dei servizi sociali, è qualcosa che è in contrasto con il principio dell’onere della prova e, direi, tutt’assieme, con le nostre regole di base della tutela dei diritti.
3.2. La lettera z), aa), prevede di nuovo che “in presenza di allegazioni o segnalazioni di un comportamento di un genitore tale da ostacolare il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo con l’altro genitore………siano assicurate l’abbreviazione dei termini processuali e la concreta realizzazione dei provvedimenti adottati nell’interesse del minore”.
Ripeto: al fine dell’emanazione di un qualunque provvedimento avente natura giurisdizionale la mera allegazioni o segnalazioni non può essere sufficiente.
I provvedimenti devono discendere dall’esistenza di prove; se le prove non vi sono, i provvedimenti non possono essere adottati.
Se, tutto al contrario, arriviamo ad accettare l’idea che un provvedimento possa esser dato senza prove, allora noi neghiamo garanzie che sono state la conquista della nostra civiltà giuridico/processuale.
3.3. Altra questione relativa al diritto alla prova è rappresentata dal comma 23 lettera f) per il ricorrente, e comma 23 lettera h) per il resistente convenuto, poiché entrambe le parti, nel processo di famiglia, devono fornire “l’indicazione dei mezzi di prova e dei documenti dei quali intendono avvalersi a pena di decadenza fin dagli atti introduttivi del giudizio”; dopo di che non sembra vi sia la possibilità di recuperare carenze o mancanze in punto di prova, e in nessun altro modo possono essere depositati dalle parti nuovi documenti o richiesti nuovi mezzi di prova.
La successiva lettera i) dà una disciplina per il ricorrente in caso di domande riconvenzionali del convenuto, e la possibilità “di nuove istanze istruttorie alla luce delle difese della controparte”; ma, evidentemente, la norma è ambigua, poiché subordina il diritto del ricorrente a nuove istanze istruttorie solo se queste si pongano in nesso eziologico con le difese del convenuto, e non si capisce se questo diritto il ricorrente ce l’ha sempre o solo a fronte di domande riconvenzionali; mentre la legge non attribuisce in nessuna parte al convenuto la possibilità di articolare nuovi mezzi istruttori dopo quelli richiesti con la comparsa di costituzione.
Si tratta, decisamente, di un passo indietro rispetto all’esistente, sotto un duplice profilo:
a) in primo luogo perché nella situazione attuale, come è noto, i procedimenti in camera di consiglio non hanno preclusioni istruttorie, e nei procedimenti di separazione e divorzio, dopo l’udienza presidenziale, e ai sensi dell’art. 708 c.p.c., si nomina il giudice istruttore, e si danno alle parti in via istruttoria i nuovi termini di cui all’art. 183 c.p.c. (art. 709 e 709 bis c.p.c.), cosicché entrambe le parti, liberamente e successivamente, possono depositare ulteriori documenti e chiedere nuovi mezzi di prova anche dopo gli atti introduttivi del giudizio.
b) In secondo luogo perché queste decadenze istruttorie contrastano con il regime adottato dalla stessa riforma, sul medesimo punto, con riferimento al processo civile.
La legge delega, infatti, seppur dopo accese discussioni, ha sì scelto di porre decadenze istruttorie fin dagli atti introduttivi del giudizio, però ha poi inserito il temperamento di cui al comma 5 lettera f), con il quale entrambe le parti, dopo gli atti introduttivi del giudizio, possono sempre “indicare i nuovi mezzi di prova e le produzioni documentali”.
Questa ulteriore possibilità non è indicata nel processo di famiglia; cosicché appare incongruo che nel processo di famiglia, e diversamente dal resto del processo civile, vi siano decadenze istruttorie che fino ad oggi non esistevano, e che non esisteranno nemmeno domani nel processo civile.
È la prima volta che il processo di famiglia ha decadenze istruttorie più rigide rispetto a quelle degli altri processi civili.
Ciò, peraltro, può esser causa di inasprimento dei contenziosi, perché obbliga, come si dice, le parti a vuotare il sacco subito e per l’intero; ma non è scelta razionale in ambito di famiglia, ove al contrario sarebbe da favorire la misura e il contenimento delle pretese giudiziarie.
3.4. Sempre in punto di prova è poi discutibile la scelta che è stata fatta con riferimento all’intervento dei servizi socio-assistenziali o sanitari di cui alla lettera z), ff).
Il ruolo dei servizi socio-assistenziali nei Tribunali per i minorenni è stata causa di discussione in passato, ed in particolare si rilevava che per il loro ruolo, e le modalità con le quali questi assumevano informazioni, le loro relazioni non potessero costituire veri mezzi di prova ai fini delle decisioni del giudice, in quanto, appunto, assunte senza il rispetto delle regole del giusto processo, e senza il diritto al contraddittorio e alla difesa delle controparti, spesso addirittura nella segretezza delle stesse operazioni di raccolta dei dati e della loro esternazione.
Orbene, una volta arrivati a regolare un processo unico per la famiglia, doveva apparire chiaro porre delle regole precise a tutela del giusto processo alle relazione dei servizi sociali, dalla pubblicità e trasparenza degli interventi, al diritto alla difesa e al contraddittorio.
Questa riforma non ha fatto niente di ciò.
Si è limitata a disporre che le relazioni devono essere “redatte tenendo distinti con chiarezza i fatti accertati, le dichiarazioni rese dalle parti e le valutazioni formulate dagli operatori”; ma nient’altro è stato precisato ne’ sulle modalità di acquisizione delle informazioni, ne’ al diritto alla trasparenza e al contraddittorio nel momento in cui le informazioni vengono acquisite, ne’ alla rilevanza probatoria che queste relazioni possono avere all’interno del processo.
E, ovviamente, il rischio è che esse continuino ad essere assunte senza il rispetto del diritto alla difesa, e parimenti continuino, anche da sole, ad esser la base di molte decisioni assunte dai giudici minorili.
4. I diritti della famiglia come società naturale
Una terza questione che mi permetto di rilevare è quella dell’idea stessa di famiglia che questa riforma sembra perseguire.
Poiché a me sembra, infatti, che questa riforma stia mirando ad una famiglia sotto forte incidenza dello Stato, ove gli spazi di autonomia delle persone sia assolutamente limitato.
E io non credo si possa accettare un modello di famiglia di questo tipo, perché la nostra stessa Costituzione, con l’art. 29, riconosce al contrario alla famiglia i diritti di “società naturale”.
E ripeto: una cosa è l’interesse superiore dei minori; altra cosa immaginare che la famiglia sia una società assoggettata al pubblico controllo.
Al riguardo faccio emergere quanto segue.
4.1. Alla lettera f) del punto 23 si prevede che il ricorso introduttivo di un qualunque processo di famiglia debba necessariamente indicare “un piano genitoriale che illustri gli impegni e le attività quotidiane dei minori, relativamente alla scuola, al percorso educativo, alle eventuali attività extrascolastiche, sportive, culturali e ricreative, alle frequentazioni parentali e amicali, ai luoghi abitualmente frequentati, alle vacanze normalmente godute”.
Si consideri, poi, che il c.d. piano genitoriale può essere disposto dal giudice con l’emanazione dei provvedimenti temporanei ed urgenti, e che il mancato rispetto da parte dei genitori del piano genitoriale configuri comportamento sanzionabile ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c. (lettera r).
Tengo a precisare, al riguardo, che il piano genitoriale non concerne le sole famiglie ove vi siano state violenze, o situazioni di grave pregiudizio o pericolo per la incolumità psico-fisica dei suoi componenti, o abbandono di minori, o forte degrado morale o materiale, ecc……ma si ha, tutto al contrario, nei confronti di ogni famiglia, anche se di alto tenore culturale, sociale o economico, e senza alcun problema di violenze, o di sopraffazioni di uno sull’altro.
Ora, io non credo che il sindacato del giudice sulla vita di una famiglia possa spingersi fino a questi dettagli, e/o che lo Stato, tramite il giudice, abbia il diritto di conoscere e decidere financo sulle vacanze, sullo sport, sui luoghi o le persone che si frequentano, ecc…
Mi sembra sia la prima volta che si immagini una deriva di questo genere, che mi pare in contrasto con il diritto di libertà delle persone.
Credo, al contrario, che costituisca diritto della famiglia quello di frequentare le persone che più aggradano, studiare quello che più piace, avere tendenze religiose o completamente laiche, preferire il mare alla montagna o viceversa, il cinema al teatro, la palestra alle riunioni culturali, ecc….
E credo sia diritto di ognuno di mutare in ogni momento i propri impegni, o i propri programmi, o le proprie vacanze; ovviamente nel rispetto della libertà degli altri componenti della famiglia, ma certo liberi dal controllo dello Stato, che non può spingersi fino a questo punto.
4.2. Sempre sotto questo profilo va sottolineata la lettera g), con la quale: “Il giudice indichi quali sono le informazioni che ciascun genitore deve obbligatoriamente comunicare all’altro”.
Anche in questo caso, è vero che vi sono separazioni tra coniugi molto litigiose e colme di aggressività, e che non sempre i genitori hanno la civiltà di portarsi reciproco rispetto; tuttavia, anche in questo caso, mi sembra che qui la misura si sia un po’ oltrepassata, poiché il giudice della famiglia, sempre a mio parere, non può imporre ad una parte che comunichi, a sua discrezione, all’altra, necessariamente, fatti della sua vita privata.
Oppure, se si ritiene lo possa fare, allora, ripeto, il rapporto che si dà tra famiglia e Stato è nuovo, e stiamo marciando verso una famiglia che non è più quella che avevamo avuto fino ad oggi.
4.3. Stesso autoritarismo lo abbiamo sui poteri istruttori.
Con la lettera t), il giudice ha “poteri istruttori officiosi di indagine patrimoniale”; e poi con la lettera t), il giudice “può disporre d’ufficio mezzi di prova a tutela dei minori nonché delle vittime di violenze, anche al di fuori dei limiti stabiliti dal codice civile”.
Qui, probabilmente, non v’è molto di nuovo rispetto alle procedure già esistenti; tuttavia anche queste disposizioni si inquadrano, a mio parere bene, nel contesto che ho appena descritto.
5. Le sanzioni
Sempre nella medesima logica, la riforma del processo di famiglia prevede una serie di sanzioni per chi non si comporti nei modi comandati.
Come non fossero sufficienti le sanzioni che la riforma ha previsto per ogni processo civile, e che si trovano al punto 21, ove si legge: “prevedere il riconoscimento all’amministrazione della giustizia quale soggetto danneggiato nei casi di responsabilità aggravata e conseguentemente, specifiche sanzioni a favore della cassa delle ammende”; e poi ancora: “Prevedere conseguenze processuali e sanzioni pecuniarie nei casi di rifiuto giustificato di consentire l’ispezione prevista dall’art. 118 c.p.c. e nei casi di rifiuto o inadempimento non giustificati dell’ordine di esibizione previsto dall’art. 210 del medesimo codice”; il processo di famiglia ne ha introdotti di altri, e precisamente alla lettera f) “disponendo le sanzioni per il mancato deposito della documentazione senza giustificato motivo ovvero per il deposito di documentazione inesatta o incompleta”; e poi ancora alla lettera l) “disponendo le sanzioni per la mancata comparizione (alla prima udienza) senza giustificato motivo”.
Mi sembra eccessivo.
Vorrei ricordare che il diritto alla difesa è, appunto, un diritto, non un dovere, e pertanto nessuno può essere sanzionato perché non si difende; cosicché è impensabile, almeno per me, che qualcuno possa esser sanzionato perché non partecipa ad una udienza o non depositi della documentazione.
Si danno disposizione senza tener conto degli equilibri che vanno necessariamente trovati tra ricerca della verità e diritto di libertà.
Bisognerebbe ristudiare i classici.
6. Brevi conclusioni
Qualcuno ha detto che si tratta di una riforma epocale.
Sinceramente, io non ne colgo la portata.
Capisco l’esigenza di dare un rito unico ai giudizi in materia di famiglia, ma non si poteva allora utilizzare per ciò il rito previsto per tutte le altre cause civili di cui al punto 5 di questa stessa riforma?
Ove si fosse fatta una cosa del genere, peraltro, meglio probabilmente si sarebbe assicurato anche ai procedimenti di famiglia la terzietà del giudice, il contraddittorio, il diritto alla prova, e si sarebbe evitato discutibili ingerenze sulla vita privata e familiare delle persone, evitato altresì di aggiungere sanzioni su sanzioni, e altre cose del genere.
Si dirà che i processi di famiglia necessitano di un pronto intervento che nell’ordinario processo di cognizione non si ha.
In realtà, non mi sembra che il rito unico di cui al punto 23 abbia caratteristiche tali da assicurare tempi senz’altro più brevi o pronti interventi; ne’ mi sembra che lo stesso presenti divergenze rilevanti rispetto al rito previsto con il punto 5 in punto di ragionevole durata.
Sotto questo profilo, peraltro, erano allora più funzionali i vecchi riti camerali con i quali si giudicavano tante questioni attinenti alla famiglia; erano procedimenti certamente più rapidi e più elastici, e, sotto certi profili, anche più garantisti, poiché quelli non avevano, a differenza di questi, preclusioni in punto di eccezioni e prove.
Abbandonare i riti camerali per un rito ordinario poteva avere il senso di trasferire anche al contenzioso della famiglia e dei minori le garanzie del giusto processo; ma se la scelta del legislatore non è stata quella, poiché le officiosità di quei riti si sono mantenute e se ne sono aggiunte delle nuove, che senso ha avuto, allora, abbandonare i procedimenti camerali per aderire ad un rito autoritario e a preclusioni?
Ferma l’introduzione, peraltro già fatta propria dalla giurisprudenza, della nomina anche d’ufficio del curatore speciale del minore, per il resto, forse, si poteva fare meno.
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