ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ponti versus muri, o muri e ponti. 3) Migranti, ponti e muri dalla Polonia al continente latino-americano
di Tania Groppi
[Per conoscere e consultare tutti i contributi sviluppati sul tema,
si veda l'Editoriale]
Foto in copertina di Valentina Carlino
“Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?”.
Le parole di Papa Francesco, pronunciate ormai diversi anni fa, nel maggio del 2016, nel ricevere il premio Carlo Magno, risuonano immediatamente di fronte ai muri che i governi innalzano, o desiderano innalzare, alle frontiere dell’Europa. Muri che, peraltro, si limitano a materializzazione quei confini “naturali” che, nel Mediterraneo, gli Stati proteggono, senza bisogno di costruire barriere, dalle fragili imbarcazioni dei migranti, con le loro navi da guerra o con l’intervento, pagato a caro prezzo, di utili paesi “amici”.
La dinamica è la stessa, ed è basata su distanze e divisioni. Da un lato, popoli in fuga: dalla miseria, dai raccolti perduti, dall’ingiustizia e dalla corruzione, a volte dalla repressione, persone che cercano una vita migliore, inseguono una speranza. In mezzo, trafficanti di esseri umani, o dittatori spietati, che li sfruttano e li strumentalizzano, per profitto economico o a scopi politici. Dall’altro lato, popoli impauriti: che mirano a difendere un benessere e una pace che considerano meritati, costruiti col sudore di intere generazioni, da godere per sé e i propri figli, senza doverli spartire con estranei, con i “lontani”. A questa spinta, involutiva ed egoistica, non è estranea la stessa Unione europea, che, essendo una proiezione degli Stati membri e continuando ad operare attraverso procedure che dipendono dalla volontà di questi, difficilmente potrebbe avere un diverso atteggiamento.
Ecco qua una miscela esplosiva, che da molti anni è sotto i nostri occhi, senza che si trovi soluzione. In Europa, in Nordamerica, e di recente anche in America latina, specie sotto la spinta delle vicende del Venezuela e di Haiti. Una miscela che svela le drammatiche carenze e contraddizioni della democrazia costituzionale che si è cercato di creare nel Secondo dopoguerra, come forma di Stato di carattere inclusivo, volta a dar voce, a livello nazionale e sullo scenario internazionale, a tutti gli esseri umani, anche a quelli considerati per secoli come privi di ogni valore e dignità, quali i lavoratori, le donne, i disabili, i bambini, i nativi e poi, via via, minoranze di ogni tipo.
La credibilità delle nostre democrazie si scontra, come un macigno, con i diritti di questi popoli in cammino. E con essa quella dell’ordinamento internazionale basato sulle Nazioni Unite, e dell’ordinamento europeo. Lo scontro, sempre visibile per chi vuole vedere, in ogni naufragio, in ogni assideramento, in ogni centro di detenzione di migranti, in ogni separazione familiare, diventa clamoroso quando coloro che vengono lasciati affogare, morire di freddo, suicidarsi in detenzione, coloro che vengono strappati alle loro famiglie e ai loro affetti, sono proprio quelli che, a parole, si vorrebbero difendere in quanto fedeli alleati dell’Occidente o adepti dei suoi valori: profughi afghani, bambini siriani, donne kurde o somale (già, ma chi si ricorda ancora della Somalia?).
È evidente che l’unica soluzione possibile, almeno alla luce dei principi che ispirano la democrazia costituzionale, è quella dell’accoglienza. È evidente che l’unico modo per superare questa tormentosa contraddizione, svuotando al tempo stesso il potere di ricatto degli intermediari dei traffici di vite umane, sarebbe un capovolgimento totale di prospettiva. Un capovolgimento che partendo dal valore infinito di ogni singola vita umana, spingesse gli Stati e le organizzazioni internazionali ad andare a cercare ogni singolo migrante in difficoltà, in mare o in terra, con scialuppe o autobus, e accoglierlo con bevande calde e abiti puliti, anzi, lavandogli i piedi stanchi, per avviarlo poi a un percorso di realizzazione umana.
Purtroppo, è anche evidente che il tempo di una simile “metanoia” non è giunto, e che la sovranità degli Stati - un ultimo lembo di sovranità, quando oramai è del tutto svanita riguardo alle altre grandezze, e finanza ed economia corrono su ben diversi binari - continua ad esercitarsi sul territorio impedendovi, in modo selettivo, l’accesso alle persone.
Che fare nel frattempo? Come continuare a gettare ponti, ponti che sollecitino soprattutto un cambiamento culturale all’interno delle nostre società, senza di che qualsiasi altra iniziativa, specialmente sul piano normativo, sarà vana? Penso che chiunque creda nella dignità di ogni persona umana abbia, ogni giorno, nella concretezza della vita e degli incontri, molteplici opportunità per contribuire a diffondere una cultura dell’accoglienza.
Vorrei cogliere l’opportunità di questo spazio per condividere due iniziative di cui ho fatto esperienza in questi mesi, iniziative accademiche, che lasciano sempre aperto l’interrogativo sulla effettiva capacità di seminare. Ma tant’è.
La drammatica situazione dei migranti al confine tra Polonia e Bielorussia, ha spinto, il 18 novembre 2021, un gruppo di 77 professoresse e ricercatrici di diritto costituzionale a scrivere una lettera dura ed accorata ai presidenti delle istituzioni europee e dei governi degli Stati membri, invitandoli ad agire, nel rispetto dei valori fondanti dell’Unione europea e del diritto europeo. Alla lettera ha aderito, esprimendo il suo supporto, anche l’Associazione italiana dei costituzionalisti. Le studiose hanno deciso di non lasciare senza seguito le parole del Presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, pronunciate il 15 novembre proprio nell’ambito della inaugurazione di un anno accademico, quello della Università di Siena. «È sorprendente il divario tra i grandi principi proclamati e il non tener conto della fame e del freddo cui sono esposti esseri umani ai confini dell’Unione», aveva detto il presidente. A questi principi si richiama la lettera, che esprime “sconcerto” di fronte alla “contraddizione tra i principi sui quali si fonda l’Unione europea e la mancanza di volontà politica di tradurli in azioni”. Sconcerto ancora più evidente se solo si comparano le “solenni affermazioni di solidarietà nei confronti di donne e uomini che perdono la libertà, come nel caso dell’Afghanistan, e il rifiuto di accoglierli”. La lettera chiede “alle istituzioni europee e ai governi degli Stati membri di rimanere fedeli alla volontà dei fondatori dell’Unione europea e di rispettare il diritto europeo, ponendo immediatamente in essere concrete misure di solidarietà ed accoglienza”, nonché “di incrementare gli sforzi politici per difendere i diritti umani universali laddove calpestati e fermare la tratta degli esseri umani”.
Inoltre, la sfida delle migrazioni, in Europa e in America latina, è stata al centro del primo incontro in presenza del Progetto REMOVE (Repensando la migración desde la frontera de Venezuela: nuevo programa académico en movilidad humana y convivencia en la Comunidad Andina) che si è svolto sulla frontiera tra Colombia e Venezuela, a Cucuta, il 2 e 3 dicembre 2021. REMOVE è un Capacity Builing finanziato dall’Unione Europea nel quadro delle azioni Erasmus “Key Action 2: Cooperation for innovation and the exchange of good practices. Capacity Building in the field of higher education”. Fanno parte del progetto, coordinato dall’Università di Bologna, le Università europee di Cadiz, Castilla La Mancha, Siena e Science Po-Paris e le Università latinoamericane del Rosario, Libre (Colombia), UASB, FLACSO (Equador), Nacional de Trujillo e PUCP (Perù). Si tratta di un progetto che mira principalmente a sviluppare un’offerta formativa interculturale e inclusiva che promuova la creazione di un quadro giuridico comune all’interno della Comunità andina a tutela dei diritti dei migranti. Proprio per sottolineare questa finalità, l’incontro di avvio del Progetto si è svolto a Cúcuta, una città nella parte nord-orientale della Colombia, al confine col Venezuela. Cúcuta rappresenta il primo canale di uscita della popolazione venezuelana che lascia il proprio Paese, la cui prima regione di approdo è proprio la provincia colombiana del Norte de Santander. Basti pensare che, secondo i dati diffusi dall’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, al 2020, erano circa 5,9 milioni i venezuelani in fuga. Colombia e Perù sono i Paesi che ospitano la maggioranza di essi.
Osservare la crisi migratoria venezuelana dalla frontiera della Colombia, uno Stato fragile, che, ciò nonostante, sta accogliendo al momento un numero smisurato di profughi (si pensi che nell’ospedale di Cúcuta, su 30 bambini che nascono ogni giorno, 27 sono venezuelani), getta una nuova luce anche sulla situazione europea. Nel senso che mostra come l’incontro/scontro con l’altro, con l’inatteso, con lo straniero, con l’extrasistemico, è una grande spinta per le società e gli Stati a guardarsi dentro, rivelando contraddizioni e debolezze. Così, l’arrivo di rifugiati che chiedono assistenza e lavoro, spinge i paesi latinoamericani a interrogarsi sull’effettività di questi stessi diritti per i propri cittadini e sui passi ancora da compiere per realizzare i luminosi principi iscritti nelle proprie costituzioni. Non solo spinta ad acquisire una consapevolezza, dunque: l’irrompere dell’extrasistemico è anche un potente vettore per innescare un cambiamento.
Quel cambiamento che, sempre, implica un esodo, una uscita da sé per andare incontro all’altro, nel riconoscimento di una comune umanità che non può essere imbrigliata da muri e barriere. Un lungo cammino. Come ha scritto Norberto Bobbio, un ideale come quello dei diritti dell’uomo rovescia completamente il senso del tempo, perché si proietta sui tempi lunghi, e solo alcuni “segni premonitori” possono farci presagire l’esito, secondo la kantiana visione profetica della storia (N. Bobbio, I diritti dell’uomo, oggi, in Id., L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990, p. 269). Segni anche piccoli. “Dopo tutto, dove iniziano i diritti umani?”, si chiese Eleanor Roosevelt in uno dei suoi ultimi discorsi alle Nazioni Unite, il 27 marzo 1953. Per rispondere che iniziano “nei piccoli luoghi vicino casa – così vicini e così piccoli da non potersi individuare su nessuna mappa del mondo. Eppure, essi sono il mondo delle singole persone: il quartiere in cui si vive, la scuola che si frequenta, la fabbrica, la fattoria o l’ufficio in cui si lavora. Questi sono i posti in cui ogni uomo, donna o bambino cercano uguale giustizia, uguali opportunità, eguale dignità senza discriminazioni. Se questi diritti non hanno significato lì, hanno poco significato da altre parti. In assenza di interventi organizzati di cittadini per sostenere chi è vicino alla loro casa, guarderemo invano al progresso nel mondo più vasto. Quindi noi crediamo che il destino dei diritti umani è nelle mani di tutti i cittadini in tutte le nostre comunità” (citato da M. A. Glendon, Verso un mondo nuovo. Eleanor Roosevelt e la dichiarazione universale dei diritti umani, trad. it. Liberilibri, Macerata, 2001, p. 408).
Maternità surrogata e trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero: il ruolo dei giudici di merito dopo l’intervento della Consulta
Nota a Trib. Milano 23.9.2021
di Rita Russo
Sommario: 1. Il caso - 2. Le possibili soluzioni - 3. Considerazioni conclusive.
1. Il caso
Il Tribunale di Milano affronta la complessa questione della trascrizione in Italia dell’atto di nascita formato all’estero a seguito di maternità surrogata[1].
La questione è di difficile soluzione perché, nonostante il chiaro arresto delle sezioni unite della Corte di Cassazione[2], secondo le quali questa tipologia di atti non è trascrivibile per contrarietà all’ordine pubblico, la Corte Costituzionale con le sentenze gemelle n. 32 e 33 del 9 marzo 2021 ha affermato che è necessario, in questi casi, tutelare l'interesse del minore al riconoscimento giuridico del legame con coloro che esercitano di fatto la responsabilità genitoriale e che la possibilità di procedere alla adozione in casi particolari non è una tutela sufficiente ed adeguata[3]. Pertanto, il punto di equilibrio già individuato dalla giurisprudenza per tutelare in questi casi l'interesse del minore, e cioè il ricorso all’adozione ex art. 44 della legge 184/1983, è stato chiaramente ritenuto insoddisfacente.
Si tratta però di due sentenze che non modificano il quadro normativo vigente, poiché dichiarano la inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento alle norme che non consentono, secondo l'interpretazione attuale del diritto vivente, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l'ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero formatosi a seguito di surrogacy; la Consulta ha infatti affermato che il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata spetta, in prima battuta, al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell'individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco.
Poiché il legislatore non è ancora intervento e non sembra prossimo il suo intervento in questa materia, a tutt’oggi il diritto vivente presenta una vistosa lacuna nella tutela di un legame che può definirsi limping (zoppicante), vale a dire una relazione familiare che poggia su un titolo giuridico che, pur perfettamente legale nello Stato estero in cui si è formato, in Italia non avrebbe potuto formarsi, e di cui non possono riconoscersi gli effetti per contrarietà all'ordine pubblico.
I legami zoppicanti sono il risultato della diversità degli ordinamenti giuridici nazionali poiché i criteri di collegamento variano da paese a paese, così come la concezione di ordine pubblico; a ciò si aggiunga che mentre alcuni legami nascono zoppicanti per effetto del c.d. turismo procreativo, come avviene quando gli aspiranti genitori risiedono in uno Stato la cui legislazione proibisce una determinata pratica procreativa (come la gestazione per conto terzi) e si recano all’estero per aggirarla, altri legami si formano in perfetta armonia con la legislazione del paese di residenza abituale delle parti e diventano zoppicanti solo quando gli interessati decidono di trasferirsi in un altro paese con una legislazione più restrittiva.
È questo il caso esaminato dai giudici milanesi: una coppia di uomini, un cittadino italiano e un cittadino statunitense, dopo avere contratto matrimonio a New York, hanno fatto ricorso alla procreazione medicalmente assistita con gestazione per conto terzi, ed è nato un bambino che, secondo lo Stato della Pennsylvania è figlio di entrambi. Il problema sorge nel momento in cui uno dei due si trasferisce a Milano e, dopo il primo lockdown dovuto all’emergenza pandemica, vorrebbe far stabilire in Italia la sua famiglia; tenta quindi di ottenere un passaporto italiano per il minore, che risulta però solo cittadino statunitense (iure soli), perché non ha legame biologico con il genitore avente cittadinanza italiana, e l’ufficiale di stato civile italiano rifiuta la trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero.
Quid iuris dunque? I genitori ricorrono al Tribunale di Milano e nelle more della pendenza del giudizio provano a formare un altro titolo legittimante la relazione familiare, adottando (negli USA) il bambino; questo atto di adozione viene trascritto in Italia come avente effetto di adozione in casi particolari, e ciò secondo i ricorrenti erroneamente, perché si tratta di un atto che dovrebbe produrre in Italia gli effetti dell’adozione piena, attribuendo lo status di figlio.
2. Le possibili soluzioni
L’adozione all’estero del minore è, in astratto, potenzialmente risolutiva della questione, dal momento che la circostanza che il minore sia stato adottato da una coppia same sex non osta di per sé al riconoscimento del provvedimento giurisdizionale straniero di adozione piena[4]. La stessa legge italiana non subordina l'adozione piena dei minori in stato di abbandono al requisito della diversità di sesso della coppia adottante, bensì al requisito che gli adottanti siano uniti in matrimonio. Da ciò deriva, ma solo in via di fatto e non in virtù di una norma direttamente discriminatoria, l'esclusione delle coppie omoaffettive dall'accesso all'adozione piena, non già per la scelta di orientamento sessuale, ma perché nel nostro ordinamento le persone dello stesso sesso non possono unirsi in matrimonio, ma solo contrarre unione civile[5].
Anche la giurisprudenza di legittimità è netta nell’affermare che l'orientamento sessuale di per sé non incide sulla idoneità dell'individuo all'assunzione della responsabilità genitoriale. Il best interest of the child, coincidente con il diritto a mantenere la stabilità della vita familiare consolidatasi all'estero con entrambe le figure genitoriali adottive, deve guidare il giudice nella decisione. Vero è che nel nostro ordinamento l'unione matrimoniale così come prevista nell'art. 29 Cost. è una relazione eterosessuale e costituisce il modello di relazione familiare fornito, allo stato attuale, del massimo grado di tutela giuridica, ma in relazione agli status genitoriali essa non costituisce più, soprattutto dopo la riforma della filiazione, il modello unico o quello ritenuto esclusivamente adeguato per la nascita e la crescita dei figli minori e conseguentemente deve escludersi che ciò possa essere ritenuto un limite al riconoscimento degli effetti di un atto che attribuisce la genitorialità adottiva ad una coppia omoaffettiva, in particolare se unita in matrimonio[6].
Tuttavia la soluzione del caso non è così semplice perché, secondo il principio di diritto affermato dalle sezioni unite, il riconoscimento degli effetti di un provvedimento giurisdizionale straniero di adozione di minore da parte di coppia maschile non contrasta con i principi di ordine pubblico internazionale solo ove sia esclusa la preesistenza di un accordo di surrogazione di maternità a fondamento della filiazione.
Su questo punto il Tribunale di Milano si arresta, peraltro rilevando che la legislazione della Florida (dove nel frattempo si è trasferito il minore con l’altro genitore), è assai peculiare poiché consente l’adozione di un minore da parte di uno dei genitori già risultanti tali dal suo atto di nascita. In ogni caso il Tribunale di Milano considera il fatto in sé, e cioè che alla base di questa complessa e per certi versi inspiegabile procedura vi è il ricorso alla maternità surrogata e che le parti hanno fatto ricorso all’adozione al fine di ovviare alla mancata trascrivibilità dell’atto di nascita, e pertanto respinge la richiesta di riconoscimento degli effetti della adozione come adozione piena.
La conclusione di questo complesso ed articolato discorso potrebbe essere che allo stato sussiste un vuoto normativo perché – a legislazione invariata – l'interesse del minore, nato da maternità surrogata e certamente incolpevole dei comportamenti dei genitori, può essere tutelato soltanto con l'adozione in casi particolari, tutela che nel frattempo le parti avevano comunque conseguito, pur se si tratta di una tutela non del tutto soddisfacente e coerente con i parametri costituzionali. Da ciò si può fare discendere la considerazione, in verità resa dalla stessa Corte costituzionale, che a questo sistema di tutela imperfetta deve rimediare il legislatore, perché ad esso spetta operare un bilanciamento dei contrapposti interessi e scegliere tra le varie opzioni possibili.
Il Tribunale di Milano invece sceglie una strada diversa e cioè ritiene che questo vuoto normativo, nell'inerzia del legislatore, possa e debba essere superato dal giudice, sa pure con effetti limitati al caso specifico, tramite una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 8 della legge 40/2004, sulla scorta dei rilevi contenuti nella sentenza n. 33/2021 della Corte Costituzionale.
Per superare l’impasse, il Tribunale di Milano opera in concreto il bilanciamento tra l'interesse del minore alla tutela della sua relazione familiare e la tutela della dignità della donna che si è prestata alla surrogacy, concludendo nel senso che nel caso di specie non vi è stata una concreta lesione della dignità della gestante, che possa prevalere sulla tutela dei diritti del nato. Reso questo giudizio, la trascrizione di questo specifico atto di nascita non viene considerata contraria all'ordine pubblico e se ne ordina all'ufficiale di Stato civile la trascrizione.
3. Considerazioni conclusive
Era ampiamente prevedibile, ed anche previsto dalla dottrina, che dopo le sentenze gemelle della Corte Costituzionale i giudici di merito si sarebbero ritrovati, fino all’auspicato intervento legislativo, di fronte ad un dilemma: applicare una regola iuris di cui la Corte ha già rilevato il contrasto con la Costituzione o rendere una interpretazione costituzionalmente orientata che garantisca in modo ottimale il diritto del bambino ad avere due genitori[7]?
La sentenza in esame sceglie coraggiosamente la seconda strada, e si fa carico di garantire una interpretazione costituzionalmente orientata della norma, ma per altro verso sembra sottovalutare la chiara indicazione data dalla Corte costituzionale affinché intervenga il legislatore, in quanto tra i tanti interessi che vengono in considerazione non vi è soltanto il bilanciamento tra i diritti della madre surrogata e quelli del bambino, ma anche lo scopo legittimo perseguito dall'ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità, penalmente sanzionato dal legislatore, compito questo che non può assolversi tramite decisioni sul singolo caso, che tutelano l’interesse del minore, ma in esito ad un giudizio di bilanciamento di interessi parziale, perché necessariamente centrato sul caso concreto.
Attenta dottrina ha osservato che la pronuncia della Corte costituzionale n. 33/2021 ha ribadito la natura pubblicistica del divieto di maternità surrogata e non legittima alcun ripensamento della nozione di ordine pubblico fatta propria dalle sezioni unite, per il diverso bilanciamento tra i valori in gioco[8].
In assenza di ripensamento da parte delle sezioni unite sui principi affermati in materia di trascrizione dell’atto fondato sulla surrogacy, il giudice che ordina la trascrizione di un siffatto atto di nascita introduce una deroga a questi principi, fondata sull’analisi dei soli interessi individuali in evidenza, sia pure al meritevole fine di tutelare il best interest of the child, ma con uno strumento che risulta inappropriato perché sacrifica gli altri interessi di carattere generale in gioco.
Probabilmente, la questione dovrebbe essere rimessa nuovamente alla Corte Costituzionale, perché prenda atto del mancato attivarsi del legislatore nonostante l’esplicito invito rivolto con le sentenze gemelle del marzo 2021, e, pur mantenendo la posizione sul divieto di maternità surrogata, calibri l’intervento sulla esigenza di rendere concreta e attuale la scelta di fondo già tracciata dagli artt. 8 e 9 della legge 40/2004, scelta che non può essere rinnegata: chi con il proprio comportamento, sia esso un atto procreativo che un contratto, quest’ultimo lecito o illecito, determina la nascita di un bambino, se ne deve assumere la piena responsabilità e deve assicuragli tutti i diritti che spettano ai bambini nati “lecitamente”.
[1] Si veda, in questa Rivista, Maternità surrogata e status dei figli (G. Luccioli, M. Gattuso, M. Paladini e S. Stefanelli, a cura di R. Russo).
[2] Cass. sez. un. 08/05/ 2019 n. 12193.
[3] Si veda in questa Rivista, A.M. Pinelli La Corte costituzionale interviene sui diritti del minore nato attraverso una pratica di maternità surrogata. Brevi note a Corte cost. 9 marzo 2021 n. 33.
[4] Cass. sez. un. 31/03/ 2021, n. 9006
[5] Corte EDU 24/6/2010, Schalk e Kopf c. Austria; 19/2/2013 X e altri c. Austria in www.echr.coe.int; Corte Cost. 14/4/2010 n. 138 in www.cortecostituzionale.it
[6] Cass. sez. un 9006/2021 cit.
[7] Si veda in questa Rivista G. Ferrando, ll diritto dei figli di due mamme o di due papà ad avere due genitori. Un primo commento alle sentenze della Corte Costituzionale n. 32 e 33 del 2021.
[8] A.M. Pinelli La Corte costituzionale interviene sui diritti del minore nato attraverso una pratica di maternità surrogata, cit.
Comunicazione del rinvio del convegno al 1 aprile 2022
Abbiamo immaginato il nostro secondo convegno come un Convegno in presenza.
Lo abbiamo pensato e organizzato avendo in mente non solo "la Giustizia e la comunicazione" ma anche quale essenziale momento di incontro collettivo come un segnale importante di ritorno alla normalità.
Insomma vorremmo invitarvi ad un convegno tradizionale fatto di dialoghi in presenza, di voci e di sguardi non veicolati da strumenti di trasmissione, vorremmo delle strette di mano.
L’impossibilità di dare corso all’organizzazione che avevamo predisposto per voi nella magnifica sala del Primaticcio dell’associazione Dante Alighieri ci impone il rinvio del convegno al primo giorno utile dopo il 31 marzo 22, che speriamo sia l'ultimo termine dell’emergenza.
L’ appuntamento è quindi posticipato al 1°aprile 2022, venerdì pomeriggio stesso luogo e stessa ora.
“Processo mediatico e presunzione di innocenza” è il titolo del secondo convegno organizzato dalla Rivista. Il primo convegno, dal titolo “Migliorare il Csm nella cornice costituzionale”, si è tenuto nell’ottobre del 2019.
Il convegno “Processo mediatico e presunzione di innocenza” si terrà a Roma il 1°aprile 2022 presso la Sala del Primaticcio della sede della società Dante Alighieri in Piazza di Firenze n. 27 e tutti i lettori della rivista sono invitati a partecipare (seguiranno indicazioni per la partecipazione da remoto - per informazioni redazione@giustiziainsieme.it).
Giustizia e comunicazione, un binomio centrale nel dibattito che anima Giustizia Insieme, al quale è già stata dedicata un’apposita rubrica ove sono pubblicati saggi di autori d’eccellenza - giustizia e comunicazione.
Si tratta di un binomio che può essere analizzato sotto un’innumerevole quantità di punti di vista in ragione delle possibili sfaccettature del diritto all’informazione, da un lato, e del diritto alla riservatezza, dall’altro. Assumono particolare interesse questioni quali: la rappresentazione della magistratura nella comunicazione di massa, rappresentazione destinata a cambiare di segno a seconda del gradimento popolare della decisione nonché per gli eccessi di protagonismo di questo o quel magistrato; la questione del diritto di critica e del rispetto della decisione; del rischio dell’ingerenza della comunicazione di massa sulla decisione del giudice; il complesso e multiforme articolarsi del diritto all’informazione e la naturale riservatezza delle situazioni coinvolte nel conflitto che il giudice è chiamato a risolvere; la spettacolarizzazione della giustizia che culmina con il processo mediatico che scalza l’unico vero e giusto processo.
Quali sono i limiti della comunicazione? Qual è il limite entro il quale lo sviluppo argomentativo in cui si articola la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali assume i toni della superfluità lesiva? Chi deve farsi paladino del rispetto dei confini?
Aspetto essenziale è, senz’altro, la modalità della comunicazione È imprescindibile la verità del dato oggetto dell’informazione e l’obiettività descrittiva. Eppure la veridicità e l’obiettività espositiva sono spesso tenute in second’ordine, tanto che si registra, sempre più massiccia, l’illustrazione morbosa di una “verità” soggettiva che è quella, di volta in volta, voluta dal comunicatore per compiacere il lettore nella prospettiva pirandelliana di verità molteplice, o utile a chi comunica e di soddisfazione per chi legge. Ma il fatto di cronaca non è un romanzo, i protagonisti della vicenda non sono personaggi della fantasia bensì sono donne e uomini che esistono nella loro fisicità, emotività e nel loro fascio di relazioni interpersonali. La correttezza della comunicazione dipende dall’etica soggettiva, e purtroppo, spesso la provenienza “ufficiale” della notizia non implementa la correttezza dell’informazione.
La suggestione pone a repentaglio la terzietà del giudice, oltre che l’immagine della giurisdizione.
Tra le molteplici possibili riflessioni in tema di Giustizia e comunicazione, in un’ottica di bilanciamento dei diritti coinvolti nel declinarsi della comunicazione di fatti sub judice, abbiamo scelto tre temi che saranno oggetto di altrettante sessioni del convegno, nella forma del dialogo in linea con la tradizione delle Interviste di Giustizia Insieme.
I discussant delle tre sessioni, in ciascuna delle quali sarà presente anche un giornalista, saranno Giuseppe Amara, sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Modena, Donatella Palumbo, sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Benevento, e Maria Cristina Amoroso, magistrato addetto all’Ufficio del massimario e del ruolo della corte di cassazione.
La prima sessione dal titolo “La rappresentazione del magistrato nell’ immaginario collettivo” sarà incentrata sul magistrato, giudice e pubblico ministero, nella proiezione della sua figura in ambito sociale e quale risolutore dei conflitti. La rappresentazione collettiva del magistrato muta in maniera sinodale in ragione dell’apprezzamento della funzione giurisdizionale, ma muta pure in ragione della rappresentazione del singolo magistrato, ove questi - nel bene o nel male - balzi agli onori della cronaca. Interverranno nel corso della prima sessione Giovanni Bianconi, giornalista del Corriere della Sera, e Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati e consigliere di Cassazione.
La seconda sessione intitolata “La presunzione di innocenza, sostanza e forma” è un tema quanto mai attuale in ragione dell’entrata in vigore il 14 dicembre del d.lgs. n. 188 del 2021, di adeguamento alla direttiva 2016/343/UE sulla presunzione d’innocenza indispensabile e improcrastinabile per orientare una comunicazione che sia rispettosa della presunzione di innocenza e del diritto alla riservatezza. Si tratta di un intervento normativo che, seppur diretto alle sole autorità pubbliche, dovrebbe impegnare non solo polizia giudiziaria, pubblici ministeri e giudici ma anche i giornalisti affinché la comunicazione della giustizia si faccia carico, nel bilanciamento dei diritti coinvolti, della tutela dell’intimità delle posizioni coinvolte. La presunzione di innocenza nella comunicazione dei fatti di cronaca dovrebbe costituire, pertanto, la linea da seguire non solo per i giornalisti ma anche per i magistrati affinché sappiano individuare, nel costrutto motivazionale dei provvedimenti giurisdizionali, ciò che è lesivo della reputazione e dell’intimità individuale e, al tempo stesso, inutile e superfluo. Come ha scritto Federica Resta su questa Rivista in un articolo pubblicato il 14 dicembre dal titolo Il “compiuto” adeguamento alla direttiva 2016/343/UE sulla presunzione d’innocenza: “Naturalmente, non saranno solo le norme a poter garantire un equilibrio, democraticamente sostenibile, tra diritto di (e all’) informazione, dignità dei soggetti coinvolti nel processo, presunzione d’innocenza ed esigenze di accertamento dei reati. Molto dipenderà da come, magistratura e organi di informazione, interpreteranno il loro ruolo” ( sul medesimo tema Recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza: è davvero la fine dei processi mediatici? di Valentina Angela Stella, Commento al Decreto Legislativo 8 novembre 2021, n. 188 di Armando Spataro).
Interverranno alla seconda sessione Valentina Stella, giornalista del Dubbio News e del Riformista, l’On. Francesco Paolo Sisto, Sottosegretario di Stato alla Giustizia e avvocato, e Raffaele Cantone, Procuratore della Repubblica di Perugia.
La terza sessione è intitolata “Effetti della comunicazione di massa sul giusto processo”. Quest’ultima sessione affronterà il tema della suggestione della comunicazione di massa sull’esercizio del potere giurisdizionale. Il processo mediatico non solo condanna il presunto innocente con decisione inappellabile ma, nel dipanarsi del suo spettacolo, pone a repentaglio e stravolge l’ordinario svolgersi delle dinamiche processuali. Gli effetti emozionali inconsci della comunicazione di massa possono astrattamente influenzare le decisioni in tema di misure cautelari, di affermazione della responsabilità, di determinazione della pena ma anche le decisioni in tema di conflitti, rimessi alla tutela giurisdizionale, che coinvolgono diritti della persona. La domanda è allora: se questi sono i danni (violazione del principio di non colpevolezza) e questi sono i rischi (messa in pericolo del giusto processo), qual è la giustificazione del processo mediatico e quali sono i rimedi ? Interverranno alla terza sessione Rosaria Capacchione, giornalista, Marco Dell’Utri, consigliere della Corte di cassazione, e Alessandra Camassa, Presidente del Tribunale di Marsala.
Sono previsti interventi programmati nel corso del dibattito.
Introdurranno e chiuderanno i lavori i direttori scientifici della Rivista Roberto Conti e Paola Filippi.
Roma, Piazza di Firenze 27, Società Dante Alighieri,
Sala del Primaticcio
Venerdì 1 aprile 2022 ore 15:00/20:00
Ore 15:00 Saluti del Segretario Generale della società Dante Alighieri Prof. Alessandro Masi
Introduzione ai lavori: Roberto Conti e Paola Filippi - direttori scientifici di Giustizia Insieme
Ore 15:30 prima sessione - Il giudice nell’immaginario collettivo -
Giovanni Bianconi e Giuseppe Santalucia - discussant - Giuseppe Amara
Ore 16:30 seconda sessione - La presunzione di innocenza, sostanza e forma -
Valentina Stella, Francesco Paolo Sisto e Raffaele Cantone - discussant- Donatella Palumbo
Dibattito
18:00 Break
18:30 terza sessione - Effetti della comunicazione di massa sul giusto processo -
Rosaria Capacchione, Alessandra Camassa e Marco Dell’Utri - discussant - Maria Cristina Amoroso
Interventi programmati
19:30 chiusura dei lavori
Dalla “eccezione” al “miracolo”. Seguendo con il Dante di Steinberg i movimenti della geografia giuridica e politica
di Maura Caprioli*
Le riflessioni di Justin Steinberg sull’impalcatura di matrice legale che è sottesa all’opera di un Dante-giudice sono l’occasione per un ripensamento sui percorsi del pensiero giuridico e sulle argomentazioni che ne sorreggono le conclusioni.
Partendo così da Steinberg si deve dare oggi risposta, secondo l’autore, alle domande che vengono dal mercato globale e dall’espandersi dell’intelligenza artificiale che sembra aver tolto all’uomo il monopolio della volontà.
Un ripensamento che si muove sulla scia del pensiero speculativo novecentesco incentrato sui problemi dello spazio e del tempo popolato dagli eventi che modificano continuamente la realtà e il suo ordine.
Sulla base di queste premesse si approda ad una storicità che, concepita come sapere critico, tende a superare l’astrattezza dei concetti.
Dall’ordine giuridico come potere si passa all’ordine giuridico equilibrio di poteri, all’ordine giuridico come creazione di istituzioni. Il tutto in un quadro che si muove secondo nuove fonti ispirate all’efficienza e alla competitività economica e al superamento di ogni forma di tipicità.
Questo armamentario giuridico operando “nei grandi spazi” aperti al gioco delle grandi Potenze determinano una interdipendenza economica ai cui rischi tutti sono interessati.
Interdipendenza che dà un nuovo senso alla territorialità seguendone un nuovo concetto di effettività che deve essere sorvegliata. In un quadro normativo che riscopre il concetto del quasi costituzionale.
Come risposta a quel potere che sembra non raggiungibile da ogni responsabilità che solo lo legittima, reso invisibile da quel labirinto nel quale la stessa oggi sembra identificarsi.
Ogni tempo ha una responsabilità fondamentale: quella di darsi strumenti per risolvere i problemi che deve affrontare.
Sommario: 1. Dall’era di Prometeo a quella di Epimeteo passando per il pensiero politico e giuridico di Dante - 2. Alla ricerca di un “ordine del tempo”. L’accadere degli eventi ed il cambiamento del mondo. La storia del domandare infinito: la verità è nella risposta successiva. Il segreto della domanda - 3. La scelta della domanda come momento costruttivo del Sistema. Dall’ordine come “potere”, all’ordine come equilibrio di potere. Il ruolo conoscitivo della politica estera - 4. Che cos’è l’acqua? L’innominabile attuale nella storicità del diritto. La crisi delle fonti. L’eccezione come fatto duraturo - 5. È necessario tagliare la storia a pezzi? Dal cambiamento alla metamorfosi. I diversi ruoli e significati della natura e la necessità di una rifondazione assiologica - 6. Il logos si è fatto macchina. La ricerca dell’Umanesimo ai diversi confini della soggettività. 7.Ordine giuridico come costruzione di istituzioni. Fenomeni globali e fenomeni mondiali. L’uso della legge e del mercato - 8. I grandi spazi e le zone di influenza come strumento conoscitivo - 9. Dall’anomia all’atopia. Il ruolo e il significato geopolitico del “territorio”. Verso una nuova definizione di effettività - 10. Dal gioco delle regole al quasi costituzionale. La gomena di Bodei e la “responsabilità” del nostro tempo - 11. Quasi una conclusione. Le domande rimbalzano di continuo.
1. Dall’era di Prometeo a quella di Epimeteo passando per il pensiero politico e giuridico di Dante
Di grande interesse queste letture del pensiero di Dante che Justing Steinberg sottopone alla nostra attenzione, e con le quali stimola le reazioni che oggi suscitano il racconto di un “ viaggio”, nello spazio e nel tempo. Un viaggio popolato da storie che – raccontato con un nuovo linguaggio: il c.d. volgare evoca una visione profetica del mondo indirizzato verso nuovi equilibri politici e sociali, e verso nuove regole.
Letture raccolte in due saggi che affrontano, e valutano il tempo storico nel quale il Poeta ha vissuto, leggendolo con un linguaggio del tutto particolare: quello dell’esperienza giuridica e politica e dei suoi strumenti operativi e concettuali. Quello normativo.
In uno, affidando un ruolo centrale al caso limite, ed esplorandone le eccezioni per elaborare la sua geografia normativa (1). Nell’altro focalizzando l’attenzione sul miracolo – strumento a lungo proprio dei teorici politici- per discutere il problema della legittimazione dell’assolutismo papale, ed opporre ad una concezione assolutistica dei giuristi canonici del tempo una visione più “normativa” del miracolo (2).
L’orizzonte del discorso è di complessa profondità se, come penso, la sostanza che pone la domanda è quella di affrontare le problematiche della storia attraverso la quale costruire l’esperienza giuridica.
In questo senso – ci insegna Paolo Grossi che considera il diritto “ storia vivente” – la storia deve concentrare l’attenzione sul formarsi delle tipicità. E per questo deve “fondarsi su un sapere analitico, su una documentazione che aiuti la sua esplorazione volta a scegliere ( e comprendere) il groviglio esperenziale, ma deve ugualmente aprirsi a quelle intuizioni forti che vanno al cuore di una vita comunitaria dove la legge è una mal sopportata violenza legale mentre una realtà non scritta ma onnipresente, la mentalità, contribuisce in modo determinante a generare un costume ed una osservanza condivisa” (3).
Pensiero che è ancora più complesso se il richiamo al passato è un modo per parlare del presente, e mi chiedo se in questa logica l’ambizione non nascosta di Steinberg non sia quella di usare il passato per recuperarlo, ma di svegliare il presente ripensandone le radici (4).
Una riflessione che assume toni di alta suggestione quando, a chiusura del suo discorso, si affida all’immagine divina con una suggestiva analogia, la quale ai miei occhi unisce i due saggi qui analizzati.
Quella del Poeta, che, come Dio, per mezzo del suo angelo discende sulla sua creazione e con la sua mano ne modella l’opera.
Stimolante analogia che, quando solleva l’interrogativo su cosa veramente significhi, per l’artista umano, intervenire sulla sua creazione, trasferisce al rapporto tra creatore e creato l’inquietante domanda sulla natura e sulla responsabilità dell’essere. Domanda carica di notevoli implicazioni che si dirigono verso molteplici orizzonti.
Il nostro tema si collega all’orizzonte culturale che, dal secolo scorso, ha posto al centro del suo pensiero speculativo proprio il problema dell’essere – il quale vive nello spazio e nel tempo - contrapponendolo alla verità e al nulla. Contrapponendo la verità alla storia per arrivare alla post verità, ponendo così il pensiero speculativo davanti ad un interrogativo che costituisce uno dei bivi cruciali della nostra conoscenza e del nostro sapere. Quello se il percorso della nostra esperienza sia tracciato da una verità senza storia, o non sia invece tracciato da una storia senza verità.
Pensiero “questo di Steinberg” che, attraverso la sopradetta similitudine, restituisce alla nostra attenzione una figura non consueta del Poeta.
Il Dante che ci viene rappresentato appare distante da quello che ci ha consegnato la nostra cultura erede dell’insegnamento di Benedetto Croce, e più vicino a quella che Hegel ne ha intravisto nella sua Estetica. Infatti la sua “opera” è avvicinata, seguendo Hegel, a quella di un giudice che è allo stesso tempo – ed è questa particolarità ad essere motivo peculiare – ora narratore, ora artista, ora artigiano, ora creatore.
Un giudice singolare nella molteplicità di funzioni di cui partecipa, e che, con diversi linguaggi, ne costruiscono il ruolo.
Funzioni che, come nuovi angeli, da un lato lo distaccano dalla sua opera, dall’altro, lo accompagnano lungo un viaggio che lo porta a scavare il diritto canonico, e a dialogare con la cultura teologica e istituzionale per costruire una nuova geografia giuridica del potere umano nella sua dialettica con quello divino.
Una geografia che parla, come all’origine ha parlato lo stesso Dio, con la voce della legge, che è la voce dell’ordine. Che è la voce di ogni ordine (5).
Per questo la sua narrazione assolve al compito di definire i confini del potere, dei quali - ed è questo uno dei momenti più intensi del pensiero di Steinberg – con una terminologia moderna ( il riferimento alla costituzione) si ricerca la fonte e le sue conseguenze normative in un ottica che evoca quella che possiamo considerare oggi come una visione di sistema.
Una riflessione che se pure si confronti con il contesto politico del tempo e con gli strumenti teorici utilizzati – a lungo discutendo circa il peso del miracolo nella legittimazione dell’assolutismo papale, e sulla sentita necessità di pensare ad un contrappeso istituzionale – è indicativa degli spazi che possono essere utilizzati. Come è via via avvenuto, seguendo una dinamica che è arrivata al punto di rendere evanescente la distinzione tra interpretazione e creazione, tra legge e diritto.E sul cui sfondo aleggia l’incandescente tema della Giustizia (6).
Dove ci porta Steinberg quando ci invita a pensare? Il suo invito respira l’atmosfera che vive nell’occidente una crisi di civiltà non solo per quanto attiene al fondamentale concetto di “democrazia”, ma anche per quanto riguarda il tramonto dei termini chiave della sua civiltà identificati nella profezia ed utopia ad esso connessi (7). Che respira il rimpianto del passato, nella convinzione nostalgica che una volta il futuro era migliore (8).
Cosa dobbiamo cogliere del suo domandarsi in un tempo in cui sembra essersi chiusa l’età della potenza prometeica – la quale consentiva di credere nella sintesi di tempo e concetto, di progettare la storia organizzandone e contenendone energie e soggetti – superata dalla grandiosa rivincita di Epimeteo. Titano del quale ben poco c’è dato di sapere. Solo che – secondo l’efficace ed inquietante immagine di Massimo Cacciari – “Prometeo si è ritirato o è stato di nuovo crocefisso alla sua roccia. Epimeteo scorrazza per il nostro globo scoperchiando sempre nuovi vasi di Pandora” (9).
2. Alla ricerca di un “ordine del tempo”. L’accadere degli eventi ed il cambiamento del mondo. La storia del domandare infinito: la verità è nella risposta successiva. Il segreto della domanda
Le forti sensazioni che queste immagini ci trasmettono impongono di attraversare il succedersi storico degli orizzonti dei fatti e delle idee e di ritornare sul terreno dei concetti per coglierli non nella usuale dimensione statica, ma, addentrandoci in quel processo dinamico che ne evidenzia la concretezza storica, la loro natura e funzione strumentale.
Cammino che ci costringe ad attraversare una strada accidentata, e sempre da esplorare.
Ci costringe ad entrare in quel mistero che è stato definito il problema dell’ordine del tempo (10), e cercarne una lettura.
Ordine che, da un lato, come è scritto nelle tante cattedrali della filosofia costruite attorno, è la misura del cambiamento tramite il quale studiare le metamorfosi del mondo. E che, dall’altro, nel suo porsi come mistero, riguarda ciò che noi siamo in quanto artefici di quegli eventi, che del suo divenire, ne segnano le strutture (11), riportandole indietro all’emozione del mito, al quale ancora guardiamo per dare oggi legittimità ai nostri giudizi. Al quale ci affidiamo con la forza persuasiva del pre-giudizio che così ne diventa l’a-priori il quale, esso stesso come potere e fonte, trasmette alle nostre argomentazioni la logica dei principi (12).
Da questa ottica discende un corollario che è utile, se non proprio necessario, sottolineare.
Il racconto del passato e il richiamo ad un sistema di “concetti” che Steinberg ci propone, risponde ad una esigenza: quella di parlare di noi, oggi e di parlare del cambiamento che si svolge attorno a noi e con noi.
E questo che dà senso e struttura istituzionale alla sua sollecitazione rivolta al pensare. Per raccoglierne l’invito non dobbiamo fare l’esegesi critica del suo ragionare sul diritto canonico, ma andare oltre e porci una serie di domande.
Dobbiamo chiederci con quali occhi noi guardiamo al “racconto” che viene sottoposto alla nostra attenzione.
Per rispondere a questo interrogativo dobbiamo però capire con quali occhi, e allora con quali domande, lo stesso Steinberg ha guardato al pensiero di Dante.
Dobbiamo entrare in quel gioco senza fine diretto a svelare quello che, definito come il segreto della domanda, ci introduce nel profondo mistero dell’esperienza la quale sfugge ad ogni rete concettuale di comprensione, rispetto alla quale c’è sempre un fuori.
Non è certo un paradosso dire con Oscar Wilde che se hai trovato una risposta a tutte le tue domande vuol dire che le domande che ti sei posto non erano quelle giuste.
Come è illuminante l’insegnamento di Martin Heidegger quando, acutamente, prospetta alla nostra riflessione che non sempre una domanda chiede una risposta. Domanda che, a suo dire, secondo il grande filosofo, chiede di essere dispiegata, affinché ceda quello che ha di più essenziale e dischiuda i riferimenti che si aprono quando ci si appropria di ciò che segretamente custodisce.
Per questo, sempre per il grande filosofo la risposta è solo l’ultimissimo passo del domandare.
Infatti una risposta che congeda il domandare – ci avverte – annienta sé stessa come risposta, e non è quindi in grado di fondare alcun sapere, ma solo di consolidare il mero opinare (13).
Sulla scia di queste autorevoli affermazioni è ora Umberto Galimberti a riportare la nostra attenzione sul percorso tracciato dal domandare infinito.
La vera risposta – egli afferma – “non è quella che chiude il discorso, ma quella segretamente costituita dalla domanda successiva”, la quale, con l’ insistenza infinita dell’onda sulla stessa riva, modifica il profilo della terra. Per questo nessuna risposta è ultima perché così vuole l’essenza dell’uomo, che è quella di un viandante senza meta (14).
Portare l’attenzione sul continuo domandare, collegandolo al mutare delle cose, è certo una importante scelta di campo che, però, rischia di disperdere il suo significato specifico se, rimanendo a livello astrattamente speculativo non si entra nel concreto del domandare.
Se non si entra in quell’interminabile, e continuamente aggiornato campionario di domande, che, sollevandosi da una visione piatta, evidenzia tutta la sua profondità, ponendo davanti ai nostri occhi i diversi livelli di questo gioco, ed il loro convivere su molteplici orizzonti.
Ed è in questa prospettiva che vediamo i germi che sono all’origine del domandare ruotare, per un verso, attorno al io, al tu al noi coniugandosi con il mio, il tuo e il nostro, che, a loro volta, assumono ulteriori significati quando si riferiscono ad una molteplicità di oggetti. E che, per altri versi, concorrono a sollevare ulteriori interrogativi che alimentano a loro volta un evolversi di strutture, tutte condizionate dall’uso che le diverse forme di potere – modellato dall’esperienza che gli effetti hanno determinato – provocano.
Non ultimi quei troppo spesso trascurati effetti collaterali, che, uniti alle eccezioni prodotte dal frantumarsi della realtà, diversificano ad ogni livello la natura degli strumenti e delle strutture e le cui connessioni ne indirizzano le dinamiche verso storiche soluzioni istituzionali.
Anche questo però rischia di mettere in ombra un ulteriore aspetto della domanda.
Quello per cui possiamo dire che nella stessa domanda c’è già un momento decisionale.
Infatti non possiamo non rilevare che la domanda che si pone è il risultato di una scelta tra diverse domande possibili. Non possiamo non rilevare che la stessa domanda non è mai neutra.
Sarebbe il caso di dire che è il risultato di una “lotta” tra diverse opzioni per scegliere come orientare la soluzione dei problemi che i fatti generano, e che assumono una loro logica interpretata dagli attori sociali, i quali ne sono gli interlocutori, e i fautori politici delle domande.
Domande che ispirano quelle dicotomie che si pongono poi alla base di ogni ragionamento costruttivo.
Di questo discorso troviamo esempio significativo ed emblematico quando, negli anni ‘70 del secolo scorso, ci si interrogava sul primato della politica sull’economia e dell’economia sul diritto, e se questo comportasse la riforma dell’impresa o la riforma dello Stato (15), e sul modo di essere all’altezza dei tempi mantenendosi “ sistematicamente in contatto con i problemi” (16).
Per affrontare le sfide conoscitive dei tempi è quindi indispensabile individuare le domande che gli stessi tempi pongono, e rispetto ai quali si danno “risposte “ le cui premesse non sembrano oggi misurabili, come nel passato, da una verità assoluta, ma soggette a congetture e confutazione prodotte dai diversi effetti che, con la loro scelta, si determinano nel mondo delle cose e nella storia delle idee. Di qui la centralità del Politico, debole o forte che sia nei cui” specchi “vediamo riflettersi il formarsi e trasformarsi del Potere. E le strutture nelle quali questo si organizza.
3. La scelta della domanda come momento costruttivo del Sistema. Dall’ordine come “potere”, all’ordine come equilibrio di potere. Il ruolo conoscitivo della politica estera
Entrati in questa logica si deve necessariamente prendere atto che la stessa “domanda” è, a sua volta, risultato di una costruzione alla quale si arriva per diverse vie.
Vie che percorrono le esperienze più svariate calpestando sentieri modellati da continue deviazioni che si diramano in una crescente complessità di architetture e di orizzonti e che poggiano su
architravi rese variabili dalle atmosfere culturali determinate dalla natura dei fatti, i cui semi disegnano il paesaggio e lo modificano.
In questa prospettiva trovo significativa la digressione che spinge Gustavo Zagrebelsky a suggerirci, nel suo stimolante saggio su Antigone, la necessità dell’interdipendenza – oggi tutt’altro che pacifica- tra legge e diritto (17).
Necessità questa non contestabile se, come si argomenta, si entra nella logica che il diritto senza legge diventa cieca conservazione, e che la legge senza diritto si riduce ad un puro potere dispotico.
È in questo clima che il citato autore riprende la lettura che ha fatto Walter Benjamin dell’Angelus Novus di Klee, vedendo in Antigone la figura rappresentativa della frattura dell’unità e dell’affermazione della duplicità dell’essere umano e delle sue opere. Quelle opere con le quali, riprendendo la tragica storia occidentale fatta da Heidegger, “ cambia il mondo ma lo divide e dalla divisione scaturiscono le tragedie di cui è fatta la sua storia, il suo progresso “. È questa la tragedia che viene raccontata dall’Angelus della storia che ha il viso, rivolto al passato, impietrito e impotente per le cose che ha il potere di contemplare tutte in una volta. Che è inarrestabilmente sospinto verso il futuro da una tempesta che noi chiamiamo “progresso”, mentre un cumulo di rovine, alzandosi fino al cielo, ne sono l’ infranto che non si può ricomporre (18).
A questo punto non sorprende certo se, ispirati dalla dotta citazione sopra riportata, la nostra memoria si inerpica sugli spalti di Duino dai quali Rilke con il terribile angelo, delle sue immortali Elegie- affacciandosi in quella “solitudine mossa solo dalle passioni dello spazio cosmico”, nella quale era stato gettato l’uomo della modernità –, vedeva con Kafka e Musil, l’inarrestabile disgregazione dell’età della sicurezza (19).
Disgregazione della quale l’angelo è il terribile simbolo in quanto funzione e segnale di una energia di trasformazione. Trasformazione nella quale si è compiuta poeticamente la metamorfosi del visibile nell’invisibile, e attraverso la quale è lo stesso angelo a garantire il riconoscimento nell’invisibile di un rango più alto di realtà (20).
Lascio al lettore il piacere di cogliere i sottintesi di questa costruzione poetica. Mi preme però rilevare e chiedermi se a una visione inconoscibile tra visibile e invisibile non finisca con il richiamarsi lo stesso Thomas Eliot, quando si chiedeva: “dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo? / dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo ? / dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione”? (21).
Versi che ispirati evidentemente anch’essi ad un mondo perduto, aprono la strada alla necessità di affrontare queste domande servendosi delle categorie della storia.
Ad essi non a caso si è richiamato Henry Kissinger per disegnare un affresco che ci riporta al fondamentale tema del fatto, del quale evidenzia le nuove dimensioni sottoposte, da un lato, alla pressione di quella frantumazione della cristianità che ha cambiato il corso della storia e, dall’altro, alle successive guerre di religione alla cui chiusura si ricollega il nascere della stessa idea di modernità. Modernità identificata poi nella crescente autorità dello Stato e nel conseguente monopolio della legge come punto di riferimento di un ordine la cui frantumazione affidava – come ben mette in risalto il grande politologo- la sentita necessità di ricomposizione globale, ad un inedito strumento.
Strumento identificato non tanto nella politica ma in un suo particolare aspetto: quello della Politica estera.
“I fatti – ci avverte- di rado si spiegano da soli: la loro analisi e la loro interpretazione – almeno nel mondo della politica estera – dipendono dal contesto e dalle reciproche relazioni” di conseguenza, si osserva criticamente, se un numero sempre crescente di questioni è trattato come se fosse di natura fattuale si consolida il presupposto che per ogni domanda debba esserci una risposta da cercare, e che problemi e soluzioni non devono tanto essere analizzati, quanto cercati (22).
L’osservazione critica legata al problema domanda / risposta sottintende una importante riflessione metodologica. Infatti ponendo il suo centro di riferimento non in una astratta idea di politica ma nella concreta politica estera il discorso assume una portata di carattere istituzionale. Il concetto di ordine sul quale stiamo riflettendo trascende il suo più stretto legame con la legge per assumere una portata ben caratterizzata.
In questo senso la politica estera, e in ragione del suo oggetto, apre le porte al concetto di ordine mondiale. Ordine che, frantumato nella sua originaria unità si veste di un nuovo contenuto, che porta il terreno di analisi su un piano diverso: non quello di affermazione e imposizione di un potere sugli altri, ma quello di equilibrio di potere tra le forze.
Su questo particolare discorso ci accompagna Kissinger ritornando nelle sue analisi ai problemi posti dalla pace di Westfalia, e alla fine delle guerre di religione e alla frantumazione della cristianità nelle sue molteplici forme.
Infatti il monopolio della sovranità, nella sua dimensione territoriale che ne seguiva, lasciava lo scacchiere internazionale, per dirla con le parole Hobbes, allo stato di natura e soggetto all’anarchia.
A questa situazione, e alla luce delle sue cause si poteva ovviare istituzionalizzando un ordine internazionale sulla base di regole e limitazioni concordate da una molteplicità di potenze e non dal dominio di una singola forza.
Quello che Kissinger ci descrive è un concetto di ordine mondiale soggetto, per sua natura, ad un precario equilibrio, quella che racconta è una storia di fratture che si susseguono, nell’ambiguità e nell’opacità dei comportamenti degli attori politici.
Comportamenti che non a caso nei fatti, non trovavano il consenso su alcuni punti fondamentali rispetto a quelle che dovrebbero essere le strutture dell’ordine.
Concetti quali democrazia, diritti umani e diritti internazionali – afferma Kissinger – vengono interpretati in modo talmente divergente che le parti in conflitto le invocano regolarmente l’uno contro l’altra come grida di battaglia (23).
Le regole del sistema sono state promulgate ma si sono dimostrate inefficaci in assenza di una imposizione attiva: il sistema Westfaliano non forniva il verso della direzione in cui procedere, ma consentiva di utilizzare i momenti di forza delle singole potenze, e di utilizzare gli spiragli normativi – si pensi alla gestione degli accordi di Bretton Woods – per affermare la logica e gli interessi delle potenze dominanti e dei sistemi economici emergenti.
Il risultato è stato quello di dare spazio ad una continua modificazione attraverso i fatti delle strutture giuridiche governata dalla spinta che non viene solo da una trasparente officina delle cose.
Ma che ha qualcosa di ben più inquietante: una spinta invisibile ma di fondamentale incidenza.
Lo spazio si è riempito di materia e antimateria provocando una preoccupazione di cui si è fatto interprete Noberto Bobbio descrivendo il nostro sistema di potere nella sua realtà.
Sistema del quale, affermava, nulla si capisce se non si è disposti ad ammettere che al di sotto del governo visibile che agisce nella penombra e ancor più in fondo un governo che agisce nella più assoluta oscurità esiste un potere invisibile che agisce accanto a quello dello Stato, insieme, dentro e contro, sotto certi aspetti concorrente sotto altri connivente, che si avvale del segreto non proprio per abbatterlo ma neppure per servirlo.
Del resto, aggiunge, chi promuove forme di potere occulto e chi vi aderisce vuole proprio questo: sottrarre le proprie azioni al controllo democratico, non sottostare ai vincoli che una qualsiasi costituzione democratica impone a chi detiene il potere (24).
Preoccupazioni alle quali Remo Bodei – consapevole, con Sorrentino, che il potere reale comincia dove inizia la segretezza (25) – si richiama per metterci in guardia entrando in un nuovo percorso e su un nuovo piano dell’esperienza, contro l’uso dell’intelligenza artificiale al servizio delle possibili dittature e dei big data da parte dei poteri militari, finanziari e politici, per spiare potenzialmente tutti i cittadini, per influenza le elezioni, e per favorire gli interessi di ristrette oligarchie (26).
Il Logos che si fa macchina -secondo l’efficace immagine di Bodei- è oggi uno degli strumenti decisivi per aprire ad un nuovo ordine, a nuove forme di volontà e, determinare le gerarchie del potere e delle potenze in campo.
A tutto questo lucidamente si ispirava Kissinger avvertendo che “ogni ordine internazionale deve prima o poi affrontare l’impatto di due tendenze che ne mettono in dubbio la coesione: la ridefinizione della legittimità, oppure un significativo cambiamento nell’equilibrio di potere” (27).
Per questo, il grande politologo ci dice che la sfida fondamentale al giorno d’oggi è una ricostruzione del sistema internazionale.
Una sfida che, per quanto necessaria è disperatamente ricercata, appare di difficilissima praticabilità.
Il fatto è – afferma Calasso riprendendo la problematica posta da Kissinger che coniuga il linguaggio vestfaliano a quello del ciberspazio che sfugge a ogni dimensione- che non esiste più uno spazio circoscritto e sommariamente regolamentato entro cui si svolge la politica (28).
A questo punto mi chiedo se non ci si congiunga, in qualche modo, al pensiero di Gadamer, ad una filosofia per la quale tirare le file di quanto accade intorno a noi è importante per scoprire, più che il tessuto di cui è fatto il reale, la tela di ragno in cui siano impigliati ”(29).
4. Che cos’è l’acqua? L’innominabile attuale nella storicità del diritto. La crisi delle fonti.
L’eccezione come fatto duraturo
Alla luce di un discorso che comincia ad apparire in tutti i suoi molteplici orizzonti non può certo destare stupore se, per rimanere nel campo delle autorevoli testimonianze di quanti vivono ogni giorno nella prima linea operativa, un giurista di grande esperienza e di responsabilità come Pietro Curzio sia stato colpito da un aneddoto raccontato da Wallace, utilizzandolo per porre un interrogativo angosciante, non solo per i giuristi.
A due giovani pesci – ci racconta – viene chiesto da un pesce anziano che nuota in senso contrario come fosse l’acqua. I due giovani pesci nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e gli chiede: che cavolo è l’acqua?
Il senso di questo racconto – commenta Curzio (30) – è che le realtà più ovvie, onnipresenti ed importanti sono spesso le più difficili da capire e da discutere.
Il che è certamente vero. Quello che però a me colpisce del citato racconto, che pure sento essere presente nella stessa riflessione di Curzio, è un altro elemento, il quale per certi aspetti, riguarda l’ordine del tempo.
Tra i pesci giovani ed il pesce anziano quello che maggiormente rileva è lo scontro fra generazioni: il pesce anziano mostra di conoscere l’acqua mentre i pesci giovani non sanno più cosa sia.
I pesci più giovani hanno perso la consapevolezza dell’ambiente da loro abitato.
La distanza tra le generazioni è il risultato del divenire dell’essere, e del cambiamento. È la conseguenza del fatto che, come ben coglie la sensibilità del giurista appena citato, la vita è tale perché non può essere ridotta in categorie ed in elenchi, e pertanto non può essere tipizzata in soluzioni preconfezionate.
Di questo è corollario, da un lato, il ricorso ad una tecnica legislativa non più caratterizzata da fattispecie rigide e ben identificate dal legislatore ma a clausole generali o a norme elastiche. Dall’altro, il richiamo al pensiero di Gino Giugni ricordandone l’importante insegnamento ricevuto che invitava “a non studiare solo il diritto perché chi conosce solo il diritto non conosce il diritto”.
Stupendo paradosso dal quale non è facile uscire, e che, come un’ombra, accompagna la riflessione del giurista che nel suo conoscere e fare scienza, non può non interrogarsi su come fa il non diritto a diventare diritto.
Domanda che induce a non limitarsi alla filosofia ma ad allargare la fonte di conoscenza per approdare alla storia.
Storia che è “sapere”, nella misura in cui non ne perde il suo significato speculativo, e che si pone come modo di filosofare dal momento che si ha la consapevolezza che le filosofie, anche le più strane, si generarono e dettero voce a esigenze reali e risposero a precise richieste. Che chiarirono gli uomini a se stessi e le svincolarono da illusioni, e dettero ad essi ideali, e mezzi di convivenza e li aiutarono a foggiarsi più adeguati strumenti d’indagine e di lavoro (30 bis).
In questo senso è necessario entrare negli avvenimenti che popolano la storia, e dai quali emergono ora il prevalere di culture religiose, ora di culture politica, ora di culture economiche, ora di culture tecniche.
Ognuna delle quali si sviluppa imponendo una logica che ne ispira le reti di connessione e i loro intrecciarsi.
Uno storicismo che attraverso il sapere critico è sottoposto all’affascinante e tormentata arte dello sguardo con la quale “ogni età e ogni generazione mette i diritti alla prova” (31). E questo secondo conflitti dei quali il ricorso alla natura delle cose, alla natura dei fatti, alla natura degli eventi dimostra la tipologia dei cambiamenti espressa dalla discussione sulle fonti.
Un maestro come Paolo Grossi, così tralascia la ricerca di una definizione ontologica del diritto per seguire la comprensione della storicità nei suoi complessi processi che sono caratterizzati, da un lato, da perenni trasformazioni e, dall’altro, e allo stesso tempo, dal permanere di radici sotterranee.
Ogni giurista – afferma P.Grossi – ha un disperato bisogno di categorie ordinanti perché i dati nella loro analiticità atomistica sono muti; così come – affidando il suo pensiero ad una suggestiva immagine – le pietre ammucchiate dal manovale sono una realtà informe in attesa delle capacità cognitive ed intuitive dell’architetto che le trasformeranno in una costruzione.
Pertanto, se il diritto è storia vivente sarà la storia il laboratorio più idoneo all’ invenzione di categorie le quali debbono essere ordinanti, debbono essere capaci di ordinare il magma del reale, e lo potranno con efficacia solo se si misureranno su quanto quel magma pretende” ( 32).
Immagini significativamente allusive di una storia che racconta un arco temporale che, sempre nella riflessione del grande storico, cerca la sua” fertilità” nella dialettica moderno – post moderno.
Termine quest’ultimo che, pur definito “generica qualificazione”, assolve alla funzione di richiamare l’attenzione su quello che è considerato il tratto peculiare del difficile tempo che stiamo vivendo.
Tempo il cui segno, a suo dire, “è la transizione, il transito cioè da una sponda solida ma ormai inservibile, la modernità, verso un approdo altrettanto solido ma diverso, che non abbiamo ancora raggiunto” distanziandoci sempre più dal luogo dell’imbarco per diventare sempre più post moderni, o il che è lo stesso meno moderni.
Questo non vuol dire però che ci troviamo davanti ad una crisi del diritto. Ci troviamo davanti ad una crisi delle fonti che oggi si caratterizzano – ed è questo uno dei punti più ricorrenti del pensiero del citato autore- nel dover considerare strumenti spesso inservibili quei caratteri della legge che si sostanziavano nell’astrattezza, generalità e rigidità. Mentre al contrario ci offrono un indispensabile servizio fonti che esprimono il particolare ed il concreto e che sono dotate di una ormai necessaria elasticità (33).
Queste immagini e queste affermazioni meritano una considerazione.
Infatti il passaggio da una sponda ad un’altra, dalla modernità alla post modernità, assume un significato di straordinario rilievo che il richiamo al passaggio fra le due sponde forse non esplicita a sufficienza, mettendo paradossalmente in ombra la concretezza fattuale del suo divenire, che ne è la storia.
Problema questo, del divenire, che ha un fascino straordinario, e che consiste nel dare un nome al presente il quale, stretto tra il passato ed il futuro (come ci mostra Carlo Rovelli nell’opera prima citata) sembra sfuggire ad ogni definizione. Quasi a dire che il presente universalmente non esiste.
Difficoltà di cui è testimone la liquidità che lo stesso Paolo Grossi non sembra evitare quando risolve il problema richiamandosi al passaggio tra due sponde rispetto alle quali il passeggero appare senza un preciso confine che separi il più moderno dal meno moderno.
Significativamente un raffinato studioso, come Roberto Calasso, sembra tradurre questa equivalenza con un'altra immagine, anch’essa carica di implicazioni sistematiche.
Per chi vive in questo momento – ci dice – “la sensazione più precisa e più acuta è di non sapere ogni giorno dove sta mettendo i piedi. Il terreno è friabile, le linee di sdoppiano, i tessuti si sfilacciano.
Allora si avverte con maggiore evidenza che ci si trova nell’innominabile attuale”.
Un mondo – secondo il citato autore- divenuto informe, grezzo e sempre più potente, e che, “elusivo in ogni singola parte” è l’opposto di quello che Hegel intendeva stringere nella morsa del concetto.
È “un mondo frantumato anche per gli scienziati. Non ha un suo stile e li usa tutti” (34).
Dare un “nome” che abbia un suo “profumo” e non rimanendo solo un nome, è quindi estremamente difficile. E non può non esserlo se all’origine ci troviamo davanti ad un paradosso, se è vero, come dice Cacciari che “ogni stato si configura secondo i suoi principi materiali e formali, come stato di eccezione; nessuno potrebbe mai ergersi a paradigma, pretendere di contenere l’inarrestabile farsi mondo (…).
Eccezione in quanto nella sua forma attuale, non dovrà mai ripresentarsi.
“Ciò che eternamente si ripete” – conclude il filosofo – “sarà l’eccezione stessa, ciò che eternamente dura è il continuo cambiamento” (35).
Non possiamo peraltro non rilevare che anche il cambiamento è concetto destinato inevitabilmente, quando la riflessione si fa più sofisticata, ad assumere significati diversi, e ad aprire così nuovi sentieri e nuove riflessioni costruttive.
5. È necessario tagliare la storia a pezzi? Dal cambiamento alla metamorfosi. I diversi ruoli e significati della natura e la necessità di una rifondazione assiologica
Un grande sociologo, quale è stato Ulrich Beck, ponendosi la domanda su quale fosse il significato degli eventi globali che scorrono davanti ai nostri occhi, si è detto costretto ad ammettere che “non c’era nulla – nessuna idea-teoria- in grado di esprimere in termini concettuali il tumulto di questo mondo, come richiedeva il filosofo tedesco Hegel” (36).
Questo tumulto – ci ha spiegato- non si può concettualizzare con le nozioni di cambiamento di cui dispone la sociologia, ossia in termini di evoluzione, rivoluzione o trasformazione.
Noi viviamo infatti in un mondo che non sta semplicemente cambiando, ma che è nel bel mezzo di una metamorfosi.
Cambiamento, precisa, significa che alcune cose mutano mentre altre rimangono uguali.
Metamorfosi, invece, implica una trasformazione molto più radicale, in cui le vecchie certezze della società moderna vengono meno e nasce qualcosa di totalmente nuovo.
Con l’idea di metamorfosi si apre un nuovo campo di riflessione. Un campo nel quale si rappresenta lo “stato” di un mondo la cui conflittualità ad ogni livello frantuma e fa appassire ogni certezza. Che
peraltro non può non essere governata cercando sempre concetti ordinatori.
In questo senso la periodizzazione (moderno-post moderno) – altro non è se non un modo di padroneggiare il tempo terreno e come tale costituisce uno dei più affascianti temi di storia in quanto non è mai un atto neutro o innocente.
E non lo è perché non è un mero fatto cronologico ma esprime” l’idea di un passaggio”, di una svolta se non un vero e proprio disconoscimento nei confronti della società e dei valori del periodo precedente.
E per questo costituisce un oggetto di riflessione essenziale per lo storico.
La difficoltà di stabilire e di giustificare l’inizio di un periodo – considerando che, da un lato alcuni lunghi periodi sono stati caratterizzati da fasi di cambiamento importanti ma non fondamentali, e dall’altro, che si tratta di una operazione complessa e carica di soggettività relativamente alle diverse maniere di concepire le continuità, le fratture e i modi di pensare la memoria della storia – non è certo priva di dolori. Al punto da chiedersi se davvero è necessario tagliare la storia a pezzi.
Domanda che comprensibilmente si pone anche chi è convinto della sua importanza scientifica, almeno perché “grazie ad essa possiamo chiarire come si organizza e si evolve l’umanità nella durata e nel tempo” (37).
Anche se a ben vedere i chiarimenti della storia non bastano per capire le metamorfosi, se è vero che adesso rispetto ad esse – come ci ha indicato Beck – si deve fare un altro passo “si deve puntare lo sguardo su ciò che sta emergendo dal vecchio, (e) cercare di intravedere, nel tumulto del presente, le strutture e le norme future” (38).
A queste domande arriviamo forti di una consapevolezza, quella di non doverci fermare alle astratte definizioni ma di dover scendere sui fatti. E in questo senso far tesoro dei suggerimenti di Carlo Rovelli sul ruolo degli eventi, attraverso i quali ci è dato conoscere il mondo nel leggere l’evolversi del tempo.
Su questa linea mi sembra si muova anche Paolo Grossi quando, con riferimento al passaggio tra le due sponde, giunge ad una conclusione importante: quella secondo cui, è bene ripeterlo, siamo davanti ad una crisi delle fonti e degli strumenti giuridici che ne derivano (39).
Mi sono ripetuta su queste conclusioni perché da queste affermazioni dobbiamo ripartire per ricollegarsi, come fa il nostro storico, alle origini della frantumazione del sistema che oggi viviamo.
Durante il secolo XIV – racconta Grossi (40) – si sgretolavano i pilastri portanti e fondamentali che garantivano il benessere ; motivo per cui serpeggiava l’esigenza che si dovesse dar mano alla costruzione di una nuova civiltà maggiormente antropocentrica e maggiormente individualista.
Anche a livello politico, si aggiunge, quelle cerchie concentriche che, nel medioevo si descrive in comunità sempre più ampie che si risolvevano in organizzazioni a livello universale, cominciano a cedere ad un nuovo particolarismo e a un nuovo protagonista: lo Stato accentratore, e tendenzialmente nel suo territorio, onnicomprensivo.
Una civiltà che pertanto necessita di essere letta a livello antropologico.
In questa direzione si è mosso recentemente Rodotà, ribadendo che il diritto ha sempre contribuito alla creazione di antropologie e quando lo ha fatto ha conferito loro persistenze che andavano al di là della valenza originale.
Ogni grande operazione giuridica, prima che ancora questo ruolo fosse reso manifesto dalle carte costituzionali, ha disegnato, come ci viene ricordato, un modello di persona che non era mai la semplice registrazione di una natura umana, ma un gioco sapiente di pieni e di vuoti, di selezione di ciò che poteva trovare accoglienza nello spazio del diritto e quella che doveva restarne fuori, di ciò che poteva rientrare in quello spazio del diritto e di quello che doveva restarne fuori, di ciò che poteva rientrare in quello con i suoi connotati naturali e quello che esige una metamorfosi resa possibile proprio dall’artificio giuridico (41).
Problemi tutti oggi sollevati dal vivere e dal convivere l’eclisse dell’autonomia della persona nel tempo del capitalismo algoritmico in un divenire che fa apparire l’uomo antiquato aprendo le porte, con il post moderno al post umano.
E questo come conseguenza del diritto all’uso di tutte le opportunità che l’innovazione scientifica e tecnologica mette a disposizione delle persone.
L’interrogativo che queste libertà umane consentono ha inevitabilmente portato alla ribalta il problema di una rifondazione assiologica.
Per aprirsi alla sfida dell’era storica che stiamo vivendo,-osserva il filosofo con una riflessione nella quale si sente il respiro umano di una teologia cosmica aperta alle diverse culture storiche- gli attuali concetti di natura e di naturalezza devono rivestirsi di una semantica nuova diretta ad integrarsi in una dimensione interna, e non esterna all’uomo.
“Il concetto di natura è dilatato, ma più che in senso estensivo in senso comprensivo. Per connettere tutto ciò che circonda l’uomo ed è nell’uomo ed è da lui prodotto, che ne costituisce l’ambiente vitale e sociale, il tessuto ed il contesto ecologico, il micro e macro cosmo che gli sta dentro e attorno”.
In questo senso si riporta l’uomo come orizzonte ineludibile della riflessione filosofica, espressione di una “armonia pluricontestuale nelle sue dimensioni sociali e cosmiche” (42).
Vero è che la necessità della conclusione assiologica non può far sottovalutare la complessità di un problema dal quale non si può sfuggire. Problema che deriva dalla presa d’atto del modificarsi della forma di pensare e di volere. Volontà che costituisce, nelle sue forme umane e ora anche artificiali, uno dei temi più angoscianti del nostro tempo. Alla sponda indicata da Paolo Grossi arriviamo utilizzando lo strumento di una tecnica che sembra destinata a conoscere per l’uomo, a studiare le strategie per l’ uomo, ad agire per conto di soggetti non umani.
Lo ha descritto bene Natalino Irti: “Il cammino o la manipolazione del mondo, in che si fa consistere l’essenza o l’immagine della tecnica, abbraccia anche i rapporti fra volontà regolatrici e volontà regolate. Queste sono chiamate (quando riluttanti costrette) a prendere forma da quelle, a subirne il dominio, ad accogliere in se stesse il loro contenuto.
Il mondo esterno su cui cala e si dispiega la volontà di potenza, è composta da volontà umane, le quali si trovano così dinnanzi ad un’altra volontà, e possono soggiacervi o aprire la lotta e correre l’incognita del vincere o soccombere” (43).
6. Il logos si è fatto macchina. La ricerca dell’Umanesimo ai diversi confini della soggettività
Per dare la dimensione del problema si è ricorsi a parafrasare uno dei passaggi più significativi del vangelo di Giovanni, e a fermare che “il Verbo si è fatto macchina”.
Parafrasi con la quale Remo Bodei ci prospetta un mondo nel quale “lo spirito soffia anche nell’inorganico e la ragione e il linguaggio, oggettivati in forme di algoritmo, abitano in corpi non umani” (…).
Il pensiero umano, disincarnandosi, è emigrato nelle macchine e si è annidato in esse”.
L’individuo moderno del quale abbiamo visto celebrare la solitudine, “ora si congeda dall’illusione tolemaica di avere il monopolio della conoscenza” (44).
A questo punto viene facile, se non proprio naturale, spingersi ad immaginare l’evolversi genetico degli algoritmi, sino a considerare concreta la loro possibilità di cambiare le strutture del sistema, ed essere in grado di trascendere i fini che a questa forma di intelligenza assegnano gli umani, e di agire, di conseguenza, secondo una logica propria per noi diventata insondabile (45).
Una logica che porta a calarci, con Thomas Mann, nel profondo pozzo del passato per cercare di evitare che il diritto non sia più in grado di contribuire a dare la giusta misura alla costruzione e alla rappresentazione dell’identità, all’essere e all’apparire (46).
Per chiederci ancora una volta se l’aver considerato i diritti umani non appartenenti per natura all’uomo ma il frutto della storia che li ha salvati dalla sopraffazione non finisca ora, paradossalmente con il diventare il simbolo della sopraffazione dell’umanità. E a prendere atto che si è costruito un altro uomo che non è più soggetto di comunità.
È difficile non vedere in tutto questo un momento in cui la storia si curva oltre ogni immaginazione.
Come frenare questa corsa ed evitare quello che è stato definito un finale di partita, l’ultimo spasmo del tempo?
Un tempo del quale il processo di secolarizzazione, nel quale si confonde anche quello di progresso, costituisce una delle tante diverse anime che ne descrivono l’articolato dialogo con il potere (47).
Un dialogo con le categorie del tempo che ha portato Musil a constatare che la vita che ci circonda è priva di concetti ordinatori, e che ormai, dominato dall’incertezza, il mondo moderno è un labirinto dove l’uomo si smarrisce (48).
Nascosto nel profondo di “ un umanesimo notturno “ del quale, nella notte che lo avvolge, si racconta la storia di un paradosso di un umanesimo ormai antiumanesimo (49).
La dimensione e la profondità del problema – occasionata, come detto, dall’invasione pervasiva dell’intelligenza artificiale, dalla dittatura degli algoritmi che condizionano la conoscenza trasformando in informazioni dati apparentemente senza significato – inducono a proseguire nell’aforisma di Giovanni richiamato da Bodei ed interrogarsi se possa dirsi che l’uomo è stato fatto per il sabato e non viceversa. Come sin qua abbiamo creduto di pensare.
Dove ci condurrà tutto questo? Una cosa è certa, ed è preoccupante una nuova arma è ora a disposizione dei soggetti che non sono più l’uomo ma tutti i soggetti artificiali, dagli Stati alle società multinazionali, che chiamiamo “ grandi potenze”. Un ‘arma tale da rendere possibile la modifica dell’intero sistema dando forza ulteriore a chi ha già forza.
Tutto questo non poteva non sfuggire all’attenzione dello studioso e costringerlo ad interrogarsi se e come sia possibile governare questo armamentario.
Su questo tema ha riportato la sua attenzione Natalino Irti il quale, dopo aver intessuto un appassionato dialogo sul ruolo della tecnica con Severino (50), ha rivolto la sua attenzione alla riflessione autorevolissima di Benedetto XVI che, nel suo discorso berlinese, prendeva atto “ che l’uomo è in grado di distruggere il mondo; può manipolare se stesso; può, per così dire, creare esseri umani, ed escludere altri essere umani dall’essere umani (51).
E davanti a questo si era chiesto come trovare la legge della verità (52), con argomentazioni che dall’autorevole giurista sono state considerate l’estremo confine della soggettività (53).
Legge della verità che, nel pensiero di Benedetto XVI trovava nel rapporto fra natura e ragione le vere fonti del diritto, le quali rimandano al linguaggio dell’essere. La natura parla un linguaggio a cui la ragione deve aprirsi e prestare ascolto: il diritto naturale nasce, al di là di ogni richiamo teologico, da questa correlazione fra ragione e natura.
Questa conclusione è destinata a porre, come ha posto, una delicata domanda., sostituendo, come abbiamo visto fare da Heidegger, al che cosa? il chi? è deputato all’ascolto della natura, a rilevarne le indicazioni e tradurle in norme giuridiche? (55).
In questi termini il discorso torna al diritto al quale chiede se lo sviluppo della tecnica consenta ancora di parlare di umanesimo una volta che l’uomo abbia perso il monopolio della conoscenza e la volontà nel suo processo formativo nel quale si è identificato lo stesso diritto espressione del valore dell’identità del soggetto (56).
L’immensa costruzione della forza che sembra costituire il punto decisivo della storicità del diritto positivo se ne dimostra il momento di debolezza. Forza che davanti agli effetti cui si perviene la dura realtà degli ordinamenti positivi, insegnava infatti Capogrossi, è destinata a sparire: nel senso che il principio costitutivo dell’azione, brutalmente respinto dal concreto si trasforma in ideale che sopravvive indicando profeticamente il significato e la funzione del diritto, che si oppone al “al fatto compiuto” e contesta il potere politico restando fuori dalla tenda del sistema (57).
In questo senso può dirsi che l’ordine giuridico si realizza comunque nei movimenti della volontà, che la volontà è azione e che, l’azione sono i fatti che provocano gli eventi e i problemi.
Ancora una volta debbo rilevare che la volontà non è esperienza astratta ma dipende dai fatti che ha prodotto e dai problemi che questi hanno sollevato. Esattamente è stato detto che l’uomo ha costruito e tutt’ora costruisce il mondo e l’insieme degli oggetti che gli stanno attorno con la tecnica, e che in questo senso appartiene agli uomini. Mi chiedo se anche questa costruzione non sia, in maniera diversa, da quella di Benedetto XVI, una ulteriore forma di soggettivismo del quale cambia il linguaggio.
È lo stesso Irti a suggerirci che non si può più parlare di umanesimo in senso tradizionale ma di umanitarismo (58).
Inutile dire che la modificazione del linguaggio è di grande significato.
L’umanitarismo non è il surrogato moderno e aggiornato dell’umanesimo classico, ma piuttosto una forma di volontà che persegue scopi in accordo o in disaccordo con la tecnica secondo le direzioni espresse dalla volontà, e che tutto, legittimando così per altra via l’estremo confine della soggettività, dipende dalla volontà umana (59).
Vero è che la sua disincarnazione, il suo produrre fatti e generare interessi caratterizzati da logiche e finalità proprie a rompere l’astrattezza dei conflitti e degli strumenti. A indurre lo studioso a entrare nella complessità della frantumazione per cogliere le linee di sviluppo che danno un nuovo volto all’ordine giuridico in considerazione degli effetti diretti che producono, e di quelli collaterali che ne determinano l’evoluzione delle strutture stesse (60).
Con riferimento a queste osservazioni deve proseguire il nostro racconto nella concreta storicità dei suoi fatti.
In una storicità che peraltro costituisce l’enigma della vita nello spazio e nel tempo ma la cui soluzione, a seguire l’esercizio rigoroso della ragione verso la quale ci indirizza Wittgstein,” è fuori dello spazio e del tempo” (61).
Affascinante sfida ad ogni concetto di realtà.
7. Ordine giuridico come costruzione di istituzioni. Fenomeni globali e fenomeni mondiali. L’uso della legge e del mercato
Alla luce di quanto sin qui detto –, e ritornando al problema sollevato da Paolo Grossi circa la crisi non delle fonti, e relativamente al mutamento dei dati che caratterizzano la legge – ritengo che dette considerazioni, ancorché non ne discuta la verità, meritino di essere lette secondo una logica che ne espliciti il significato sia nella funzione che ad esse si chiede di svolgere, sia negli effetti strutturali che ne conseguono.
Ritengo infatti che detto problema debba essere colto nel contesto delle dinamiche che ne hanno ispirato, se non reso proprio necessario, le trasformazioni degli strumenti, rendendoli funzionali ai loro nuovi usi e ordinanti rispetto alle logiche dell’energie che si generano.
A chiarimento di questa prospettiva di analisi trovo illuminanti due diverse riflessioni di Ralf Dahrendorf che, riportate nella loro estrema sintesi, penso sia utile richiamare all’attenzione dello studioso in considerazione del loro carattere esplicativo di una realtà disarticolata della quale recupera il senso istituzionale.
Mi riferisco in primo luogo alla sua importante ricerca sul concetto di ordine nel suo stretto rapporto con quello di legge.
Ed è in questa sede che a chiusura di una riflessione- la quale ruota attorno al fenomeno di anomia, e che si confronta, solo per citare alcuni dei più grandi maestri, con Rousseau e con Hobbes, spaziando da Habermas a Rawls sino a Nozick – il citato autore pone l’accento sulla necessità di cercare quelle molteplici legature che saldano l’individuale con il collettivo e l’economico con il sociale e il politico, per dirci che “la risposta al problema legge-ordine possa riassumersi in due sole parole: costruire istituzioni” (62). Perché solo grazie ad un’opera consapevole di continua costruzione e ricostruzione delle istituzionali, possiamo sperare di proteggere la nostra libertà di fronte all’anomia.
Anomia considerato il luogo sulla terra più vicino all’inferno, e il cui percorso deve essere invertito in quanto è solamente caos, è soprattutto un vuoto che attrae le forze i poteri più brutali (63).
Ed è nel divenire delle istituzioni, nel loro contrapporsi o concatenarsi o svilupparsi che si recupera quella funzione ordinante (64) nella quale si sostanza la formazione di quei vettori dell’ordinamento ai quali Ascarelli affidava il fondamentale compito di essere la chiave di interpretazione della realtà, traducendone l’evolversi ed il disegnarsi di tipologie che ne riflettono la natura dei problemi e dei rischi (65).
E in quest’ottica che si sente il respiro istituzionale di Dahrendorf quando, con riferimento alle crisi finanziarie del 2009 (66), esamina il passaggio da un capitalismo di risparmio ad un capitalismo di debito e di azzardo, per distinguere ciò che è globale da ciò che è mondiale e vederne le conseguenze a livello normativo. E questo nel presupposto, che per molti aspetti si collega alle legature sopra richiamate, che le norme non solo vivono nelle istituzioni, ma “non nascono da una negoziazione libera e senza vincoli di tutti gli interessati. Esse richiedono una potenza di garanzia che sia in grado di sostenere i meccanismi sanzionatori (67).
E questa affermazione che dà alla norma un carattere istituzionale del quale, ad ogni fine valutativo e operativo, è bene avere consapevolezza.
La domanda che a tal fine quindi ci pone è se i fenomeni di crisi finanziaria provocate dal capitalismo di debito o di azzardo sono un fenomeno globale o mondiale e, se è possibile accertarne le differenze, quali ne sono le conseguenze.
Sono globali – secondo l’autore che pensa al problema climatico- solo quei problemi che riguardano tutte le persone della terra e che quindi possono essere dominate solo da un’ azione comune.
Solo mondiali, e proprio in ragione del loro impatto, le crisi finanziarie. I loro effetti sono osservabili in molte parti del mondo ma non sono identici, ed il loro superamento se può essere aiutato da un coordinamento, in realtà richiede soluzioni essenzialmente nazionali.
In questa prospettiva si introduce il concetto di potenza di garanzia che dà un senso alle norme e al sistema istituzionale che le lega. “Il mondo di Bretton Woods – ci spiega nell’opera appena citata - con la Banca Mondiale è il Fondo Monetario Internazionale (e almeno indirettamente anche l’Organizzazione Mondiale del Commercio) erano comunque un mondo americano. Non era un architrave normativa globale, ma una regolamentazione a carattere mondiale garantita dagli Stati Uniti”.
Di questo è corollario che davanti ai fenomeni globali è necessario predisporre norme vincolanti per tutti pena il disastro globale.
La crisi finanziaria richiede invece un certo numero di misure strategiche, probabilmente soprattutto in alcuni paesi il cui effetto a catena di diffonde ad ampio raggio.
A chiarimento di questa logica, che lega le scelte strategiche delle Potenze garanti alla destrutturazione del sistema, è importante ricordare le diverse soluzioni adottate dai differenti Paesi per rispondere al problema provocato dalla crisi petrolifera del 1975 sulle loro bilance dei pagamenti.
Evento fondamentale per capire l’evoluzione della struttura del sistema verso la nuova forma di capitalismo finanziaria (68), i suoi riflessi istituzionali e le conseguenze su uno strumentario giuridico che affina le sue armi in funzione di una efficienza competitiva. Efficienza garantita dalla possibilità che viene data agli operatori protagonisti dei mercati di innovare i tradizionali istituti, resi liquidi e a disposizione dei diversi tipi dei competitori, che sempre in maggior numero entrano nel campo di gioco (69).
È un dato di fatto difficilmente contestabile, in quella che appare la nuova stagione del capitalismo, che non necessariamente le economie di mercato presuppongono società di mercato. Così come non può prendersi atto che alcune delle economie capitalistiche di maggior successo hanno operato in condizioni sociali autoritarie. Che nessuna società storica presenta i tratti della crescita solo ad iniziativa di mercato. Che per quanto attiene al delicatissimo punto strutturale dell’intervento dello Stato nell’economie quello che conta – come si è detto di recente- non è la sua quantità bensì in che modo e con quali fini questo viene applicato (70).
Il paradosso del sistema capitalistico – ci ripete con autorevole schiettezza Guido Rossi è diventato così quello di una economia soffocata da un numero pressoché inimmaginario di norme legislative, ma in realtà governato da regole che i principali attori del sistema di volta in volta scelgono, a seconda delle proprie convenienze, nascondendosi dietro lo slogan della libertà contrattuale. E la prima vittima di questo paradosso è il cuore stesso del sistema: il mercato.
Ed è così che alle regole del gioco si sostituisce il gioco delle regole (71).
8. I grandi spazi e le zone di influenza come strumento conoscitivo
Il discorso sin qui fatto (caratterizzato, ed è questa una delle più forte sollecitazioni che mi vengono da Steinberg, da un continuo domandarsi i cui effetti sono il crearsi di una seria infinita di orizzonti, che si intrecciano a diversi piani conoscitivi) ci porta a collocare il problema sul quale riflettiamo non seguendo la logica dettata da astratti principi generali, dei quali pur si deve tenere conto, ma in una prospettiva di concreti eventi che portano alla ribalta sempre nuovi fatti, della più svariata natura.
Una prospettiva che, senza essere prigioniera di una agenda imposta da un assillante contingente (che peraltro sarebbe sbagliato ignorare), è diretta a misurarsi e confrontarsi con quelle grandi tendenze che hanno tracciato i solchi più profondi della nostra esperienza storica. Che le hanno disegnate adattandole, di volta in volta alla luce delle trasformazioni sociali e tecniche, ai problemi che si imponevano all’attenzione, e modellato gli strumenti ereditati dal passato a nuove finalità.
Laddove il nuovo – e penso a quanto volte si è fatto riferimento nella nostra cultura ad un ordine nuovo – vive l’ambiguità di un momento nel quale convivono continuità e frattura.
In questo senso il racconto si sostanzia in una descrizione di fratture che, hanno dato vita a strumenti, ognuno dei quali sprigiona la dinamica che è racchiusa in essi. Dinamiche che sollecitano nuove aggregazioni seguendo le spinte che vengono dalle dimensioni territoriali dei soggetti che occupano la scena politica, e dalle utilizzazioni che consentono le continue invenzioni tecnologiche.
Soffermiamoci per un momento su queste considerazioni.
Si è partiti dall’idea del tutto ovvia, che per intervenire sugli eventi – mi astengo dall’usare il termine realtà che, come è noto, non è di facile individuazione -, bisogna comprenderne la natura, la portata e gli effetti.
Comprenderle vuol dire munirsi di strumenti concettuali capaci di affrontare i problemi in modo efficace, osservandoli come istituzioni e strumenti di cui noi ci dotiamo per realizzare un preciso obbiettivo.
Espressione che ci riporta – e oggi che siamo lontani da un passato che ci condizionava ideologicamente possiamo essere più liberi nei nostri giudizi – alla contestata riflessione di Carl Schmitt che lo ha portato ad osservare i fenomeni dall’angolatura dei “grandi spazi”, che ne sono il fatto.
Una teoria che -coniugando il suo farsi come scienza ad una visione teologica della politica, ed allora del potere nella sua funzione di espansione territoriale come nomos, prendendo realisticamente atto che i singoli Stati non sono più in grado di garantire l’ordine mondiale - auspica una divisione del mondo in zone di influenza controllate dalle grandi potenze, in un rapporto amico- nemico (72).
Fenomeno al quale ci è dato di assistere, anche dopo la fine dei due blocchi politici ed economici che si confrontavano, e che oggi vediamo popolato da Stati continenti, non ultime le c.d. tigri asiatiche che si fronteggiano quali protagonisti di un conflitto di civiltà, allargando le zone di influenza ai modelli istituzionali che se ne fanno portatori.
È naturale chiedersi se e quanto quello dei grandi spazi non possa e non debba essere uno strumento di conoscenza sul quale tornare a riflettere.
Anche perché, in questo spirito mi viene da domandare se in questa logica di governo delle grandi dimensioni e dei grandi spazi si possa veder congiungersi il Dante- giudice di Steinberg ( in quanto fautore di un sistema giuridico che è creazione di norme, di strumenti e di istituzioni con il Dante profeta di Cacciari che affronta il problema del potere riflettendo “sulle due città” e sui “due soli” che convivono all’interno del grande spazio dell’impero e che per questo si proietta, attraverso le norme e i principi elaborati, verso la creazione di Istituzioni) (73).
Istituzioni che, teniamolo ben presente, riflettono i problemi e gli interrogativi di un tempo storico.
Un Dante profeta che pensa cristianamente ad un impero, totalmente secolarizzato.
“Solo una chiesa che confessando apertamente di non essere la città di Dio rinunci ad ogni potere terreno, potrà essere ascoltata e valere nel secolo. Solo un impero che rigetti ogni compromesso con la Chiesa sulla gestione del potere politico, avrà il dovere di riconoscerne la paternitas e aiuterà in uno, la Chiesa a ritrovare sé stessa.
Due Soli, allora, che “tanto più provvidenzialmente insieme, guidano la nostra natura ferita quanto più autonoma e inconfondibile brilla la luce di ciascuno” (74).
In Dante si afferma la legge, e al suo interno si svolgono i problemi dell’unità che va salvaguardata e dell’autonomia che va perseguita.
Problemi questi tipici della costruzione di Istituzioni.
9. Dall’anomia all’atopia. Il ruolo e il significato geopolitico del “territorio”. Verso una nuova definizione di effettività
L’aver assunto a nostro punto di riferimento l’ordine del tempo è stato importante per far emergere
non solo la molteplicità di percorsi che l’esperienza ha costruito, ma anche l’orizzonte, o gli orizzonti nei quali gli eventi si collocano ; e a mettere in risalto come gli orizzonti si compenetrano, e come e perché – dando rilievo ad un aspetto o ad un altro- i percorsi si arrestano, o cambiano direzione, o formano intricati ingorghi.
È molto difficile, riconosce Guido Rossi che il diritto segua un andamento armonico aggiungendo che “In molti casi ha una genesi sporca e, nella sua vita utile, affronta aporie che ne rendono quantomeno opinabile la presunta purezza” ( 75).
Il richiamo che in questa prospettiva viene fatto allo storico e suggestivo tema delle lacune è di grande importanza teorica, e non meno che pratica. Al punto da costituire – sempre secondo il citato autore – la cartina di tornasole per tutte le teorie giuridiche, il cui percorso ci porta a scoprire come da un certo momento in poi le norme, sempre più elastiche e sempre più vaghe, non coprono più alcuna fattispecie e perciò devono essere abbandonate, modificate, riscritte.
Momento in cui seguendo quel pragmatismo che ha caratterizzato il pensiero di Keynes il quale consigliava di riaprire il libro della saggezza, le cui teorie diventano di giorno in giorno meno vere, e cercare una nuova saggezza, non facendosi impaurire dal ricorso a quelli che il grande studioso chiamava espedienti, che forse meglio di ogni altra cosa ci consentono di risolvere i problemi (76).
Ed è inoltrandosi in questi percorsi, talvolta imprevedibili, che possiamo scoprire le loro deviazioni attraverso i grandi della letteratura che, con grande efficacia speculativa – e Guido Rossi nell’opera citata ce ne sottopone un vasto campionario- si sono interessati al complesso problema della frantumazione e della composizione raccontando con suggestive immagini “come gli accidenti di carattere psicologico, sociale e politico influenzino il giudizio molto più dei fatti puri, inoppugnabili, assoluti.” Fatti dei quali pertanto, non si può neanche parlare (77).
Un ruolo che peraltro non si limita al pur fondamentale esame dei fatti, ma assurge a livello di sistema, traducendoli in visioni istituzionali.
Di questo è esempio il significato che Emanuele Severino ha attribuito all’opera di Leopardi.
Opera la cui grandezza è motivata ai suoi occhi dall’aver pensato, mezzo secolo prima di Nietzsche, che per vivere si deve vincere la verità; rovesciando così in termini netti e consapevoli il modo di intendere quel rapporto fra verità e vita sino ad allora seguito dalla grande tradizione filosofica.
Ed è per questo che – a giudizio di Severino- si deve incominciare a riconoscere che la grandezza del pensiero filosofico di Leopardi sta molto più in alto di quanto si sia comunemente disposti ad ammettere.
Infatti il Leopardi che “ sta alla svolta che conduce fuori dalla tradizione della nostra civiltà non si limita ad osservare il curvarsi della strada: appartiene a coloro che producono la curvatura. E vede già la strada – percorsa nel 900 da Wittgenstein – della filosofia come terapia contro la filosofia. Ma la vede sbarrata (78).
Anche in questo senso, quello di osservare e di partecipare alle curvature della storia, che collegherei la grandezza di Dante- giudice – che Steinberg oggi ci propone, al quadro suggestivamente descritto da Cacciari sulla figura del fiorentino.
Quella di un Dante caratterizzato da una poesia sapiente e filosofica, una poesia divina che anticipa
per molti aspetti i nodi filosofici affrontati dall’umanesimo, anch’esso epoca di crisi ; anch’esso passaggio d’epoca segnato da catastrofici avvenimenti (79).
Una poesia il cui linguaggio straordinario viene posto, come per Leopardi, al centro di una curvatura che investe la geografia giuridica costruendo in una prospettiva istituzionale nuova quei confini che normativamente segnano i limiti del potere. Distinguendone le diverse tipologie e indicandone la legittimità dell’uso e l’illegalità dell’abuso.
Un linguaggio volgare anticipatore del mutamento dei valori – ed è appena il caso di ricordare che lo stesso Ascarelli definirà come volgare, contrapponendolo ad un antico latino, l’affacciarsi nella nostra realtà del linguaggio economico (80) – il quale peraltro tende, nei suoi sviluppi più recenti a far perdere alle stesse parole che usa “il loro significato.”
Linguaggio normativo – afferma Guido Rossi- che può, paradossalmente diventare il motore della disgregazione (81).
Di questo mi sembra essere esempio significativo la discussione su uno dei principi cardine della nostra cultura giuridica, quello della legalità.
Principio al quale ci rivolgiamo quasi quotidianamente, ma che da molti autorevoli studiosi è considerato “ una sorta di contenitore vuoto suscettibile di subire profonde differenziazioni “ ( 82).
Con quanto questa affermazione comporta sia in ordine alla sua funzione nell’identificazione del c.d. Stato di diritto, sia nella prospettiva del soggetto che, abilitato a riempire di contenuti il contenitore, diventa legislatore, sia con riguardo alla formulazione della fattispecie sempre più indefinita e carica di ambiguità descrittive.
Problemi di non poco conto sistematico se ad essi si aggiungere che la disgregazione da noi vissuta ha una significativa particolarità.
“Se fino ad ora – e sempre Guido Rossi che ci parla- alla nascita di una situazione economica nuova si accompagnava quella di un nuovo diritto, ora accade esattamente il contrario: alla distruzione dell’ordine preesistente sembra non far seguito nulla “ (83).
Particolarità che assurge a livello filosofico – istituzionale quando induce Cacciari ad definirla come nuovo Nomos, e a considerare l’anomia come un nuovo ordine. Un Ordine che non è però il Nomos del mondo, ma la cui “ norma giuridica dovrà adeguarsi a quel centaurico giusnaturalismo artificiale, al quale ci si riferisce quando si invocano le leggi delle economia e del mercato” (84). Che sono poi anche le leggi della tecnica che guida l’economia e sostituisce la politica.
Politiche e diritto che, nella visione di Natalino Irti, restano chiusi entro il territorio dello Stato o delle Unioni di Stati, mentre quelle che definisce le potenze del quadrilatero – (scienza, tecnica, economia, mercati) – si trovano dovunque (….). Atopici e perciò non suscettibili di avere casa e dimora sulla terra. Dal fatto che queste potenze si agitano e lottano in spazi privi di diritto, si trae il corollario che “l’atopia si congiungerebbe all’anomia e anzi la genererebbe per intima e logica necessità” (85).
Quello che questa riflessione ci lascia – a dire del suo stesso autore – “sembra un caos selvaggio, un disordine infinito e illimitato” (86).
Si arriva così a dipingere un quadro nel quale la competenza politica non ha più senso e deve cedere il passo a quella degli esperti. Il Diritto, cioè le procedure di produzione legislativa diventano vecchie e stanche forme di cui si vestono le decisioni dei competenti.
Le potenze della tecnoeconomie hanno una pretesa globale che non permetterebbero la formazione di regioni autonome separate, rendendo improbabile che il pianeta si divida nei due o nei più grandi spazi teorizzati da Carl Schmitt.
Tutto questo lascia un punto interrogativo che lo stesso giurista sopra citato a sollevare. Alla prospettazione che sancisce la morte del vecchio diritto si può opporre che “nulla può escludere che quelle potenze si compongano fra di esse, e abbandonino noi inermi ed impotenti nelle vecchie dimore degli Stati” (87).
L’interrogativo che così si pone dall’aver legato anomia e atopia merita una riflessione.
Una riflessione che si chieda che cosa legittima la pretesa delle grandi potenze tecnoeconomiche, dalle quali non penso debbano essere esclusi gli Stati e le imprese che si muovono nei grandi spazi.
Per rispondere a questo interrogativo ci dà gli strumenti Sabino Cassese, quando indaga sulla rivincita dei territori che oggi, con le loro aperture e chiusure agli strumenti economici e finanziari e all’ingresso dei capitali, caratterizza il nuovo essere della realtà economica e politica.
Grandioso è il compito che, dice Cassese (88) aspetta la scienza giuridica: quello di pensare e riconcettualizzare ancora una volta lo Stato alla luce delle trasformazioni che ne hanno suggerito ed imposto nuovi ruoli e nuovi strumenti.
Anche e soprattutto con riferimento all’attività svolta dalle singole imprese, dei privati e dello Stato, che assurte a dimensioni di attività globale operano modifiche dell’economia nello sviluppo e nella crescente interdipendenza.
In questo senso si è parlato di Politica oltre lo Stato e, ora di sovranità oltre lo Stato (89).
Ma penso che l’oltre altro non sia se non un modo diverso di essere dello Stato, e non uno spazio vuoto di diritto. Un modo di essere reso necessario dall’incessante imperativo che spinge alla produzione, alla ricerca di mercati, alla ricerca di risorse, alla formazione di strumenti che innovino per realizzare l’efficienza competitiva. Un modo di essere che ha dato un diverso volto alla centralità della sovranità estera come riflesso del sempre più esteso panorama di integrazione economica e di frantumazione dell’organizzazione dell’attività produttiva.
La cassetta degli attrezzi si è arricchita di nuovi e potenti strumenti – e in questo senso sarebbe utile ripensare ad una teoria del contratto aperta a nuove dimensione- del quale di può fare un uso in ogni direzione non facilmente controllabile.
Dobbiamo forse pensare che queste realtà, almeno per chi guarda le istituzioni con approccio evolutivo, altro non siano che i cocci di antiche costruzioni della scienza del diritto, e che quella che chiamiamo multilateral global governance sia solo una vuota formuletta? O non invece che il pluralismo giuridico al quale tanti si richiamano non sia altro se non un modo di porsi il problema dell’effettività a livello di strutture globali in funzione della geo politica.
Vero è che tradurre la geopolitica in geo diritto è tutt’altro che agevole; ancorché sia forte l’esigenza che spinge la riflessione a non scivolare in una deriva anarchica.
Sullo sfondo di ogni costruzione aleggia una aspettativa neovestfaliana.
Un’aspettativa nella quale si mettono a confronto, rendendo qualsiasi discorso sempre più complesso, una miriadi di organizzazioni difficilmente qualificabili come sovrane, molte ad iniziativa assolutamente private, ma comunque agenti ed influenti sulla scena politica mondiali (…).
L’azione globale si presenta come uno schema complesso di interazione tra attori misti, e ai soggetti tradizionali se ne aggiungono altri, ugualmente o maggiormente potenti, portatori di interessi diversi (90).
Interessi che costituiscono la sfida alla normatività oggi delineata da molteplici livelli di effettività e di organizzazione. Interessi volti alla ricerca di un ordine costituzionale che deve sfuggire alle difficoltà di uscire dai contrasti delle conflittuali positività.
Una normatività il cui punto di riferimento sembra perciò essere quell’effettività dalla quale desume
il suo organizzarsi su molteplici piani il limite di effettività del diritto – si è detto – oggi è malleabile, poroso, impregnato di prassi fattuali che non possono essere considerate veramente attuazioni della norma, ma solo adattamento, compromesso della sua forma (91).
Una Effettività che per riprendere un’ immagine di Cacciari non ha un centro ma può averne molteplici, ciascuno magari dotato di una sua legittimità e di una sua legalità.
Ciascuno partecipe di una logica di sviluppo e di trasformazione secondo un regime di eccezione che è incessante e, allo stesso tempo circoscritto. Mi riferisco all’immagine di arcipelago che, secondo il filosofo, è la possibile forma di un nuovo ordine nel quale è la pluralità degli elementi che lo compongono a sollecitare, come essenziale momento di comprensione e di conoscenza, lo studio delle reti di connessioni che i bisogni e gli interessi impongono.
“Nello spazio mobile e cangiante del coordinarsi e del coabitare – dice Cacciari con riferimento alla costruzione europea ma che ritengo ben possa essere adattato a diverse e più vaste esperienze- le singolarità dell’Arcipelago si appartengano l’un l’altra perché nessuna in sé dispone del proprio centro, perché il centro non è in verità che quell’impeto che obbliga ciascuna a trascendere navigando una verso l’altra e tutte verso la patria assente” (92). Che è il senso dei sentieri che le necessità e l’interesse al dialogo tracciano, e sul quale ci hanno portato gli eventi della Storia, lasciandoci tante domande.
10. Dal gioco delle regole al quasi costituzionale. La gomena di Bodei e la “responsabilità” del nostro tempo
In questa prospettiva appare chiaro, ed il discorso di Steinberg ne è una conferma, che la direzione della riflessione non può prescindere, a dispetto delle frantumazioni, da una ricerca che recuperi l’esperienza geopolitica nei suoi diversi riflessi.
Ponendoci il problema del diritto – non spazio siano entrati in una prospettiva di riflessione sull’interdipendenza planetaria che propone un diverso modo di essere del territorio.
E questo, secondo una dimensione che mette al centro dei suoi interrogativi, in modo inusitato il tema del diritto effettivo, del diritto reale, dei fatti- evento e dei fatti compiuti.
Territori nei quali si svolge quella interdipendenza della quale non conosciamo i confini ma della quale cogliamo il determinarsi di effetti che producono una catena che lega gli interessi.
Una forma nella quale disseminate sovranità riflettono disseminati interessi dai quali emergono conflitti che dobbiamo conoscere per dissodare il terreno di una effettività geopolitica (93).
Non discutiamo solo del potere attraverso i poteri, né della sovranità attraverso le sovranità.
Discutiamo sullo sfondo dantesco delle due città che si rinnovano e dei due soli che li illuminano sotto un solo cielo.
Discutiamo delle potenze che oggi si configurano secondo una nuova geografia territoriale; ognuna portatrice di una sua legittimità, di un ordine di valore, di un modello di comunità.
L’Occidente che ha percorso un cammino di secolarizzazione e di indebolimento dello Stato fondato sulla democrazia, è minoranza in un mondo nel quale la teocrazia ha riacquistato peso politico ed economico, in un mondo in cui un nuovo Stato forte che viene dall’Oriente è strutturato per affermare ed imporre la supremazia di una civiltà forte di una cultura millenaria.
Potenze senza diritto internazionale che ne stabilisca e governi l’equilibrio, ma che si incontrano nel terreno del mercato del quale ognuno usa il potere ai propri fini anche attraverso le imprese che ne sono gli strumenti di penetrazione, ed impongono fatti che mettono in discussione i diritti storicamente conquistati affermando ora la legalità economica ora il potere politico.
A livello globale si fronteggiano Stati, Mercati e Imprese, con quelle imperfezioni di cui ci ha parlato Keynes, e nelle quali solo “apparentemente ” troviamo l’anomia - l’atopia.
Apparentemente nel senso che troviamo quello che Guido Rossi ha chiamato, il gioco delle regole e che si sostituisce alle regole del gioco. Ma che è pur sempre una regola da penetrare nella sua logica.
Un gioco la cui posta in palio è altissima. Dobbiamo affrontare il problema dell’uso delle regole, rendendo visibile questa forma di invisibile.
Una rete invisibile che congiunge quanto ha frantumato. È stata frantumata l’organizzazione di impresa nel suo profilo produttivo attraverso la moltiplicazione dei soggetti e la loro delocalizzazione nella ricerca di una efficienza che ne favorisca la competitività a condizione inevitabile del rischio che comporta. Una frantumazione dell’attività che si riflette nella teoria degli atti e dei fatti incidendo su diversi ordinamenti che ne determinano le convenienze e i rischi del “gioco”.
Elementi tutti che tanto più sono efficaci quanto più diventa irraggiungibile l’abuso ed il controllo degli effetti collaterali anch’essi parte del gioco.
Vero è che anche la frantumazione è, come tutti gli altri strumenti che conosciamo, keinesianamente incompleto. Uno dei suoi effetti è l’integrazione e l’interdipendenza economica che rende tutti partecipi, in maggiore o minore misura del risultato finale.
Siamo in quella che Ulrick Beck ha chiamato la società del rischio.
La catena dell’impresa con i suoi anelli ha determinato un rischio che può essere incontrollabile e che finisce per creare una rete che salda, secondo nuove logiche, quanto aveva frantumato e che apre ad una riflessione sull’essere coinvolti da un interesse comune dal quale nessuno può più prescindere.
Ed è in questa direzione che mi piace cogliere il senso o un senso dell’affermazione di Zagrebelsky secondo cui “non sono i maestri a cercare i discepoli, ma i discepoli a scovare i maestri” (94); perché come Umberto Eco ha lucidamente preconizzato “forse nell’ombra già si aggirano i giganti che ancora ignoriamo, pronti a sedere sulle spalle di noi nani” (95).
Noi nani che avezzi ad affrontare i problemi attorno ai quali viviamo, e la coerenza degli strumenti ad essi idonei, non possiamo non essere colpiti – o almeno io lo sono particolarmente da quello che mi sembra essere uno dei motivi di maggiore interesse del pensiero di Dante che Steinberg ci trasmette che non è tanto l’uso dell’eccezione o il richiamo alla legalità o alla legittimità.
Del Dante – giudice – creatore mi colpisce il tipo di giuridicità che trasmette.
Mi riferisco a quella vagheggiata Atene celestiale a quel quasi costituzionale che, sostituendosi al “sacro” ne ispira il sistema giuridico traducendone contro l’assolutismo quell’umanesimo del quale esprime la nuova voce che si alza dalla società. Categoria non sconosciuta, che cerca nella realtà dei fatti il formarsi del respiro del diritto.
Come non ricordare che nel 1956 Ascarelli metteva al centro della sua riflessione sulla realtà giuridica la disciplina privatistica delle società per azioni dicendo che la stessa “ può un po’ considerarsi come il diritto costituzionale dell’economia attenendo alla struttura giuridica più importante e caratteristiche dell’economia attuale (96).
Quel quasi che, come l’esperienza giuridica romana ci ha insegnato, è uno dei motori della storia del diritto che lega i fatti alle norme e agli istituti per trasferirlo così nella costruzione delle istituzioni e ritornare in questo modo alla legge ed al governo dei fatti.
Quasi costituzionale che è un modo per parlare dell’uomo e dei diritti umani.
Un umanesimo che si svolge nell’orizzonte di quegli eventi, quale è l’intelligenza artificiale, che hanno reso l’umanità artefice della creazione.
E allora, ad ogni livello, responsabile della stessa.
Un modo per aprire le porte del diritto alla grandezza dell’utopia, al novum che dobbiamo far crescere e custodire. Magari pensando di poter far irrompere “il vento che ci viene dall’avvenire”, il deus adveniens di Cacciari (97) quale umanesimo globale in quella “speciale dimensione metafisica” ipotizzata da Levon Zekiyan (98).
Ed è in questo senso che collegando la riflessione sul miracolo all’idea di quasi costituzione Steinberg sembra cogliere l’incancellabile bisogno che, unendo il relativo all’assoluto, viene dalla base della comunità nella sua ansia di valori costituzionali.
Il post moderno cui tanti studiosi oggi si richiamano, non significa necessariamente post umano.
Ed è a tal fine che, come suggerisce la grande sensibilità di Remo Bodei (99) dobbiamo pensare ad una” “nuova meditazione” che abbia come oggetto una “ gomena composta dall’annodamento di molti fili costituiti dai rapporti dell’io con noi e con gli altri”.
Confidando non solo sul fatto che la storia è astuta ma anche sulla saggezza che ci trasmette Seneca quando ci ricorda “(100) quante cose sono avvenute inaspettate e, viceversa, quante che erano aspettate, non sono avvenute”.
Ma meditare sulla gomena, che sarà tanto più robusta quanti più fili si sarà riusciti a intrecciare e quanto meglio si sarà riusciti ad annodarli, non è forse un modo per meditare sulla legge nei suoi tanti volti? o sul diritto? O sul loro cammino, che è quello della conoscenza nelle sue molte forme e dell’uso che di essa ne viene fatto?
Quell’uso che implica una scelta la quale discende dalla consapevolezza che la lega indissolubilmente alla responsabilità, considerata come lo strumento che accompagna e legittima il potere, a qualunque livello. Seguire il cammino della responsabilità ci aiuta quindi a conoscere in profondità il potere, e affina le nostre antenne per accorgersi se disponiamo di strumenti capaci di evitarne gli abusi.
Se questo cammino diventa un labirinto, come sempre più ci è dato di constatare, ogni forma di controllo sarà impossibile.
La responsabilità sembra esistere, ma non la si può raggiungere. Siamo alla anomia invisibile? Il terribile angelo di Rilke che ispira la sua invisibilità la protegge dai miracoli di ogni normativizzazione, di quasi costituzionalizzazione che aveva immaginato di poter fare il Dante di Steinberg.
Ad ogni tempo è stata data in sorte la responsabilità di costruire la propria gomena e a questa responsabilità nessuno può sottrarsi. Ciascuno di noi è l’artista che concorre a modellare l’opera con la quale affrontiamo le tempeste.
11. Quasi una conclusione. Le domande rimbalzano di continuo
Racconta Senofonte nei Memorabili (1,2, 40- 46) che un giovanissimo Alcibiade abbia chiesto a Pericle, l’indiscusso principe della democrazia, “che cos’è la legge ?”.
Alla fine di sempre più incalzanti e più stringenti interrogativi Pericle avrebbe detto: “certo Alcibiade, anche io, quando avevo la tua età ero bravissimo in questo genere di discussione: facevo pratica di arte sofistica a questi stessi temi ai quali, a quanto vedo, tu ti applichi. E Alcibiade: “magari ti avessi conosciuto allora Pericle, quando su questi temi superavi te stesso”.
Curzio che oggi si chiede a nome di tutti “che cos’è “l’acqua” è Alcibiade o Pericle? O forse da quasi saggio è tutti e due.
La vera risposta – come si è detto – è sempre nella domanda successiva, e bisogna svelare quanto segretamente custodisce.
Il discorso pertanto non può chiudersi e non vuole chiudersi.
Mi preme ricordare che il grande tragico Eschilo ne Le Eumenidi aveva dato voce alla stessa Athena per metterci in guardia contro i “torbidi vortici” che inquinano le leggi, e sentenziava che “chi contamina con il fango l’acqua lucente non ne potrà più bere.”
Che cosa stiamo bevendo?
Chi ha trasformato l’acqua diventando arbitro dell’evoluzione della vita?
A cosa pensi tu cittadino del mondo che sogni la dignità dell’uomo?
A cosa pensi tu legislatore che sogni la saggezza?
A cosa pensi tu, come me, che sei chiamato a giudicare e sogni la giustizia?
Non so se questi interrogativi corrispondano all’esercizio spirituale meditativo vagheggiato da Bodei.
Sono consapevole che con essi ho fatto rimbalzare le domande, ma esse, nel loro protendersi all’infinito partecipano di quel gioco del dialogo con il quale si tesse la tela della sapienza.
E se fosse questo quello che Steinberg si aspettava dal lettore?
*Consigliere della Corte di Cassazione
Note:
1. J Steinberg, Dante e l’eccezione in questa Rivista;
2. J Steinberg, I miracoli costituzionali di Dante (Monarchia 2.4 and Inferno 8.9) in questa Rivista;
3. Così per Paolo Grossi (op. cit.,loc. cit.) la fine della modernità non significa ritorno all’esperienza medievale dalla quale la modernità è nata. In proposito P. Grossi, Il Diritto in una società che cambia. A colloquio con Orlando Rosselli, Bologna, 2018 pag. 55 arrivando ad identificare la storicità con la carnalità e l’esserci di Heidegger. In questo quadro ritengo utile richiamare la recente recensione di Mario Serio all’ultimo saggio di Paolo Grossi – in questa Rivista – Riflessioni su “Il diritto civile in Italia tra moderno e posmoderno-dal monismo legalistico al pluralismo giuridico” di Paolo Grossi, Grossi e Timoteo, sempre recensito da M. Serio su questa Rivista – Ancora oggi “history involves comparison” e viceversa. Marina Timoteo in dialogo con Paolo Grossi in “Grammatiche del diritto” ;
4. Sull’unità del tutto si veda N.Irti, L’uso giuridico della natura, Roma-Bari 2013, pag. 5; ed ivi un significativo richiamo al pensiero di Cassirer e sulla sua ansia, esule dalla Germania per l’avvenire, pag. 7;
5. Sui diversi percorsi di questi temi si vedano le approfondite riflessioni di M Cacciari – N.Irti, Elogio del diritto, La nave di Teseo, Milano, 2019;
6. Sul punto si vedano le stimolanti riflessioni di M.Cacciari-P.Prodi, Occidente senza utopia, Bologna, 2016;
7. La prospettiva che riguarda il futuro è esaminata da S.Cassese, Una volta il futuro era migliore, Solferino, Milano, 2021;
8. M. Cacciari, Il potere che frena, Milano, 2013, pag 126;
9. La dimensione del problema è colta da M. Heidegger che, nella sua conferenza del 1924 affronta la domanda sul tempo che sarà poi sviluppata Essere Tempo del 1927 avendo cura di avvertire che la sua trattazione non è teologica né filosofica. E non è filosofica “nella misura in cui non pretende di offrire una visione sistematica del tempo universalmente valida, la quale dovrebbe tornare ad interrogarci su quanto sta dietro al tempo e sulla sua connessione con le altre categorie” (Il concetto di tempo, Adelphi, Milano, 1989,pag 24);
10. “Il crescere della nostra conoscenza ha portato ad un lento sfaldarsi della nozione di tempo. Ma nel mondo senza tempo, nel quale le cose “accadono” ed è popolato da avvenimenti discordanti, deve comunque esserci qualcosa che dia poi origine al tempo che noi conosciamo, con il suo ordine, il passato diverso dal futuro, il dolce fluire. Il nostro tempo deve in qualche modo emergere intorno a noi per noi.” Così C.Rovelli, L’ordine del tempo, Milano, 2017,pag 16;
11. Sino a diventare, attraverso la tragedia l’alfabeto con il quale si sarebbe scritto in tutte le lingue e in tutte le epoche il conflitto fra coscienza individuale e ragione di Stato tra la legge morale e la legge positiva, tra la legge ancestrale e la legge della città, tra verità e giustizia. Così le profonde riflessioni di M. Cartabia, Edipo re, in M. Cartabia – L.Violante, Giustizia e Mito, Bologna, 2018, pag. 29 e ss;
12. È interessante rilevare come proprio nella sopra citata riflessione sul tempo Heidegger abbia osservato che “se si insiste a chiedere cos’è il tempo, non bisogna aggrapparsi affrettatamente ad una risposta (il tempo è questo e quell’altro) che dice sempre un “che cosa”. Ed è in quest’ottica ci dà un esempio come attraverso una analisi la domanda si trasformi e nel nostro caso diventi “chi è il tempo?” (Id Il concetto di tempo, citato pag. 50);
13. U. Galimberti, Il segreto della domanda, Milano, 2011, pag. 13 e seg.;
14. G.Rossi Riforma dell’impresa o riforma dello Stato ? in Riv. soc., 1976, pag 451;
15. L. Mengoni, Problema e sistema nella controversia sul metodo giuridico, in Jus, 1976, pag. 3 e seg.;
16. Anche su questo tema è utile meditare sulle diverse letture che ne fanno M. Cacciari - N. Irti, Elogio del diritto, op. cit.;
17. G. Zagrebelsky, il Diritto di Antigone e la legge di Creonte, in AA.V.V,, La legge sovrana, Milano 2006, pag. 21 e seg.);
18. “In quella solitudine, mossa solo dalle passioni dello spazio cosmico, iniziai il lavoro forse più grande e più puro del mio cuore ( …) e il fiume dello spirito, baciato dalla grazia eruppe così potente in me”. Così suggestivamente R.M. Rilke, Opera omnia, XXIV, a cura di Lucia Morro, editrice Morcelliana, Roma 2020, pag. 688 e seg.;
19. “Chi, si io gridassi, mi vedrebbe mai dalle sfere / degli angeli? / e se pure d’un tratto uno mi stringesse al suo cuore: perirei della sua forte esistenza. Poiché del terribile il bello / non è che il principio (…). Ogni angelo è tremendo”. Così l’inquietante ed affascinante incipit nella prima delle regie duinesi;
20. T.S. Eliot, Opere ( 1904-1939, Bompiani, Milano 2001 pag. 1231);
21. H.Kissinger, Ordine mondiale, Milano 2015, pag. 347;
22. “Le regole del sistema sono state promulgate, ma si sono dimostrate inefficaci in assenza di una imposizione attiva” è questo il giudizio critico di H Kissinger, op. cit. pag. 362;
23. N. Bobbio La democrazia ed il potere invisibile, ora in democrazia e segreto, Torino 2001 pag. 175;
24. V. Sorrentino, Il potere invisibile; il segreto e la menzogna nella politica contemporanea, Bari 2011;
25. R. Bodei, Dominio e sottomissione, Bologna, 2019 pag. 337;
26. H.Kissinger Ordine mondiale cit. pag. 363;
27. R. Calasso, L’innominabile attuale, Milano 2017 pag. 35;
28. R.Calasso op loc. cit.
29. R. Dottori – H.G. Gadamer, Un secolo di filosofia, La nave di Teseo 2019 pag. 21 e seguenti;
30. P. Curzio, Quasi saggi, Cacucci, 2017 pag. 17;
30bis. Mi riferisco alle profonde ed illuminanti riflessioni di E.Garin, La filosofia come sapere storico, ora in La terza Roma- Bari,2009 pag. 27 e seguenti;
31. Così con grande efficacia G. Rossi Perché filosofia, Ed. San Raffaele, Milano 2015,pag 15 e seg. Guardando nell’ottica suggerita da J. Berlin, l’evolversi dell’esperienza con una particolare attenzione, ignorata dal pensiero illuministico e rivolta al momento economico e ai rischi del capitalismo;
32. P.Grossi, Il diritto in una società che cambia, cit. pag. 85;
33. P.Grossi pag 113;
34. R. Calasso, L’innominabile attuale, cit., pag. 13;
35. M. Cacciari, Il lavoro dello spirito, Milano 2020, pag. 17 e seg.;
36. U. Beck, La metamorfosi del mondo, Bari-Roma 2016, pag. 3;
37. J. Le Goff Il tempo continuo della storia, Bari-Roma 2014, pag. 4;
38. U. Beck La metamorfosi del mondo op. cit., pag. 136;
39. P. Grossi, Il diritto in una società che cambia, cit., pag. 57. Ed è seguendo questa logica che l’autore può dire criticamente che il giusnaturalismo e l’illuminismo avevano ripugnanza per la fattualità di cui si intesse la vita degli uomini; il che diventava incomprensibile per la dimensione della storicità, giacché i fatti quotidiani- assai più che battaglie, trattati, rivoluzioni- costituiscono il momento genetico della storia ed il suo nucleo più riposto”( P.Grossi, L’invenzione del diritto, Roma –Bari 2017, pag. 11 e seg.);
40. P. Grossi, Il diritto in una società che cambia, cit. pag. 57;
41. S. Rodotà Vivere la democrazia, Bari- Roma 2018 pag. 40 e seg.;
42. B.L. Zekiyan, La dialettica fra valore e contingenza, La Citta del Sole 1997 pag. 132;
43. N. Irti, L’uso giuridico della natura, Bari-Roma 2013 pag. XV;
44. R.Bodei Dominio e sottomissione cit., pag. 316 e 297 ss.;
45. R.Bodei Dominio e sottomissione cit., pag. 316 e ss.;
46. M. Cacciari, Il potere che frena cit., pag. 124;
47. Su questo aspetto rimando alle dense riflessioni di G. Marramao, Potere e secolarizzazione, Roma 1983;
48. R. Musil, L’Europa moderna ( 1921),Bergamo 2015, pag 3;
49. Su questa forma di “umanesimo notturno” si veda A. Conte, Viandante del novecento, Thomas Mann in storia, Roma 2018;
50. Sul quale dialogo rimando ai saggi relativi in N. Irti, L’uso giuridici della natura, cit., pagg. 45-59;
51. N. Irti, Diritto e linguaggio nel discorso berlinese di Benedetto XVI, in L’uso giuridico della natura, cit., pag. 37 e ss.;
52. N. Irti, op. ult. cit., pag. 38;
53. N. Irti, op. ult. cit., pag. 38;
54. Sono queste le conclusioni di Benedetto XVI in N.Irti, op. cit., pag. 39;
55. N. Irti, op. ult. cit., pag. 38;
56. N.Irti, Umanesimo e tecnica, ora in L’uso giuridico della natura, cit., pag. 71 e ss.;
57. Da meditare su questo punto le riflessioni di S. Satta Il diritto, questo sconosciuto ( 1954), ora in Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova, 1968, pag. 62 e ss; sul pensiero di Capogrossi in questo senso mi richiamo alle suggestive considerazioni di S. Satta, Il giurista Capogrossi (1960), ora in Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., pag. 442; mi piace collegare il pensiero del filosofo alla visione storica del profeta in P. Prodi, Profezia, utopia e dissocrazia, in Cacciari-Prodi, Occidente senza utopie, Bologna, 2016, pag. 13;
58. N.Irti Umanesimo e tecnica, cit., pag. 90;
59. N.Irti Umanesimo e tecnica, cit., pag. 91;
60. Prospettiva questa che mi piace collegare alle illuminanti affermazioni di P. Grossi, Ritorno al diritto, Bari-Roma, 2016 parte seconda il quale “ il diritto, anche se nella vita quotidiana ci appare come norma, come imperativo, è invece essenzialmente ordinamento ( p. X);
61. Così la lapidaria sintesi di L. Wittgenstein,Tractatus logicus- philosophicus (1921),Torino,1998,pag 107;
62. R. Dahrendorf, Legge e ordine, Milano, 1991, pag. 133;
63. R. Dahrendorf, Legge e ordine cit. pag. 164;
64. Problema delicatissimo quello del carattere ordinato della creazione di istituzioni sui quali si veda ancora R. Dahrendorf, Legge e ordine, cit., pag. 134;
65. Fondamentale per la profondità degli orizzonti sui quali si muove la lettura di T. Ascarelli, introduzione a Problemi giuridici, Milano 1959 sulle quali invita il lettore a “ rendersi conto di indagini che non mettono capo affatto alle presentazione o difesa di questa o quella teoria dogmatica, ma che invece cercano di cogliere i procedimenti con i quali viene raggiunta una soluzione, gli elementi che concorrono in una formulazione interpretativa e le loro diverse relazioni (pag. VI);
66. R. Dahrendorf, Dopo la crisi, Roma Bari, 2015;
67. R. Dahrendorf, Dopo la crisi, cit., pag. 165;
68. Su questi processi, in una prospettiva che si accompagna alla storia delle idee, C.Fois, E rimetti a noi i nostri debiti… Il debito come problema delle società di oggi, in AA.VV, Giustizia e misericordia, Cleup, Padova, pag. 95 e ss.;
69. C.Fois, Il “giardiniere” di Pugliatti e la scienza giuridica nel tempo dell’economia, in Giur. Comm., 2006, I, pag. 321, ed ivi una riflessione sull’ingegneria costruttiva in un orizzonte dominante dall’impresa che investe tutti i piani della scienza giuridica;
70. Così in un’ottica di superamento delle astrattezze concettuali, B. Harcourt, L’illusione del libero mercato, Neri Pozza, 2021;
71. G.Rossi, il gioco delle regole, cit., pag. 37;
72. C. Schmitt, Stato, grande spazio, nomos ( 1916), Milano 2005;
73. M. Cacciari, il potere che frena, cit., pag. 89;
74. M. Cacciari, il potere che frena, cit., pag. 99;
75. G. Rossi, il gioco delle regole, cit., pag. 35 e ss.;
76. J.M. Keynes, Prosperità, Milano, 2019, pag. 24 e 86;
77. G. Rossi, il gioco delle regole, cit., pag. 111;
78.E. Severino, Il dito e la luna, Milano, 2021, pag. 82 e ss.;
79. M. Cacciari, La mente inquieta, Torino, 2019;
80. T. Ascarelli, Norma giuridica e realtà sociale, in Problemi giuridici, cit., pag. 1085;
81. G.Rossi, il gioco delle regole, cit., pag. 118;
82. P.Grossi, L’invenzione del diritto, Roma- Bari, 2017, pag. 3 e ss.;
83. G.Rossi, il gioco delle regole, cit., pag. 61;
84. M. Cacciari, il potere che frena, cit., pagg. 81-125;
85. N. Irti, Fine del diritto? in L’uso giuridico della natura, cit., pag. 97 e ss.;
86. N. Irti, Fine del diritto? in L’uso giuridico della natura, cit., pag. 100;
87. N. Irti, Fine del diritto? In L’uso giuridico della natura, cit., pag. 100;
88. S. Cassese, Territorio e potere, Bologna,2016 pag. 92;
89. Di grande interesse nella prospettiva della sovranità estera E. Cannizzaro, La sovranità oltre lo Stato, Bologna, 2020;
90. A. Catania, Effettività e modello normativo, Torino, 2013, pag. 174;
91. Così A. Catania, Diritto positivo e effettività, Editoriale scientifica Università Suor Orsola Benincasa, 2009, pag. 55, muovendo dalla necessità, in una prospettiva di interdipendenza planetaria di problematizzare la coppia di concetti effettività – normatività, considerata centrale del diritto positivo moderno;
92. M. Cacciari, L’arcipelago, Milano 1997, pag. 23;
93. In questa direzione di “ domande dissonanti” trovo stimolante il dialogo fra R. Conti e E. Cannizzaro che prende spunto dal citato La sovranità dello Stato, in questa Rivista – Ragionando sulla (recte, sulle) sovranità con Enzo Cannizzaro. Intervista di Roberto Conti a Enzo Cannizzaro ;
94. G. Zagrebelsky, Mai più senza maestri, Bologna, 2019 pag. 148;
95. U. Eco, Sulle spalle dei giganti, La Nave di teseo,2017, pag. 36;
96. T. Ascarelli, I problemi delle società anonime per azioni, in Riv. soc., 1956, pag. 311;
97. M. Cacciari, Grandezza e tramonto dell’utopia, in M. Cacciari- P. Prodi, Occidenti senza utopie, Bologna, 2016, pag. 125 e ss.;
98. L.Zekijan, la dialettica tra valore e contingenza, cit., pag. 135 e ivi alla nota nr. 80;
99. R. Bodei, Dominio e sottomissioni, cit pag 381;
100. R. Bodei, Dominio e sottomissioni, cit pag 387.
Ponti versus muri, o muri e ponti. 6) «Un muro d’oro puro, simile a terso cristallo»: una meditazione natalizia a margine di Giovanni, Apocalisse 21
di Tommaso Manzon
[Per conoscere e consultare tutti i contributi sviluppati sul tema,
si veda l'Editoriale]
Sommario: 1. Introduzione - 2. Muri e Ponti - 3. I confini cittadini - 4. Un ponte che unisce il cielo e la terra - 5. “Un muro d’oro puro, simile a terso cristallo” - 6. e il Natale?
1. Introduzione
Caro lettore, cara lettrice, ti avverto subito che dovrai portare un po’ di pazienza. Immagino che sarai arrivato/a qui condotto/a dal titolo, ma, come avrai presto modo di scoprire, non procederò immediatamente a svolgere il cuore del mio tema, bensì impiegherò qualche pagina a “preparare il terreno” con delle riflessioni che comunque spero non siano inutili. In ogni caso, tutto tende a degli auguri di Natale, che ti saranno immancabilmente rivolti al termine del presente testo. Il punto è come ci arriveremo, di che significato si saranno caricati quegli auguri; forse per te non sarà cambiato nulla, oppure forse sarà cambiato qualcosa. In ogni caso, come da richiesta editoriale, questa riflessione si muove a partire dal tema dei “muri e dei ponti”, di cosa sono gli uni, di cosa sono gli altri, di come essi si relazionano; probabilmente non vedi ancora che cosa connetta questo tema al titolo che leggi qui sopra. Pertanto – immaginando tu voglia scoprirlo – ti affido al testo senza alcun ulteriore indugio.
2. Muri e Ponti
Immaginiamo che a qualcuno di noi venga chiesto di fare delle libere associazioni a partire dalle parole “ponte” e “muro”. È molto probabile che il risultato sarebbero due liste di termini che hanno ben poco in comune tra di loro. Questo è per un verso alquanto logico, visto che, intuitivamente, un muro è qualcosa che ostacola e limita, mentre un ponte è qualcosa che collega, apre e conduce da qualche parte. Certo un muro può essere inteso come un sostegno o qualcosa a cui appoggiarsi, mentre un ponte può benissimo essere sbarrato, però è quasi certo che se chiedessimo a una persona di dirci a cosa “connette” quando sente queste due parole messe insieme, potremmo stare certi che il risultato sarebbe quello appena descritto. Allora quasi un po’ per vezzo mi chiedo e ti chiedo lettore/lettrice se non possiamo provare ad osservare questa coppia di termini in modo “obliquo”. Possiamo in altre parole pensare in un altro modo ai “ponti” e ai “muri” guardandoli da una prospettiva diversa? Più nello specifico, possiamo provare a ribaltare l’esito dell’esperimento mentale di cui si diceva poc’anzi giungendo magari ad un risultato poco intuitivo e di segno differente? Può un muro non essere il contrario di un ponte bensì essere un ponte? Può un muro essere qualcosa che collega o che ci conduce da qualche parte, pur non per questo rinunciando necessariamente a svolgere la sua funzione di schermo e di limite? Ma soprattutto, seppure potessimo condurre un percorso che porta a questo esito, che cosa ci insegnerebbe, quale sarebbe il guadagno netto per la nostra riflessione?
Da qui in avanti nelle prossime pagine proverò a fare qualche esempio che possa rendere ragione di questo paragrafo iniziale, forse un po’ bizzarro e convoluto. Diciamo subito però che un muro è un ponte nella misura in cui un muro mostra sempre qualcosa: in questo senso un muro conduce sempre da qualche parte e metaforicamente svolge il compito di dirci qualcosa su ciò che sta da questa parte del muro e ciò che sta dall’altra parte del muro. In questo modo il muro, pur in qualche modo distinguendo gli ambiti e per questo impedendo i contatti tra le due regioni che vi si affiancano, svolge la funzione di ponte e le collega. Facciamo qualche esempio, cominciando con qualcosa di estremamente semplice. In questo momento sto scrivendo al computer seduto sul divano di casa mia: alzo lo sguardo e di fronte ho la parete dell’appartamento che condivido con mia moglie e con due gatti; il muro dice casa, il suo colore caldo inscurito dal sole che cala mi suggerisce qualcosa che ha a che fare con l’essere protetto, curato, quasi qualcosa di materno. L’effetto è rinforzato dalle fotografie, dalle piante, dai libri che vedo infilati in uno scomparto sotto una vetrina attraverso dei quali si intravedono delle scatole di pasta e una confezione di pellicola. Oltre questo muro, sono fuori di casa mia e guardandolo io percepisco la presenza implicita dell’esterno. Questo non è necessariamente qualcosa di minaccioso – per me non lo è – ma so che ovviamente fuori di questo luogo valgono regole diverse, che non mi posso comportare come a casa mia, etc., etc. . Potremmo ovviamente ripetere l’esperimento con i muri di altre stanze e otterremmo ogni volta un risultato differente, una diversa percezione, una diversa tonalità emotiva e costellazione concettuale che è contenuto e forma di quanto viene evocato ed esperito anche grazie a questo muro.
Se uscissimo di casa (o dal nostro ufficio) e facessimo una passeggiata per la città in cui viviamo vedremmo ovviamente una serie di muri. Alcuni di questi muri comunicano un messaggio alquanto esplicito – svolgono apertamente la loro funzione di ponti – nella misura in cui sono stati adibiti o addirittura eretti per svolgere questa funzione. Nello specifico vorrei soffermarmi sugli spazi pubblicitari: molti muri nelle nostre città sono superfici specificamente dedicate alla pubblicità, oppure per l’appunto sono stati eretti (pensiamo ai cartelloni) con lo scopo precipuo di mostrare una pubblicità. La pubblicità ha lo scopo, a fine di lucro chiaramente, di proiettarci in un mondo di fantasie, che catturino la nostra attenzione e ci portino a desiderare quanto viene pubblicizzato. Questo a volte può avere degli effetti estremamente molesti. Per esempio, vicino alla stazione dei treni di Pordenone – mia città natale – si trova una curva, sopra la quale si trova un cartellone pubblicitario, un rettangolo orizzontale, che tradizionalmente è comprato da una nota marca di biancheria intima femminile. Tradotto: metri quadri di immagini di modelle semi-nude, scosciate e adeguatamente foto-shoppate. Ricordo ancora il giorno in cui il professore di italiano del liceo ci raccontò – ridendosela – che aveva appena letto sul giornale un articolo in cui si sosteneva che, sulla base di accurate ricerche, era risultato che su quella curva si verificava un numero sproporzionato di incidenti automobilistici – causa apparente l’insufficiente attenzione data alla guida da parte degli autisti. Questo spero valga come esempio “grafico” del potere dei muri, adeguatamente addobbati, di costruire dei ponti tra un al di qua e un al di là, e della loro capacità di catturare la nostra attenzione e immaginazione in modo estremamente potente.
Un esempio più serio di questa dinamica si può evincere da qualcosa che mi è capitato di osservare di recente. L’ultima moda in fatto di pubblicità a Milano è quella di produrre delle réclames in forma di murales – cosa di per sé anche apprezzabile devo dire, dato che “sbattono” molto meno l’occhio e in genere sono disegnati con una buona perizia artistica. In una via nei pressi di Porta Garibaldi si può osservare la fiancata di un edificio di fatto appaltata ormai da diverso tempo a una singola azienda di moda, sicché, ciclicamente, il murales di turno viene cancellato, ridisegnato, e uno nuovo ne prende il posto. Circa un mese fa stavo percorrendo a piedi questo spazio urbano e, alzato lo sguardo vidi per l’appunto il murales di turno. Esso consisteva in una rappresentazione pittorica di quattro modelli – in realtà una band “rock” che fa furore in questi ultimi, sciagurati, tempi – che ovviamente indossavano i prodotti dell’azienda. Uno dei quattro era ritratto in piedi, con un libro in mano; aguzzando la vista si poteva leggere il titolo in copertina: “Walter Benjamin: l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. Verso quale mondo ci porta questo muro/ponte, rappresentante un mix di cultura “alta” e “pop” con tanto di un’opera di un noto anti-capitalista messa al servizio del glamour di una molto più nota azienda di moda?
3. I confini cittadini
L’ultimo passaggio su Milano ed i suoi volti ci porta ad allargare il livello dello sguardo. Se un muro può essere un ponte non lo fa solo rispetto al contenuto suo proprio, ma anche rispetto al suo contesto: cioè, la pubblicità murales di cui sopra non ci porta solo verso un immaginario e un messaggio che dovrebbero condurci a comprare vestiti e occhiali di una certa azienda, bensì, ci dice anche qualcosa sul luogo in cui si trova – ci dice qualcosa su Milano, ci proietta come un ponte verso il cuore della città che esprime sé stessa mostrandoci una delle espressioni della sua vita. Come ogni città moderna, anche la capitale lombarda ha lo scopo e la natura di essere un luogo di pubblicità commerciale, questo perché, tra le altre cose che una città analoga fa ed è, essa è un luogo permeato da un certo regime economico e culturale che coinvolge la produzione di pubblicità, etc., etc.. Quindi il murale di cui sopra, se fatto oggetto di contemplazione e riflessione, ci mette in cammino verso un certo mondo dello spirito umano che si esprime, tra gli altri modi, tramite la pubblicità commerciale e che permea un certo spazio geografico che include Milano.
Due rapidi esempi alternativi per fissare meglio il punto: 1) un amico di recente mi raccontava di una sua visita a Cuba, luogo di nascita e di residenza della futura moglie, e mi diceva che la cosa più strana della sua visita era che a Cuba – o perlomeno nei contesti in cui si era trovato lui – non c’è la pubblicità. Roba da non crederci, letteralmente. Beninteso, questo lo scrivo da non-fan dei socialismi reali; mi serve solo per indicare l’esempio contrario a quello appena fatto: in una città dove non c’è la pubblicità ci troviamo, evidentemente, in presenza di un mondo dello spirito umano che differisce da quello imperante a Milano. 2) Altro termine di paragone, forse un po’ impietoso, sono i muri dipinti dell’urbe di cui Tommaso Campanella parla nell’opera utopica La Città del Sole, laddove le pareti di questo luogo sono come un libro aperto che mostrano e insegnano i contenuti delle diverse scienze, nonché delle dottrine religiose alla base del progetto teo-politico campanelliano.
Arrivando al punto, spostiamo una terza e ultima volta il luogo di questa riflessione su come un muro possa essere un ponte. In primis l’abbiamo proposta all’interno delle mura domestiche, poi l’abbiamo proposta in merito alle mura infra-cittadine, infine rivolgiamoci ora alle mura che circondano la città. Questo è ovviamente un concetto che in un’epoca come la nostra può risultare un po’ sfuggente, a meno che, ovviamente, non si viva a Lucca o in qualche altro luogo in cui la cinta muraria sia stata preservata. Sta di fatto che nella tarda modernità sappiamo e osserviamo come le mura cittadine siano state normalmente e in buona parte abbattute; ciò è avvenuto per una serie di motivi, ma in generale esse sembravano aver esaurito la loro funzione difensiva e costituivano semmai un impedimento all’espansione urbana dei centri abitati. Ora stiamo forse vedendo un’inversione del trend, sicché scopriamo che le buone vecchie barriere fisiche verticali in fondo hanno un loro senso. Del resto, se non si dispone di un lanciarazzi, un carro-armato, un elicottero, o quantomeno una buona scala, non è mica semplice passare oltre un muro di cemento – per quanto esso possa sembrare un dispositivo antiquato. In effetti da cittadini europei potremmo riflettere su come il futuro a breve e medio termine della nostra compagine sociale sembri essere definito almeno in parte dai muri. Muri che non dicono solo qualcosa a quelli che stanno al di là di essi (“voi siete fuori”), ma che dicono a questi ultimi qualcosa di quelli che stanno al di qua dei muri (“loro sono dentro e vi vogliono fuori”).
Infine, questi muri possono dire qualcosa di coloro che stanno all’interno di essi su coloro che stanno all’interno di essi – e cioè su loro/noi stessi. In altri termini, come nel caso dei muri di casa mia, anche un muro al confine tra la Polonia e la Bielorussia dice qualcosa su chi sta ad Ovest di esso – e ovviamente non mi riferisco esclusivamente ai polacchi, che da questo punto di vista agiscono solo come parte di un insieme. Io guardo l’interno dei muri di casa mia e mi riconosco come occupante e abitante della casa; Romolo, dopo aver tracciato il solco su cui sarebbero sorte le mura di Roma, le guardava pensandosi come il re della città che sarebbe sorta e già vedeva nel fratello Remo una minaccia. Quando guardiamo al confine orientale dell’impero, con le legioni di Frontex schierate a protezione del limes, che cosa vediamo di noi?
4. Un ponte che unisce il cielo e la terra
Come le città e gli imperi, anche le dimore del divino hanno le loro mura e i loro accessi che collegano questo mondo a quelli trascendenti. Per esempio, secondo la mitologia norrena esiste un ponte, il Bifrost, che unisce la terra con il cielo – Midgard, la dimora degli esseri umani, con Asgard, la dimora delle divinità Aesir che ci osservano dall’alto. Il Bifrost è rappresentato come un arcobaleno bruciante, che s’innalza in spazi stellari fino al suo termine, laddove si erge il castello di Himinbjörg, abitazione del dio Heimdall, il guardiano della soglia che tiene sorvegliato il confine della porta degli dèi. Secondo le saghe, negli ultimi giorni, al che si allunga l’ombra del Ragnarök – “il fato degli dèi” – i figli di Muspell, i giganti del fuoco che abitano questo reame di combustione e distruzione, marceranno fino ad Asgard guidati dal gigante Surtr (il cui nome significa “l’Oscuro”); l’arcobaleno crollerà disperdendosi in mille pezzi sotto il peso del loro incedere. I giganti combatteranno con gli dèi dentro la loro casa e prevarranno: alla fine, avendo conquistato la cima del cielo, Surtr userà la sua spada di fuoco per incendiare l’intero universo. La vita umana in qualche modo sopravviverà a questa catastrofe, ma dovrà in ripartire da capo, senza peraltro una garanzia che, in un tempo lontano, una nuova catastrofe non si porti via i nuovi dei e la nuova civiltà che si saranno nel frattempo sviluppati.
Proviamo a riflettere un momento su questa storia utilizzando gli elementi che sono stati sviluppati nelle sezioni precedenti. Anche qui abbiamo un ponte e abbiamo un muro: da un lato il Bifrost, che tiene aperti i collegamenti tra cielo e terra e dall’altro le mura di Himinbjörg che segnalano e bloccano l’ingresso al mondo degli dèi. Anche in questo caso è facile ribaltare una figura nell’altra: il Bifrost è un muro perché esso pur invitando ad un movimento ascendente – per entrare nel regno degli dei bisogna che noi saliamo il ponte – esso è allo stesso tempo sorvegliato e quindi può chiudersi qualora l’accesso di qualcuno in particolare non sia gradito; ma allo stesso modo Himinbjörg è anche un ponte, perché, come in qualche modo fanno i murales di Milano, ci mostra la punta avanzata del mondo degli dei e quindi comunica che noi che stiamo da questa parte siamo i mortali – che però, chissà, possono anche ambire a visitare questo regno fantastico.
Cito questi racconti leggendari perché ho l’impressione che molti di noi oggi vivano irriflessivamente all’interno di queste storie. Non nel senso che la nostra società sia popolata da seguaci di Thor e di Odino – sebbene nel variegato panorama attuale nemmeno quelli manchino del tutto – bensì che sia in verticale sia in orizzontale noi ci concepiamo come se vivessimo all’interno di una storia che, nei suoi aspetti fondamentali, si presenta come queste saghe nordiche che ho qui rapidamente ricordato. In verticale, perché ci pare che il cielo sia chiuso e che il Bifrost si sia parzialmente già frantumato: magari i giganti di fuoco non hanno ancora concluso il loro lavoro – il fuoco cosmico non ci ha ancora consumato – ma probabilmente stanno già battagliando con gli Aesir; di sicuro hanno già percorso parte del loro tragitto e la loro marcia ci ha già lasciato alle spalle. I cieli sono diventati imperscrutabili per noi, perché l’estremità del Bifrost che ci tocca si è già frantumata; quanto, se qualcosa, rimanga del ponte di arcobaleno non ci è dato saperlo e comunque, interrotte le comunicazioni, ci è impossibile sapere che cosa succeda lassù e quanto tempo ancora manchi prima dell’immancabile catastrofe – l’unica cosa a noi nota è che essa è in cammino verso di noi. In orizzontale, perché forse siamo noi gli dèi in decadenza: in qualche modo la nostra sorveglianza di ciò che stava alla nostra porta è stata elusa, ed ora l’oscurità, la morte, il conflitto sono alla nostra porta e si stringono intorno a noi, anzi, hanno già messo un piede dentro Asgard e c’è chi dice che la santa dimora di Valhalla – luogo di feste e riposo – sia già stata violata.
Come e in che misura queste due visioni che s’intrecciano, l’una di un cielo chiuso e probabilmente in piena devastazione, l’altra di un orizzonte che si fa sempre più cupo e che si chiude su di noi, siano effettivamente una buona descrizione della situazione reale o perlomeno di come noi la percepiamo, lo lascio alla riflessione del lettore/lettrice. Per canto mio, ho la forte impressione che molte delle nostre narrazioni e sensazioni si collochino di fatto all’interno di qualcosa di molto simile a questo mondo di immagini; ora, vi dirò la sincera verità: credo che questa storia sia una pessima storia. Sicuramente la saga degli Aesir è avvincente ed è stata fonte di ispirazione per tanta buona musica ed altrettanti libri ed opere d’arte di ogni genere; ciò detto, lo ripeto, è una brutta storia, per un fatto molto semplice: il suo orizzonte termina con la distruzione. Certo, c’è la rinascita, ma la morte, il disastro è ciò che in questa leggenda mette in prospettiva tutto il resto; vivere in questo mondo significa essere definiti più dalla morte che dalla vita e, se veramente ci stiamo dentro e decidiamo che questa storia è in fondo una brutta storia, allora forse ne dovremmo trovare una migliore.
5. “Un muro d’oro puro, simile a terso cristallo”
Da qui in avanti cercherò quindi di raccontare una storia diversa, finalmente tenendo fede al titolo di questo breve scritto. Qual è l’opposto di Himinbjörg e di Bifrost? Dunque, se Himinbjörg è letteralmente “la cima del cielo” – questo è il significato del suo nome – bisogna che il suo opposto sia la medesima cosa di segno però inverso: una cima del cielo che stia in terra, che scende da noi, mentre prima eravamo noi a dover salire ad essa. In questa immagine non c’è un Bifrost, se non come coda lasciata dalla traccia della cima che scende, come se una meteora che si dirigesse verso il suolo terrestre si lasciasse alle spalle il segno del suo passaggio indicandoci il luogo del suo atterraggio.
Scrive Giovanni nell’Apocalisse che porta il suo nome:
«Poi venne uno dei sette angeli […] egli mi trasportò in spirito su una grande e alta montagna, e mi mostrò la santa città, Gerusalemme, che scendeva dal cielo da presso Dio, con la gloria di Dio. Il suo splendore era simile a quello di una pietra preziosissima, come una pietra di diaspro cristallino» (Ap. 21:9-11).
Qui al veggente viene concesso di vedere qualcosa che accadrà pienamente solo al termine della storia, ma che già esiste tra noi, come vedremo tra poco: Gerusalemme – quella celeste, la “città del Dio vivente” (Ebr. 12:22) di cui quella terrena è un riflesso (cfr. Ga. 4:24-26, ma l’intero concetto di una Gerusalemme celeste emerge dal patrimonio ebraico e vetero-testamentario ed è ben attestato in esso) – scende tra di noi avvolta dalla gloria di Dio. A questo proposito, vale la pena di citare anche un altro passo estratto dal medesimo testo, allorché Giovanni descrive Dio seduto sul suo trono nei cieli: «Colui che stava seduto era simile nell'aspetto alla pietra di diaspro e di sardonico; e intorno al trono c'era un arcobaleno che, a vederlo, era simile allo smeraldo» (Ap. 4:3). Dunque, Dio che esprime la sua gloria seduto sul suo trono è circondato da un arcobaleno smeraldino; ergo, possiamo immaginarci questa città che scende dal cielo circondata dalla gloria di Dio e avvolta allo stesso tempo da un arcobaleno che essa si lascia alle spalle. Non siamo più noi a dover risalire l’arcobaleno sperando che Heimdall ci dia l’accesso – operazione che peraltro i giganti di Muspell sembrano aver reso impossibile – ma in questo caso sono il Valhalla e Himinbjörg – il luogo del riposo e la cima del cielo – che scendono con e lungo l’arcobaleno (già mostrato come segno del patto di pace tra Dio e l’uomo alla fine del racconto noachitico di Genesi 9-10) per essere tra di noi e non vi è traccia di giganti e di spade di fuoco che incendiano la volta celeste in questa città, poiché in essa «non vi sarà più nulla di maledetto» (Ap. 22: 3) ed essa sarà «il tabernacolo di Dio con gli uomini» dove «Egli abiterà con loro” ed “asciugherà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap. 21:4).
Per due volte nei passi apocalittici che abbiamo citato troviamo la menzione del diaspro: simile al diaspro è lo splendore della Gerusalemme celeste, simile al diaspro è l’aspetto di Dio stesso. Giovanni rincara la dose dicendoci che «le mura erano costruite con diaspro e la città era d’oro puro, simile a terso cristallo» (Ap. 21:18). Il diaspro è un quarzo di colore vivace e acceso, ma normalmente opaco. Vediamo come però Giovanni in Ap. 21:11 parli di un “diaspro cristallino” che quindi siamo invitati ad immaginarci come trasparente; allo stesso modo ci viene detto che di diaspro sono le mura e che la città è d’oro puro, ma anche in questo caso essa è simile al terso cristallo. L’insieme di tutto ciò ci dà l’idea di una città splendente di una luce ora descritta come dorata, ora descritta come variopinta (cfr. Ap. 21:19 e seguenti), e che è accesa da una luminosità che è insieme una e molteplice, ma che in definitiva non le viene da sé stessa bensì da un’altra fonte. Questa fonte è per l’appunto Dio stesso e la sua gloria, sceso in terra con la sua città per dimorare tra noi: «La città non ha bisogno di sole, né di luna che la illuminino, perché la gloria di Dio la illumina e l’Agnello è la sua lampada» (Ap. 21:23).
Quindi: in questa storia il ponte/muro viene invertito in un muro/ponte, perché la discesa delle mura gerosolimitane ci mostrano il collegamento aperto e percorso da Dio per raggiungerci e non quello che noi dobbiamo percorrere – ammesso e non concesso che ciò sia possibile – per innalzarci a lui; qui si parla della vicinanza con Dio, non della sua distanza. In secondo luogo, la visione della Gerusalemme celeste ci parla di mura di una città che sono un ponte, un accesso, per un luogo che a sua volta è un accesso alla stessa persona di Dio, il consolatore. Essa stessa nella sua struttura (che va ben oltre i dettagli frammentari qui riportati) è un invito teso a inverare ciò che scrive il veggente: «essi saranno i suoi popoli […] le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra vi porteranno la loro gloria» (Ap. 21:3,24).
Chiaramente tutto ciò è visto da Giovanni secondo una previsione di tempi futuri: la Gerusalemme celeste è ancora nella sua sede in attesa della pienezza dei tempi; l’oscurità abita ancora in questo mondo e svolge i suoi traffici apparentemente indisturbata, convinta di aver chiuso tutte le vie di fuga e di accesso, di aver fatto esplodere i ponti della luce e aver eretto ovunque muri di tenebra. Il punto è però che la visione di Giovanni pone il termine di una storia che non è lo stesso termine che vediamo nella figura di Surtr, che stagliandosi sovrano su ogni cosa dopo aver spodestato Odino (detto “allvater”, “padre di ogni cosa”) si dedica alla sua gioiosa opera di distruzione. Qui invece vediamo una prospettiva dove è alla fine la vita, nonostante la morte, a prevalere, una prospettiva che Surtr e i figli di Muspell devono temere, perché prima della discesa della Gerusalemme Celeste essi saranno gettati in uno stagno di fuoco e zolfo e il fuoco cosmico non sarà la distruzione del creato, bensì il segno e lo strumento del loro giudizio (Cf. Ap. 20:7-10).
All’interno storia dei norreni ci può essere ottimismo, se con questa parola comprendiamo un’attitudine negazionista verso il male che fa festa nel Valhalla mentre i giganti incedono, oppure che si ostina ad ignorare gli avvertimenti di Heimdall che suona l’allarme; l’ottimista così inteso spera che alla fine in qualche modo i problemi si risolvano da soli o che comunque passino senza toccarlo. Eppure, sotto la superficie della sua coscienza l’ottimista sa che il suo destino è segnato e che non c’è scampo, che alla fine la morte verrà anche per lui e per tutto il suo mondo. Se ci sarà un altro mondo dopo questo, lui non lo vedrà di certo e quanto esiste in questo mondo non esisterà comunque nel prossimo, se non in maniera flebile, come una distante memoria di ciò che fu. Inoltre, nulla promette che anche il nuovo mondo non sia minacciato da un nuovo Surtr; in fondo, chi può dire il contrario?
Nella storia del veggente Giovanni invece non c’è spazio per questo tipo di attitudine; l’Apocalisse passa più tempo a parlare del male delineandolo con gran cura e realismo, che se non a concentrarsi sul bene e sulla sua natura. È però questo secondo elemento che è sovrano e mette in prospettiva il primo. Questa configurazione impedisce l’ottimismo – perché il male è messo in primo piano e non nascosto – ma dà ragione di speranza e la speranza è una postura bellicosa: essa non è acquiescente come il beato ottimismo di chi si tappa le orecchie alzando il livello del volume delle casse. La speranza invece è una postura bellicosa e belligerante, perché vede l’oscurità e ne percepisce l’incedere soffocante, ma, siccome ha visto una luce accesa in mezzo al buio, si rifiuta – in maniera risolutamente ostile – di credere che all’oscurità sarà concesso di avere l’ultima parola e che invece sarà proprio quella luce, che ora magari sembra piccola e poca cosa, che è infine destinata ad accendere di gloria ogni cosa.
6. e il Natale?
Ok, ma il Natale che cosa c’entra? Beh, il primo Natale è un episodio cardine della storia del veggente Giovanni, perché, come si è già scritto, è l’Agnello che è la lampada della gloria di Dio – il contenitore e rifrattore della luce del fuoco che accenderà la Gerusalemme celeste e che cancellerà la notte. Questo Agnello – chi legge ci sarà già arrivato – è lo stesso di cui è stato detto che “toglie l’hamartian [lit. mancare il bersaglio, per estensione “prendere una strada sbagliata”] del mondo”, perché ci conduce di nuovo sulla strada e sul ponte giusto, non quello che porta al muro dell’oscurità, bensì quello che, a partire dalla luce di cui l’Agnello stesso è la lampada/muro-trasparente, ci collega al cuore di Dio. Leggiamo del resto come al termine del noto prologo del quarto Vangelo, Giovanni scriva «la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre». La gloria: Gesù di Nazareth è l’essenza, l’avanguardia e l’anticipo di quella stessa gloria che infine apparirà nella sua maestà, avvolgendo ogni cosa a partire dalla Gerusalemme celeste. Come lui stesso dice di sé stesso, egli è «la luce del mondo» (Giov. 8:12) che «splende nelle tenebre» e che da esse non è stata sopraffatta (Giov. 1:5).
Sebbene la Parola abbia abitato tra noi (lit. «abbia piantato la tenda») solo per un tempo – e qui possiamo soltanto indicare per motivi di spazio il dramma pasquale, perché il Natale senza la Pasqua rimane incomprensibile – egli ha lasciato dietro di sé lo Spirito, il Consolatore che viene dal Padre, che è lo Spirito della Verità che testimonia di Gesù (Giov. 15:26), rendendocelo presente e tenendo accesa nelle tenebre la sua luce, tanto ora come in Israele due millenni addietro – come recita l’inno evangelico, “Thank you oh my Father, for giving us your Son, and leaving your Spirit, 'til the work on earth is done”. Insomma, il ponte è ancora qui, davanti ai nostri occhi, rendendo già attuale – in modo parziale e confuso, ma non per questo meno vero – ciò che al tempo giusto ci raggiungerà dall’altra estremità del passaggio. E qui, potremmo dire che il Natale si sdoppia e con esso anche l’augurio di “buon Natale” che possiamo rivolgere al nostro prossimo. Perché il Natale può essere una festa delle luci, della gioia effimera e dello spreco, una manifestazione del Valhalla che festeggia e che tiene acceso il proprio bagliore e la propria vitalità fintanto che essa dura e fintanto che è possibile tenerlo acceso; oppure il Natale può essere la memoria vivente di quella fredda notte invernale in cui, come un lampo di ciò che è, ma che ancora dev’essere, pastori raccolti intorno a una mangiatoia hanno visto i cieli accendersi della gloria della città di Dio. Se questo è il Natale, allora esso è un raccogliersi intorno a una luce che illumina e che sta accesa di per sé, ed è un radunarsi intorno a un fuoco che scalda e che brucia spontaneamente con vita propria.
Insomma, come a partire da questa coppia – muri e ponti – abbiamo tratteggiato due storie diverse, così abbiamo trovato al Natale due diversi spazi da occupare in ciascuna di queste due storie. Sono di fatto due feste diverse, che convivono assieme, ma si escludono a vicenda. Come ogni buona festa, ciascuna si accompagna con una musica e quindi entrambe le versioni del Natale hanno un loro sound. Il sound della seconda versione di questo Natale, quello che interessa al veggente Giovanni si esprime bene con queste parole (purtroppo la musica qui non ve la posso fare sentire, ma credo che molti di voi la conoscano già):
“Venite, venite in Bethlehem. Natum videte regem angelorum […] Aeterni Parentis splendorem aeternum, velatum sub carne videbimus […] pro nobis egenum et foeno cubantem, piis foveamus amplexibus. Sic nos amantem quis non redamaret?”
Ed allora buon Natale a tutte e tutti: Gloria a Dio nei luoghi altissimi, pace in terra agli uomini di buona volontà.
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