ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’insostenibile sostenibilità. Perduranti incertezze nella disciplina della realizzazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili (nota a Cons. Stato, Sez. II, 3 novembre 2021, n. 7357).
di Marco Calabrò e Laura Pergolizzi*
Sommario: 1. La vicenda. – 2. Il necessario bilanciamento tra l’attuazione di procedure semplificate ed il rispetto delle prescrizioni urbanistiche. – 3. L’incerta portata applicativa dei Piani regionali per la individuazione dei siti non idonei. - 4. Esigenze di chiarezza regolativa e di uniformità nella qualificazione degli interventi di realizzazione di impianti FER. – 5. Conclusioni. Il processo di transizione energetica richiede certezza sul “cosa” e sul “come”.
1. La vicenda
La vicenda trae origine da una Procedura Abilitativa Semplificata (PAS) presentata dal proprietario di un’azienda agricola e da due società costruttrici per la sostituzione di un impianto termico alimentato a olio combustibile con quattro impianti a biomassa, da realizzarsi su un terreno ricadente in una sottozona denominata FAC1. In relazione a tale tipologia di area il Regolamento urbanistico comunale disponeva che per la realizzazione di interventi di nuova edificazione sarebbe stata necessaria la preventiva approvazione di un accordo di pianificazione tra Regione, Provincia e Comune, mentre gli edifici già compresi all’interno dell’area avrebbero potuto essere interessati esclusivamente da interventi di manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria e restauro conservativo.
La richiesta di PAS veniva presentata sul presupposto di ammissibilità dell’intervento, che i privati ritenevano sussistere sulla base dell’applicazione di una norma del Regolamento edilizio comunale che qualifica come intervento di manutenzione straordinaria “l’installazione di impianti relativi alle fonti rinnovabili di energia”. Dalla ricostruzione della vicenda emerge che l’impianto in questione era stato concepito come funzionale alla produzione di calore ed energia termica per il riscaldamento e il funzionamento delle serre adiacenti al terreno - destinato ad essere oggetto di cessione del diritto di superficie da parte del proprietario dell’azienda agricola alle società costruttrici - sul quale lo stesso sarebbe stato realizzato, oltre che alla produzione di ulteriore energia elettrica da cedere a ENEL, sì da consentire all’azienda agricola di azzerare i costi per la produzione di calore e alle imprese costruttrici degli impianti, destinatarie dei contributi statali previsti, di recuperare gli investimenti effettuati e conseguire un profitto.
All’esito della conferenza di servizi all’uopo convocata, il Comune ordinava di non procedere all’intervento, ritenendo che lo stesso non fosse riconducibile né assimilabile alla tipologia di intervento edilizio “manutenzione straordinaria”, nella misura in cui comportava una alterazione di volumi e superfici dell’unità immobiliare preesistente.
La decisione veniva impugnata, sulla base di diverse eccezioni, innanzi al T.A.R. Toscana, che tuttavia rigettava il ricorso nel merito, pur compensando le spese di giudizio. L’atto di appello da cui è originata, poi, la pronuncia in commento veniva essenzialmente affidato ai seguenti capi: a) erroneità della sentenza impugnata, nella parte in cui escludeva la riconducibilità dell’intervento alla categoria della manutenzione straordinaria, nonché la natura di mero volume tecnico dell’impianto da realizzare; b) erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui escludeva l’assentibilità dell’intervento in contrasto con quanto previsto dal D.M. 10 settembre 2010 (Linee guida per l’autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili), il cui art 17 prevede che la Regione proceda all’indicazione di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti, con conseguente presunzione di ammissibilità degli interventi nelle aree residue a prescindere dalla destinazione urbanistica e dai limiti previsti dalla regolazione locale.
Il Collegio giudicante respinge entrambi i motivi di impugnazione, confermando nel merito la sentenza di primo grado e condannando, altresì, la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio. In particolare, il Consiglio di Stato, nel motivare la propria decisione, sottolinea in primo luogo che presupposto indispensabile per l’assentibilità di un impianto a mezzo PAS è la compatibilità urbanistica ed edilizia dell’intervento, la cui verifica in concreto è demandata all’amministrazione comunale, titolare di poteri di controllo, inibitori e conformativi (eventualmente indicando le modifiche e integrazioni necessarie a rendere l’intervento proposto conforme alla normativa urbanistica ed edilizia), da esercitare nel termine di trenta giorni dalla data di ricezione della dichiarazione.
In tale contesto, prosegue il Collegio, il regolamento edilizio comunale non può rivestire “alcuna valenza costitutiva, nel senso di introdurre una nuova categoria di interventi di manutenzione straordinaria, distinta ed aggiuntiva a quelle contemplate dalla legge statale e regionale, ritenendo, invece, che essa assuma una più limitata funzione specificativa e chiarificatoria” quale “unica compatibile con la natura di fonte secondaria dell’atto in cui è contenuta”. Di conseguenza, la previsione regolamentare de qua non può essere interpretata nel senso di ammettere che la realizzazione di centrali alimentate a biomasse debba essere in ogni caso inclusa, ex se e a prescindere dalle caratteristiche strutturali, tra gli interventi realizzabili in regime di manutenzione straordinaria, perché ciò significherebbe “assegnare alla potestà regolamentare del comune una capacità derogatoria del d.p.r. 380/2001 che non può essere riconosciuta nemmeno al legislatore regionale”. Al contrario, siffatto intervento edilizio è configurabile come intervento di manutenzione straordinaria unicamente nell’ipotesi in cui esso “non alteri i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comporti modifiche delle destinazioni di uso”.
In relazione, poi, ad una ulteriore deduzione difensiva, secondo la quale la procedura di PAS, al pari dell’autorizzazione unica ex art 12 d.lgs. n. 387/2003, assorbirebbe e renderebbe superflua ogni valutazione relativa ai profili urbanistico-edilizi, il Collegio sottolinea come in tal senso si finisca per prospettare una “non consentita assimilazione tra PAS ed autorizzazione unica, nonché un’inversione logica tra presupposti ed effetti della PAS”, rilevando che solo l’autorizzazione unica può costituire, ove occorra, variante allo strumento urbanistico, ai sensi dell’art 12, comma 3, d.lgs. n. 387/2003[1]. Del resto, afferma il Collegio, sostenere che la PAS possa consentire l’intervento in deroga agli strumenti urbanistici sarebbe contraddittorio, perché è proprio la compatibilità urbanistico-edilizia del progetto a costituire il presupposto per la legittima realizzazione a mezzo di procedura semplificata.
Con riferimento al secondo motivo di ricorso, infine, il Collegio chiarisce che l’individuazione di siti non idonei alla realizzazione degli impianti da parte delle Regioni, sulla base della previsione dell’art. 17 d.m. 10.09.2010 cit., non ha l’effetto di determinare, in via automatica e presuntiva, la compatibilità urbanistica dell’intervento da realizzare nei siti esclusi dal piano regionale; la compatibilità urbanistica ed edilizia degli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, infatti, “sfugge a qualunque presunzione” e, in sede di procedura abilitativa semplificata deve essere “comprovata dai proponenti mediante relazione asseverata di un tecnico”.
2. Il necessario bilanciamento tra l’attuazione di procedure semplificate ed il rispetto delle prescrizioni urbanistiche
Quella della previsione di procedure semplificate è un’esigenza che “accompagna da tempo l’agire dell’amministrazione”[2], coinvolgendo in modo particolare il settore dell’edilizia: lo scopo dichiarato è quello di garantire l’effettiva riduzione di tempi e risorse, al fine di consentire il conseguimento di risultati (giuridici e pratici) secondo procedure più efficienti e veloci. D’altra parte, è chiaro che la prospettiva di semplificazione dei regimi amministrativi deve essere necessariamente bilanciata con il rispetto delle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi, e della disciplina urbanistico-edilizia in generale[3], in una prospettiva di perdurante garanzia della tutela dei molteplici interessi correlati alla salvaguardia del territorio[4].
Questo tipo di dialettica si mostra particolarmente stringente se si prendono in considerazione i profili giuridici che, in ambito urbanistico-edilizio, attengono alla realizzazione degli impianti alimentati da fonti energetiche rinnovabili[5]: l’esigenza di rafforzamento della prospettiva semplificatoria, in chiave acceleratoria, delle procedure amministrative di riferimento tende a declinarsi sul piano dell’esigenza di saldare un binomio tra “efficienza energetica” ed efficienza del “sistema dell’energia”[6]. Al riguardo, può osservarsi che la diffusione di tali tipologie di impianti, da un lato, è “rallentata” dalla persistenza di numerose barriere “burocratiche” ed “economiche”[7] che, sebbene in misura inferiore rispetto al passato, si registrano tutt’oggi persistenti, dall’altro, appare sempre più urgente, a fronte dell’emersione di significative esigenze di stampo ecologico a fronte delle quali si assistite ad una progressiva accelerazione del processo di transizione energetica mediante l’uso delle fonti energetiche rinnovabili.
L’implementazione di tale processo, tuttavia, non comporta l’inverarsi di un regime derogatorio eccezionale e – per quanto maggiormente rileva in questa sede – è indiscusso che l’accelerazione di questo tipo di interventi ha come presupposto imprescindibile la contestuale garanzia della compatibilità urbanistico edilizia degli stessi, da verificarsi caso per caso, in relazione alla fonte energetica rinnovabile di riferimento, ed alle caratteristiche del relativo impianto di produzione[8].
Il quadro normativo e regolatorio, offerto dal d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387 (“Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità”), dal D.M. 10 settembre 2010 (“Linee guida per l’autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili”) e dal D.lgs. 3 marzo 2011, n. 28 (“Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE”) - integrato alla luce dei numerosi ulteriori interventi normativi recentemente adottati, prevalentemente in funzione attuativa degli obiettivi fissati dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza[9] - delinea un sistema autorizzatorio unitario fondato sulla base di principi che “non tollerano eccezioni sull’intero territorio nazionale, in quanto espressione della competenza legislativa concorrente in materia di energia, di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione”[10], frutto anch’esso dell’esigenza di garanzia della logica del bilanciamento tra accelerazione dei tempi, mediante misure di semplificazione e razionalizzazione procedimentale, e tutela del territorio.
Ciò premesso, tra i procedimenti mediante i quali è possibile realizzare gli interventi de quibus si annoverano: l’Autorizzazione unica, di cui al combinato disposto dell’art. 12 del d.lgs. n. 387/2003 e dell’art. 5 del d.lgs. n. 28/2011 e s.m.i., la Procedura abilitativa semplificata e la Comunicazione relativa alle attività in edilizia libera, entrambi richiamati dall’art. 6 del d.lgs. n. 28/2011; la dichiarazione di inizio lavori asseverata (art. 6-bis, d.lgs. n. 28/2011).
L’Autorizzazione unica (AU) rappresenta il regime autorizzatorio necessario per la costruzione e l’esercizio di impianti di produzione di energia elettrica alimentata da fonti energetiche rinnovabili al di sopra di prefissate soglie di potenza e - a seguito dell’ampliamento del campo oggettivo di applicazione determinato dall’art. 56 del d.lgs. n. 76/2020 - anche per la realizzazione di interventi di modifica, potenziamento, rifacimento totale o parziale e riattivazione degli impianti, nonchè delle opere connesse, delle infrastrutture indispensabili alla costruzione e all’esercizio degli impianti stessi e degli interventi consistenti in demolizione di manufatti o in attività di ripristino ambientale. L’ampio ambito di applicazione riflette, evidentemente, il “fine esplicito di semplificare le procedure autorizzative e poter usufruire di una disciplina più favorevole alla effettiva diffusione dei predetti impianti”[11].
L’istituto in questione sostituisce a tutti gli effetti ogni autorizzazione, nulla osta o atto di assenso comunque denominato che sarebbe stato necessario secondo il normale ordine delle competenze, costituendo titolo a costruire e porre in esercizio l’impianto, le opere e le infrastrutture indispensabili in conformità alle regole dettate dall’ordinamento[12].
Sotto il profilo procedurale, l’autorizzazione unica è rilasciata dalla regione o dalla provincia a ciò delegata, ovvero, per impianti con potenza termica installata pari o superiore ai 300 MW, dal Ministero dello sviluppo economico, nel rispetto delle normative vigenti in materia di tutela dell’ambiente, di tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico. Un profilo di notevole rilievo – anche in merito alla pronuncia in commento – è rappresentato dalla circostanza che il provvedimento autorizzatorio può costituire, ove occorra, variante allo strumento urbanistico. A tal fine la Conferenza dei servizi è convocata dalla regione o dal Ministero dello sviluppo economico entro trenta giorni dal ricevimento della domanda di autorizzazione. Per gli impianti offshore e per gli impianti di accumulo idroelettrico attraverso pompaggio puro, infine, sono stati introdotti meccanismi procedurali specifici, i quali sono stati recentemente riformati ad opera del d.l. n. 17/2022, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 34/2022[13].
Ciò che connota nello specifico l’iter procedurale dell’autorizzazione unica è che essa è rilasciata a seguito di un “procedimento unico”, al quale sono chiamate a partecipare le diverse amministrazioni interessate, procedimento la cui durata non può essere superiore a novanta giorni, “al netto” dei tempi previsti dall’art. 26 del d.lgs. n. 152/2006 per il provvedimento di valutazione di impatto ambientale[14]. Si tratta, dunque, di un istituto complesso, volto a perseguire, al contempo, lo scopo della semplificazione procedimentale e la garanzia della maggiore efficacia e completezza dell’attività istruttoria, nel cui ambito le diverse e complesse valutazioni che la pubblica amministrazione è chiamata a svolgere sono integrate in un contesto procedimentale unitario. Come noto, tale logica è sostanzialmente applicata anche ad altri procedimenti semplificati, il cui modello di riferimento è rappresentato dall’Autorizzazione Integrata Ambientale di cui al Titolo III-bis del d.lgs. n. 152/2006[15].
La Procedura abilitativa semplificata, invece, introdotta dal legislatore del 2011 in sostituzione della DIA, concerne la realizzazione di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti energetiche rinnovabili al di sotto di prefissate soglie di potenza (oltre le quali si ricorre alla Autorizzazione unica), nonchè per alcune tipologie di impianti di produzione di caldo e freddo alimentate da fonti energetiche rinnovabili[16]. Il campo oggettivo di applicazione della procedura abilitativa semplificata è stato recentemente assoggettato ad un processo di ampliamento, intrapreso con il d.lgs. n. 199/2021 – il quale vi ha incluso le opere connesse e le infrastrutture necessarie alla costruzione e all’esercizio di alcune tipologie di impianti di produzione di biometano (art. 8-bis) e di elettrolizzatori (art. 38) – e poi proseguito ad opera del d.l. n. 17/2022, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 34/2022, il quale, ad esempio, vi ha incluso, a determinate condizioni, l’attività di realizzazione e di esercizio di alcune tipologie di impianti solari fotovoltaici flottanti (art. 9-ter), oltre ad aver disposto in funzione del riordino delle prescrizioni per le piccole utilizzazioni locali di calore geotermico ed alla definizione delle ipotesi in cui si applica la procedura abilitativa semplificata (art. 15).
Per quanto attiene ai profili di carattere procedurale, la PAS deve essere presentata al Comune almeno trenta giorni prima dell’effettivo inizio lavori, accompagnata da una dettagliata relazione, a firma di un progettista abilitato, e dagli opportuni elaborati progettuali, attestanti la compatibilità del progetto con gli strumenti urbanistici approvati e i regolamenti edilizi vigenti, la non contrarietà agli strumenti urbanistici adottati, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie. In coerenza con la qualificazione di attività liberalizzata, una volta trascorso il termine di trenta giorni dalla presentazione della PAS senza riscontri o notifiche da parte del Comune, l’attività di costruzione deve ritenersi assentita[17].
Descritti brevemente i caratteri (e le distinzioni) propri dei due modelli procedurali (AU e PAS), è possibile soffermarsi nel dettaglio sulle dinamiche della vicenda in esame. Come detto, i soggetti interessati hanno ritenuto di poter realizzare una serie di impianti a biomasse su un terreno ricadente in una zona con riferimento alla quale il regolamento urbanistico ammetteva la realizzazione di soli interventi di manutenzione straordinaria, invocando a tal scopo una norma del Regolamento edilizio comunale che qualificava proprio come manutenzione straordinaria “l’installazione di impianti relativi alle fonti rinnovabili di energia”, ritenendo di interpretare la stessa nel senso che nel territorio comunale fosse ammesso che le centrali alimentate a biomasse potessero essere considerate in ogni caso da includere, ex se e a prescindere dalle caratteristiche strutturali, tra gli interventi realizzabili in regime di manutenzione straordinaria, in deroga a quanto disposto dalla normativa regionale e statale di riferimento. Appare evidente l’errore nel quale il privato è incorso, aderendo ad una interpretazione non condivisibile della norma del regolamento edilizio comunale e della collocazione della stessa nell’ambito del sistema delle fonti. Come espressamente ricordato dal Collegio giudicante, infatti, essa non può rivestire “alcuna valenza costitutiva, nel senso di introdurre una nuova categoria di interventi di manutenzione straordinaria, distinta ed aggiuntiva a quelle contemplate dalla legge statale e regionale, ritenendo, invece, che essa assuma una “più limitata funzione specificativa e chiarificatoria”, quale “unica compatibile con la natura di fonte secondaria dell’atto in cui è contenuta”.
Non può tacersi, tuttavia, che, sotto il profilo letterale, la disposizione del regolamento edilizio non sembrava lasciare spazio alcuno all’interpretazione, laddove inquadrava nell’ambito della categoria degli interventi di manutenzione straordinaria qualsiasi installazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, senza specificare alcune distinzione di tipo funzionale o tipologico. Nella decisione in commento, in effetti, traspare una certa difficoltà del Collegio giudicante nell’individuazione della valenza da attribuire a tale previsione, tanto da limitarsi (lasciando intendere di non potere fare altro che limitarsi) a riconoscere alla stessa una funzione di tipo chiarificatorio.
A ben vedere, invero, è innegabile che i privati siano stati “indotti” in errore dall’amministrazione, autrice di una norma del regolamento edilizio che formalmente avrebbe dovuto avere un carattere chiarificatorio, ma che, nella sostanza, appare piuttosto ambigua e “sviante”. In tale ottica, nella vicenda esaminata potrebbe prospettarsi la sussistenza di una lesione del legittimo affidamento dei privati[18] e, di conseguenza – laddove sollecitato in tal senso – il Collegio avrebbe, forse, potuto raggiungere una conclusione diversa almeno con riferimento alla condanna alle spese del giudizio. In particolare, lungo la linea argomentativa proposta, ci si chiede se, l’emersione, in sede processuale, dell’avvenuta lesione del legittimo affidamento ad opera dell’amministrazione resistente avrebbe potuto integrare la sussistenza di una delle “altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”, che – secondo la prospettiva di cui alla ricostruzione offerta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 77/2018[19] con riferimento all’art. 92 c.p.c., richiamato dall’art. 26 c.p.a. – è idonea a giustificare la compensazione delle spese del giudizio[20].
Richiamando, poi, l’attenzione al capo della sentenza in commento che attiene al rapporto tra procedure semplificate e strumenti urbanistici, è di particolare interesse quell’impostazione argomentativa proposta dal Collegio volta a segnare una linea di demarcazione tra la procedura abilitativa semplificata e l’autorizzazione unica, sottolineando come, mentre nel primo caso l’ordinamento vigente richieda la piena compatibilità tra l’intervento e la normativa urbanistico-edilizia dell’area, nel secondo caso viene espressamente affermato che l’Autorizzazione unica può anche comportare una variante allo strumento urbanistico.
La tematica stimola una ulteriore riflessione di carattere eziologico, volta ad indagare la ragione che risiede alla base della sussistente distinzione di fondo e che sembra trovare una giustificazione nel fatto che, nella fattispecie dell’autorizzazione unica, la semplificazione è funzionale esclusivamente alla garanzia di tempi brevi ed al coordinamento tra amministrazioni, non comportando un “arretramento” della funzione, come invece avviene in caso di PAS, in relazione alla quale, configurandosi un modello procedimentale liberalizzato, l’esercizio della funzione non è collocato ex ante (sub specie di autorizzazione), bensì ex post (sub specie di controllo). Del resto, come già si è avuto modo di evidenziare, la semplificazione “estrema” della procedura abilitativa semplificata non può che giustificarsi unicamente a fronte della piena compatibilità tra l’intervento e la normativa urbanistico-edilizia di riferimento.
3. L’incerta portata applicativa dei Piani regionali per la individuazione dei siti non idonei
Meno esplicativo appare, invece, il passaggio della sentenza che si occupa della questione che attiene al ruolo del Piano per la individuazione dei siti non idonei nell’ambito della definizione dei criteri della localizzazione degli impianti alimentati da fonti energetiche rinnovabili. Al riguardo, il Collegio segue un iter argomentativo che, sulla base di una lettura di tipo teleologico della disciplina di cui al d.m. 10 settembre 2010, attribuisce al piano in questione non già la funzione di predeterminare l’idoneità – sul piano generale e a prescindere dalla compatibilità urbanistico-edilizia – di tutti i siti non esclusi, quanto, piuttosto, quella, più limitata, “di offrire agli operatori un quadro certo e chiaro di riferimento e orientamento per la localizzazione dei progetti”, allo scopo di negare, a valle di tale ragionamento, che lo stesso abbia l’effetto di determinare, in via automatica e presuntiva, la compatibilità urbanistica dell’intervento da realizzare nei siti non presenti nel piano regionale.
La questione di fondo è strettamente legata alla tematica che concerne il “margine” di intervento della regione nella sede di indicazione di aree e siti non idonei alla installazione degli impianti FER ad alle ricadute di tale indicazione sulla pianificazione urbanistico-edilizia. Sul punto è intervenuta in più occasioni la Corte costituzionale, osservando in primo luogo che l’inquadrabilità dell’art. 12 del d.lgs. n. 387/2003, e delle linee guida nell’alveo dei principi fondamentali della materia dell’energia, di competenza concorrente, “non permette che le Regioni prescrivano limiti generali, valevoli sull’intero territorio regionale”[21]. Inoltre, posto che alle “Linee guida” è attribuita la funzione di indicare “i criteri e i principi che le Regioni devono rispettare al fine di individuare le zone nelle quali non è possibile realizzare gli impianti alimentati da fonti di energia alternativa”, la Consulta chiarisce che le Regioni non possono porre limiti “in assoluto” all’installazione di impianti FER, bensì sono tenute alla “individuazione di puntuali aree non idonee alla installazione di specifiche tipologie di impianti secondo le modalità di cui all’allegato 3 (paragrafo 17) del d.m. del 2010”[22], atteso che la ratio del criterio residuale deve essere individuata nel “principio della massima diffusione delle fonti di energia rinnovabili, derivante dalla normativa europea”[23]. Tale individuazione, una volta effettuata alla luce dei principi che precedono, giustifica poi pienamente “il diniego di rilascio della autorizzazione, senza necessità di alcuna valutazione specifica del concreto impatto ambientale del costruendo impianto”[24].
Ciò posto, secondo l’approccio interpretativo cui sembra aderire la pronuncia in esame, la declaratoria di “non idoneità” in assoluto di un sito sembrerebbe essere funzionale unicamente ad individuare quelle aree per le quali non è in alcun modo ipotizzabile realizzare l’impianto[25]. Tuttavia, anche tale assunto non è scevro da possibili censure. Sul punto, infatti, deve in primo luogo segnalarsi come lo stesso dettato normativo appaia poco chiaro nella misura in cui, da un lato, esclude espressamente che l’individuazione delle aree e dei siti non idonei possa configurare un “divieto preliminare” (cfr. l’allegato 3 al d. m. 10 settembre 2010 cit.) e, dall’altro lato, sancisce che l’individuazione della non idoneità dell’area è operata attraverso l’identificazione di obiettivi di protezione “i quali determinerebbero, pertanto, una elevata probabilità di esito negativo delle valutazioni, in sede di autorizzazione”[26], non escludendo così, almeno apparentemente, una possibile verifica in concreto circa la fattibilità o meno dell’intervento anche in tali aree. A ciò deve aggiungersi come la giurisprudenza tenda a ritenere che le scelte regionali che confluiscono nel Piano per la individuazione dei siti non idonei – lungi dal configurare disposizioni a carattere conformativo – “suggeriscono possibilità alla pianificazione regionale e sono prive di carattere precettivo immediato per i terzi”[27].
Resta, dunque, “aperta” la questione su quale sia, in concreto, la funzione che residuerebbe in capo a tale tipologia di Piano. Ciò non toglie, naturalmente, che – al di fuori di quei siti considerati non idonei dal piano – permane l’esigenza di verificare caso per caso la compatibilità dell’intervento con tutti gli altri interessi pubblici coinvolti, primo fra tutti quello al razionale assetto urbano, nella prospettiva, tuttavia, secondo la quale le infrastrutture strumentali alla produzione di energia da fonti rinnovabili “sono ormai considerate elementi normali del paesaggio”[28].
Da ultimo – sebbene estraneo alla vicenda in esame – appare utile rinviare al recente d.lgs. n. 199/2021, il quale, oltre ad incidere sulla disciplina che concerne la procedura di individuazione delle aree “non idonee”, affianca alla stessa un nuovo meccanismo per l’individuazione delle superfici e le aree “idonee” all’installazione di impianti FER, in funzione dell’attuazione degli obiettivi del Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC). In particolare, ai sensi dell’art. 20 (Disciplina per l’individuazione di superfici e aree idonee per l’installazione di impianti a fonti rinnovabili)[29], con uno o più decreti interministeriali[30] dovranno essere stabiliti “principi e criteri omogenei per l’individuazione delle superfici e delle aree idonee e non idonee all’installazione di impianti a fonti rinnovabili aventi una potenza complessiva almeno pari a quella individuata come necessaria dal PNIEC per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo delle fonti rinnovabili”. Assume particolare interesse, evidentemente, il chiaro mutamento di prospettiva: non ci si propone più solo di individuare i luoghi ove non è possibile localizzare impianti FER, in chiave meramente “escludente”, bensì – in un’ottica di tipo propositivo – si chiede alle amministrazioni competenti di selezionare le aree che meglio si prestano ad accogliere tale tipo di intervento, anche attraverso l’individuazione delle azioni necessarie per la minimizzazione del relativo impatto ambientale, nonché la valorizzazione di aree industriali dismesse e di altre aree compromesse o abbandonate (in piena coerenza con le politiche di riduzione del consumo di suolo).
Al fine di evitare una futura impropria interpretazione del significato da attribuire alla suddetta selezione delle “aree idonee”, del tutto opportunamente, lo stesso art. 20 cit. specifica che “le aree non incluse tra le aree idonee non possono essere dichiarate non idonee all’installazione di impianti di produzione di energia rinnovabile, in sede di pianificazione territoriale ovvero nell’ambito di singoli procedimenti, in ragione della sola mancata inclusione nel novero delle aree idonee”. Ancora una volta, pertanto, viene espressamente ribadita la necessità di una valutazione caso per caso, derivante dall’irrinunciabile operazione di bilanciamento tra i diversi e contrastanti interessi pubblici coinvolti nella scelta de qua.
4. Esigenze di chiarezza regolativa e di uniformità nella qualificazione degli interventi di realizzazione di impianti FER
In uno scenario caratterizzato dalla complessità dei principi, delle regole e degli istituti connessi al settore urbanistico-edilizio, la garanzia di una chiara classificazione degli interventi edilizi, al fine di consentire all’interprete di desumerne agevolmente il regime amministrativo, assume un ruolo centrale, nell’ottica della garanzia della certezza delle regole e di tutela del legittimo affidamento del privato[31].
Come già osservato, nella vicenda in esame, il Comune ha adottato un regolamento edilizio nel cui ambito è ricompresa una norma che qualifica come intervento di manutenzione straordinaria “l’installazione di impianti relativi alle fonti rinnovabili di energia”. A tal proposito, la decisione in commento pone, anzitutto, l’accento sul regime dei titoli abilitativi, inclusi nell’ambito di principi fondamentali della materia concorrente del «governo del territorio», tali da vincolare la legislazione regionale di dettaglio: in tale ottica, pur non essendo precluso al legislatore regionale di esemplificare gli interventi edilizi che rientrano nelle definizioni statali, tale esemplificazione, per essere costituzionalmente legittima, deve risultare coerente con le definizioni contenute nel testo unico dell’edilizia. Tale “esigenza di uniformità”, segnala il Collegio, sarebbe “all’evidenza, gravemente pregiudicata laddove fosse consentito al regolamento edilizio comunale di disciplinare le categorie di intervento in contrasto sia con la legge regionale che con quella nazionale”.
L’impostazione appare, del resto, coerente con gli approdi della giurisprudenza costituzionale circa la portata dei principi fondamentali riservati alla legislazione statale nelle materie di potestà concorrente, laddove si è evidenziato che “il rapporto tra normativa di principio e normativa di dettaglio (…) deve essere inteso nel senso che l’una è volta a prescrivere criteri ed obiettivi, mentre all’altra spetta l’individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere questi obiettivi”, e che, con riferimento alla competenza legislativa statale in materia di governo del territorio, essa è giustificata dalla prospettiva di “garantire un assetto coerente su tutto il territorio nazionale, limitando le differenziazioni”[32].
Com’è noto, il legislatore statale ha recentemente dato prova di voler rafforzare la prospettiva di “uniformità” di cui si è detto. Ci si riferisce, in particolare, all’adozione del d.lgs. n. 222/2016 recante “Individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, si sensi dell’art. 5 della legge 7 agosto 2015, n. 124” (c.d. decreto “SCIA 2”). Tale decreto sorge espressamente con l’intento di assolvere all’ambizioso obiettivo di offrire una mappatura, una “precisa individuazione delle attività oggetto di procedimento, anche telematico, di comunicazione o segnalazione certificata di inizio di attività o di silenzio assenso, nonché quelle per le quali è necessario il titolo espresso” (art. 1, comma 2), consentendo l’individuazione delle attività economiche nell’ambito dell’allegata Tabella A, strutturata in tre sezioni: I Sezione “Attività commerciali e assimilabili”; II Sezione “Edilizia”; III Sezione “Ambiente”[33].
Ebbene, per quanto maggiormente rileva in questa sede, deve osservarsi che il legislatore – pur proponendosi di identificare ogni tipo di intervento e il corrispondente regime amministrativo – sembra aver “dimenticato” i volumi tecnici, con la conseguenza che il regime giuridico cui sono soggetti tali interventi edilizi ancora difetta di una chiara definizione. Del resto, nel panorama giuridico vigente, è il concetto stesso di volume tecnico, a non essere stato chiaramente definito dal legislatore, essendo esso ancora oggi per lo più demandato alla interpretazione del giudice amministrativo[34]. Un tentativo in tal senso si è registrato in occasione della stipulazione dell’Intesa tra Governo, Regioni e Autonomie locali del 20 ottobre 2016, con la quale sono stati approvati lo schema di Regolamento edilizio-tipo[35] e i relativi allegati A e B, recanti rispettivamente le definizioni uniformi e la raccolta delle disposizionisovraordinate in materia edilizia. In particolare, nel citato “allegato A”, tra le 42 voci ivi elencate, è presente quella dedicata al “volume tecnico” (nella specie, la trentunesima) secondo la quale “sono volumi tecnici i vani e gli spazi strettamente necessari a contenere ed a consentire l’accesso alle apparecchiature degli impianti tecnici al servizio dell’edificio (idrico, termico, di condizionamento e di climatizzazione, di sollevamento, elettrico, di sicurezza, telefonico ecc.)”. Dalla lettura di tale definizione emerge chiaramente il tentativo di mettere in risalto la condizione necessaria affinchè un manufatto possa essere inquadrato come volume tecnico, oltre che di raccogliere, all’interno di una definizione uniforme, una serie di fattispecie la cui configurazione urbanistico/edilizia è stata oggetto di dibattito, soprattutto in sede giurisprudenziale, nel corso degli anni. Sembrerebbe, in realtà, essersi realizzato uno scopo eminentemente esemplificativo di cosa debba intendersi per volume tecnico, per il tramite di un’elencazione assai ampia, e non tassativa, delle fattispecie interessate, che non appare pienamente in grado di consentire il superamento di alcuni problemi interpretativi e applicativi persistenti.
Ciò premesso, nel caso oggetto di esame, il Collegio era chiamato a verificare se l’impianto alimentato da fonti energetiche rinnovabili, come progettato dalle parti ricorrenti, fosse o meno qualificabile come “volume tecnico”. Nella specie il giudice inquadra la nozione di volume tecnico come riguardante “solo i volumi necessari a contenere ed a consentire l’accesso di quelle parti degli impianti tecnici (idrico, termico, elevatorio, televisivo, di parafulmine, di ventilazione, ecc.) che non possono, per esigenze di funzionalità degli impianti stessi, trovare luogo entro il corpo dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche”, afferente “a opere edilizie di limitata consistenza volumetrica e completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali di tale costruzione”[36]. In tale ottica, si afferma dunque che l’impianto a biomasse de quo presentava caratteristiche “strutturali e funzionali incompatibili con la qualificazione quale mero volume tecnico strettamente funzionale al riscaldamento delle serre di proprietà del privato”, avendo rilevato che, sotto il profilo strutturale, l’intervento di che trattasi consisteva in un complesso impiantistico con caratteristiche planovolumetriche e di sagoma “profondamente diverse” da quello precedente, consistente in un’unica centrale termica. Sul piano funzionale, poi, esso non risultava “strettamente ed esclusivamente servente alle serre di proprietà del privato, in quanto destinato a produrre energia elettrica che verrà ceduta ad ENEL”, circostanza, questa, che il Collegio ritiene essere idonea a configurare un “indice dell’autonomia funzionale dell’impianto, a prescindere dal rilievo che la produzione di energia elettrica, al pari di quella termica, è diretta conseguenza del processo di cogenerazione degli impianti”, atteso che la “produzione di energia elettrica destinata alla cessione sul mercato, infatti, è incompatibile con l’asserita finalità strettamente servente alle esigenze di riscaldamento dell’azienda agricola e conduce, unitamente alle caratteristiche strutturali, a qualificare l’intervento come volto alla realizzazione di un impianto autonomo piuttosto che di un mero volume tecnico”.
Le conclusioni alle quali giunge il giudice appaiono, in effetti, coerenti con quell’orientamento maggioritario della giurisprudenza amministrativa relativo alla nozione di volume tecnico, inteso quale manufatto privo di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, essendo destinato a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima[37]. Alla luce delle considerazioni svolte in premessa, tuttavia, ancora una volta la lacuna normativa che attiene alla definizione della nozione e del regime amministrativo applicabile al volume tecnico ha senza alcun dubbio contribuito a determinare l’errore in cui sono incorsi i privati nella errata configurazione del regime amministrativo applicabile all’intervento edilizio progettato.
5. Conclusioni. Il processo di transizione energetica richiede certezza sul “cosa” e sul “come”
La promozione dell’uso delle fonti energetiche rinnovabili rappresenta una tra le principali linee direttrici[38] che connotano l’attuale processo di transizione energetica[39], evidentemente centrale nell’ambito del coevo e più ampio percorso di transizione ecologica in atto[40]. Gli effetti dei cambiamenti climatici sugli equilibri del pianeta[41] e le sempre più stringenti urgenze legate ad una vera rivoluzione verde[42], incidono inevitabilmente sul bilanciamento degli interessi nelle politiche di governo del territorio[43], provocando l’insorgere di questioni complesse che, nell’ottica della sostenibilità e del contemperamento tra esigenze di tutela dell’ambiente e di sviluppo economico[44], richiedono la sollecita individuazione di nuovi rimedi e soluzioni.
Questa prospettiva emerge con evidenza dalla lettura degli obiettivi dell’Agenda 2030 for Sustainable Development[45], programma d’azione promosso dall’ONU, al cui interno il tema dello sviluppo della produzione di energia rinnovabile rileva nei goals 7, 11 e 12. Nel dettaglio, nell’ambito del goal 7 (Energia pulita e accessibile), si pone, tra l’altro, l’obiettivo di incrementare notevolmente la quota di energie rinnovabili nel mix energetico globale (target 7.2.); rafforzare la cooperazione internazionale per facilitare l’accesso alla tecnologia e alla ricerca di energia pulita, comprese le energie rinnovabili, all’efficienza energetica e alla tecnologia avanzata e alla più pulita tecnologia derivante dai combustibili fossili, e promuovere gli investimenti nelle infrastrutture energetiche e nelle tecnologie per l’energia pulita (target 7.a); espandere l’infrastruttura e aggiornare la tecnologia per la fornitura di servizi energetici moderni e sostenibili per tutti i paesi in via di sviluppo (target 7.b). Nell’ambito del goal 11 (Città e comunità sostenibili), merita una specifica attenzione l’obiettivo di “aumentare notevolmente il numero di città e di insediamenti umani che adottino e attuino politiche e piani integrati verso l’inclusione, l’efficienza delle risorse, la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici, la resilienza ai disastri”. Il goal 12 (Consumo e produzione responsabili), infine, dedica particolare attenzione all’obiettivo di garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo (target12.2.).
La prospettiva delineata appare, poi, pienamente coerente anche con la costruzione del piano di investimento europeo Green New Deal[46], che declina (in modo molto più marcato rispetto al passato) il binomio clima-energia in chiave di tutela dell’ambiente, nell’ottica di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, e di contestuale ripensamento delle politiche per l’approvvigionamento di energia pulita nei diversi settori dell’economia: industria, produzione e consumo, grandi infrastrutture, trasporti, prodotti alimentari e agricoltura, edilizia, tassazione e prestazioni sociali (par. 2.1.).
Com’è noto, tra l’altro, al tempo della (ancora presente) crisi pandemica da Covid-19, le politiche ambientali ed energetiche dell’Unione si sono intrecciate con la necessità di predisporre un piano di ripresa dell’economia europea, nel cui ambito “la transizione energetica viene concepita al tempo stesso come un pilastro della tutela dell’ambiente e del clima e come uno strumento di rilancio economico”[47]. All’interno della cornice delineata dal Next generation Eu Programme[48], pertanto, il PNRR italiano dedica ampio spazio alla promozione del processo di transizione energetica. Come noto, infatti, la “Missione 2” del Piano (Rivoluzione Verde e Transizione Ecologica) consta, tra le altre, delle componenti C2. “Energia rinnovabile, idrogeno, rete e mobilità sostenibile” e C3. “Efficienza energetica e riqualificazione degli edifici”.
In conclusione, gli obiettivi che – in adesione alle politiche internazionali ambientali ed energetiche – l’Italia si è posta negli ultimi anni appaiono particolarmente ambiziosi e necessitano di essere supportati da indispensabili interventi strutturali. Le criticità emerse dall’analisi della pronuncia in commento, quali aporie normative, incertezze interpretative del quadro regolatorio di riferimento, rigidità del regime delle competenze, rischiano di minare ex ante il conseguimento dei traguardi prefissati. Il richiamato processo di transizione energetica, nello specifico, non può prescindere da: a) un quadro regolatorio chiaro: l’assetto normativo che fa da cornice al settore delle fonti energetiche rinnovabili è ancora estremamente frammentato e foriero di dubbi ed incertezze interpretative che, tra l’altro, alimentano il contenzioso. È, dunque, auspicabile che il legislatore adotti un intervento normativo unitario del settore; b) un assetto delle competenze ben definito: nell’ottica di una corretta ed effettiva applicazione dei principi e delle regole che dominano l’azione amministrativa, è necessario che il legislatore assegni in modo chiaro le diverse competenze il cui esercizio incide, direttamente o indirettamente, sul settore energetico, definendone i relativi ambiti di applicazione; c) una programmazione (anche degli strumenti incentivanti) certa e stabile: le recenti riforme hanno certamente il merito di aver implementato la semplificazione e l’accelerazione del regime amministrativo relativo alla realizzazione di impianti alimentati da fonti energetiche rinnovabili; tale prospettiva semplificatoria, tuttavia, non sempre è stata affiancata da un adeguato sistema di “incentivazione”, in una prospettiva di riduzione dei costi di produzione dell’energia “pulita” e, conseguentemente, di agevolazione nell’accesso al mercato di settore[49].
*Il presente contributo è frutto di una riflessione comune tra gli autori. Tuttavia, Marco Calabrò è autore dei parr. 3 e 5, mentre Laura Pergolizzi è autrice dei parr. 1, 2 e 4.
[1] Previsione analoga, in effetti, non è contemplata all’interno dell’art. 6 del d.lgs. n. 28/2011, ove sono disciplinati il procedimento e gli effetti della PAS.
[2] M.A. Sandulli, Il procedimento amministrativo e la semplificazione, in www.ius-publicum.com: “L’amministrazione (…) nell’esperienza delle numerose funzioni pubbliche esercitate e dei servizi pubblici erogati ha registrato un eccessivo impiego di tempo e di risorse che ha sovente finito per pregiudicare gli stessi interessi alla cui cura è rivolto l’apparato pubblico. A questa caratteristica disfunzione del sistema – talvolta connaturata alle dimensioni che ha assunto l’amministrazione pubblica in proporzione al moltiplicarsi degli interessi chiamata a soddisfare – l’ordinamento ha giustapposto da un lato una serie di principi cui devono essere informate l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione diretti a rafforzare il parametro dell’efficienza dell’azione amministrativa in modo che essa non diventi diseconomica ed inefficace, e dall’altro, in applicazione di tali principi, una serie di strumenti specificamente deputati al contenimento dei tempi del procedimento amministrativo e a facilitare la realizzazione degli interessi dei privati”.
[3] P. Stella Richter, Diritto urbanistico. Manuale breve, Milano, 2022; G. Pagliari, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2019.
[4] P. L. Portaluri, C. Napolitano, L’ambiente e i piani urbanistici, in G. Rossi (a cura di), Diritto dell’ambiente, Torino, 2021, 242 ss.
[5] G. M. Caruso, Fonti energetiche rinnovabili, in G. Rossi (a cura di) Diritto dell’ambiente, Torino, 2021, 471 ss.; F. de Leonardis, Il diritto dell’economia circolare e l’art. 41 Cost., in Riv. quadr. dir. ambiente, 2020, 1, 58 ss.; A. Moliterni, La regolazione delle fonti energetiche rinnovabili tra tutela dell’ambiente e libertà di iniziativa economica privata: la difficile semplificazione amministrativa, in www.federalismi.it, 2017.
[6] Cfr. P. Biandrino, M. De Focatiis (a cura di), Efficienza energetica ed efficienza del sistema dell'energia: un nuovo modello?, Padova, 2017.
[7] D. Ardolino, Produzione di energia da fonti rinnovabili: barriere amministrative e sociali e misure di compensazione, in G. De Maio (a cura di), Introduzione allo studio del diritto dell’energia. Questioni e prospettive, Napoli, 2019, 190 ss.
[8] Cfr. G.D. Comporti, S. Lucattini, Orizzonti del diritto dell’energia. Innovazione tecnologica, blockchain e fonti rinnovabili, Napoli, 2020; G. De Maio (a cura di), Introduzione allo studio del diritto dell’energia. Questioni e prospettive, cit.
[9] A scopo meramente esemplificativo, si riporta, di seguito una breve ricognizione dei principali interventi normativi che, dal 2020, hanno interessato, direttamente o indirettamente, la materia energetica, incidendo anche sul piano del sistema delle procedure: d.l. 19 maggio 2020, n. 34: «Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all'economia, nonchè di politiche sociali connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19»; d.l. 16 luglio 2020, n. 76: «Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale», convertito con modificazioni dalla l. 11 settembre 2020, n. 120; d.l. 31 maggio 2021, n. 77: «Governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure», convertito con modificazioni dalla l. 29 luglio 2021, n. 108; d.l. 6 novembre 2021, n. 152: «Disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose» convertito, con modificazioni, dalla l. 29 dicembre 2021, n. 233; d.lgs. 8 novembre 2021, n. 199: Attuazione della direttiva (UE) 2018/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2018, sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili; d.l. 1 marzo 2022, n. 17, coordinato con la legge di conversione 27 aprile 2022, n. 34: «Misure urgenti per il contenimento dei costi dell’energia elettrica e del gas naturale, per lo sviluppo delle energie rinnovabili e per il rilancio delle politiche industriali».
[10] Corte cost., 20 aprile 2012, n. 99.
[11] Cfr. Documentazione dei Servizi e degli Uffici del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale, vol. II, 6 settembre 2020, 245 ss. Sebbene non espressamente specificato dalla norma, la relazione illustrativa al decreto legge mette in evidenza come l’opera di semplificazione delle procedure amministrative preposte alla realizzazione di impianti di produzione di fonti rinnovabili introdotte dalla riforma si sia resa necessaria alla luce degli obiettivi del Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (PNIEC).
[12] Per un approfondimento dell’istituto cfr. N. Durante, Il procedimento autorizzatorio per la realizzazione di impianti alimentati da fonti energetiche rinnovabili: complessità e spunti di riflessione, alla luce delle recenti linee guida nazionali, in Riv. giur. ed., 2011, 73 ss.; C. Vivani, I procedimenti di autorizzazione alla realizzazione e alla gestione degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, in Urb. e. app., 2011, 775.
[13] Art. 13, d.l. n. 17/2022, coordinato con la legge di conversione n. 34/2022.
[14] Sulla natura perentoria del termine di conclusione del procedimento per il rilascio dell’Autorizzazione Unica, cfr. Cons. Stato, sez. V, 28 aprile 2014, n. 2184, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] Per una completa analisi dei caratteri dell’AIA si rinvia a M. Calabrò, Semplificazione procedimentale ed esigenze di tutela ambientale: l’autorizzazione integrata ambientale, in Riv. giur. urb., 2012, 201 ss.
[16] Nel dettaglio, l’art. 6, comma 1, d.lgs. n. 28/2011 dispone che, “ferme restando le disposizioni tributarie in materia di accisa sull’energia elettrica, per l’attività di costruzione ed esercizio degli impianti alimentati da fonti rinnovabili di cui ai paragrafi 11 e 12 delle linee guida, adottate ai sensi dell’art. 12, comma 10, del d.lgs. n. 387/2003” si applica la “procedura abilitativa semplificata”.
[17] Il comma 11 dell’art. 6, d.lgs. n. 28/2011 è, invece, dedicato al terzo modello procedimentale relativo alla realizzazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, ovvero quello della comunicazione al Comune relativa ad alcune tipologie di piccoli impianti per la produzione di energia elettrica, calore e freddo da FER, assimilabili ad attività edilizia libera. La norma citata dispone che “La comunicazione relativa alle attività in edilizia libera, di cui ai paragrafi 11 e 12 delle linee guida adottate ai sensi dell’articolo 12, comma 10 del d. lgs. n. 387/2003 continua ad applicarsi, alle stesse condizioni e modalità, agli impianti ivi previsti. Le Regioni e le Province autonome possono estendere il regime della comunicazione di cui al precedente periodo ai progetti di impianti alimentati da fonti rinnovabili con potenza nominale fino a 50 kW, nonché agli impianti fotovoltaici di qualsivoglia potenza da realizzare sugli edifici, fatta salva la disciplina in materia di valutazione di impatto ambientale e di tutela delle risorse idriche, fermi restando l’articolo 6-bis e l’articolo 7-bis, comma 5”. Tale comma è il frutto di una recente modifica ad opera dell’art. 56, comma 1, lett. c) del d.l. n. 76/2020, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 120/2020. L’art. 6-bis è, infine, dedicato alla dichiarazione di inizio lavori asseverata, ammessa in relazione agli interventi su impianti esistenti e le modifiche di progetti autorizzati che, senza incremento di area occupata dagli impianti e dalle opere connesse e a prescindere dalla potenza elettrica risultante a seguito dell’intervento, ricadono in alcune specifiche categorie ivi elencate.
[18] Cfr. F. Merusi, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico, Milano, 2001; A. Gigli, Nuove prospettive di tutela del legittimo affidamento nei confronti del potere amministrativo, Napoli, 2016; E. Zampetti, Il principio di tutela del legittimo affidamento, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 173 ss.
[19] N. Saitta, Sistema di giustizia amministrativa, Napoli, 2021, 429.
[20] F. Orso, Il ricorso al giudice amministrativo tra l’irrilevanza della forma dell’atto introduttivo e la difesa di un modello processuale, in Dir. pubbl., 2020, 2. Con riferimento alle categorie che compongono i “costi” del processo amministrativo ed alle diverse funzioni dalle stesse assolte, cfr. R. Fusco, Spese di giudizio e poteri del giudice amministrativo: la condanna forfettaria (nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, 21 settembre 2020, n. 5547), in www.giustiziainsieme.it, 2020.
[21] Corte cost., 19 giugno 2019, n. 148.
[22] Corte cost., 16 luglio 2014, n. 199.
[23] Cfr. Corte cost., 11 ottobre 2012, n. 224, laddove, rilevando che tale criterio residuale “trova attuazione nella generale utilizzabilità di tutti i terreni per l’inserimento di tali impianti, con le eccezioni, stabilite dalle Regioni, ispirate alla tutela di altri interessi costituzionalmente protetti nell’ambito delle materie di competenza delle Regioni stesse”, si mette in evidenza che “ove la scelta debba essere operata da Regioni speciali, che possiedono una competenza legislativa primaria in alcune materie, nell’ambito delle quali si possono ipotizzare particolari limitazioni alla diffusione dei suddetti impianti, l’ampiezza e la portata delle esclusioni deve essere valutata non alla stregua dei criteri generali validi per tutte le Regioni, ma in considerazione dell’esigenza di dare idonea tutela agli interessi sottesi alla competenza legislativa statutariamente attribuita”.
[24] Cons. Stato, Sez. V, 31 maggio 2019, n. 3670, in www.giustizia-amministrativa.it; in termini, Cons. Stato, Sez. V, 15 gennaio 2013, n. 176, in www.gustizia-amministrativa.it.
[25] In termini, cfr. T.A.R. Toscana, Sez. III, 13 gennaio 2015, n. 36, in www.giustizia-amministrativa.it: “Invero, gli atti di individuazione dei siti non idonei alla installazione di impianti fotovoltaici, diversamente dagli strumenti urbanistici generali, che costituiscono la sintesi di una pluralità di interessi pubblici e privati, sono volti a contemperare interessi specifici e ben individuati ai quali il legislatore attribuisce una rilevanza pubblicistica, ossia quello alla incentivazione degli impianti di produzione di energie rinnovabili e quello alla tutela del paesaggio. Il contemperamento di tali interessi deve avvenire attraverso una procedura volta a dare concreta evidenza sulla base di criteri puntualmente determinati delle ragioni ambientali per cui gli enti preposti ritengono di precludere in determinate aree la installazione di impianti fotovoltaici”.
[26] Cfr. art. 17, co.1, d m. 10 settembre 2010.
[27] Cons. Stato, Sez. IV, 29 novembre 2018, n. 6773, in www.giustizia-amministrativa.it.
[28] T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 17 dicembre 2010, n. 904, in Foro amm.-TAR, 3/2011, 753, con nota di P. Lombardi, Il favor legislativo per le fonti energetiche rinnovabili quale elemento idoneo a fondare il fumus boni iuris per l'accoglimento di una istanza cautelare?
[29] Articolo modificato ad opera del d.l. n. 17/2022 (Misure urgenti per il contenimento dei costi dell’energia elettrica e del gas naturale, per lo sviluppo delle energie rinnovabili e per il rilancio delle politiche industriali) convertito, con modificazioni, dalla l. n. 34/2022.
[30] Sono coinvolti nel procedimento, in particolare, il Ministro della transizione ecologica, il Ministro della cultura e il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281.
[31] M.A. Sandulli, Il regime dei titoli abilitativi edilizi tra semplificazione e contraddizioni, in Riv. giur. edilizia, 2013, 301 ss.
[32] Corte cost., 20 novembre 2014, n. 259; Corte cost., 13 giugno 2013, n. 139; Corte cost., 29 maggio 2013, n. 102, tutte in www.giurcost.org. In dottrina, cfr. S. Tuccillo, La Corte costituzionale e i limiti all’autonomia regionale nella disciplina degli istituti del procedimento amministrativo. Livelli essenziali delle prestazioni e strumenti di semplificazione, in M.A. Sandulli, Princìpi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2020, 171 ss.
[33] F. Lorenzotti, I regimi amministrativi degli interventi edilizi dopo il decreto legislativo n. 222 del 2016, in www.ambientediritto.it, 2017.
[34] R. Mazzon, Distanze legali e rapporti di vicinato. Tutela e risarcimento in ambito civile, penale, amministrativo e processuale, Milano, 2022, 112; P. Stella Richter, Dizionario giuridico di urbanistica ed edilizia, Milano, 2020, 249-250; G.G.A. Dato, Nozione di opere pertinenziali nell’ambito del diritto amministrativo, in F.F. Tuccari, S. Toschei, A. Cagnazzo (a cura di), Sanzioni amministrative in materia edilizia, Torino, 2014, 178; G. Guzzo, G. Palliggiano, L’attività edilizia. Titoli, procedure, sanzioni e tutela, Milano, 2011; M. de Tilla, Nozione di costruzione e rispetto delle distanze legali (Nota a Cassazione civile, 3 febbraio 2011, n. 2566, sez. II), in Riv. giur. edilizia, 2011, 5, 1204.
[35] Ai sensi del comma 1-sexies, art. 4, del d.p.r. n. 380/2001, inserito ad opera dell’art. 17-bis, comma 1, d.l. 12 n. 133/2014, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 164/2014, il Governo, le Regioni, e le Autonomie locali concludono, nella Conferenza Unificata accordi o intese «per l’adozione di uno schema di regolamento edilizio tipo al fine di semplificare le norme e gli adempimenti». Da ciò sembrerebbe dunque derivare una “riduzione” dello spazio di manovra attribuito, in forza degli articoli 2, comma 4, e 4, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, in capo alle amministrazioni comunali. Cfr. M. R. Spasiano, R. Veniero, Diritto dell’edilizia, in A. Police, M. R. Spasiano (a cura di), Manuale di governo del territorio, Torino, 2016, 126. In generale, sulla disciplina del regolamento edilizio tipo v. S. Tuccillo, Il regolamento edilizio-tipo tra esigenze di uniformità e di salvaguardia delle identità territoriali, in Riv. giur. edilizia, 2017, II, 142 ss.
[36] In termini cfr. Cons. Stato, Sez. II, 19 agosto 2021 n. 5940; Cons. Stato, Sez. VI, 26 aprile 2021 n. 3318, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
[37] In termini cfr. T.A.R. Campania, Salerno, Sez. I, 9 marzo 2021 n. 584, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Liguria, Sez. I, 29 gennaio 2016 n. 97, in Riv. giur. edilizia, 2016, 3, I, 291. Su tali profili v. anche T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 11 febbraio 2021, n. 388, in Riv. giur. edilizia, 2021, 3, I, 942, ove si afferma che “È illegittimo l’ordine di sospensione dei lavori avviati con una segnalazione certificata di inizio attività per l'installazione di un elevatore all'esterno di un edificio, volto a superare le barriere architettoniche presenti all'interno dello stesso, adducendo la violazione della distanza minima dei fabbricati dai confini di proprietà e di zona prescritta dallo strumento urbanistico generale per gli interventi di nuova costruzione, ampliamento o demolizione e ricostruzione di edifici esistenti. L'intervento in questione, infatti, non consiste in una costruzione strettamente intesa, bensì, nella realizzazione di un volume tecnico, necessario per apportare un'innovazione allo stabile, la cui realizzazione non è soggetta al rispetto delle distanze da altri fabbricati”.
[38] G.F. Cartei, Ambiente e mercato nella disciplina delle energie rinnovabili, in Il diritto dell’economia, 3/2013, 614-615.
[39] M. Calabrò, L. Pergolizzi, The promotion of energy transition in view of urban regeneration: towards a perspective of sustainability, in C. Gambardella (ed.) World Heritage and Design for Health, Roma, 2021, 54 ss.; F. de Leonardis, Il ruolo delle energie rinnovabili nella programmazione energetica nazionale, in G. Napolitano, A. Zoppini (a cura di) Annuario di diritto dell’energia 2013. Regole e mercato delle energie rinnovabili, Bologna, 2013, 131 ss.; E. Scotti, Pandemia, aiuti di stato e transizione ambientale, in U. Malvagna, A. Sciarrone Alibrandi(a cura di), Sistema produttivo e finanziario post covid-19: dall’efficienza alla sostenibilità. Voci dal diritto dell’economia, Roma, 2021, 439 ss.
[40] F. de Leonardis, La transizione ecologica come modello di sviluppo di sistema: spunti sul ruolo delle amministrazioni, in Dir. amm., 2021, 4, 779 ss.
[41] S. Nespor, Considerazioni preliminari su mitigazione e adattamento in tema di cambiamento climatico, in Riv. giur. ambiente, 1/2021, 7 ss.; M. Carducci, Natura, cambiamento climatico, democrazia locale, in Diritto costituzionale, 2020, 3.
[42] L. Giurato, Il percorso della transizione energetica: da un’economia basata sull’energia pulita alla “rivoluzione verde e transizione ecologica” del Recovery Plan, in www.ambientediritto.it, 2021. Sono ormai sempre più frequenti i riferimenti alla “transizione ecologica” che emergono nell’ambito della produzione normativa nazionale. Merita, al riguardo, particolare attenzione la recente riforma, introdotta dal d.l. n. 22/2021, secondo la quale il «Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare» è ridenominato «Ministero della transizione ecologica». Il cambiamento di denominazione ha evidentemente un valore non soltanto formale - rievocando la denominazione già utilizzata in altri Paesi membri, come la Francia e la Spagna, dove rispettivamente operano il Ministère de la Transizion Ecologique (www.ecologie.gouv.fr) e il Ministero para la Transiciòn Ecològica y el Reto Demogràfico (www.miteco.gob.es/es) - ma anche sostanziale, considerato che, in capo al nuovo ministero sono attribuite numerose funzioni e compiti non esclusivamente legati al processo di transizione energetica, bensì incidenti su un più ampio spettro di intervento. Si pensi, ad esempio, al Comitato interministeriale per la transizione ecologica, soggetto preposto all’adozione del “Piano per la transizione ecologica”, al fine di coordinare le politiche in materia di: a) riduzione delle emissioni di gas climalteranti; b) mobilità sostenibile; c) contrasto al dissesto idrogeologico e al consumo del suolo; d) risorse idriche e relative infrastrutture; e) qualità dell’aria; f) economia circolare. Si segnala, inoltre, che anche il PNIEC contiene un riferimento indiretto alla transizione ecologica, laddove afferma che “La Legge di Bilancio 2020 stabilisce che, entro il 31 gennaio 2020, si costituisca presso il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare una Commissione per lo studio e l’elaborazione di proposte per la transizione ecologica e per la riduzione dei sussidi ambientalmente dannosi”. Come ampiamente noto, infine, nell’ambito della Missione 2 del PNRR (“Rivoluzione verde e transizione ecologica”) sono contenute le seguenti componenti: m2c1: economia circolare e agricoltura sostenibile; m2c2: energia rinnovabile, idrogeno, rete e mobilità sostenibile; m2c3: efficienza energetica e riqualificazione degli edifici; m2c4: tutela del territorio e della risorsa idrica.
[43] Cfr. L. Casini, L’equilibrio degli interessi nel governo del territorio, Milano, 2005.
[44] S. Amorosino, Sviluppo economico e governo del territorio, in Riv. giur. edilizia, 5/2015, 187 ss.
[45] Sottoscritta il 25 settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite, e approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU, l’Agenda 2030 fissa 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (“Sustainable Development Goals”) cui sono associati 169 traguardi (“target”) da raggiungere entro il 2030, allo scopo di perseguire i “macro-obiettivo” dello “sviluppo sostenibile” in ambito ambientale, economico, sociale e istituzionale.
[46]European Commission COM (2020) 14 January 2020, European Green Deal Investment Plan, in www.ec.europa.eu.
[47] C. Vivani, S. Giani, Transizione energetica e PNRR. Accelerazione e semplificazione delle procedure, in Urb. e app., 2022, 1 ss.
[48] Communication form the Commission to the European Parliament and the Council on a new funding strategy to finance Next Generation EU, Brussels, 14.4.2021 COM(2021) 250 final., in www.ec.europa.eu.
[49] M. Calabrò, Energia, ambiente e semplificazione amministrativa (nota a T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III-ter, 24 novembre 2020, n. 12464), in www.giustiziainsieme.it.; Id. La (negata) tutela dell’affidamento in materia di incentivi alle fonti energetiche rinnovabili (nota a Corte Giust. UE, sez. V, 15 aprile 2021, cause riunite C-798718 e C-799/18), in www.giustiziainsieme.it.
Vent’anni dopo
di Morena Plazzi
Dopo l’articolo di Paola Filippi “La separazione della carriera dei magistrati: la proposta di riforma e il referendum”[1] probabilmente non ci sarebbe nulla da aggiungere per spiegare le ragioni dell’adesione allo sciopero indetto dall’ANM per il prossimo 16 maggio quando si tratta del tema “separazione delle carriere”.
Tuttavia, poiché quella dello sciopero è una scelta fatta “non per protestare, ma per essere ascoltati, non contro le riforme, ma per far comprendere, dal nostro punto di vista, di quali riforme della magistratura il Paese ha veramente bisogno”, credo sia ancora tempo di ritornare sull’argomento.
Si parla qui dell'art. 12 del DDL di riforma che modifica l'attuale art. 13 Ord. Giud., limitando ad una sola possibilità nel corso dell’intera esperienza professionale del magistrato un eventuale cambio di funzioni da requirente a giudicante o viceversa.
La descrizione dettagliata di questo intervento normativo, il come e quando verrebbe consentito il passaggio tra funzioni, lo si è in più sedi analizzato; mi dedico quindi alla ricerca del perchè di questa riforma che si inserisce e rinnova un progetto politico intrapreso oramai da vent’anni a questa parte, nonostante la Costituzione.
Le riforme si cercano, si propongono, si elaborano, si deliberano quando si deve migliorare un sistema che non funziona ma, come è stato detto e ribadito in ogni sede e da ultimo nella chiarissima relazione con cui il Presidente Giuseppe Santalucia ha aperto l’assemblea generale dell’ANM del 30 aprile scorso[2], non sembra proprio che la previsione di ulteriori restrizioni al mutamento di funzioni trovi motivazioni valide né sul piano teorico e di principio né su quello pratico se la si propone quale soluzione ai problemi di una giustizia lenta e di una magistratura ai minimi della fiducia da parte dei cittadini.
Essa non risponde infatti né alla domanda di una migliore tempistica dei processi né ad una dichiarata azione di contrasto al “carrierismo” dei magistrati dei quali, insieme ad altre linee direttrici di questo DDL, sembra sollecitare piuttosto una sempre più marcata personificazione della funzione, a dispetto dell’impegno a confrontarsi con esperienze diversamente formative nel corso della vita professionale.
Dallo scritto di Paola Filippi si comprende anche quanto sia privo di consistenza pratica, nell’attualità, il tema del passaggio di funzioni: di questo dobbiamo dire "grazie" alla riforma Castelli-Mastella che nella sua prima formulazione, anni 2002/2004 prevedeva così come ripropone l’attuale DDL, una sola possibilità di mutamento di funzioni nel corso della carriera, previsione poi attenuata nel 2006 quando si concesse la possibilità di passare da Giudice a PM e viceversa fino a quattro volte nel corso della vita lavorativa del magistrato.
Nel 2002, di fronte ad una proposta come quella odierna, i magistrati non ebbero alcun timore nel far sentire la loro protesta mentre si discuteva il DDL del Ministro Castelli, una riforma che addirittura avrebbe visto, due anni dopo, il Presidente della Repubblica Ciampi rinviare il testo alle Camere ravvisando alcuni motivi di palese incostituzionalità in previsioni quale quella delle comunicazioni del Ministro della Giustizia comprendenti ”le linee di politica giudiziaria per l’anno in corso” ritenute in contrasto con le garanzie di indipendenza della magistratura, le attribuzioni del CSM e il principio di obbligatorietà dell’azione penale.
Cosa è cambiato da allora?
Leggendo il testo del DDL attualmente all’esame del Senato non troviamo solo lo sbarramento al cambiamento di funzioni. L’art. 13 prevede infatti che nella formazione dei progetti organizzativi delle procure il dirigente dell’ufficio indichi le priorità alla luce “di criteri generali indicati dal Parlamento con legge”.
Non solo.
Leggiamo anche, nel testo trasmesso al Senato, che il progetto organizzativo viene adottato ed è approvato dal Consiglio superiore della magistratura, previo parere del consiglio giudiziario, “valutate le eventuali osservazioni formulate dal Ministro della giustizia ai sensi dell'articolo 11 della legge 24 marzo 1958, n. 195” senza alcuna indicazione di quali dovrebbero essere i possibili ambiti di intervento ministeriale.
Un intervento ed un interessamento dell’esecutivo che, ovviamente, non toccano gli uffici degli organi giudicanti e le loro tabelle e che, in un ordinamento indirizzato ad una sostanziale separazione delle funzioni appaiono potenzialmente corrosivi dell’indipendenza ed autonomia del Pubblico Ministero.
Lo sciopero dei magistrati del 2002 costituisce un precedente importante, se ne leggiamo le ragioni e se consideriamo a quale idea di magistratura “riformata” si opponeva.
Cosa è cambiato da allora, quanto alla sostanza ed alla direzione di alcune riforme e per quale motivo oggi dovremmo essere meno attenti e preoccupati di quanto lo fossimo nel 2002?
Allora, forse, fu più semplice opporsi ad una iniziativa governativa che, nelle sue dichiarate intenzioni, poteva essere definita dall’allora Segretario Generale dell’ANM Nello Rossi quale “punitiva e mortificante controriforma”.
Allora, forse, era più chiaro e più comprensibile il disegno, più netta ed identificabile la sua provenienza.
Guardando ad oggi, non c’è dubbio che il quadro generale nel quale si sono inserite sia l’iniziale scrittura del DDL Cartabia che gli emendamenti peggiorativi inseriti d’intesa tra i partiti di maggioranza una volta giunto alla Camera, non abbia quasi nulla dei connotati dell’epoca Castelli/Berlusconi se non una esigenza di tenere insieme, ad ogni costo, una maggioranza pluricomposita.
In realtà non risulta nemmeno tanto difficile rinvenire segni di una inspiegabile distonia tra le norme qui esaminate e quanto invece previsto da un’altra importante e recente riforma promossa dallo stesso Governo e dal medesimo Ministro, e precisamente con quanto previsto, in tema di processo penale, dall’art. 1 Comma 9 della legge 134 del 27 settembre 2021 “Delega al Governo per l'efficienza del processo penale nonché' in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari.”
Come già evidenziato nell’articolo di Paola Filippi, la L.134/2021 conferisce delega al Governo per “modificare la regola di giudizio per la presentazione della richiesta di archiviazione, prevedendo che il pubblico ministero chieda l'archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna” e, poco più avanti, “per modificare la regola di giudizio di cui all'articolo 425, comma 3, del codice di procedura penale nel senso di prevedere che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna”.
Come non pensare ad una evidente contraddizione tra l’indicazione di una identica regola di giudizio per il Giudice e per il PM, al riconoscimento dato al ruolo della magistratura requirente investita di scelte decisionali di assoluta valenza giudiziale, chiamato a tradurre nelle sue richieste conclusive la motivata proiezione di un possibile giudizio di merito, e la scelta di stringere quello stesso Pubblico Ministero in un angolo sempre più distante da quella “cultura della giurisdizione” che solo la difficoltà e la pratica del giudicare consentono di fare realmente propria?
Una contraddizione tanto evidente denuncia per un verso la mancanza un’idea precisa, di un chiaro disegno politico alla base della scelta di procedere – a dispetto di principi costituzionali - nel percorso di separazione delle carriere, per un altro porta, inesorabilmente, a pensare che in fondo la ragione di questa ennesima modifica della legge di Ordinamento Giudiziario non sia altro, per chi è riuscito a subemendare il DDL presentato in Parlamento che “punitiva e mortificante”, anche oggi, anche vent’anni dopo.
Queste scelte di separatezza hanno in qualche modo assicurato un migliore funzionamento della giustizia e una maggiore tutela per il cittadino?
I dati sull'esito dei procedimenti sono la più efficace smentita di chi ha esibito il rischio di "vicinanza" tra pubblico ministero e giudice come pericolo per l’imparzialità di quest’ultimo, affermazione che ha assunto ormai il valore di una leggenda metropolitana.
Cosa dovremmo aspettarci insistendo sulla strada della separazione?
A dirla tutta il nostro Paese ha già sperimentato un Pubblico Ministero davvero separato. Succedeva fino al 1946 quando "il PM esercita(va) sotto la direzione del ministro le funzioni che la legge gli attribuisce". E sino al 1988 l'art.70 Ordinamento Giudiziario recitava " i Procuratori della Repubblica esercitano le loro funzioni personalmente o per mezzo dei dipendenti addetti ai rispettivi uffici". E’ a questo che si vuole tornare?
E allora, se servono idee che aiutino il nostro sistema penale a lavorare in modo più efficiente, favorendo la corretta applicazione di criteri di priorità e di regole di giudizio comuni cosi come delineate dalla Legge delega n. 137/2021 perché non provare da una prospettiva completamente diversa?
Accentuare o proseguire sulla strada della separazione delle carriere, con un Pubblico Ministero soggetto distinto ed “altro” vuol dire avere un PM autoreferenziale e sempre più lontano dalla più complessa prospettiva giudiziale che al contrario si arricchisce del contributo della difesa, gestendo quindi la fase delle indagini con lo sguardo rivolto al possibile, corretto esito conclusivo.
La strada da percorrere dovrebbe essere un'altra, quella della promozione di un maggiore interscambio delle funzioni, dalla condivisione dei contenuti della giurisdizione sia per una gestione davvero coordinata degli uffici, sia incentivando e valorizzando il passaggio da funzioni giudicanti a requirenti e viceversa come strumento per una vera e progressiva formazione comune, che oltre a legare sempre più gli uffici requirenti con quelli giudicanti coinvolga necessariamente anche l'avvocatura, incrementando interrelazioni e sinergie, con una vera simmetria nelle scelte su specializzazioni e modalità organizzative, criteri di priorità discussi e trasparenti, piena e reciproca consapevolezza di risorse, flussi, capacità di definizione che orientino le scelte.
Per fare una scelta in questo senso servirebbero provvedimenti legislativi in controtendenza, con una attenuazione delle incompatibilità nei passaggi, scelte che renderebbero anche più agevoli i percorsi di carriera dei magistrati più giovani, soprattutto per le colleghe chiamate a conciliare – è vero, è ancora oggi così – le loro giuste aspirazioni professionali con la necessità di limitare trasferte di fatto non compatibili con la cura della famiglia così come servirebbe una precisa opzione nelle deliberazioni del Consiglio Superiore della Magistratura che, a partire dalle Circolari, favorisca e valorizzi il passaggio tra funzioni
Dobbiamo invertire una tendenza culturale che rischia di portare ad una gerarchia cieca e ad una autoreferenzialità senza sbocchi.
Anche per questo, anche per dare testimonianza della possibilità di intraprendere strade diverse penso sia giusto aderire all’astensione indetta dall’Associazione Nazionale Magistrati, uscendo da un circolo vizioso nel quale, vent’anni dopo, una controriforma punitiva e mortificante ci vorrebbe ancora rinchiudere, allontanando ancora di più l’esercizio della giurisdizione dalle reali esigenze dei cittadini.
[1] Giustizia Insieme, 5 maggio 2022.
[2] “Introduzione all’Assemblea Generale dell’ANM del 30 aprile 2022 del presidente Giuseppe Santalucia” Giustizia Insieme 3 maggio 2022.
Per non dimenticare le donne afghane di Maria Teresa Covatta
Sommario: 1. La Notizia: il burqa in pubblico è obbligatorio - 2. Che fine hanno fatto le magistrate afghane - 3. La diplomazia internazionale.
1. La Notizia: il burqa in pubblico è obbligatorio
Dopo tanti mesi di assordante silenzio c’è una notizia che riguarda l’Afghanistan. E non è buona.
È di questi giorni (7 maggio 2022) la decisione assunta dall’attuale governo afgano di imporre alle donne il burqa in pubblico. La Stampa ha fatto rilevare come questa posizione riporti la storia delle donne afgane indietro a 20 anni fa, quando gli stessi talebani, sulla base della loro radicale interpretazione della legge della Sharia, avevano imposto le stesse proibizioni volte a reprimere i diritti umani e in particolare qualunque diritto delle donne.
Il regime, dunque, sta tornando in tutto e per tutto a prendere la forma del vecchio Emirato
La notizia si inserisce nel quadro delle poche informazioni sull’attuale situazione in Afghanistan, filtrate all’esterno, nell’assenza quasi totale delle organizzazioni umanitarie e di una presenza internazionale diffusa. E anche queste, quali il divieto per le donne di viaggiare se non accompagnate da un uomo di famiglia e il divieto di frequentare scuole medie e superiori, non fanno ben sperare .
Con decreto approvato dal Ministero della Prevenzione del Vizio e la Promozione della Virtù, il cui nome, come si notò fin dal momento della sua istituzione, non lasciava presagire nulla di buono, è stato stabilito che il velo che copre interamente il corpo delle donne lasciando liberi solo gli occhi, è “tradizionale e rispettoso”.
Con lo stesso decreto è stato stabilito che le donne dovranno sempre velarsi completamente davanti ad un uomo che non è membro della famiglia “per evitare provocazioni” .
Infine è stato stabilito che le donne che non hanno un compito importante da svolgere all’esterno, “è meglio che rimangano a casa”.
In un Paese in cui alle donne è stato inibito di andare a scuola, sia come insegnanti che come discenti, di viaggiare da sole e di lavorare all’esterno, salvo pochissime eccezioni per lo svolgimento di funzioni sanitarie connesse alla maternità, è difficile immaginare quali possano essere questi “compiti importanti” che consentano loro di uscire dalle case dalle quali sono state di fatto tumulate.
Le immagini descritte dalla stampa sulle modalità di diffusione del comunicato – uomini barbuti, nessuna donna ovviamente - oltre al già eloquente contenuto del decreto, smentiscono chi riteneva che, almeno sotto il profilo della capacità comunicativa i talebani si fossero evoluti
2. Che fine hanno fatto le magistrate afgane
La sanzione per chi viola il divieto è, dopo un primo ammonimento, quella di essere portati in Tribunale, davanti a un giudice, ovviamente un uomo.
La Magistratura femminile è stata cancellata.
L’espressione, cruda ma assolutamente rispettosa della realtà, è stata utilizzata da Anisa Rasooli prima giudice afgana nominata, sotto il regime repubblicano, alla Corte Suprema afghana, peraltro in un settore quale quello della lotta alla corruzione e al traffico di droga, assolutamente inconsueto per una donna in Afghanistan.
La Rasooli, già evacuata in Pakistan al momento della presa di potere da parte dei talebani e ora stabilmente rifugiata negli USA dove di recente è stata insignita del Global Jurist Award conferitole dal prestigiose università americane ha partecipato alla prima celebrazione della giornata internazionale delle donne giudici, fissata con risoluzione ONU del 20 febbraio 2020 e festeggiata quest’anno per la prima volta .
Al meeting del 10 marzo 2022, organizzato dall’Associazione Internazionale delle Donne Giudici (IAWJ)e aperto a tutte le socie, tra cui quelle dell’Associazione Italiana Donne Magistrato (ADMI) la Rasooli ha fornito, dopo mesi di silenzio, informazioni sulla situazione delle donne in Afghanistan e in particolare delle donne magistrate.
Quando i Talebani hanno preso il potere, nell'immediatezza, la comunità internazionale e le Organizzazioni della società civile (in particolare le associazioni di donne , quelle di donne magistrato e tra tutte specialmente la IAWJ) hanno accolto la richiesta di aiuto delle donne magistrate, chiuse in casa per paura di rappresaglie strettamente connesse alla funzione svolta, nascoste in casa e terrorizzate, come hanno testimoniato sia alcune di loro raggiunte in modo rocambolesco dai media, sia da quelle che sono riuscite, già nell'immediato, ad allontanarsi dal Paese.
Ad oggi la situazione non è cambiata.
Quello che c'è di buono è che molte magistrate (più dei due terzi) con le loro famiglie sono riuscite a lasciare l'Afghanistan grazie alle Organizzazioni internazionali, Umanitarie e grazie all'IAWJ .
Ne restano però circa 80 delle 300 in carica al momento della presa di potere da parte dei Talebani, atteso che l'evacuazione è stata molto più difficile per le magistrate che non erano in sede a Kabul,ma che esercitavano in province più o meno lontane dalla capitale: e questo soprattutto a causa della repentina presa di potere dei Talebani, la cui rapida avanzata è stata da più parti sottovalutata.
La Rasooli ha raccontato la realtà attuale delle donne magistrato dicendo che quelle rimaste sono ancora in grave pericolo di vita. Che le donne che hanno manifestato contro le restrizioni contro le donne e contro l'applicazione integrale della legge della sharia, immediatamente ripristinata dai Talebani senza tener in nessun conto le leggi statali ed in particolare il dettato della costituzione afgana, o sono state arrestate o vivono " come ribelli", nascoste, senza stipendio e senza alcuna forma di sostentamento anche minimo se non quello fornito dalle organizzazioni umanitarie e dalla IAWJ che continuamente effettua raccolte di fondi per provvedervi.
La giudice Rasooli usa un'espressione terribile per la sua definitività: le donne sono state cancellate (erased) dall'esercizio della giurisdizione e da tutto ciò che essa poteva significare: garanzia di dignità, maggior accesso delle donne alla giustizia, valore aggiunto in termini di rispetto dei diritti umani tra questi del valore della parità di genere.
Tutte vivono, conclude la Rasoori, in una specie di limbo in attesa che accada qualcosa di nuovo e di buono.
Di certo la recente notizia del burqa imposto alle donne non concretizza questa speranza
Le persecuzioni dei Talebani verso le magistrate sono volte a reprimere una delle maggiori espressioni della parità di genere.
Esercitare la giurisdizione vuol dire avere il potere/dovere e la capacità di svolgere un processo, civile o penale che sia, e concluderlo con un giudizio.
È senz’altro tra le più importanti espressioni della parità di genere poiché implica pari facoltà intellettive, in un settore così delicato quale quello del giudizio, pari capacità di interpretazione della legge, pari capacità di valutazione dei fatti della vita e di esprimere su di essi un giudizio mediato dalla legge: capacità che una donna esercita nei confronti di altre donne ma anche di uomini.
In un regime integralista, e possiamo ben dire medioevale, quale quello talebano che relega la donna tra i muri di casa, alla procreazione dei figli e la asserve al potere del padre, fratello, marito o parente, purché maschio, questa possibilità è semplicemente impensabile
E del tutto irrilevante, in questo contesto ideologico, che le magistrate afgane facessero parte del “vecchio regime” di cui si vogliono cancellare le tracce.
La magistratura femminile può considerarsi esponente del regime precedente solo nel senso che il regime costituzionale aveva consentito loro, per la prima volta, di conseguire un'istruzione superiore e quindi di avere i requisiti per esercitare la giurisdizione .
Il peso preponderante della loro cancellazione come categoria è dunque prevalentemente quello del loro essere donne e ciò nonostante aver esercitato una professione così determinante quale l'accertamento di fatti della vita, l'emanazione di una sentenza anche nei confronti di un uomo, Insomma per un regime integralista quale quello talebano l'idea di una giustizia amministrata da donne è semplicemente inaccettabile. E' inaccettabile che siano delle donne a gestire un processo e a formulare un giudizio finale che può attingere negativamente anche un soggetto di sesso maschile, per definizione superiore.
È proprio per questo che l'esercizio della professione di magistrato da parte delle donne afgane, garantito almeno formalmente dalla Costituzione e dal riconoscimento delle convenzioni internazionali poste a tutela dei diritti delle donne, prima tra tutte quella di Istanbul, ma non solo, tutte formalmente non espunte dall’ordinamento afgano, ha rappresentato un incredibile strumento propulsore e moltiplicatore di democrazia, garantendo o quanto meno rendendo più normale alle (altre) donne l'accesso alla giustizia, fino ad allora vista soltanto come il giudizio punitivo dell'uomo nei confronti della donna che, in quanto tale, se si rivolge alla giustizia, lo fa a suo rischio e pericolo.
È noto, infatti, che in Afghanistan fossero pochi i giudici di sesso maschile disponibili a rischiare la propria legittimazione per affrontare la difesa dei diritti delle donne, da sempre scintilla o pretesto di rivolte a sfondo religioso o culturale. Era questa la incredibile missione delle donne afghane: affermare, nei limiti del possibile, e sempre più, l'esistenza di tali diritti.
Scriveva nel 2014 la giudice Rasooli: “È importante aumentare la presenza delle magistrate in tutti i luoghi in cui le donne non hanno diritti.” Si può aggiungere, trasportando il principio a livello generale, che la presenza delle donne magistrate è necessaria in tutti i luoghi in cui diritti delle donne necessitano di essere affermati e difesi.
Di questa “lezione” dovrebbero tener conto tutte le magistrature del mondo poiché è di fondamentale importanza comprendere che l’esercizio della giurisdizione da parte delle donne, a tutti i livelli, è l’espressione massima non solo del raggiungimento della parità di genere ma proprio della civiltà di un sistema
Concetto difficile da comprendere e da attuare come dimostrato anche dal fatto che nel nostro Paese, appena uscito dalla guerra e dal Fascismo, la presenza femminile si registrava anche nell’Assemblea Costituente, dove molte donne hanno influito notevolmente alla configurazione dei diritti fondamentali tra cui quello della parità, ma non nell’esercizio della giurisdizione.
Infatti solo nel 1965 le donne sono state ammesse in magistratura, segno che le resistenze a connettere donne e esercizio della giurisdizione e ancor più a considerare come possibile la leadership femminile nel settore, sia frutto di pregiudizi radicati, ancora presenti, anche se con modalità di esternazione diverse nelle diverse società , e ancora oggi difficili da superare.
3. La diplomazia internazionale
Al di là delle prime reazioni immediatamente dopo la presa di potere dei Talebani, le notizie circa il lavoro delle OO.II e delle ONG in Afghanistan e delle diplomazie per l’Afghanistan sono scarse ma non c’è dubbio che tutte siano all’opera, sia pur rimanendo “sott’acqua”, le prime per non essere dichiarate non grate all’attuale sistema, la seconda per non compromettere equilibri instabili.
Il supporto delle organizzazioni internazionali e della società civile rimaste o tornate sul territorio è fondamentale, nei limiti in cui è consentito per aiutare gli afgani a sottrarsi agli arresti e alle violenze oltre che al freddo, alla fame e alle malattie.
Si opera, in particolare sul canale umanitario che consente di non finanziare il regime e di prestare assistenza diretta alla popolazione.
L’aiuto umanitario, che è il canale seguito anche dalla diplomazia, è fondamentale per non aggravare il collasso di un Paese alla fame, che combatte con una gravissima crisi umanitaria che tocca alimentazione, sanità e sistema politico in generale e nel quale la distruzione dei raccolti comporta il virare dell’economa verso la ripresa della coltivazione di droghe
Una notizia rilevante, sotto questo profilo, che sembrava aprire un piccolo spiraglio nel buio della situazione afgana, è stata la Risoluzione ONU e specificamente del Consiglio di Sicurezza emanata il 17 marzo 2022 che ha stabilito di riprendere “formali e stabili” relazioni con il Paese.
La Risoluzione, dove, da notare, non viene mai usato il termine Talebani, è stata approvata con 14 voti favorevoli e ha esteso per un anno, fino al 17.3.2023, la missione di assistenza ONU (UNAMA).
Astenuta la Russia ,che aveva addirittura minacciato il veto che non c’è stato, con la rimarchevole motivazione della mancanza di consenso alla Missione da parte dell’autorità de facto del Paese.
Il che getta una luce sinistra, alla luce dell’invasione ucraina, sull’idea putiniana, piuttosto cangiante, su cosa sia “consenso del popolo” o “autoderminazione dei popoli”.
Riguarda sempre la diplomazia russa la notizia delle dichiarazioni del Ministro degli Esteri della Federazione Russa Lavrov il quale, nel marzo 2022, a Tunxi, in Cina, dove si era riunita la Conferenza dei Paesi vicini all’Afghanistan, ha comunicato che il primo diplomatico afghano era stato accreditato a Mosca , inviato dalle “nuove autorità”
Nello stesso contesto il leader cinese Xi Jinping ha esposto la sua visione attuale dell’Afghanistan, un paese che “è giunto ad un punto critico di transizione dal caos all’ordine” e che un paese pacifico e stabile è l’aspirazione di tutti gli afghani.
A che prezzo non è detto. Di diritti comunque neanche a parlarne.
Gli USA, invece, di fronte alla notizia del ripristino sanzionato dell’uso del Burqa si dicono estremamente preoccupati, attesa l’evoluzione negativa dei diritti delle donne e dal fatto che si stanno erodendo i progressi tanto faticosamente conquistati.
Così in un comunicato recentissimo del Dipartimento di Stato USA, in cui, nell’espressione di questa preoccupazione, si associano tutti i partner internazionali.
E non si tratta di una affermazione neutra, pendente ancora la richiesta dei Talebani di scongelare gli aiuti del Fondo Monetario Internazionale destinati all’Afghanistan (450 miliardi di dollari Usa) e la riserva della Banca Centrale Afgana (9 miliardi di dollari USA).
La scelta dell’imposizione del burqa contraddice alla richiesta della comunità internazionale di condizionare il rilascio di queste somme ad una politica di maggiore tutela dei diritti dei cittadini in generale e delle donne in particolare.
Evidentemente il radicalismo ideologico è più forte della fame e della crisi umanitaria che sta travolgendo il Popolo di cui tutti dicono di occuparsi, e prevale su tutto.
Pasolini, Sciascia e il ‘processo’ di Luigi Cavallaro
Oggi pare che solo platonici intellettuali (aggiungo: marxisti) – magari privi di informazioni, ma certamente privi di interessi e complicità – abbiano qualche probabilità di intuire il senso di ciò che sta veramente succedendo: naturalmente però a patto che tale loro intuire venga tradotto – letteralmente tradotto – da scienziati, anch’essi platonici, nei termini dell’unica scienza la cui realtà è oggettivamente certa come quella della Natura, cioè l’Economia Politica.
Pier Paolo Pasolini, Lettera luterana a Italo Calvino, “Il Mondo”, 30 ottobre 1975.
In una delle rare fotografie che li ritraggono insieme, Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia si trovano a Zafferana Etnea, a pochi chilometri da Catania. L’anno, mirabilis, è il 1968; l’occasione, l’assegnazione ad Elsa Morante del premio letterario intitolato a Vitaliano Brancati.
Già allora, Pasolini e Sciascia si conoscevano e stimavano da tempo: ai primi degli anni Cinquanta risale l’antologia Il fiore della poesia romanesca, curata da Sciascia e prefata da Pasolini; e di “un vero, forte e commosso senso di fraternità” aveva scritto il poeta allo scrittore subito dopo aver letto Le parrocchie di Regalpetra (1956). Erano diventati amici: e all’indomani della sua morte, Sciascia ricorderà anzi di essere stato “la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare”; e più ancora, che “negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose”.
Del luogo, invero disadorno, dello scatto, con certezza non sappiamo: azzarderemmo che si tratti dello stesso albergo “Emmaus”, gestito dai salesiani, dove si svolgeva la cerimonia della premiazione; e comunque, ci piace pensarlo. Perché è proprio nel piazzale antistante quell’albergo che, due anni dopo, Sciascia avrebbe assistito ad una scena di cui sarebbero stati protagonisti giusto degli ex allievi dei salesiani. “Singolari allievi”, avrebbe rimarcato: “quasi tutti notabili della Democrazia Cristiana”; e già in una nota sul Corriere della Sera del settembre 1971, allusivamente intitolata “Esercizi spirituali”, di quella scena avrebbe dato una descrizione terrifica e precisa: “La sera, tutti insieme, recitavano il Rosario: andavano su e giù nello spiazzo avaramente illuminato, a passo svelto, con dei dietrofronti improvvisi, confusi, aggrovigliati; e quanto più si aggrovigliavano tanto più levavano le voci nei pater, negli ave, nei gloria. Con una nota di isteria, di paura. E in quel momento, anche chi (come me) li vedeva nella abietta mistificazione e nel grottesco, scopriva che c’era qualcosa di vero, qualcosa che veramente attingeva all’esercizio spirituale, in quel loro andare su e giù al buio, in quel biascicare preghiere, in quel confondersi e aggrovigliarsi: quella nota di isteria, di paura; quasi che per un attimo si sentissero, disperati, nella confusione di una bolgia, sul punto della metamorfosi. Appunto come nella dantesca bolgia dei ladri. E che l’attimo potesse diventare eternità”.
Da qui, da questa scena, vorremmo muovere per provare brevemente a dire di quelle “stesse cose” a cui pensavano e di cui scrivevano Sciascia e Pasolini. Quegli ‘esercizi spirituali’ casualmente osservati all’albergo “Emmaus” rappresenteranno per Sciascia una immagine così potente che qualche anno dopo ne trarrà quasi d’improvviso Todo modo, dove l’albergo salesiano diventerà l’“eremo di Zafer”. E mentre l’eremo ha “tutta una storia inventata a tavolino”, come spiega l’inquietante don Gaetano al narratore, ben diversamente, vien fatto a noi di aggiungere, accadrà per Todo modo: che, nella sinistra trasposizione cinematografica di Elio Petri (1976), diventerà non soltanto, come Sciascia stesso ebbe a dire, “un film pasoliniano, nel senso che il processo che Pasolini voleva e non poté intentare alla classe dirigente democristiana oggi è Petri a farlo”, ma soprattutto un’allegoria del futuro ‘processo’ e assassinio di Aldo Moro: così rassomigliante nella spregiosa caricatura di Gian Maria Volontè che lo stesso Moro, che vide il film in una saletta di proiezioni a Palazzo Chigi, lo giudicò “ignobile, ma inevitabile”.
“Inevitabile”: quasi a presentire anche lui stesso che, una volta abbandonata la verità alla letteratura, soltanto la letteratura avrebbe potuto farla duramente e tragicamente riapparire.
Il ‘processo’ all’intera classe dirigente italiana, anzitutto democristiana: ecco, appunto, la ‘cosa’ di cui Pasolini e Sciascia principalmente pensavano e scrivevano.
Todo modo viene pubblicato alla fine del 1974 (il ‘finito di stampare’ è del 9 novembre) e tra l’agosto e il settembre dell’anno successivo Pasolini scrive una serie di articoli (postumamente raccolti nelle Lettere luterane) su come e perché bisognerebbe processare i gerarchi democristiani. E puntigliosamente ne elenca i capi d’imputazione: “indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come suol dirsi, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono ‘selvaggio’ delle campagne, responsabilità dell’esplosione ‘selvaggia’ della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari, distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori”.
Ma ancor prima, del 14 novembre 1974, è Che cos’è questo golpe, con l’appassionata anafora dell’“Io so”; e del 1° febbraio 1975 Il vuoto di potere in Italia (raccolti entrambi negli Scritti corsari, diventeranno rispettivamente Il romanzo delle stragi e L’articolo delle lucciole). E in mezzo a questi due blocchi di scritti, sul Tempo del 24 febbraio 1975, la recensione a Todo modo: di cui Pasolini avverte l’essere “sottile metafora degli ultimi trent’anni di potere democristiano, fascista e mafioso”; e in cui scorge nitidamente “questa concezione quasi dantesca del mondo”, dove “la piramide del potere, monolitica all’esterno”, si rivela “estremamente complicata, labirintica, mostruosa all’interno”; e la cui novità sta semmai nel fatto che l’“uomo buono” (che, come l’Autore, è colui che “non accetta una condizione tradizionale fondata sull’ingiustizia” e il cui giudizio è quello “di un tribunale finalmente giusto”), trovatosi casualmente di fronte a quella piramide e condotto, ancora per caso, dentro i suoi incomprensibili meccanismi, “si fa giustiziere”: e “decide che alcuni componenti di quel ‘club’ del potere debbano morire, a scadenze regolari, da romanzo giallo”; condannati, certo, per il modo criminoso con cui gestiscono il potere, ma fors’anche perché “il potere è di per se stesso un crimine”.
Converrà però tornare sui capi d’imputazione che Pasolini muove a quella classe politica: ché, come lui stesso avverte, non è “una questione di moralità”. “La colpevolezza dei potenti democristiani da trascinare sul banco degli imputati non consiste in una loro immoralità (che c’è), ma consiste in un errore di interpretazione politica nel giudicare se stessi e il potere di cui si erano messi al servizio”. Ovvero, e con le parole dell’“articolo delle lucciole”: “gli uomini di potere democristiani sono passati dalla ‘fase delle lucciole’ alla ‘fase della scomparsa delle lucciole’ senza accorgersene”, nel senso che “non hanno sospettato minimamente che il potere, che essi detenevano e gestivano, non stava semplicemente subendo una ‘normale’ evoluzione, ma stava cambiando radicalmente natura”. E questo potere totalmente ‘altro’, che dalla metà degli anni Sessanta essi hanno servito senza accorgersene, “potrebbe aver già riempito il ‘vuoto’”: con ciò “vanificando anche la partecipazione al governo del grande paese comunista che è nato nello sfacelo dell’Italia”.
Al fondo c’è dunque la ‘grande trasformazione’ che l’Italia, come tutto il mondo occidentale, ha subito nell’ultimo trentennio: quella che comunemente designiamo come l’avvento della ‘società dei consumi’. Per effetto della quale – leggiamo ancora nell’articolo delle lucciole – i ‘valori’ del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico non contano più: “Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più”; e “a sostituirli sono i ‘valori’ di un altro tipo di civiltà, totalmente ‘altra’ rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale”.
Ed ecco, allora, la funzione del processo (anzi: del “Processo”, come scrive Pasolini in un articolo del 24 agosto 1975): esso renderebbe “chiaro” (“folgorante, definitivo”) che “governare e amministrare bene non significa più governare e amministrare bene in relazione al vecchio potere, bensì in relazione al nuovo potere”; “e che proprio nel non aver capito questo consiste il vero reato, politico, dei democristiani”.
Dolorosamente piegandosi, qualche anno dopo, su questi scritti, Sciascia scriverà nell’Affaire Moro che “Pasolini voleva processare il Palazzo quasi in nome delle lucciole”: “per le lucciole scomparse”. E acutamente noterà come, tre anni dopo quel 1° febbraio 1975, alle soglie del rapimento avvenuto nel giorno in cui si sarebbe dovuta votare la fiducia al primo governo sostenuto dal PCI, soltanto Moro (che, nella franca ammissione di Pasolini, era “per una enigmatica correlazione” colui che appariva “il meno implicato di tutti” nelle cose orribili organizzate in quegli anni) continuasse ad aggirarsi in quel “Palazzo”: “in quelle stanze vuote, in quelle stanze già sgomberate”; e sgomberate “per occuparne di altre ritenute più sicure: in un nuovo e più vasto Palazzo. E più sicure, s’intende, per i peggiori”.
Era insomma in ritardo, Moro, e solo, benché avesse creduto di essere alla guida del suo partito; ed era rimasto solo perché “il meno implicato di tutti”, ancorché, e proprio per ciò, “destinato a più enigmatiche e tragiche correlazioni”: così Sciascia riscrive l’affermazione dell’amico “fraterno e lontano”. Ed è riscrittura significativa: ché di Moro si è appena consumata la tragedia.
Fermiamoci un momento. Pasolini parla inizialmente “proprio di un processo penale, dentro un tribunale”, con “Andreotti, Fanfani, Rumor, e almeno una dozzina di altri potenti democristiani (compreso forse per correttezza qualche presidente della Repubblica)” che dovrebbero comparire “sul banco degli imputati”. Successivamente, esorta i suoi lettori ad assumere quell’immagine “come un’immagine metaforica” e il processo stesso “come una metafora”; ma la funzione rivelatrice che egli vi annette non cambia: ché si tratterebbe di rivelare ai cittadini italiani “qualcosa di essenziale per la loro esistenza”, ossia che “i potenti democristiani che ci hanno governato negli ultimi dieci anni non hanno capito che si era storicamente esaurita la forma di potere che essi avevano servilmente servito nei vent’anni precedenti (traendone peraltro tutti i possibili profitti) e che la nuova forma di potere non sapeva più (e non sa più) che cosa farsene di loro”. E “soltanto un Processo potrebbe dare a questa astratta affermazione i caratteri di una verità storica inconfutabile, tale da determinare nel paese una nuova volontà politica”.
Ma può un processo avere questo scopo? Può cioè un processo farsi levatore di una verità storica così inconfutabile da generare a sua volta una volontà politica adeguata al nuovo tempo? E un processo che avesse uno scopo del genere sarebbe realmente un processo?
La memoria del giurista corre rapida ad uno scritto di Salvatore Satta: “Il mistero del processo”, s’intitola; e apparve nel 1949 sulla Rivista di diritto processuale, per poi essere raccolto da Satta stesso nei Soliloqui e colloqui di un giurista (1968). Il confronto tra il risoluto presidente del Tribunale rivoluzionario parigino e la folla dei sanculotti inferociti che volevano far scempio dell’accusato maggiore Bachmann, comandante delle guardie regie, offre a Satta lo spunto per chiedersi, con la radicalità che gli è propria, se differenza alcuna passi tra quella folla dalle mani arrossate di sangue e quei borghesi in mantello nero e cappello a piuma, che li fronteggiano assisi sugli scranni della sala delle udienze; e specialmente perché mai questi ultimi, che pure in via di fatto potrebbero impunemente uccidere il maggiore Bachmann, intendano invece ucciderlo “attraverso un processo”.
E quest’ultima è questione che ben si attaglia al ‘processo’ invocato da Pasolini: e non soltanto perché il processo, una volta istituito, tende a vivere di vita propria e si ritorce come una serpe contro qualunque ‘scopo’ rivoluzionario per il quale lo si volle istituire (e se ne accorsero anche i rivoluzionari francesi, quando – per bocca del procuratore Fouquier-Tinville – domandarono alla Convenzione di essere liberati dalle forme che la legge prescriveva a garanzia degli imputati); ma specialmente perché il processo, nella sua intima essenza, è ‘giudizio’, e un giudizio può esser reso solo da chi è ‘terzo’: e l’esperienza giuridica insegna che ‘terzo’ può essere non solo chi, formalmente, non è ‘parte’, ma soprattutto chi dal processo non può ricavare giovamento o nocumento alcuno: e lo attestano certamente le norme sull’astensione e ricusazione del giudice, che dilatano il concetto di ‘parte’ fino ai confini che esso ha nel linguaggio comune, ma lo stesso principio della pubblicità del dibattimento penale: che, nella potente intuizione di Carnelutti, si spiega solo presupponendo che il pubblico, che ha diritto di assistere al processo, sia ‘parte’; e che appunto in quanto ‘parte’ gli sia vietato di manifestare opinioni o sentimenti o di tenere un contegno intimidatorio o provocatorio: ché se non lo fosse, se fosse cioè realmente estraneo al giudizio, di una simile prescrizione non vi sarebbe affatto bisogno.
Si dà dunque contraddizione flagrante, agli occhi del giurista, in un processo come quello invocato da Pasolini: perché sarebbe un processo in cui il giudizio della ‘parte’ (e cioè del pubblico dei rostri, a cui lo scrittore, in quanto intellettuale, dà voce: e si veda ancora l’articolo delle lucciole) si sostituirebbe al giudizio del ‘terzo’; sarebbe dunque ‘punizione’, non ‘giudizio’: e punire, avverte Satta, può chiunque, perché il punire non è che azione. “Punisce Minosse, avvinghiando la coda: ma il giudizio, quando l’anima si presenta di fronte a lui, è già compiuto, in una sfera nella quale egli, demonio, non può penetrare”.
Né ciò è tutto. Si può e anzi si deve dubitare che da un processo possa scaturire qualcosa di minimamente paragonabile ad una “verità storica inconfutabile”: e non solo per quanto riguarda il giudizio di fatto, che si compie tutto all’insegna del ‘probabile’, ma perfino per quanto concerne il giudizio di diritto, che Guido Calogero ci ha spiegato non essere affatto quella cosa ‘logica’ postulata dalla rassicurante figura del sillogismo giudiziale. La costruzione del fatto e della norma procedono da tecniche argomentative che possono tutt’al più mimare la dimostrazione matematica, giammai eguagliarla: e la riprova è che l’unica ‘certezza’ che può discendere da un processo è quella del ‘giudicato’, che già Ulpiano aveva spiegato che solo “pro veritate accipitur”.
“Verità storica inconfutabile”, in realtà, può essere quella, e solo quella, che si sa già prima del processo e che chiama all’azione e alla punizione. “La Convenzione, la Francia intera accusa gli imputati – scriveva Fouquier-Tinville – ciascuno ha nella sua anima la convinzione che essi sono colpevoli”; e gli farà sinistramente eco, quasi due secoli dopo, il comunicato con cui le Brigate Rosse annunciano la conclusione del ‘processo’ ad Aldo Moro: “Non ci sono segreti che riguardano la DC, il suo ruolo di cane da guardia della borghesia, il suo compito di pilastro dello Stato delle Multinazionali, che siano sconosciuti al proletariato […] Quali misteri ci possono essere del regime DC da De Gasperi a Moro che i proletari non abbiano pagato con il loro sangue? […] Non ci sono quindi ‘clamorose rivelazioni’ da fare”.
Sciascia, ineccepibilmente, chioserà: “Niente segreti, niente misteri, nessuna clamorosa rivelazione: tanto valeva – poiché lo si sapeva da prima, poiché non è una risultanza del processo – lasciare Moro in via Fani, affratellato nella morte a quei cinque servitori del SIM”. Che, nella terminologia brigatista, era appunto lo “Stato Imperialista delle Multinazionali” e, nella realtà dei carabinieri e poliziotti uccisi in occasione del suo sequestro, un datore di lavoro assai poco vigile sulla sicurezza dei suoi dipendenti.
Si potrebbe legittimamente domandare perché mai, allora, Pasolini insista sulla necessità di un processo che, se realmente tale, non potrebbe mai servire ai suoi scopi: che invece, e a tutto concedere, sono appunto gli scopi di un ‘giustiziere’. E si potrebbe forse rispondere, ancora con Satta, che per quanto nulla gli umani aborriscano come il giudizio, nulla desiderano come giudicare: “perché giudicare significa postulare l’ingiustizia di un’azione, invocare quindi il giusto contro di essa”.
Senza ‘giudizio’, in effetti, non c’è propriamente ‘pena’, come ben intesero Carnelutti e, prima di lui, Blaise Pascal, per il quale Gesù Cristo non aveva voluto essere ucciso senza un processo “perché è ben più ignominioso morire attraverso un giudizio che per una sedizione ingiusta”. E vien fatto allora di supporre che propriamente sia la ‘pena del giudizio’ a essere chiamata in causa nell’invocazione pasoliniana: quella ‘pena’ che faceva dire a Carnelutti che una sentenza di assoluzione è la confessione di un errore giudiziario e che Natalino Irti, recentemente commentando proprio quelle sue pagine, ha compendiato nell’afflizione del sentirsi giudicati.
Ne abbiamo avuto dimostrazione nel ‘processo’ che, ormai quasi trent’anni or sono, è stato poi effettivamente celebrato nei confronti dei massimi esponenti della politica nostrana: ossia, nel processo contro Sergio Cusani, che attenti sociologi hanno per ciò definito come un vero e proprio “rituale di degradazione”, con l’arena processuale eretta a palcoscenico (per l’occasione, televisivo) dell’assassinio rituale di un intero ceto politico e la pubblica accusa a denunciarne l’indegnità morale affinché si compisse, uno actu, la sua separazione dal corpo sociale e la purificazione del pubblico chiamato ad assistervi.
E come nei precedenti illustri di fra Diego La Matina e, prima di lui, di Domenico Scandella detto Menocchio (il primo conterraneo di Sciascia, il secondo di Pasolini), in quel processo non si sono udite che le accuse; e se per Menocchio e fra Diego ciò era dipeso dalla procedura del Sant’Uffizio, che raccomandava che “nelle sentenze non si cavino li motivi e le raggioni che dona il reo […] perché si afferma che alcuni s’hanno imparato sentendo queste sentenze”, nel caso degli uomini politici interrogati nel corso del processo Cusani si dovette più banalmente al fatto che erano tutti imputati (o ancora semplici indagati) di reato connesso e non parti di quel processo.
E anche in questa occasione, come già per le processioni del Sant’Uffizio a cavallo, tanta gente si mosse per godere la scena: l’audience di “Un giorno in Pretura” raggiunse picchi impensabili; e ad ognuna delle cinquantuno udienze in cui si dipanò il dibattimento, code di bravi cittadini si formavano fin dal mattino presto davanti al Palazzo di Giustizia milanese per accaparrarsi ognuno un piccolo spazio nella parte dell’aula accessibile al pubblico, sì da poter anche loro carpire una qualsiasi reliquia visiva della ‘giustizia’ che si offriva al loro godimento. E da ‘code’ simili, del resto, quel processo si era originato: e di cittadini meno bravi, ma che non chiedevano altro che di confessarsi delle loro colpe negli uffici al quarto piano della Procura della Repubblica e quasi guidavano la mano dei giudici verbalizzanti a vergare il futuro capo d’imputazione.
E nessuna importanza, naturalmente, si diede all’ammonimento, che pure emerse, che l’annichilimento dei partiti politici avrebbe implicato l’emergere in vece loro di ‘cose’ assai meno democratiche e assai più asservite al ‘nuovo potere’: Max Weber avrebbe probabilmente scorto in quel processo la celebrazione della Gesinnungsethik, l’irresponsabile “etica dei principî”; e Michel Foucault, certamente, una cerimonia attraverso cui quel ‘nuovo potere’ si manifestava in tutto il suo splendore.
Toccherà perciò ad un avvocato, e non ad un giudice, cavare la morale, accostando provocatoriamente la ‘delega’ attribuita alle Brigate Rosse per assassinare Moro e quella alle procure di mezza Italia per mandare al rogo la ‘partitocrazia’. E anche a noi vien fatto di dire che terrificante è il processo, quando fedi, credenze, superstizioni, ragion di Stato o ragion di fazione lo dominano o vi si insinuano; e che in quel ‘fare i nomi’ da parte di uomini che con gli accusati avevano condiviso il potere (e non sempre come minori responsabili) stava, in definitiva, il vero colpo di Stato.
Eppure, può senz’altro capitare che dalla macchina processuale (“quel congegno indiavolato di stantuffi e di pulegge”, come se l’immaginava Saru Argentu, inteso Tararà, in una celebre novella di Pirandello) venga fuori una qualche scheggia o un frantumo di una verità ignota, che – come leggiamo nell’Alfabeto pirandelliano, ad vocem “Verità” – riesce nondimeno a rovesciare o a disgregare le apparenze delle menzogne convenzionali; o quanto meno, aggiungiamo noi, a svelarne l’intima struttura.
È il caso del ‘processo’ ad Aldo Moro: nei cui ‘atti’ fortunosamente pervenutici (il Memoriale, da poco criticamente edito per la cura della Direzione Generale degli Archivi dello Stato) leggiamo che “di fronte a molteplici richieste circa gli assetti economico sociali dell’Europa di domani, ed in essa dell’Italia, devo dire onestamente che quello che si ha di mira è il rinvigorimento, su base tecnocratica, del modo di produzione capitalistico”; e che “il nerbo della nuova economia, assunto come condizione di efficienza, è l’imprenditorialità privata ed anche pubblica con opportuna divisione del lavoro”.
È detto con le parole di Moro: ma si tratta precisamente della sostanza del ‘nuovo potere’ di cui scriveva Pasolini. E non solo negli articoli raccolti negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane, ma coevamente ad essi in quel romanzo incompiuto che è Petrolio e che, secondo la testimonianza di Paolo Volponi, avrebbe dovuto essere, nell’intento del poeta, la sua summa politica.
Ne è prova il testo di una conferenza di Eugenio Cefis (allora presidente della Montedison e personaggio chiave, ancorché sotto mentite spoglie, del romanzo pasoliniano) che il poeta intendeva collocare a metà del romanzo: “La mia patria si chiama multinazionale”, giusta il titolo con cui, nel 1972, l’aveva pubblicata “L’erba voglio”, la rivista di Elvio Fachinelli; e vi si raccontavano “le prospettive di un’economia senza confini” (così, invece, recitava il titolo originale della conferenza), prevedendosi che, di lì a trent’anni, oltre due terzi della produzione industriale mondiale sarebbe stata in mano alle duecento o trecento maggiori società multinazionali e si sarebbe assistito allo svuotamento del potere politico nazionale a tutto vantaggio delle direzioni delle grandi imprese; e ne sarebbero state travolte le stesse imprese di Stato, che rispondendo direttamente al potere politico avrebbero avuto grosse difficoltà a far concorrenza ai nuovi Moloch dell’economia mondiale, assai più liberi di muoversi da un Paese all’altro; e mentre agli Stati non sarebbero rimasti che compiti di mediazione tra le imprese e nei loro rapporti con i sindacati e i poteri locali, ne sarebbe venuta la necessità di ripensare lo stesso ruolo delle forze armate (Cefis si rivolgeva agli allievi dell’Accademia militare di Modena): le quali, in un mondo unificato sotto le insegne del capitale finanziario, non avrebbero più combattuto per difendere i confini nazionali, ma avrebbero dovuto trasformarsi in apparati professionalmente organizzati capaci di intervenire ovunque fossero in gioco i valori di ‘libertà’ e ‘democrazia’.
Annotando quella conferenza per la rivista di Fachinelli, un soi disant Giorgio Radice (e diciamo così perché pare si trattasse in realtà di Giuseppe Turani, allora in forza all’Espresso e poi destinato a partecipare delle grandi fortune editoriali della Repubblica di Scalfari) ebbe a chiedersi se questi padroni planetari che avrebbero fatto fuori gli Stati e i partiti nazionali non incarnassero potenzialmente “un nuovo fascismo”: “saltano, insomma, tutte le mediazioni politiche: restano di fronte i padroni e i sindacati operai”, ma i primi sarebbero stati “gli unici capaci di dare un lavoro, i mezzi tecnici, i soldi, oltre che agli operai, anche ai militari”.
E fu giudizio che Pasolini fece suo: meno di due mesi dopo aver ricevuto da Fachinelli la rivista con la conferenza di Cefis, intervenendo alla Festa provinciale dell’Unità di Milano, esortò i militanti comunisti a leggere “il discorso di Cefis agli allievi di Modena”, ché vi avrebbero trovato una nozione di ‘sviluppo’ affatto coerente con la visione del mondo del ‘nuovo potere’ che si andava affermando: “una nozione di sviluppo come potere multinazionale, fondato fra l’altro su un esercito non più nazionale, tecnologicamente avanzatissimo, ma estraneo alla realtà del proprio paese”, e che avrebbe bensì dato “un colpo di spugna al fascismo tradizionale, che si fondava sul nazionalismo o sul clericalismo”, ma per far assestare in sua vece “una forma di fascismo completamente nuova e ancora più pericolosa”: “il vero fascismo”, dirà poco dopo all’Europeo, da cui poi sarebbe disceso “l’antifascismo di maniera: inutile, ipocrita, sostanzialmente gradito al regime”.
Pasolini ne scrisse un’ultima volta in una lettera pubblica a Italo Calvino, la medesima da cui abbiamo tratto l’esergo a queste annotazioni e che Sciascia considerò, al pari della sua morte, una “testimonianza di verità”: la verità sulla forma di vita in cui oggi viviamo e che, per menzogna convenzionale, chiamiamo appunto ‘democrazia liberale’.
CEDU e cultura giuridica italiana. Il primo libro virtuale di Giustizia Insieme
Prefazione di Raffaele Sabato
La bella iniziativa dei responsabili di Giustizia Insieme di pubblicare un volume virtuale su CEDU e cultura giuridica italiana si colloca nel momento storico più delicato che la vicenda dei diritti umani abbia attraversato dalla fine della seconda guerra mondiale.
In virtù dell’art. 58 della Convenzione la Federazione Russa continuerà a essere vincolata dagli obblighi derivanti dal testo internazionale per gli atti e le omissioni di cui si dovesse rendere responsabile fino al 16 settembre 2022, avendo le Parti contraenti previsto un ritardato effetto della cessazione di uno Stato membro del Consiglio d’Europa al fine di scoraggiare fuoriuscite strategiche, finalizzate alla sottrazione agli obblighi stessi; non si può – però – immaginare che la disposizione sia stata concepita avendo presente la possibilità di un aggressione e di un conflitto di così vasta portata (e così gravidi di sofferenze e lutti) come quelli che si stanno consumando in Ucraina, o la possibilità di un atteggiamento quale quello in essere da parte della Federazione Russa.
Quali che siano le scelte da operarsi in ordine al contenzioso esistente nei confronti della Federazione Russa, e a quello che esisterà in relazione ad atti e omissioni a verificarsi sino al 16 settembre, sta di fatto che da quella data oltre 146 milioni di europei – tanti sono gli abitanti della Russia – si troveranno privi della protezione della Convenzione per gli eventi successivi, una protezione che peraltro in maniera cospicua hanno sinora richiesto (tanto che i ricorsi pendenti erano 18.200 al 30 aprile scorso, pari a un quarto di tutte le pendenze della CEDU).
Il panorama di crisi dei diritti umani è d’altro canto ben più esteso: al di là di altri conflitti pur esistenti, la Corte di Strasburgo si è da ultimo confrontata con gravi violazioni dello stesso nucleo essenziale delle garanzie dello Stato di diritto, in maniera molto evidente in Turchia e – sotto alcuni profili – in Polonia, per citare solo – appunto – quanto è evidente.
Sullo sfondo, poi, si affacciano all’esame della CEDU questioni di complessità sinora inedita, concernenti non solo e non tanto, ad es., i temi dell’emergenza sanitaria (che si spera avviata a conclusione), ma una interamente nuova “generazione” di diritti umani, come quelli connessi ad es. al cambiamento climatico, al trattamento dei dati, alla verità nell’informazione e così via.
Le difficoltà si estendono ancora al profilo interno dell’organizzazione della Corte di Strasburgo. Come ha detto recentemente il presidente, Robert Spano, la CEDU - al pari di alcune Corti nazionali - deve sforzarsi di fare meglio per quanto riguarda i modi, e soprattutto i tempi, di pronuncia delle sentenze: la lunghezza procedurale è essa stessa una lesione dei diritti umani. In questo senso, nel 2021 la Corte di Strasburgo ha adottato una nuova strategia di case management, la cosiddetta “strategia di impatto”, che a regime dovrebbe risolvere il problema, attraverso la pronuncia di sentenze brevi nei procedimenti ordinari, permettendo alla Corte di pronunciare sentenze lunghe e complesse solo nei casi di importanza giurisprudenziale o che riguardino questioni socialmente nuove.
Ipotizzando che, per l’Italia, i casi di impatto siano un centinaio, i prossimi anni dovrebbero condurre alla loro definizione in tempi più contenuti rispetto al solito. Un quesito deve però riguardare gli altri circa 3.500 casi pendenti contro l’Italia: quale sarà il loro esito? Ebbene, non deve suscitare a mio avviso scandalo – anzi deve spingere a un’analisi delle conseguenze – il fatto che la nuova tecnica di case management preveda una interpretazione estensiva della nozione di “giurisprudenza consolidata”, in presenza della quale è convenzionalmente consentita la decisione da parte di un comitato di tre giudici, essendo assegnati alla camera o alla grande camera solo i casi di “impatto”. D’ora in poi inoltre – e già qualche sentenza è stata emessa con riferimento all’Italia – i comitati possono pronunciare sentenze abbreviate, per “abbreviate” intendendosi tale aggettivo alla lettera …
L’“impatto” dell’“impatto” – sia consentito il gioco di parole – dovrebbe essere quindi quello di concentrare il materiale di rilevanza giurisprudenziale su un numero limitato di pronunce, le quali soltanto potranno essere utilizzate per lo studio, le citazioni, il dialogo giudiziario e quant’altro, non avendo le sentenze di comitato alcun valore di precedente (a fortiori ciò valendo per le sentenze abbreviate che, al palato giuridico italiano, potrebbero risultare di gusto sinora … sconosciuto).
Con “retropensieri” collegati agli scenari che ho velocemente tratteggiato (il conflitto in Ucraina, la crisi dello Stato di diritto in alcuni paesi, le nuove figure di diritti umani, le nuove modalità di lavoro della CEDU) ho potuto – su invito di Paola Filippi e Roberto Conti, che ringrazio - rileggere il cospicuo materiale di analisi e idee contenuto nelle 13 interviste organizzate dalla redazione di “Giustizia Insieme”.
La bravura degli intervistati, ma anche degli intervistatori, ha consentito in tempi recenti alla rivista di imporsi come una delle sedi importanti di dibattito sui temi della CEDU.
Vedere le interviste raccolte – per chi come me le aveva già lette – rende evidente l’organicità del progetto, per completezza dei temi e per pluralismo delle voci. Immagino poi che, per chi si accosti per la prima volta ai testi del volume “virtuale”, la soddisfazione sia ancora maggiore, potendo il lettore scegliere entro un’ampia varietà di temi circa i rapporti tra i rami del diritto interno e la CEDU, con alternanza di voci di avvocatura, accademia e magistratura, senza tralasciare i temi contermini della Carta dei diritti fondamentali.
Per assolvere compiutamente all’onere (che senza dubbio è anche onore) connesso al compito di prefatore che mi è stato assegnato credo di essere tenuto a indicare possibili piste che continuino il percorso sinora segnato dalle interviste oggi raccolte in volume.
Ebbene, qualche pista si può ricavare dai “retropensieri” che ho dianzi indicato: non appena chiarito il quadro (che allo stato non è chiaro neanche agli addetti ai lavori, stante la fase attiva del conflitto) sarà a mio avviso necessario discutere del ruolo della giustizia internazionale (e, se ritenuto, della stessa CEDU) in ordine alla crisi in Ucraina. Parimenti – anche sulla base dell’evoluzione giurisprudenziale in corso – i lettori potrebbero essere aggiornati sui profili più rilevanti della crisi dello Stato di diritto in alcuni paesi. Il contenzioso di “impatto” su nuove evoluzioni dei diritti umani e le nuove modalità di lavoro della CEDU potrebbero terminare il quadro.
Si dirà: e l’Italia? Per una serie di ragioni non mi sento la persona più in grado di fornire indicazioni sul punto.
Fatto sta che, avviandosi a decrescere il materiale giurisprudenziale di Strasburgo utilizzabile per fare riflessioni in dialogo con gli operatori giuridici interni, si dischiudono nuovi orizzonti la cui esplorazione da parte degli operatori interni, invece, raccomando: sempre più in futuro il dialogo si dovrà costruire tra le acquisizioni nazionali e pronunce non necessariamente riguardanti l’Italia, con l’esigenza di più delicati confronti “al netto” delle specificità dell’ordinamento rispetto al quale la pronuncia internazionale è stata resa. È una sfida alla quale noi giuristi italiani siamo sicuramente chiamati.
Un altro fronte potrebbe essere quello di ampliare il novero degli interlocutori: ad es. a me piacerebbe sentire intervistati, esemplificativamente: - l’Agente del governo italiano e/o i collaboratori dello stesso, facenti capo a un centro decisionale e propulsivo dal ruolo assai delicato e che dovrebbe avere il polso completo del contenzioso in corso; - gli esponenti degli uffici legislativi competenti per i vari rami di contenzioso, sì da sondare quali conformazioni normative essi ipotizzino (e come procedono alle analisi previsionali circa l’evoluzione del contenzioso); - i responsabili, presso il Consiglio d’Europa e la Rappresentanza italiana a Strasburgo, dell’esecuzione delle sentenze CEDU.
Per altro verso, quand’anche le modeste proposte sopra formulate fossero inidonee o irrealizzabili, ho una proposta “di riserva”, molto semplice e fondata sull’ottimo lavoro sinora svolto da “Giustizia Insieme”, per il quale ancora mi congratulo: continuate così!
Strasburgo, 11 maggio 2022
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