ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Questo contributo inaugura la discussione aperta da questa Rivista sul disegno di legge di riforma costituzionale n. 935, comunicato alla Presidenza del Senato il 15 novembre 2023, che prende il nome di premierato.
Premierato sì, ma non così
di Stefano Ceccanti
Il tema del premierato fu sviluppato per la prima volta in modo compiuto da Maurice Duverger (che poi fu eletto dal Pci in Italia al parlamento europeo nel 1989) e dalla sinistra democratica e socialista francese, riunita nel Club Jean Moulin, attraverso il libro “Lo Stato e il cittadino”, negli anni che vanno dal 1956 al 1961.
L’idea era relativamente semplice. Il parlamentarismo della Quarta Repubblica francese, in presenza di partiti deboli e indisciplinati, non si adattava alle necessità di una grande democrazia, ma era preferibile pensare a una forma parlamentare rinnovata anziché a una soluzione di tipo presidenziale (che poi prevalse nella forma originale del semi-presidenzialismo voluta da de Gaulle).
Le grandi democrazie parlamentari, riflettevano Duverger e il Club Jean Moulin, si basano su una regolarità che si è affermata a partire dal Regno Unito: la legittimazione diretta in sede elettorale di una maggioranza e del suo premier, che poi viene formalizzata in Parlamento.
Dentro la categoria di forma parlamentare, in cui il Governo è emanazione della maggioranza parlamentare ed è bilanciato da vari gruppi di opposizione (nei Paesi anglosassoni si distingue tra il gruppo più grande, l’Opposizione, dalle ulteriori minoranze), va quindi collocata una sotto-tipologia neo-parlamentare in cui il rapporto fiduciario nasce dal voto, distinta dall’altra quella vetero-parlamentare in cui, come nella Quarta Repubblica, esso nasceva solo da combinazioni parlamentari. Anche le limitate eccezioni come quelle inglesi del cambio di Premier nel Regno Unito in corso di legislatura a ben vedere sono apparenti: si cambia a favore di un esponente in grado di garantire un rapporto migliore col corpo elettorale per le elezioni future. È sempre il legame fiduciario col corpo elettorale che viene alla luce.
A questo esito neo-parlamentare, che valorizza il ruolo dell’elettore, si può pervenire in vari modi, e molto dipende del sistema dei partiti. L’importante è adottare regole che in un contesto specifico siano in grado di produrre quell’esito, non mutuarle pedissequamente. È decisivo saper leggere concretamente il contesto in cui si opera.
Se il sistema è molto disciplinato, con pochi partiti, organizzati in prevedibili coalizioni e sulla base del rispetto della convenzione per cui si riconosce al primo partito dentro la coalizione di vedere scelto come Premier la persona che ha indicato prima del voto, l’esito neo-parlamentare si potrebbe anche avere anche con sistemi proporzionali. SI potrebbe poi puntellare, dopo il voto, tale esito con norme costituzionali relativamente flessibili. È il caso della Germania: grazie alla soglia di esclusione del 5 per cento, capace di ridurre il numero dei partiti presenti in Parlamento e, successivamente alle elezioni, soprattutto grazie all’articolo 68 della Costituzione. Esso consente al Cancelliere, con alcuni limiti, di prospettare uno scioglimento anticipato in caso di rigetto della fiducia. Un articolo ingiustamente misconosciuto, mentre è conosciuta e decisamente sopravvalutata la mozione costruttiva di cui all’articolo precedente, scarsamente efficace negli ordinamenti in cui tradizionalmente le crisi sono extra-parlamentari, come segnalano gli studiosi Lauvaux e Le Divellec.
Se invece il sistema dei partiti è meno disciplinato, si dovrà ricorrere in sede elettorale a sistemi più selettivi, che puntino a costruire una maggioranza chiara già in sede di voto, sistemi che aggreghino più che sbarrare, quindi con collegi uninominali o con premi, come già aveva avvisato Roberto Ruffilli negli anni ’80. In sede costituzionale si dovrà optare per regole più stringenti, in particolare di regolamentazione del potere di scioglimento, in modo che esso funzioni efficacemente come deterrente per le minoranze interne alla maggioranza. Detto in altri termini: in un contesto come il nostro le regole elettorali tedesche e la sola sfiducia costruttiva (sperimentata con esiti nulli nei Comuni italiani tra 1990 e 1993) non ci farebbe spostare dal vetero al neo-parlamentarismo.
Duverger e il Club Jean Moulin, a partire quindi da questa ispirazione, proposero per la Francia un sistema concreto di voto con due schede: una per il premier, l’altra per i deputati, con lo stesso identico metodo, uninominale a doppio turno per designare un vincitore insieme alla sua maggioranza e la clausola del simul stabunt simul cadent per mantenerlo durante la legislatura. Ogni crisi, sia originata per dimissioni-scioglimento del Premier, sia per mozione di sfiducia della Camera (sfiducia distruttiva) avrebbe ricondotto le dinamiche politiche all’elettore-arbitro.
I due livelli vanno distinti: al sistema elettorale si può chiedere, con criteri di ragionevolezza, di favorire al massimo grado un esito predeterminato, ma la stabilità successiva dipende dalle norme costituzionali.
Duverger criticava il sistema semi-presidenziale adottato in Francia, , pur essendo più noto a livello accademico soprattutto per il suo contributo dottrinale a tale sistema, perché non riteneva logico che il vertice dell’esecutivo venisse eletto (lui solo) per un mandato più lungo, rafforzando l’elemento personale, e solo in seguito si formasse una maggioranza con le elezioni legislative sfalsate nel tempo. Per di più riteneva il sistema meno equilibrato di quello neo-parlamentare sull’uso dello scioglimento. Il Premier che scioglie mette in causa sé stesso, il Presidente che scioglie invece resta in carica. Tuttavia rispetto al vetero-parlamentarismo della Quarta Repubblica lo riteneva pur sempre un male minore e per questo insieme al Club Jean Moulin votò Si al referendum del 1962 sull’elezione diretta, chiedendo però che in futuro anche il mandato del Presidente dovesse essere di cinque anni e non di sette e che si votasse lo stesso giorno per Parlamento e Presidente. A questo sistema si è avvicinata la riforma costituzionale francese del 2000 che ha equiparato i mandati anche se li ha messi in stretta sequenza e non in contestualità. Il punto è comunque che lo studioso del semi-presidenzialismo Duverger ha sempre ritenuto preferibile come prima opzione quella che Augusto Barbera definì un’alternativa neo-parlamentare al presidenzialismo.
Questa impostazione di Duverger, risultata perdente in Francia, ha anzitutto ispirato in Italia diversi studiosi: si vedano le conclusioni della celebre voce di Elia sulle forme di governo del 1970, il noto intervento di Mortati de 1973 sulla rivista “Gli Stati”, i lavori di Serio Galeotti e quelli appunto di Augusto Barbera. Quindi ha ispirato anche concrete riforme: la legge Ciaffi del 1993 sull’elezione diretta del sindaco che, anche grazie al lavoro parlamentare di Barbera e alla presenza costante di Duverger nel nostro Paese come parlamentare europeo per il Pci/Pds fino al 1994, ha ripreso esattamente la formulazione del 1956 sulla forma di governo (simul simul), mentre si è discostata dalla formula elettorale adottando il premio di maggioranza anziché i collegi uninominali. Quella soluzione fu ripresa anche per le Regioni nel doppio passaggio 1995 (riforma elettorale) e 1999 (riforma costituzionale, dopo che quella elettorale da sola aveva rivelato di essere impotente per il prosieguo della legislatura).
Essa fu anche malamente ripresa in Israele dove fu curvata in modo illogico: un premier eletto direttamente doveva galleggiare su un parlamento eletto con la proporzionale pura. Un modello destinato inevitabilmente al fallimento, ma appunto perché deviante rispetto all’impostazione originaria, non perché la rispecchiasse. Esattamente come, a parti invertite, de Gaulle immaginò un sistema nuovo (elezione del Presidente con maggioritario) a differenza di quello rivelatosi sbagliato a Weimar (elezione del Presidente con il proporzionale).
La Tesi 1 della coalizione dell’Ulivo e poi l’articolato del senatore Cesare Salvi alla Bicamerale per l’intero centrosinistra (simile ad un articolato di Cossutta e Bertinotti per Rifondazione Comunista) ripresero quel modello con alcuni adattamenti. Un sistema elettorale basato sui collegi uninominali (che agevola anche se non garantisce una maggioranza, ma che valorizza di più il voto al singolo parlamentare, che determina per così dire un effetto maggioritario più naturale rispetto al premio) e il riconoscimento del potere di scioglimento, ma con una flessibilità maggiore rispetto al simul simul praticato per comuni e regioni, riprendendolo dal modello spagnolo. Infatti in Spagna il Premier, ove abbia problemi di coalizione, ma sia ancora popolare nel Paese, può proporre al Re in modo vincolante elezioni anticipate per ricompattarla o andare effettivamente al voto (come ha fatto Sanchez pochi mesi fa), ma se invece si è logorato nel suo rapporto con l’opinione pubblica può anche vedersi sfiduciato con mozione costruttiva, e sua conseguente sostituzione al vertice dell’esecutivo. Un modello simile a quello evocato da Mortati nel 1973, presentato dal senatore dc Aldo Di Matteo nel 1992 in Parlamento congiuntamente a una proposta di iniziativa popolare delle Acli. Il testo Cossutta-Bertinotti, ispirandosi all’articolo 68 della Legge Fondamentale tedesca, lasciava invece alcuni margini al Capo dello Stato e alla Camera rispetto alla proposta di scioglimento del Cancelliere. Negli anni successivi, nel 2001, le proposte Tonini-Morando (Pd) e Malan (allora Fi, oggi Fdi) riprendevano il modello svedese in cui il Governo, anche sfiduciato può decidere se dimettersi o decidere per elezioni anticipate. Sono variazioni, pur importanti sul tema dello scioglimento come deterrente per Governi di coalizione superando la situazione attuale senza giungere alle rigidità del simul..simul.
Non si può quindi sostenere che l’ispirazione del Premierato coincida col modello illogico di Israele, che essa sia strutturalmente di destra quando nasce obiettivamente a sinistra, da Duverger a Salvi, e che non abbia dietro di sé riflessioni consolidate.
Tuttavia questo non può portare a considerare accettabile qualsiasi versione dello stesso, qualsiasi tentativo di partire dal Premierato per arrivare a qualsiasi soluzione tecnica. Anzitutto esso nasce in una condizione di sistema di partiti frammentato e il modo naturale di semplificarlo, spiegava sempre Duverger, è un sistema a doppio turno. Ce ne possono essere vari, basati sui voti o sui seggi, tuttavia c’è un’esigenza di legittimazione di un Premier e della sua maggioranza che non può ritenersi soddisfatta da una minoranza ristretta del corpo elettorale. Il secondo turno eventuale è una polizza di assicurazione contro forze estremiste che potrebbero essere in grado, col proprio elettorato militante, di arrivare in testa in un primo turno o di essere comunque determinanti nella coalizione più votata, ma non di vincere al secondo quando gli elettori possono manifestare le proprie seconde scelte. Basti vedere quanto accade in alcuni turni elettorali francesi. Il secondo turno ha un indubbio effetto deradicalizzante.
Il testo proposto dal Governo è elusivo su questo punto decisivo: non ci si spiega in quanti turni debba essere eletto il premier e come si formi la relativa maggioranza, anche in presenza di una giurisprudenza costituzionale che, in caso di adozione di premi di maggioranza innestati sulla proporzionale, accetta solo uno scostamento ragionevolmente limitato tra voti e seggi sulla base di una soglia significativa per accedere al premio. Il testo all’esame del Senato ci parla di elezione diretta e di maggioranza garantita in seggi, ma non ci spiega se il turno sia unico o doppio (come fanno in Europa con la previsione del ballottaggio a due le Costituzioni in materia di elezioni dirette), se si debba prevedere una soglia e cosa accada se essa non sia raggiunta. Inoltre, a differenza dei modelli sin qui proposti in modo più puntuale (ad esempio quelli Salvi e Cossutta-Bertinotti) che prevedevano un unico voto per i deputati in collegi con indicazione del relativo Premier, qui i voti restano almeno due (Camera e Senato distinti), ma forse diventano anche tre (non si capisce, dice lo studio del Servizio Studi della Camera) se si voti separatamente per il Premier oppure no. Per di più: cosa fare in caso di risultati divaricanti, specie tenendo conto che il voto per gli italiani all’estero sulle schede di Camera e Senato pesa per il due per cento (è loro pre-assegnato un limitato diritto di tribuna di 8 deputati e 4 senatori), mentre potrebbero pesare il dieci per cento su quella del Premier, essendo gli italiani all’estero cinque milioni? Il testo non lo dice.
Accanto a questi problemi relativi ai pesi, ci sono quelli dei contrappesi da aggiornare. Prendo l’aspetto più delicato, quello del Capo dello Stato. Non mi riferisco tanto alla questione dei suoi poteri che spesso sono citati in modo non convincente; l’adozione del Premierato ha senso se l’insieme delle norme porta a un ruolo più efficace del corpo elettorale, e quindi non può non limitare, sia pur senza annullarlo, il ruolo del Presidente sulla nomina del Governo e a responsabilizzare di più il Premier sullo scioglimento. Perché il Presidente sia davvero un secondo motore, che agisce in caso di crisi, e non diventi il primo a causa della debolezza del sistema dei partiti, occorre appunto valorizzare il ruolo del corpo elettorale. La questione dei poteri è stata nella sostanza risolta da un emendamento del senatore Pera che distingue quelli propri esentando i relativi atti dalla controfirma del Governo, ma resta invece intatto quello della sua elezione in Camere elette, sovrarappresentando lo schieramento vincente. Perché non ampliare la base elettorale del collegio aggiungendo i parlamentari europei eletti in Italia e un numero di sindaci uguale a quello dei consiglieri regionali e, al tempo stesso, elevare il quorum al 55 per cento in modo da rendere indisponibile la carica a una scelta della sola maggioranza che potrebbe incidere anche sull’effettivo esercizio dei poteri?
Sono le riflessioni che abbiamo maturato con un gruppo traversale di associazioni (Libertà Eguale, Io cambio, Magna Carta, Riformismo e Libertà) e che sono in sostanza riassumibili con lo slogan “Premierato sì, ma non così’”. È su questo confronto di merito che occorre indirizzarsi puntualmente. Se si riconosce che l’impostazione di fondo dovrebbe essere quella originaria di Duverger e del Club Jean Moulin, difficile poi non trovare accomodamenti ragionevoli sui punti problematici evidenziati.
(Immagine: Francesco Santosuosso, Parlamento, olio e acrilici su tavola, Biennale di Venezia 2011, regione Lombardia)
I.A.: il “complesso di Frankenstein” e l’urgenza di regolare.
Intorno a “Intelligenza artificiale. Quali regole” di G. Finocchiaro (ed. il Mulino, 2024)
Recensione di Antonio Scalera
Il 13 marzo scorso, il Parlamento Europeo ha approvato il regolamento sull’intelligenza artificiale (c.d. “AI ACT”), frutto dell'accordo raggiunto con gli Stati membri nel dicembre 2023[1].
Il Regolamento entrerà in vigore venti giorni dopo la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell'UE e inizierà ad applicarsi 24 mesi dopo l'entrata in vigore, salvo alcune eccezioni.
Il Regolamento contiene, all’art. 3, la seguente definizione di "sistema di IA": “un sistema automatizzato progettato per funzionare con livelli di autonomia variabili e che può presentare adattabilità dopo la diffusione e che, per obiettivi espliciti o impliciti, deduce dall'input che riceve come generare output quali previsioni, contenuti, raccomandazioni o decisioni che possono influenzare ambienti fisici o virtuali”.
Questo atto normativo del legislatore europeo costituisce una prima risposta, a livello unionale, a quell’ “urgenza di regolare” il fenomeno dell’intelligenza artificiale, di cui parla nella sua recente pubblicazione, “Intelligenza artificiale. Quali regole?” Giusella Finocchiaro, ordinaria di diritto privato e di internet all’Università di Bologna, una dei maggiori esperti italiani della materia.
“Urgenza di regolare” che – osserva l’autrice – nasce dalla paura che la tecnologia ci possa sopraffare e dominare.
In poche e lucide pagine, rivolte non solo ad un pubblico di giuristi, la Finocchiaro affronta essenzialmente tre temi.
Anzitutto, la paura che l’intelligenza artificiale suscita (“il complesso di Frankenstein”[2]) e che, come si è detto, porta a invocare nuove regole, per rassicurare e placare l’ansia.
Poi, il linguaggio utilizzato, che costruisce sapientemente una nuova narrazione e un nuovo mito, denso di parole seducenti, ma ingannevoli: si parla di “intelligenza”, appunto; ma anche di “oracolo”, per riferirsi all’attività dei sistemi di I.A. di fornite risposte alle domande; e ancora di “allucinazioni”, ovvero gli esiti errati delle elaborazioni di ChatGPT; di “incantesimi”, per indicare le inserzioni nei comandi impartiti ai sistemi di I.A., i c.d. prompts, inserzioni che consentono di aggirare le limitazioni e i divieti imposti a ChatGPT e alle applicazioni analoghe e di condizionarne il comportamento.
Infine, la retorica che avvolge l’intelligenza artificiale e che, certamente, influenza anche il ragionamento giuridico. Comprendere il fenomeno è il primo indispensabile passo per poi decidere come procedere, per valutare quali siano le regole applicabili e come applicarle e se debbano esserne create di nuove.
Accanto alla definizione di I.A., di natura descrittiva ed estremamente generale, contenuta nel regolamento, ve ne sono molte altre, tra le quali è ancora attuale quella elaborata da A. Turing nel 1950, secondo cui l’intelligenza artificiale può essere definita come “la scienza di far fare ai computer cose che richiedono intelligenza, quando vengono fatte dagli esseri umani”[3].
La ricerca di una definizione porta a interrogarsi sulla soggettività dell’intelligenza artificiale.
La domanda, indubbiamente suggestiva - “l’intelligenza artificiale è cosciente?” - prelude necessariamente alla costruzione di un modello di responsabilità
L’autrice è dell’opinione che, de iure condendo, si debba formulare un modello giuridico adeguato a dare risposte sulla responsabilità per i danni cagionati dai sistemi di I.A.
A questo riguardo, vi è chi propone, sulla scia di quanto indicato dalla Risoluzione del Parlamento Europeo del 16.2.2017, l’istituzione di uno status giuridico specifico per i robot, di modo che almeno i robot autonomi più sofisticati possano essere considerati come persone elettroniche responsabili di risarcire qualsiasi danno da loro causato.
Questa soluzione è, a ben vedere, solo apparente e cede al fascino retorico della soggettività delle applicazioni di I.A.[4]
La soggettività del sistema di I.A. – osserva la Finocchiaro - sembra essere una costruzione che aumenta la complessità giuridica, piuttosto che diminuirla. Il nodo della questione non è tanto l’attribuzione della soggettività giuridica all’I.A. quanto l’individuazione dei criteri di allocazione della responsabilità.
Secondo alcuni, un principio che potrebbe rivelarsi di grande utilità è quello dell’accountability[5], cioè la responsabilizzazione del soggetto che trae vantaggio dall’applicazione di I.A.
Utilizzando questo criterio, il soggetto che trae maggior vantaggio risponde adottando esso stesso le misure necessarie ad evitare il rischio.
Sul punto, l’AI ACT non è di aiuto, in quanto si limita a prevedere che il fornitore di un sistema di I.A. ad alto rischio[6] è chiamato a garantire che lo stesso sia conforme a determinati requisiti che ne consentano la certificazione.
Il libro si conclude con alcune considerazioni critiche sul regolamento europeo di recente approvazione.
In primo luogo, l’approccio regolatorio è di tipo orizzontale: si norma in generale, l’I.A. e non, invece, applicazioni specifiche della stessa.
Inoltre, vi è il rischio che il sistema regolatorio non sia sufficientemente dinamico da adattarsi ai successivi sviluppi dell’I.A. Il sistema tracciato appare rigido. La classificazione dei sistemi di I.A. nell’ambito delle diverse tipologie di rischio sarà soggetta a revisione. Nuovi sistemi verranno sviluppati e nuovi metodi per implementare i sistemi già esistenti verranno creati, modificando il livello di rischio.
Ulteriore criticità è quella di prevedere, a fronte di una generalissima definizione di I.A., in capo a ogni tipo di imprenditore i medesimi obblighi, a prescindere dalle dimensioni dell’impresa. Un modello di questo genere ha all’origine il difetto di trattare tutte le applicazioni di I.A. allo stesso modo, senza considerare che esse possono essere assai diverse tra loro e declinate in maniera differente.
Vi è, poi, il rischio che l’approccio adottato dal regolatore europeo comporti una burocratizzazione del mercato europeo dell’I.A. senza che a ciò corrisponda una maggiore tutela dei diritti.
Infine, il monito dell’autrice.
La normativa europea non deve avere l’effetto di isolare l’Europa.
Piuttosto, è importante che questi temi siano affrontati in un’ottica di cooperazione internazionale, anche normativa, tanto più in questa fase in cui Stati Uniti[7] e Cina[8] sembrano orientarsi su principi non lontani da quelli europei: “Se vogliamo costruire delle fortezze, dobbiamo poi ricordarci di costruire anche i ponti che ci consentano di collegarle ad altri sistemi”.
[1] Il Regolamento, che stabilisce regole armonizzate sull'intelligenza artificiale e modifica i regolamenti (CE) n. 300/2008, (UE) n. 167/2013, (UE) n. 168/2013, (UE) 2018/858, (UE) 2018/1139 e (UE) 2019/2144 e le direttive 2014/90/UE, (UE) 2016/797 e (UE) 2020/1828, è stato approvato con 523 voti favorevoli, 46 contrari e 49 astensioni.
[2] Si veda M. Ciardi, Mary Shelley, Isaac Asimov e il complesso di Frankenstein, in Anime Positroniche, a cura di M. Ciardi e P. Gaspa, Quaderni Cicap, 2021.
[3] Nel famoso saggio Computing Machinery and Intelligence, A. Turing ideò un test al fine di determinare se una macchina sia in grado di pensare. Il test si basa sulla valutazione delle capacità di un computer di imitare il comportamento umano; in caso di esito positivo si vede ritenere che la macchina sia in grado di pensare in modo equivalente o, comunque indistinguibile da un essere umano.
[4] Il termine “intelligenza” è condizionante e induce a pensare a un essere intelligente. In questo caso si utilizza una metafora: l’applicazione di intelligenza artificiale si comporta “come se” fosse intelligente. Ma occorre essere consapevoli dei vantaggi così come dei limiti nell’utilizzo delle metafore, in modo da evitare il sopravvento della metafora sulla realtà. Sull’utilizzo delle metafore nel linguaggio giuridico si rinvia a F. Galgano, Le insidie del linguaggio giuridico, il Mulino, 2010.
[5] Il principio di accountability, introdotto dal Regolamento sui dati personali (GDPR), prevede che sia il titolare del trattamento dei dati personali a determinare le misure più adeguate al al trattamento stesso. In questo caso il legislatore affida al titolare l’onere di individuare in che modo adempiere alle prescrizioni dettate dalla norma, calandole nella fattispecie concreta, assumendosi la responsabilità non solo dell’implementazione, ma anche della valutazione.
[6] È noto che il modello adottato dal legislatore europeo è basato sul rischio e differenzia gli usi dell’intelligenza artificiale secondo il livello di rischio, che può essere inaccettabile, alto o minimo.
[7] Con l’Executive Order emanato il 30.10.2023 dal Presidente Biden sullo sviluppo e sull’uso dell’I.A., gli Stati Uniti intendono non solo rimanere all’avanguardia nel campo dell’I.A., ma anche garantire che questa tecnologia sia utilizzata in modo responsabile, a beneficio del pubblico e della sicurezza nazionale; al primo punto, infatti, si prevede che gli sviluppatori dei sistemi di I.A. condividano i risultati dei loro test ed altre informazioni critiche con il governo degli Stati Uniti.
[8] La strategia cinese ha preso forma nel 2017, con la Cybersecurity Law, e ha condotto all’emanazione dei Beijing AI Principles, pubblicati nel 2019 dalla Beijing Academy of Artificial Intelligence e dei Principles to Develop Responsible AI for the New Generation Artificial Intelligence, pubblicati nel 2019 dal New Generation AI Governance Expert Committee. Dal 15.8.2023 sono in vigore anche i nuovi principi sull’I.A.: Interim measures for the Administration of Generative Intelligence Services.
Porgo a tutte le Autorità civili e militari e a tutti i presenti il saluto della Magistratura giudicante del distretto e ringrazio l’A.N.M. per avere scelto Palermo come sede del Congresso che si svolge a pochi giorni dal 32° anniversario della strage di Capaci.
Ringrazio anch'io il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per la Sua presenza ieri.
I Suoi interventi, tanto pacati quanto autorevoli, costituiscono un'autentica lezione di democrazia per forma e per contenuto e un'iniezione di fiducia e di speranza.
Mi scuso subito se ripeterò diverse cose già dette ieri, peraltro in modo più autorevole; ritengo, però, che non sia una sterile monotonia ma sia frutto di consonanza di idee e di valori.
Una presenza così numerosa di partecipanti, a mia memoria pressoché inedita, è il miglior riscontro della bontà della scelta sia della sede sia del tema verso il quale sta crescendo l'attenzione, alimentata da recenti vicende che hanno riproposto in tutta la sua importanza il ruolo della giurisdizione e in tutta la sua intensità il rapporto tra politica e giurisdizione che, purtroppo, ha assunto, ancora una volta, i toni dello scontro istituzionale.
L'esistenza di una forte tensione, che si coglie anche in frequenti espressioni irridenti e sprezzanti, alimenta una pericolosa forma di antagonismo tra Poteri dello Stato, che, invece, i Costituenti hanno costruito in termini di cooperazione.
La Magistratura non vuole alcuna forma di scontro ma rivendica soltanto il diritto/dovere di svolgere la funzione di tutela dei diritti e di controllo di legalità nel perimetro tracciato dalla Costituzione.
Solo una giurisdizione autenticamente garante dei diritti a ogni livello e in ogni settore può concorrere a realizzare il modello di società disegnato dalla Costituzione e il suo progetto di democrazia sociale, che oggi invece è in crisi.
I diritti sociali, come la casa, l'istruzione, il lavoro, sono in gran parte accantonati o riscritti esclusivamente in un'ottica di mercato.
In questo contesto di "nuova democrazia" il ruolo della Magistratura diviene ancora più rilevante.
I diritti, come scrive Stefano Rodotà, sono i temi di una vita, da essi si misura la qualità di una società e "non sono acquisiti una volta per tutte, sono sempre insidiati, diventano essi stessi strumenti di lotta per i diritti".
Già nel lontano 1965, nel congresso di Gardone, l'A.N.M. aveva espresso la consapevolezza “della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia per assicurare un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione” e da allora è stato costante il processo di promozione dei diritti e delle garanzie in attuazione della Costituzione.
La funzione legislativa non è più monopolio dello Stato nazionale, in quanto accanto allo stesso esistono altre Istituzioni alle quali è attribuita una funzione regolatrice come quelle sovranazionali.
L’ordinamento giuridico al quale il Giudice deve riferirsi non è solo il diritto statale, ma anche quello comunitario e quello convenzionale.
Inoltre, lo spostamento del baricentro dell'attività legislativa sul Potere esecutivo ha prodotto una legislazione sempre più frequentemente indotta da sollecitazioni estemporanee e populiste, carente di organicità sistematica e talvolta anche di chiarezza, soggetta a continue modificazioni che ne determinano l'instabilità e ne riducono l’efficacia sostanziale.
L’indebolimento della funzione legislativa dello Stato e la frammentazione nella titolarità a dettare le regole si riflettono sul rapporto tra legislazione e giurisdizione.
Sulla giurisdizione si riversa una grande quantità di istanze sociali per la verifica della tutelabilità di ogni nuova pretesa alla quale il legislatore, per scelta o per incapacità, non abbia voluto o non abbia saputo dare risposta.
Le nuove domande sono rivolte alla giurisdizione anche perché, cito ancora Rodotà, "la magistratura comincia a presentarsi come un potere diffuso sul territorio e quindi in grado di garantire una maggiore vicinanza e corrispondenza rispetto al modo in cui le domande si formano e si articolano nell'organizzazione sociale".
E il giudice, a differenza del legislatore, che può decidere se dare ingresso o meno alle istanze assumendone la responsabilità politica, non può rispondere con un “non liquet”.
La funzione giurisdizionale va esercitata in ogni caso e non può essere mai rifiutata.
Tutto ciò, oltre a imporre alla giurisdizione di fare fronte a una domanda quantitativamente e qualitativamente in continua crescita, che alza sempre più l'asticella delle aspettative con attribuzione crescente di responsabilità, rende ancora più attuale il tema dell’equilibrio tra potere legislativo e potere giudiziario.
La mediazione del conflitto si sposta sempre più frequentemente dal momento della creazione della regola a quello della sua applicazione.
Così, i confini tra la funzione del legislatore e quella del giudice, che sono ben delineati a livello teorico [il legislatore detta le regole e il giudice le applica], nel concreto si declinano in modo meno netto.
In questo contesto fluido e magmatico diviene di pregnante attualità il tema dell'interpretazione delle norme che è l’essenza della giurisdizione.
Sembrava tramontata definitivamente l'idea del giudice "bocca della legge", ma, forse all'insegna del timore di un soggettivismo giudiziario incontrollato, riaffiora l'idea di una giurisdizione meccanica e sillogistica che rischia di portare indietro l'orologio della Storia e riscrivere lo statuto del magistrato.
L'argomentazione giuridica non è il risultato di un sillogismo lineare perché nella stessa si intersecano momenti assiologici e teleologici, deduttivi e induttivi, e la decisione non è roba da algoritmo, è un'operazione assai complessa per la quale non è agevole individuarne tutte le possibili e variabili dinamiche, a cominciare dal panorama delle fonti regolatrici.
Afferma Calamandrei che "ridurre la funzione del giudice a un puro sillogizzare vuol dire impoverirla, inaridirla, disseccarla. La giustizia è qualcosa di meglio: è creazione che sgorga da una coscienza viva, sensibile, vigilante, umana. È proprio questo calore vitale, questo senso di continua conquista, di vigile responsabilità che bisogna pregiare e sviluppare nel giudice".
Naturalmente non sono in discussione né la titolarità del potere legislativo, né il principio della soggezione del giudice alla legge.
Ma la prima legge è la Costituzione che è al vertice del sistema delle fonti e anche e soprattutto nella stessa, nei suoi principi etici e giuridici, vanno ricercati i canoni dell'interpretazione del diritto.
Si avverte, non solo nella giurisdizione ordinaria, una diffusa >span class="normaltextrunscxw95774379bcx9">ell'attività del Governo e additati come fattore di rallentamento dell'attività medesima, non considerando, invece, che nelle democrazie i controlli hanno la funzione di garanzia dei cittadini e, indirettamente, di ausilio al corretto esercizio del potere.
È un'insofferenza che si coglie anche nel percorso di riforma in atto sui delitti contro la pubblica Amministrazione, la cui rivisitazione, tra gli altri effetti negativi, sottovaluta il fatto che i reati contro la p.A., e principalmente la corruzione, sono diventati uno degli strumenti privilegiati da Cosa Nostra per la sua ancora persistente attività criminale.
Si accusa la Magistratura di agire in funzione antimaggioritaria, trascurando che l'espressione "contromaggioritario" nella sua accezione autentica non esprime la volontà eversiva della Magistratura di contrapporsi al Governo, ma richiama il ruolo che nelle democrazie costituzionali riveste la giurisdizione.
Il consenso popolare non è sufficiente a legittimare ogni atto politico di governo che incontra il limite invalicabile del rispetto dei diritti fondamentali, l'accertamento della cui violazione compete esclusivamente alla Magistratura.
Il consenso popolare non può rendere lecito un atto contrario ai diritti costituzionalmente garantiti che sono tutelabili anche nei confronti delle contingenti maggioranze politiche e quand'anche la loro violazione fosse conseguenza di un atto politico approvato all’unanimità.
Sempre più frequentemente viene agitato lo spettro della violazione del principio dell'imparzialità del giudice.
Il rapporto tra imparzialità e interpretazione è complesso e la complessità è cresciuta per il pluralismo delle fonti, ma l'ampliamento degli spazi interpretativi non deve trasformarsi nel suggestivo timore del "diritto libero" e soprattutto non deve indurre a temere che la libertà di interpretazione possa tradursi nella parzialità del giudice.
Ogni magistrato ha, e sarebbe innaturale che non le avesse, le proprie idee culturali, politiche, religiose.
Non credo che ci sia nulla di più ideologico della pretesa apoliticità del magistrato la cui imparzialità si riassume, invece, nella capacità di mettere da parte le inclinazioni personali nell'esercizio della giurisdizione.
All'ipocrisia strumentale del giudice senza idee si deve contrapporre la figura del giudice senza pregiudizi, perché è questo che garantisce la sua imparzialità, così come la garantiscono la professionalità e l'obbligo di motivazione dei provvedimenti.
L’imparzialità è presidiata dall'autonomia e dall'indipendenza del Potere giudiziario che assume un ruolo centrale per l'esistenza e per la difesa dello Stato di diritto, in cui anche il Potere è soggetto alla legge.
È quindi necessario che ci sia una Magistratura imparziale e indipendente che sia in grado di fare rispettare la legge e tuteli i diritti anche nei confronti di chi in quel determinato momento storico detenga il potere.
Questa è la misura del tasso di democrazia di un Paese.
Le recenti riforme approvate e soprattutto quelle in cantiere fanno riflettere e preoccupano.
La riattualizzata questione della separazione delle carriere, inutile e dannosa, la riscrittura della composizione e del ruolo del Consiglio Superiore della Magistratura, l'intendimento di intervenire sul principio di obbligatorietà dell'azione penale anche declassandolo dalla fonte costituzionale a quella della legge ordinaria, la singolare e indecifrata previsione dei test psicoattitudinali per i magistrati, concorrono, unitamente ad altre iniziative, al riassetto globale del rapporto tra i Poteri dello Stato, che, ove realizzato, non apporterà alcun beneficio al funzionamento della giustizia, non accorcerà di un solo giorno la durata dei processi, che è il vero e irrisolto problema della giustizia, e non ne migliorerà sotto alcun profilo l’efficienza, che, invece, necessita di ben altri interventi che la Magistratura a ogni livello ha invocato ripetutamente.
Ribadita la indiscutibile autonomia del Governo e del Parlamento sovrano, non può non rilevarsi che si profila un preoccupante scenario nel quale la previsione costituzionale dell'indipendenza, nonostante le autorevoli e ripetute dichiarazioni rassicuranti, rischia di diventare un simulacro, conservato nella forma ed eroso nella sostanza da una sistemica e concentrica opera di indebolimento dei suoi elementi portanti.
Si fa riferimento spesso alla legislazione di altri Paesi per giustificare questo o quell’altro progetto di riforma, ma non si considera che proprio la Magistratura di altri Stati guarda con ammirazione e interesse alla nostra architettura costituzionale e che l'Associazione Europea dei Magistrati ha espresso la preoccupazione che le progettate riforme "nonostante siano descritte dai loro fautori come idonee ad assicurare l’imparzialità del giudice ed a rafforzare il principio del contraddittorio nel processo penale, ad un esame obiettivo esse legittimano una ampia estensione degli spazi di influenza che la politica può esercitare sull’attività giurisdizionale, così indebolendo le essenziali prerogative di autonomia ed indipendenza della magistratura…".
Sotto altro profilo è indubitabile la necessità della tendenziale stabilità dell'interpretazione.
La Costituzione qualifica la magistratura come potere diffuso e l’ordinamento colloca i giudici di merito come prima istituzione per la tutela dei diritti.
L’interpretazione delle norme giuridiche da applicare compete a qualunque giudice, di ogni ordine e grado.
La Corte di Cassazione, cui è attribuito il compito della nomofilachia, si avvale delle sollecitazioni provenienti dai giudici di merito.
Questi, anche attraverso le preziose sollecitazioni dell'Avvocatura, apportano il loro contributo, prospettando letture e soluzioni innovative che si trasformano in diritto vivente, e le loro decisioni non impugnate diventano definitive, entrando nel circuito della nomofilachia diffusa anche senza il crisma della Suprema Corte.
Ma il giudice di merito deve avere anche la responsabile consapevolezza che, per assicurare efficacia ed effettività alla tutela dei diritti, deve contribuire alla realizzazione di un sistema, che, in nome di una malintesa idea di autonomia e di indipendenza, non sia schizofrenico e disorientante.
In un contesto nel quale il formante giurisprudenziale ha un rilievo decisivo, la prevedibilità delle decisioni, che anche la Corte EDU ritiene nell’interesse della certezza del diritto, assume un valore enorme.
La prevedibilità non è quel conformismo che Calamandrei riteneva la peggiore sciagura che potrebbe capitare a un magistrato.
Il magistrato conformista e burocrate non ci appartiene ed è ben lontano dal modello costituzionale al quale costantemente ci ispiriamo.
Non c’è dubbio che una giurisprudenza statica e insensibile alle sollecitazioni che vengono dall’evoluzione della comunità non avrebbe consentito di realizzare gli approdi cui è pervenuta, per cui, da un lato, non si possono ignorare le ragioni della stabilità, imposte da esigenze di garanzia e dalla necessità di assicurare l’uguaglianza dei cittadini, nonché dall’obiettivo di orientare i consociati, ma, dall'altro, si deve tenere conto anche delle ragioni del cambiamento, in quanto l’inarrestabile evoluzione della giurisprudenza è linfa vitale della democrazia e, per dirla con Paolo Grossi, “bisogna evitare che la prevedibilità del diritto sia strumentale a garantire l'impietosa disuguaglianza tra ricchi e poveri”.
L’articolo 3 della Costituzione si rivolge a tutte le Istituzioni, compresa la Magistratura, e la Costituzione, come afferma Calamandrei, “non è immobile, è rinnovatrice e mira alla trasformazione della società”.
La straordinaria produzione giurisprudenziale della Suprema Corte e la sua immediata conoscibilità non devono indurre i giudici di merito a rinunciare all'autonoma attività di interpretazione.
Ne verrebbero fuori l’appiattimento e l'impoverimento della giurisprudenza, innescando un circolo vizioso destinato a ripercuotersi negativamente anche sulla Cassazione, che sarebbe privata degli stimolanti contributi provenienti dai giudici di merito, in relazione ai quali si formano e si consolidano gli orientamenti del Giudice di legittimità.
Se la decisione della Corte di Cassazione non segue a un fecondo dibattito da parte dei giudici di merito, ma obbedisce maggiormente alla necessità di una risposta urgente, rischia di perdere un apporto importante.
L’accelerazione verso l’immediatezza della decisione di legittimità, spesso comprensibilmente auspicata per la necessità di un'interpretazione univoca in un contesto normativo instabile, ha come controindicazione un pericoloso verticalismo giurisprudenziale.
Tutto si tiene: una Magistratura autonoma e indipendente, professionalmente attrezzata, responsabilmente consapevole del ruolo e del potere che esercita, autenticamente orizzontale, interpreta e applica la legge garantendo l'imparzialità; anche per questo é credibile e gode dell'indispensabile fiducia della collettività senza tuttavia ricercarne il consenso.
Le conquiste della Magistratura sul versante della tutela dei diritti e sul controllo di legalità si sono realizzate solo grazie alla professionalità dei magistrati e alla granitica solidità di un sistema costituzionale che ne ha garantito l’autonomia e l’indipendenza.
Autonomia e indipendenza della magistratura giudicante e di quella requirente, che concorre anche a garantire la prima.
Una Magistratura debole e vulnerabile non è in grado di assicurare tutela effettiva ai diritti, non è in grado di affermarli nei confronti del potere, non può realizzare un vero controllo di legalità.
A farne le spese sarebbero i cittadini.
Concludo ricordando che il 30 marzo 1956, in questa città, Pietro Calamandrei, nel corso della sua arringa in difesa di Danilo Dolci, affermò che “la funzione dei giudici … è quella di creare gradualmente la nuova legalità promessa dalla Costituzione.
Voi dovete aiutarci, signori Giudici, a difendere questa Costituzione che è costata tanto sangue e tanto dolore, voi dovete aiutarci a difenderla e a far sì che si traduca in realtà”.
Sono trascorsi quasi settant'anni ma quelle limpide parole sono ancora un monito e un impegno.
1. Giustizia insieme intende aprire una discussione sul disegno di legge di riforma costituzionale n. 935, comunicato alla Presidenza del Senato il 15 novembre 2023, che prende il nome di premierato.
Si pubblica qui una prima nota informativa, cui poi seguiranno contributi di analisi e commenti.
Tale riforma si propone di modificare quattro articoli della Carta costituzionale, ed esattamente gli artt. 59, 88, 92, 94.
2. Le modifiche degli artt. 59 e 88 possono essere considerate minori.
La prima riguarda la soppressione dell’istituto del Senatore a vita diverso dagli ex Presidenti della Repubblica, e la proposta in nient’altro consiste se non nell’abolire l’art. 59, 2° comma Cost., che attualmente recita che: “Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. Il numero complessivo dei senatori in carica nominati dal Presidente della Repubblica non può in alcun caso essere superiore a cinque”.
Resta in vita, al contrario, il 1° comma dell’art. 59 della Costituzione, e in futuro, così, solo gli ex Presidenti della Repubblica saranno senatori a vita, mentre nessuno potrà più esserlo per altissimi meriti.
L’altra riforma minore è quella della soppressione, nell’art. 88, 1° comma Cost., delle parole “o anche una sola di esse”.
Con questa riforma si ottiene il risultato di impedire al Presidente della Repubblica di sciogliere una sola Camera, anziché l’intero Parlamento.
Si tratta, tuttavia, di una regola che possiamo considerare già in atto, in quanto v’è desuetudine all’esercizio di un tale potere, mai esercitato da alcun Presidente della Repubblica.
3. Ovviamente le riforme principali sono quelle che riguardano gli artt. 92 e 94, e sono esse che danno a questa riforma l’etichetta di premierato.
Il nuovo art. 92 prevede che il Presidente del Consiglio dei ministri sia eletto direttamente dal popolo ed abbia un premio di maggioranza che gli garantisca il 55% dei seggi in ciascuna delle due Camere; e il nuovo art. 94 dispone che se le Camere non danno (per due volte consecutive) la fiducia al Governo queste vengono sciolte dal Presidente della Repubblica.
Per l’esattezza, il 2° comma dell’art. 92 reciterà, se la riforma verrà approvata, che: “Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni…..La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i principi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio dei Ministri….Il Presidente della Repubblica conferisce al Presidente del Consiglio dei ministri eletto l’incarico di formare il Governo, e nomina, su proposta del Presidente del Consiglio, i ministri”.
Parimenti viene riformato l’art. 94, ed il nuovo terzo comma così reciterà: “Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenere la fiducia. Nel caso in cui non sia approvata la mozione di fiducia al Governo presieduto dal Presidente eletto, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo. Qualora anche in quest’ultimo caso il Governo non ottenga la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”.
Si aggiunge poi un ultimo comma all’art. 94 Cost. del seguente tenore: “In caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio eletto, il Presidente della Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente de consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia. Qualora il Governo così nominato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio subentrante, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”.
4. Sostanzialmente:
a) il popolo eleggerà direttamente il Presidente del Consiglio dei ministri, il quale si presenterà alle elezioni con una propria lista di candidati;
b) le votazioni per l’elezione delle due Camere e del Presidente del Consiglio dei ministri dovranno avvenire contestualmente;
c) le votazioni saranno disciplinate da una nuova legge elettorale, che dovrà consentire alla lista più votata, seppur nel rispetto dei principi di rappresentatività e governabilità, un premio di maggioranza che garantisca ai vittoriosi il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due Camere;
d) in tale logica di premierato passeranno così in secondo piano sia il momento della nomina del primo ministro da parte del Presidente della Repubblica, sia il momento nel quale il Parlamento dà la fiducia al Governo, ed infatti:
e) Il Presidente della Repubblica conferirà necessariamente al Presidente del Consiglio dei ministri eletto dal popolo l’incarico di formare il Governo;
f) il Parlamento darà necessariamente la fiducia al Governo e, ove non dovesse succedere, il Presidente della Repubblica rinnoverà l’incarico sempre al primo ministro eletto dal popolo, il quale si ripresenterà, così, per la seconda volta, dinanzi alle Camere, e se queste nemmeno per la seconda volta dovessero dare la fiducia al Governo, ebbene, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere.
5. La relazione tecnico/esplicativa avverte che lo scopo della riforma è quello di risolvere “problematiche ormai risalenti. cioè l’instabilità dei Governi, l’eterogeneità e la volatilità delle maggioranze, il transfughismo parlamentare”.
Da segnalare, tuttavia, che resta immodificato l’art. 68 Cost. secondo la quale “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”.
La relazione tecnico/esplicativa precisa altresì che “la proposta di legge mira a consolidare il principio democratico, valorizzando il ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico della Nazione”, e che: “attraverso l’elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri” si ottiene “la stabilizzazione della sua carica, per dare appoggio e continuità al mandato democratico”.
Ed inoltre la relazione afferma che questa stabilità è altresì necessaria per “concepire indirizzi politici di medio-lungo periodo, di elaborare e attuare riforme organiche, di farsi carico, in ultima analisi, delle prospettive e del futuro della Nazione”.
6. Il progetto si compone, infine, di una Analisi tecnico normativa (ATN):
In essa si legge in particolare che: “Il modello di forma di Governo previsto nel disegno di legge è in armonia con i principi costituzionali di democrazia, rappresentatività, separazione dei poteri e con il rispetto delle prerogative degli organi costituzionali. Non si ravvisano contrasti con i limiti espliciti ed impliciti alla revisione costituzionale.”.
E poi ancora: “Non vi sono incompatibilità con le competenze e le funzioni delle regioni ordinarie e a statuto speciale nonché degli enti locali”.
Soprattutto: “Il testo normativo proposto non presenta profili d’incompatibilità con l’ordinamento europeo. Non risultano in corso procedure di infrazione nei confronti dell’Italia nella materia trattata dal provvedimento in esame”.
E al riguardo si precisa altresì che: “La disciplina della forma di Governo è materia radicata nelle tradizioni costituzionali di ciascun Stato membro, ferma restando la condivisione dei principi dello stato di diritto che sono pienamente rispettati nel modello qui prefigurato”.
Note minime in tema di soggetti legittimati a richiedere l’autorizzazione paesaggistica (nota a T.A.R. Basilicata, sez. I, 01 febbraio 2024, n. 56)
di Gianluigi Delle Cave
Sommario: 1. Breve inquadramento del tema. – 2. Individuazione dei soggetti “legittimati” alla richiesta dei titoli: il caso del permesso di costruire. – 2.1. (segue) casi specifici di legittimazione. – 2.2. (segue) le verifiche della P.A. – 3. La legittimazione nella richiesta di autorizzazione paesaggistica: simmetrie normative con il Testo Unico Edilizia. – 4. Riflessioni conclusive.
1. Breve inquadramento del tema.
La pronuncia del T.A.R. Basilicata in commento[1] offre interessanti spunti di riflessione giuridica, inter alia, sulla corretta individuazione dei soggetti legittimati a richiedere l’autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004 (per brevità “Codice del paesaggio”)[2].
Più nel dettaglio, anticipando quanto meglio si dirà nel seguito, i giudici amministrativi hanno ritenuto legittimo un provvedimento con il quale la Regione ha opposto un diniego in ordine ad una istanza avanzata dalla società locataria (nella specie, si trattava di affitto di azienda) di una struttura alberghiera, tendente ad ottenere il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica per la realizzazione di una struttura temporanea a servizio dell’albergo, che sia motivato con riferimento al fatto che la società proprietaria dell’immobile si è formalmente opposta al suddetto rilascio[3].
In particolare, muovendo dal caso specifico - e prendendo le mosse dal tenore letterale dell’art. 146, comma 1, cit., che, quanto ai soggetti legittimati alla richiesta dell’autorizzazione[4] in esame, espressamente si riferisce ai “proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico”[5] -, il TAR ha avuto modo di rilevare, per quanto qui di precipuo interesse, che: (i) l’affitto di azienda è un contratto in forza del quale il proprietario concede un diritto personale di godimento a un terzo dietro pagamento di un canone, integrando una “species” del “genus” della locazione; (ii) non è revocato in dubbio che anche il detentore qualificato possa istare per l’autorizzazione paesaggistica de qua; (iii) tuttavia, in tale ultimo caso, è necessario e quindi indefettibile il consenso da parte del proprietario del bene, con la conseguenza che (iv) sussiste l’obbligo in capo all’Amministrazione di accertare, in un contratto di locazione, la sussistenza del consenso del proprietario, con la conseguenza che, laddove questo difetti, non potrà procedere al rilascio del titolo edificatorio così come di quello paesaggistico.
2. Individuazione dei soggetti “legittimati” alla richiesta dei titoli: il caso del permesso di costruire.
Nell’analisi del tema supra, giova prendere le mosse, anzitutto, dall’approfondimento di una questione similare (se non sovrapponibile entro gli ovvi limiti delle discipline applicabili), ossia quella dei soggetti che possono richiedere il permesso di costruire. Sul punto specifico, l’art. 11, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 (“Testo Unico Edilizia”) è molto ampio[6]: si prevede infatti che il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell’immobile o a “chi abbia titolo per richiederlo”. In particolare, come più volte evidenziato in via pretoria, tale ultima espressione va intesa nel senso più ampio di una legittima disponibilità dell’area, in base ad una relazione qualificata con il bene, sia essa di natura reale, o anche solo obbligatoria, purché, in questo caso, con il consenso del proprietario[7].
Da tale angolo visuale, adunque, il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l’onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell’immobile oggetto dell’intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l’attività edificatoria
Quanto ora esposto, unitamente a detto concetto di “sufficienza” riferito al titolo (elaborato pure in via giurisprudenziale[8]), comporta quindi, in generale, che: (a) per un verso, chi richiede il titolo autorizzatorio edilizio debba comprovare la propria legittimazione all’istanza; (b) per altro verso, è onere del Comune ricercare la sussistenza di un titolo (di proprietà, di altri diritti reali, etc.) che fonda una relazione giuridicamente qualificata tra soggetto e bene oggetto dell’intervento, e che dunque possa renderlo destinatario di un provvedimento amministrativo autorizzatorio.
Ora, tale verifica, tuttavia, deve compiersi secondo un criterio di ragionevolezza e secondo dati di comune esperienza ma non comporta anche che l’Amministrazione debba comprovare prima del rilascio (ciò mediante oneri di ulteriore allegazione posti al richiedente o attraverso propri approfondimenti istruttori), la “pienezza” (nel senso di assenza di limitazioni) del titolo medesimo[9]. Ed infatti, ciò comporterebbe, in sostanza, l’attribuzione all’Amministrazione di un potere di accertamento della sussistenza (o meno) di diritti reali e del loro “contenuto” non ad essa attribuito dall’ordinamento. In tal senso, adunque, laddove ricorrano limitazioni negoziali al diritto di costruire, l’Amministrazione, quando venga a conoscenza dell’esistenza di contestazioni sul diritto di richiedere il titolo abilitativo, «deve compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, ma senza tuttavia assumere valutazioni di tipo civilistico, appartenenti alla giurisdizione del giudice ordinario»[10].
Tuttavia, assume rilievo differente l’ipotesi in cui la legittimazione a richiedere l’autorizzazione edilizia si fondi sulla titolarità di un diritto reale, da quella in cui essa attenga ad una disponibilità del bene a titolo diverso. Ed infatti, in tale ultimo caso (ad esempio, bene detenuto per effetto di contratto di locazione), l’Amministrazione è tenuta ad accertare la sussistenza del consenso del proprietario, con la conseguenza che, laddove questo difetti, non potrà procedere al rilascio del permesso di costruire[11].
2.1. (segue) casi specifici di legittimazione.
Orbene, sulla base delle coordinate ermeneutiche sopra brevemente tratteggiate, la giurisprudenza ha di volta in volta individuato i soggetti che possono o meno richiedere il titolo edilizio oltre ad aver meglio chiarito il perimetro di azione della P.A. nell’accertamento di detta legittimazione.
Può presentare istanza di permesso di costruire, anzitutto, quel soggetto che, come detto, è titolare di un diritto reale su bene oggetto dell’intervento edilizio se ed in quanto quel diritto comprenda anche lo jus aedificandi, essendo il diritto a costruire una proiezione del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento sul bene che ne autorizzi la modifica costruttiva[12]. In particolare, sono stati riconosciuti legittimati a chiedere il permesso di costruire: (i) il titolare del diritto reale di usufrutto[13]; (ii) il titolare del diritto reale di superficie[14]; (iii) il titolare del diritto reale di enfiteusi; (iv) i soggetti beneficiari della procedura espropriativa[15]. Si è ritenuto legittimato, peraltro, a proporre domanda di permesso di costruire pure il titolare di diritto di opzione all’acquisto dell'immobile interessato dall’intervento[16] e il promissario acquirente[17] laddove il proprietario abbia assentito alla presentazione della domanda di rilascio del permesso oppure l’obbligo di acquisto dell’immobile sia subordinato all’ottenimento del permesso di costruire. In questi casi, pare doveroso evidenziare, la legittimazione a chiedere il permesso trova fondamento non tanto nella posizione giuridica soggettiva di promissario acquirente in sé, quanto nell’autorizzazione o delega del promittente venditore, effettivo proprietario dell’immobile fino alla sua definitiva vendita, non essendo infatti sufficiente, in ogni caso, il solo rapporto obbligatorio tra richiedente e area o immobile interessati all’intervento edilizio.
Con riferimento, invece, ai titolari di diritti obbligatori, si è pure affermato che essi possano richiedere il titolo edificatorio quando, per effetto di esso, «questi abbia obbligo o facoltà di eseguire i lavori per cui è chiesto il permesso»; in altri termini quando il richiedente sia autorizzato in base al contratto o abbia ricevuto espresso consenso da parte del proprietario[18]. In particolare, si è rilevato, pure in via pretoria, come, al fine della legittimazione, non è sufficiente una mera relazione di fatto, ancorché tutelata, quale quella legata al mero possesso, ma è necessario che venga trasferita, oltre che la disponibilità del bene, anche la potestà edificatoria.
Alla luce di quanto sopra, adunque, sono stati ritenuti legittimati a chiedere il permesso di costruire: (i) l’amministratore di condominio, se e in quanto munito di specifici poteri a lui conferiti dai singoli condomini[19]; (ii) l’affittuario di un terreno agricolo ove il contratto preveda la facoltà in capo allo stesso di eseguire ad esempio opere infrastrutturali volte al potenziamento tecnico produttivo; (iii) il comodatario, con riferimento a titoli edilizi compatibili con l’effettiva disponibilità del bene e con l’entità della trasformazione oggetto dell’istanza[20]; (iv) il conduttore/locatario dell’immobile, qualora abbia ricevuto dal locatore (proprietario dell’immobile) l’inequivocabile autorizzazione all’esecuzione degli interventi di trasformazione edilizia in funzione dell’uso per il quale lo stesso è stato concesso[21]oppure richieda di eseguire opere di carattere non irreversibile[22]; (v) l’appaltatore, purché nel contatto di appalto o negli atti ad esso collegati emergano il consenso del proprietario (o del diverso titolare di diritto reale) e la costituzione in favore dell’appaltatore stesso della predetta posizione di soggetto che ha “legittima disponibilità dell’area” o dell’immobile oggetto dell’intervento (posizione non implicita nel ruolo di mero appaltatore)[23].
Si è poi osservato in giurisprudenza che, in caso di richiesta di permesso di costruire in sanatoria, vi sarebbe una legittimazione addirittura più ampia rispetto a quella della richiesta di titolo edilizio, ammettendo l’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 la proposizione dell’istanza di sanatoria da parte non solo del proprietario, ma anche del responsabile dell’abuso, tale dovendo intendersi lo stesso esecutore materiale ossia chi abbia la disponibilità del bene al momento dell'emissione della misura repressiva; si badi però che detta “ampia” legittimazione trova, tuttavia, anche qui un limite invalicabile nella volontà (positiva/negativa) dell’eventuale proprietario o comproprietario[24].
2.2. (segue) le verifiche della P.A.
Orbene, a fronte di un intervento edilizio soggetto al preventivo rilascio di un permesso di costruire (art. 20, d.P.R. 380/2001) o SCIA (artt. 22 e 23, d.P.R. cit.), la P.A. è sempre tenuta ad accertare che il soggetto interessato abbia titolo per attuare detto intervento[25]; nel dettaglio, l’Amministrazione deve accertare che l’istante sia proprietario dell’immobile oggetto dell’attività edilizia proposta o che, comunque, abbia un titolo di disponibilità tale da giustificarne la realizzazione[26]. In punto di corretto inquadramento del raggio d’azione di tale verifica, si segnala che la P.A. non è tenuta a spingersi fino a ricostruire tutte le vicende relative al regime di proprietà dell’immobile in relazione al quale viene richiesto il rilascio del titolo abilitante[27], non avendo l’Amministrazione il compito di effettuare complessi accertamenti a tal fine, ed anzi, in ossequio al principio generale del divieto di aggravamento del procedimento amministrativo, la stessa P.A. può semplificare e accelerare tutte le attività di verifica sul titolo prodotto, valorizzando gli elementi documentali forniti dalla parte interessata. In altri termini, non è onere dell’Amministrazione effettuare accertamenti complessi volti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità del bene o di verificare l’inesistenza di servitù o altri vincoli reali, in quanto il titolo edilizio è un atto amministrativo che legittima l'opera da realizzare e regola un rapporto intercorrente tra la stessa P.A. e il soggetto che richiede il titolo[28].
La P.A., quindi, non deve spingersi a ricercare d’ufficio eventuali elementi preclusivi, limitativi o estintivi del titolo di disponibilità allegato dal richiedente, ma deve valutarli qualora emergano nel corso del procedimento. Non a caso si è evidenziato in via pretoria che in sede di rilascio del titolo abilitativo, il Comune non può esimersi dal verificare il rispetto da parte dell’istante dei limiti privatistici sull’intervento. Ciò però a condizione che questi ultimi siano effettivamente conosciuti, o immediatamente conoscibili e/o non contestati, senza necessità di procedere ad una accurata e approfondita disamina dei rapporti tra privati[29]. In buona sostanza, il Comune ha il dovere di accertare, inter alia, il presupposto circa il soggetto legittimato e che esso sia sufficiente per eseguire l’attività edificatoria. Il potere di controllo in sede di rilascio dei titoli edilizi (al pari di quello esercitato in sede inibitoria), quindi, deve sempre collegarsi al riscontro di profili d’illegittimità dell’attività per contrasto con leggi, regolamenti, piani, programmi e regolamenti edilizi, mentre non può essere esercitato a tutela di diritti di terzi non riconducibili a quelli connessi con interessi di natura pubblicistica, quali ad esempio il rispetto delle distanze dai confini di proprietà o del distacco dagli edifici; fatto salvo il caso in cui de planorisulti l’inesistenza di un titolo giuridico che fondi la legittimazione attiva del richiedente il titolo edilizio[30].
Va da sé, quindi, che l’onere di verifica della P.A. assume connotati differenti a seconda che la detta legittimazione si fondi sulla titolarità di un diritto reale ovvero attenga ad una disponibilità del bene a titolo diverso[31]. In tale ultimo caso (ad esempio, bene detenuto per effetto di contratto di locazione), l’amministrazione è tenuta ad accertare la sussistenza del consenso del proprietario, con la conseguenza che, laddove questo difetti, non potrà procedere al rilascio del permesso di costruire.
3. La legittimazione nella richiesta di autorizzazione paesaggistica: simmetrie normative con il Testo Unico Edilizia.
Con la pronuncia in commento - ove si muove, in punto di fatto, da un detentore qualificato del bene (non titolare di un diritto reale, ma di un diritto personale di godimento) richiedente l’autorizzazione paesaggistica ma in difetto del consenso del proprietario[32] -, si compie “un passo in più” con riferimento all’argomento in trattazione, sottolineando, in sostanza, come i rilievi ampiamente evidenziati sub §2 e §2.1. del presente scritto si “attaglino” anche nel caso in cui sia domandato il rilascio di autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 146, comma 2, d.lgs. n. 42/2004.
Sul versante normativo, infatti, l’art. 20, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 dispone che la domanda per il rilascio del permesso di costruire vada sottoscritta da “uno dei soggetti legittimati ai sensi dell’articolo 11” e vada presentata allo sportello unico corredata da un’attestazione concernente il titolo di legittimazione. L’art. 11 del decreto, a sua volta, limita lo spettro di coloro che possano istare per tale titolo, come detto, al proprietario dell’immobile o a “chi abbia titolo per richiederlo” ossia ai soggetti titolari di tutte quelle posizioni civilisticamente utili per esercitare un’attività costruttiva (disponibilità giuridica ad aedificandum), che, come detto, è possibile individuare anche in soggetti che vantano altra qualificata relazione legittimante il titolo edilizio, diversa dalla proprietà esclusiva.
Muovendo, ora, al Codice del Paesaggio, l’art. 146, comma 1, dispone che “i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili e aree di interesse paesaggistico” non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione. Il comma 2 dell’art. 146 cit. prevede poi che “i soggetti di cui al comma 1” hanno l’obbligo di presentare alle amministrazioni competenti il progetto degli interventi che intendano intraprendere, corredato della prescritta documentazione, ed astenersi dall’avviare i lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta l’autorizzazione[33]. La disposizione di cui all’art. 146 cit., dunque, individua i soggetti legittimati a richiedere l’autorizzazione paesaggistica indicandoli nei “proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili di aree di interesse paesaggistico”[34], ossia, in senso letterale, in tutti coloro che hanno con la res, oggetto di protezione vincolistica, una relazione dominicale e/o materiale, cioè, secondo un’interpretazione estensiva conforme al dettato costituzionale, a coloro che del bene debbono avere la disponibilità materiale[35]. Detto in altri termini, la norma in parola, proprio perché dettata in relazione ad una (futura) attività manipolativa del bene protetto, circoscrive il numero di quanti possono richiedere l’assenso al compimento del “facere” - altrimenti illegittimo - a coloro che del bene, come detto, hanno la disponibilità materiale. L’ampiezza della previsione normativa non esclude, però, la necessità che l’autorità chiamata a curare la tutela del vincolo, sia pure mediante un controllo di legittimità dell’autorizzazione rilasciata da altra amministrazione, acquisisca dal richiedente il titolo relativo alla situazione di proprietà, di possesso o di detenzione di volta in volta dedotte[36], essendo chiaro, dal tenore della disposizione esaminata supra, che l’autorizzazione non può essere richiesta da un quisque de populo.
Orbene, a ben vedere, quindi, entrambe le disposizioni sopra esaminate (art. 11 del Testo Unico Edilizia e art. 146 del Codice del Paesaggio) non limitano la legittimazione alla domanda di rilascio del titolo al solo proprietario, ma la riferiscono anche a coloro che abbiano “un altro titolo”. Sebbene la formulazione normativa sia differente (il ché dipende anche dall’aver il codice dei beni culturali mutuato la corrispondente previsione della legge n. 1497 del 1939) lo spettro dei destinatari risulta sostanzialmente coincidente. Invero, come evidenziato dai giudici amministrativi, con riguardo al permesso di costruire si è avuto modo di chiarire come l’espressione “a chiunque abbia titolo per richiederlo” vada intesa «nel senso più ampio di una legittima disponibilità dell’area, in base aduna relazione qualificata con il bene, sia essa di natura reale, o anche solo obbligatoria»[37]. Da tale prospettiva, anche il comma 1 dell’art. 146 valorizza, di fatto, letteralmente la previa esistenza di un titolo, escludendo la legittimazione a istare per il rilascio dell’autorizzazione in capo a coloro che ne siano sprovvisti. In entrambi i casi, quindi, sembrerebbe necessaria la relazione qualificata col bene, così come in entrambi i casi il dato testuale non contempla alcun riferimento alla relazione tra soggetto istante e titolare del corrispondente diritto dominicale. Al cennato parallelismo tra le due disposizioni, quindi, conseguirebbe, per simmetria giuridica, l’estensione degli approdi raggiunti con riguardo alla legittimazione a chiedere il permesso di costruire alle domande di rilascio di autorizzazione paesaggistica. In particolare, secondo il TAR, all’obbligo in capo all’Amministrazione di accertare, in un contratto di locazione, la sussistenza del consenso del proprietario, con la conseguenza che, laddove questo difetti, «non potrà procedere al rilascio del titolo, così come di quello paesaggistico».
Così perimetrato il “gemellaggio” tra autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire (nell’area di quanto oggetto di esame specifico qui), non può non evidenziarsi che apparirebbe comunque arduo comprendere, in una prospettiva differente da quella evidenziata dai giudici amministrativi, quale sarebbe l’interesse a conseguire (con oltretutto inutile dispiego di risorse umane, di mezzi e di tempo da parte dell’amministrazione) un’autorizzazione soltanto ancillare e con valenza endoprocedimentale[38] rispetto alla realizzazione dell’intervento edilizio programmato, quest’ultimo restando comunque concretamente precluso dall’impossibilità di rilascio del permesso di costruire costituita dal mancato consenso del proprietario; ciò a maggior ragione laddove i rapporti tra proprietà e affittuario siano controversi anche giudizialmente in sede ordinaria, non potendosi esigere dalla P.A. l’effettuazione di valutazioni di tipo civilistico, appartenenti alla giurisdizione del giudice ordinario[39].
In sintesi, quindi, per un verso, risulterebbe compromesso il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica laddove la società richiedente non sia titolare di alcun diritto reale, ma semplice affittuaria dell’immobile (il che già renderebbe comunque necessario un consenso espresso, inequivoco del proprietario). Per altro verso, non può tacersi del fatto che, laddove anche fosse possibile superare il dissenso espresso del proprietario, l’eventuale sussistenza di una “discordanza interpretativa” in ordine a quanto disposto dal contratto di affitto, renderebbe evidente come la legittimazione della locataria a presentare l’istanza non fondi su basi chiare e certe ictu oculi, essendo invece necessarie interpretazioni del contenuto del contratto estranee alla competenza della pubblica amministrazione in sede di rilascio dell’autorizzazione de qua.
4. Riflessioni conclusive.
Come ampiamente rilevato supra, l’art. 146 del Codice del Paesaggio (in specie commi da 1 a 3) individua nei “proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico” i soggetti legittimati alla richiesta di autorizzazione paesaggistica[40]. Emerge, adunque, dal dettato normativo, come la relazione tra il soggetto richiedente e la res (es. l’immobile in relazione al quale deve declinarsi la valutazione di compatibilità paesaggistica) risulta in qualche modo “neutra” rispetto alla presentazione della richiesta di che trattasi, essendo sufficiente che l’istante provi la “mera” detenzione del bene[41]. Del resto, così fa propendere la lettura non solo dell’art. 146 cit. - laddove si individua, in modo ovviamente estensivo, tutte le categorie civilistiche di relazione con un determinato bene immobile - ma anche dell’art. 167, commi 1 e 5, del Codice del Paesaggio, laddove, in materia sanzionatoria e di compatibilità paesaggistica[42], la legislazione dispone nel senso di richiamare le figure, a vario titolo coinvolte nel procedimento de quo, del “trasgressore” in generale, del proprietario dell’area sulla quale si è consumato l’illecito paesaggistico e comunque del “possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area interessati dagli interventi” (soggetti che possono essere tenuti alla rimessione in pristino delle opere abusivamente realizzate). Si opera così una scelta la cui ratio, a ben vedere, consiste nell’addossare il costo per la reintegrazione del complesso dei valori paesaggistici, indebitamente distrutti o dei quali si è indebitamente appropriato mediante la realizzazione dell’opera abusiva, a colui che dell’opera abusiva trae effettivo ed attuale godimento, quale che sia il titolo che sostiene siffatta situazione soggettiva.
In sostanza, quindi, la previsione di cui al comma 1, art. 146 cit., in un’interpretazione sistematica e teleologicamente orientata, risulta giustificata sulla base del fatto che ad essere “indagato” da parte dell’autorità competente non è tanto il titolo sulla base del quale viene prodotta la richiesta de qua, bensì la compatibilità strutturale e funzionale dell’immobile con i valori tutelati, al netto, ovviamente, della prova di relazione qualificata con l’immobile per il quale si richiede l’emissione del titolo paesaggistico specifico.
Ora, oltre il dato pretorio e volendo proseguire nel parallelismo tra legittimazione alla richiesta dell’autorizzazione paesaggistica e del permesso di costruire, si potrebbe certamente confermare pure il fatto che talune categorie di soggetti - pacificamente riconosciute, anche in via pretoria, come titolate alla richiesta del titolo edilizio (cfr. amplius il paragrafo §2.1. del presente scritto) - siano anche legittimate in punto di richiesta del titolo paesaggistico in esame. È il caso, ad esempio e a parere di chi scrive, degli appaltatori. Ed infatti il contratto di appalto è un contratto ad effetti obbligatori che conferisce, normalmente, anche l’espressa detenzione qualificata dell’area su cui deve essere realizzata l’opera[43], con la conseguenza che l’appaltatore può essere autore sia di interventi abbisognosi di tutela paesaggistica sia di azioni che ledono il paesaggio (e, in quanto tale, può essere destinatario delle sanzioni previste dal d.lgs. n. 42/2006).
Ciò che rileva, quindi, in punto di legittimazione alla richiesta dell’autorizzazione paesaggistica, è certamente un titolo fondato su un diritto reale o almeno su di un diritto obbligatorio, che riconosca all’istante la disponibilità giuridica e materiale del bene; sotto diverso profilo, invece, la semplice relazione di fatto, come il possesso del bene, benché tutelata dall’ordinamento, non sembrerebbe tale da conferire il diritto ad ottenere dalla P.A. l’atto paesaggistico se non, quantomeno, in presenza di un consenso espresso da parte del soggetto proprietario dell’immobile o dell’area specifica. Consenso, si badi, scevro da potenziali “discordanze interpretative” che possano, in qualche modo, compromettere ictu oculi la bontà dei presupposti dell’istanza paesaggistica (come detto, le specifiche interpretazioni contrattuali restano e sono estranee alla competenza della P.A. sia in sede di rilascio del titolo edilizio, sia in quella relativa all’autorizzazione ex art. 146 cit.).
Pertanto, in linea con la pronuncia in commento, si ritiene che la P.A., nell’esaminare ed istruire la richiesta di autorizzazione paesaggistica, dovrà certamente verificare, quale presupposto necessario, la sussistenza dei requisiti soggettivi in capo al richiedente il titolo paesaggistico, e che - al pari del caso edilizio - il diritto dell’istante si fondi su di un legittimo atto (contratto) che accordi al soggetto, altrettanto legittimamente, la disponibilità giuridica e materiale del bene immobile, dimostrando, ove necessario, anche il consenso della parte proprietaria[44]. Potrebbe, adunque, essere utile valutare da parte dell’Amministrazione, entro gli espressi limiti più volte evidenziati nel presente scritto, anche il requisito essenziale della “causa” del contratto (art. 1325 c.c.), intesa come la funzione economico/sociale che, da un lato, il negozio oggettivamente persegue, e, dall’altro, il diritto riconosce rilevante ai fini della tutela da apprestare[45].
[1] Si tratta di T.A.R. Basilicata, sez. I, 01 febbraio 2024, n. 56, in giustizia-amministrativa.it.
[2] In dottrina, ex plurimis e senza pretese di esaustività, si veda M.A. Sandulli, Natura ed effetti dell’imposizione dei vincoli paesistici, Atti del Convegno di studi giuridici sulla tutela del paesaggio, Milano, 1963, 87 ss.; F. Fracchia, Autorizzazione amministrativa e situazioni giuridiche soggettive, Napoli, 1996; G. Altavilla, Il codice dei beni culturali e del paesaggio. I beni paesaggistici. Note brevi e spunti critici, in Prime note zoom, 2004, 62, 173 ss.; A. Angiuli, Commento all’art. 146, in A. Angiuli, V. Caputi Jambrenghi (a cura di), Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, Torino, 2005, 396 ss.; D. Antonucci, Commento al Codice dei beni culturali e del paesaggio, Napoli, 2005; P. Carpentieri, La nozione giuridica di paesaggio, Studi e contributi, in giustizia-amministrativa.it, 2005; R. Ferrara, Introduzione al diritto amministrativo. Le pubbliche amministrazioni nell’era della globalizzazione, Roma-Bari, 2005; F. Gualandi, L’autorizzazione paesaggistica in sanatoria tra “condono ambientale” (legge n. 308/2004) e la disciplina del nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio (art. 146, comma 10, lettera c) del d.lgs. n. 42/2004), in LexItalia, 2005; D. Sandroni, Commento all’art. 146, in R. Tamiozzo (a cura di), Il codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2005, 695 ss.; C. Videtta, Le valutazioni tecniche ambientali tra riserva procedimentale e selfrestraint del giudice amministrativo, in FA, 2005, 1359 ss.; V. Mazzarelli, La disciplina del paesaggio dopo il d.lgs. n. 157/2006, in Gior. dir. amm., 2006, 1080 ss.; M. Renna, Vincoli alla proprietà e diritto dell’ambiente, Diritto pubblico dell’economia, in Ambiente, attività amministrativa e codificazione, Milano, 2006, 389 ss.; M.R. Spasiano, I soggetti della politica ambientale in Italia, in Ambiente, attività amministrativa e codificazione, Milano, 2006, 159 ss.; P. Carpentieri, Il secondo “correttivo” del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Urb. e app., 2008, 692 ss.; F. Cangelli, La disciplina procedimentale dell’autorizzazione paesaggistica: l’impatto delle modifiche introdotte dal decreto legislativo 26, marzo 2008, n. 63, in Riv. giur. urb., 2009, 175 ss.; S. Casu, L’autorizzazione paesaggistica tra disciplina a regime e disciplina transitoria (verso un equilibrio nel riparto di competenze), in Giustamm.it, 2009, 164 ss.; F. Marzari, Autorizzazioni paesaggistiche: sta per tramontare il veto della sovrintendenza, in Edilizia e territorio, 2009, 10 ss.; P. Marzaro, L’amministrazione del paesaggio. Profili critici ricostruttivi di un sistema complesso, Torino, 2009; Id., La “cura” ovvero l'amministrazione del paesaggio: livelli, poteri e rapporti tra enti nella riforma del 2008 del Codice Urbani (dalla concorrenza dei poteri alla paralisi dei poteri?), in Riv. giur. urb., 2008, 423 ss.; S. Amorosino, Introduzione al diritto del paesaggio, Roma-Bari, 2010.
[3] La controversia può essere così brevemente riassunta in fatto: la ricorrente, società locataria di una struttura alberghiera nel Comune di Maratea, ha impugnato il diniego di autorizzazione paesaggistica relativo alla realizzazione di una struttura temporanea a servizio dell’albergo de quo. In particolare, il diniego opposto dalla Regione Basilicata si è sostanziato nel fatto che «trattasi della stessa opera per cui l’Ufficio di pianificazione territoriale e paesaggio, in data 05/08/2022, ha determinato un diniego al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 146 del d.lgs42/2004, avendo acquisito il diniego assoluto della proprietà alla realizzazione di cui trattasi». Pertanto, al fine di proseguire l’iter istruttorio della pratica, «sussiste la necessità di acquisire preventivamente l’assenso della società proprietaria dell’immobile in oggetto». Avverso tale specifico profilo, la ricorrente ha lamentato la violazione di legge, l’eccesso di potere e la disparità di trattamento, in quanto l’Amministrazione regionale, in buona sostanza, avrebbe errato nel qualificare il rapporto contrattuale quale “locazione”, mentre in realtà lo stesso costituirebbe un contratto di “affitto d’azienda” di durata pari a quattordici anni. L’affittuario, adunque, sarebbe subentrato nella pienezza dei rapporti facenti capo al concedente e avrebbe acquisito «prerogative di godimento e di disposizione equivalenti a quelle del proprietario giacché estese non solo sulle dotazioni di scorta (c.d. capitale circolante) ma anche sugli impianti (c.d. capitale fisso)». Secondo tale ricostruzione, dunque la ricorrente vanterebbe rispetto al bene alberghiero una posizione giuridica qualificata, quale diritto personale di godimento, alla presentazione dell’autorizzazione paesaggistica ex art. 146 d.lgs. 42/2004 e alla presentazione del permesso a costruire ex art. 11 del d.P.R. n. 380/2001.
[4] Si veda M.R. Spasiano, Art. 146, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2012, 1116 ss.; P. Carpentieri, Regime dei vincoli e Convenzione europea, in G.F. Cartei (a cura di), Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio, Bologna, 2007, 135 ss.
[5] Ancora sull’autorizzazione paesaggistica in generale si veda L. Corti, Il controllo statale sulle autorizzazioni paesaggistiche nel (quasi concluso) regime transitorio, in Riv. giur. amb., 2010, 785 ss.; D. Logozzo, La “nuova” disciplina in materia di autorizzazione paesaggistica, in Urb. e app., 2010, 907 ss.; A. Serritiello, La semplificazione nel sistema di amministrazione del paesaggio, in AEDON, 2013, 1 ss.; G. Mari, Le incertezze irrisolte in tema di autorizzazione paesaggistica, in Riv. giur. ed., 2014, 103 ss.; E. Zampetti, La disciplina dell’autorizzazione paesaggistica tra esigenze di semplificazione e garanzie costituzionali, in Nuove Autonomie, 2014, 316 ss.; P. Carpentieri, Patrimonio culturale e discrezionalità degli organi di tutela. Semplificazione e tutela, in AEDON, 2016, 3, 1 ss.; M. Immordino, R. Lombardi, Elementi di legislazione dei beni paesaggistici, in A. Police, M.R. Spasiano (a cura di), Manuale di governo del territorio, Torino, 2016, 209 ss.; G. Mari, La rilevanza della disciplina del silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche nei procedimenti relativi ai titoli abilitativi edilizi: il ruolo dello sportello unico dell’edilizia. Considerazioni a margine di una recente circolare del MIBACT, in Riv. giur. ed., 2016, 61 ss.; P. Marzaro, Silenzio assenso tra Amministrazioni: dimensioni e contenuti di una nuova figura di coordinamento ‘orizzontale’ all’interno della ‘nuova amministrazione’ disegnata dal Consiglio di Stato, in Federalismi.it, 2016, 1 ss.; G. Sigismondi, Valutazione paesaggistica e discrezionalità tecnica: il Consiglio di Stato pone alcuni punti fermi, in AEDON, 2016, 3, 54 ss.; S. Amorosino, Il nuovo regolamento di liberalizzazione e semplificazione delle autorizzazioni paesaggistiche (d.P.R. n. 31 del 2017), in Riv. giur. urb., 2017, 174 ss.; B. Fenni, Tutela del paesaggio e esigenze di semplificazione, in Ambientediritto.it, 2017, 1 ss.; P. Marzaro, Autorizzazione paesaggistica semplificata e procedimenti connessi, in Riv. giur. urb., 2017, 220 ss.; G. Piperata, Paesaggio, in C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Diritto del patrimonio culturale, Bologna, 2017, 243 ss.; M. Sinisi, L’autorizzazione paesaggistica tra liberalizzazione e semplificazione (D.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31): la “questione aperta” del rapporto tra semplificazione amministrativa e tutela del paesaggio, in Riv. giur. ed., 2017, 4, 235 ss.; G. Zborowski, La disciplina dell’autorizzazione paesaggistica, in F.G. Scoca, P. Stella Richter, P. Urbani (a cura di), Trattato di diritto del territorio, Torino, 2018, 1127 ss.
[6] Si veda, in giurisprudenza, Cons. Stato, sez. IV, 19 luglio 2021, n. 5407; Id., sez. VI, 22 settembre 2014, n. 4776; Id., sez. IV, 25 settembre 2014, n. 4818, tutte in giustizia-amministrativa.it. Di particolare rilievo è il caso di cui a Cons. Stato, sez. IV, 30 agosto 2018, n. 5115, in Dir. e Giust., 2018, secondo cui, per il tramite dell’istanza di cui all’art. 19, comma 6 ter l. n. 241/1990, e nei limiti del suo interesse ad agire, il privato terzo, in caso di SCIA edilizia, può solo richiedere all’Amministrazione «la verifica obiettiva della compatibilità di quanto si intende realizzare con la disciplina urbanistica ed edilizia applicabile al caso di specie. Ma il privato non può certo richiedere all’amministrazione di verificare – in capo al soggetto che agisce sulla base di una Scia - la sussistenza delle condizioni perché questi possa essere destinatario di un titolo edilizio ex art. 11 d.P.R. n. 380/2001, proprio perché il medesimo articolo esclude che la Scia possa essere ricondotta ad un provvedimento amministrativo».
[7] Cfr., oltre alle pronunce già richiamate nella nota precedente, Cons. Stato, sez. V, 04 aprile 2012, n. 1990, in Foro amm.-C.D.S., 2012, 4, 891 ss., secondo cui, anche in materia di concessione di costruzione, deve essere applicato il principio per cui, ai fini dell’accertamento della proprietà di un’area, i dati catastali hanno valore meramente indiziario e ad essi può essere attribuito valore probatorio soltanto quando non risultino contraddetti da specifiche determinazioni negoziali delle parti o dalla complessiva valutazione del contenuto dell’atto al quale deve farsi risalire la titolarità dell’area medesima, da cui emerga l’effettiva, diversa estensione e delimitazione dell’oggetto del contratto stesso.
[8] Si veda, da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 15 marzo 2022, n. 1827, in Foro amm., 2022, 3, 371 ss., ove si rileva che tale verifica, tuttavia, deve compiersi secondo un criterio di ragionevolezza e secondo dati di comune esperienza, con la conseguenza che l’Amministrazione, quando venga a conoscenza, ad esempio, dell’esistenza di contestazioni sul diritto di richiedere il titolo abilitativo, deve compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, ma senza tuttavia assumere valutazioni di tipo civilistico sulla “pienezza” del titolo di legittimazione addotto dal richiedente.
[9] C.G.A.R.S., 11 maggio 2021, n. 413; Cons. Stato, sez. II, 30 settembre 2019, n. 6528, in giustizia-amministrativa.it, secondo cui «colui che richiede un titolo edilizio deve allegare e dimostrare di essere legittimato alla realizzazione dell'intervento che ne costituisce oggetto, il Comune non è tenuto a svolgere approfondite indagini al fine di appurare l'effettiva esistenza della legittimazione, ma deve limitarsi ad effettuare valutazioni sommarie, basate su prove di facile apprezzamento; conseguentemente, in caso di contestazioni sul titolo di legittimazione, pur potendo condurre le necessarie attività istruttorie il Comune non può sovrapporre propri apprezzamenti a quelli di competenza del giudice civile, e quindi deve arrestarsi laddove il richiedente non sia in grado di produrre elementi prima facie attendibili».
[10] Cons. Stato, n. 5407/2021 cit.
[11] In giurisprudenza, Cons. Stato, sez. VI, 30 giugno 2021, n. 4919, in giustizia-amministrativa.it.
[12] Si veda Cons. Stato, sez. VI, 02 agosto 2011, n. 4576; Id., 08 giugno 2007, n. 3027; Id., sez. IV, 05 giugno 2012, n. 3300, quest’ultima in Riv. giur. ed., 2012, 3, 798 ss., ove si chiarisce che nelle controversie derivanti dall’impugnazione di un permesso di costruire, la coesistenza su un medesimo bene di più diritti reali, implica che più soggetti possano agire anche indipendentemente l’uno dall’altro a difesa dei rispettivi diritti insistenti sul medesimo bene: tale legittimazione, peraltro, «spetta anche all’usufruttuario, a prescindere dalla circostanza che l'usufruttuario sia anche detentore del bene».
[13] Cons. Stato, sez. IV, 05 giugno 2012, n. 3300; T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 07 marzo 2011, n. 1318, in giustizia-amministrativa.it. Secondo T.A.R. Veneto, sez. IV, 13 novembre 2013, n. 1270, il diritto di usufrutto, in quanto ricomprende anche la possibilità di sfruttare pienamente la potenzialità edificatoria del suolo, costituisce titolo idoneo a legittimare la richiesta del permesso di costruire. Secondo Cons. Stato, sez. IV, 13 marzo 2014, n. 1238, in giustizia-amministrativa.it, in base all’art. 11 del d.P.R. n. 380/2001 anche il nudo proprietario ha diritto a richiedere il titolo edilizio, mentre secondo un orientamento più risalente (T.R.G.A. Trentino-Alto Adige, Bolzano, sez. II, 30 luglio 1997, n. 306, in giustizia-amministrativa.it) il nudo proprietario non sarebbe legittimato, salvo si tratti di interventi che determinino la modifica ca della destinazione d’uso dell’immobile, per la quale è richiesto l’assenso sia dell'usufruttuario che del proprietario.
[14] T.A.R. Abruzzo, sez. I, 01 settembre 2011, n. 504, in Foro amm.-T.A.R., 2011, 9, 2768 ss. Come detto, il permesso di costruire è rilasciato, salvi i diritti dei terzi, non solo al proprietario, ma anche a “chi abbia titolo per richiederlo”, dovendosi intendere tali soggetti anche nei contitolari del diritto dominicale, nell’enfiteuta, usufruttuario, titolare del diritto di superficie, d’uso e d’abitazione, fino al promissorio acquirente in possesso del godimento dell'immobile; ora, «dal momento che il comproprietario condominiale ha il diritto ad utilizzare il suo titolo reale parziario, al pari di tutti gli altri condomini, l'Amministrazione non è, pertanto, tenuta ad effettuare alcuna disamina puntuale dei rapporti tra gli stessi condomini, essendo sufficiente la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi fa l'istanza ed il bene oggetto dell'edificazione».
[15] T.A.R. Basilicata, sez. I, 25 ottobre 2010, n. 779, in Foro amm.-T.A.R., 2010, 10, 3353 ss.
[16] Cfr. T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 18 luglio 2011, n. 1365, in Riv. giur. ed., 2011, 5, 1362 ss., ove si specifica che l’art. 11 d.P.R. n. 380 del 2001, nel disporre che il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi ne abbia titolo, prevede, quale condizione legittimante la presentazione della richiesta, la sussistenza di una situazione giuridica assimilabile alla proprietà ovvero alla qualificata aspettativa di poter esercitare le prerogative del proprietario sull'area ove realizzare l'intervento. In tale ipotesi, rientra la stipulazione di un contratto di opzione e ciò «in ragione della sua configurazione quale sostanziale proposta irrevocabile, con vincolo a carico del concedente e diritto potestativo in favore dell’opzionario, trattandosi senz'altro di istituto idoneo a fa sorgere, in capo all'interessato, una situazione di qualificata aspettativa».
[17] Sul punto, T.A.R. Sardegna, sez. II, 11 maggio 2017, n. 332, in giustizia-amministrativa.it.
[18] Cons. Stato, sez. VI, 22 settembre 2014, n. 4776, in Riv. giur. ed., 2014, 5, 1069 ss., ove si chiarisce che tale lettura si estende anche alle procedure di condono edilizio, per la cui richiesta la normativa di riferimento rinvia alla domanda di concessione edilizia e a chi abbia titolo per presentarla. Cfr. pure Cons. Stato, sez. I, 28 giugno 201, n. 7563, in Foro amm.-C.d.S., 2013, 6, 1740 ss.; Id., sez. VI, 25 marzo 2011, n. 1842, in Foro amm.-C.d.S., 2011, 3, 991 ss.; T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 08 luglio 2013, n. 1500, in Foro amm.-T.A.R., 2013, 7-8, 2500 ss.; Cons. Stato, sez. IV, 26 gennaio 2009, n. 437, in Riv. giur. ed., 2009, 3, 898 ss.; Id., 27 ottobre 2009, n. 6545, in Foro amm.-C.d.S., 2009, 10, 2307 ss.
[19] In giurisprudenza, T.A.R. Campania, Napoli, sez. IV, 03 settembre 2008, n. 10036, in Foro amm.-T.A.R., 2008, 9, 2523 ss., ove si evidenzia che anche l’amministratore di un condominio, se e quando munito di specifici poteri a lui conferiti dai singoli condomini, può richiedere il rilascio di una concessione edilizia in quanto la legge non esclude che i soggetti titolati possano avvalersi di altri soggetti, regolarmente incaricati secondo le regole generali per esercitare il loro diritto. Ciò può facilmente verificarsi «nell'ipotesi di lavori di ristrutturazione di uno stabile condominiale per i quali è richiesta la concessione edilizia o nel caso di demolizione e successiva ricostruzione di un edificio condominiale».
[20] Cfr. T.A.R. Puglia, Lecce, sez. III, 12 dicembre 2013, n. 2443 e Cons. Stato, sez. IV, 20 luglio 2011, n. 4370, in giustizia-amministrativa.it, ove si evidenzia che sia necessario guardare ai contenuti del contratto stipulato dalle parti ed alle facoltà in esso conferite, comparando le stesse con il tipo di intervento edilizio che si è richiesto per l’immobile.
[21] T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 24 gennaio 2012, n. 765; T.A.R. Basilicata, sez. II, 26 luglio 2010, n. 532, in Foro amm.-T.A.R., 2010, 8, 2638 ss., laddove i giudici amministrativi evidenziano che «il provvedimento di concessione edilizia può essere rilasciato al proprietario dell'area o a chi ha titolo per richiederla, quale titolare di un diritto reale ovvero un diritto obbligatorio che accordi al richiedente la disponibilità del suolo o la potestà edificatoria, mentre una semplice relazione di fatto, ancorché tutelata, quale quella legata al mero possesso dell'area, non è idonea a conferire il diritto ad ottenere il rilascio del titolo concessorio».
[22] Cons. Stato, sez. VI, 02 febbraio 2012, n. 568, in giustizia-amministrativa.it.
[23] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 22 settembre 2014, n. 4776, in giustizia-amministrativa.it.
[24] Si veda, in particolare, Cons. Stato, sez. VI, 24 luglio 2020, n. 4745 in Riv. giur. ed., 2020, 5, 1292 ss., ove si chiarisce che «se è vero che l'Amministrazione comunale, nel corso dell'istruttoria sul rilascio della concessione edilizia, deve verificare che esista il titolo per intervenire sull'immobile per il quale è chiesta la concessione edilizia, benché la concessione sia sempre rilasciata facendo salvi i diritti dei terzi, è anche vero, però, che deve escludersi un obbligo del Comune di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità dell'immobile, o di verificare l'inesistenza di servitù o altri vincoli reali che potrebbero limitare l'attività edificatoria dell'immobile, atteso che la concessione edilizia è un atto amministrativo che rende semplicemente legittima l'attività edilizia nell'ordinamento pubblicistico, e regola solo il rapporto che, in relazione a quell'attività, si pone in essere tra l'autorità amministrativa che lo emette ed il soggetto a favore del quale è emesso, ma non attribuisce a favore di tale soggetto diritti soggettivi conseguenti all'attività stessa, la cui titolarità deve essere sempre verificata alla stregua della disciplina fissata dal diritto comune». Cfr. anche Cons. Stato, sez. IV, 23 dicembre 2019 n. 6394, in Foro amm., 2019, 12, 2039 ss.
[25] Si veda T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. III, 10 gennaio 2019, n. 56, in giustizia-amministrativa.it, ove si sottolinea, nel dettaglio, che ogni qual volta è nota la situazione di comproprietà dell’immobile oggetto di intervento, l’ente locale è tenuto ad accertare che vi sia l’assenso di tutti i comunisti coinvolti, senza che possano essere opposte, al fine di escludere la necessità di tale assenso, vicende sostanziali e processuali che presuppongono accurate ed approfondite indagini circa i sottesi rapporti civilistici.
[26] Cons. Stato, sez. VI, 07 settembre 2016, n. 3823, in Foro amm., 2016, 9, 2105 ss. In particolare, secondo il giudice di seconde cure, in sede di procedimento per rilascio di titolo edilizio (in specie, in sanatoria) deve formare oggetto di valutazione, da parte del Comune, la sussistenza di tutti i presupposti cui la legge condiziona il suddetto rilascio e, fra essi, anche la circostanza che l’istanza di sanatoria «provenga da un soggetto qualificabile come proprietario dell'edificio oggetto degli interventi della cui sanatoria giuridica si tratti e che abbia l'intera proprietà del bene, e non solo una parte o quota di esso; non può invece riconoscersi la legittimazione al semplice proprietario pro quota ovvero al comproprietario di un immobile, atteso che il contegno tenuto da quest'ultimo potrebbe pregiudicare i diritti e gli interessi qualificati dei soggetti con cui condivida la propria posizione giuridica sul bene oggetto di provvedimento». Cfr. pure Cons. Stato, sez. IV, 23 maggio 2016, n. 2116; Id., 25 settembre 2014, n. 4818, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[27] T.A.R. Sardegna, sez. I, 25 febbraio 2022, n. 135, in Riv. giur. ed., 2022, 3, 832 ss. che conferma, in linea con costante impostazione giurisprudenziale, il fatto che il Comune, in sede di rilascio del titolo abilitativo, deve verificare l’esistenza del titolo giuridico per realizzare l’intervento, ex art. 11, comma 1, d.P.R. n. 380/2001, ma non è tenuto a svolgere verifiche complesse in ordine al regime proprietario dei beni né, tanto più, a risolvere conflitti tra parti private; cfr. pure Cons. Stato, sez. IV, 18 marzo 2021, n. 2329, in Riv. giur. ed., 2021, 3, 921 ss.
[28] Del resto, il rilascio del titolo edilizio non incide sui rapporti tra privati, ma lascia impregiudicati i diritti degli aventi diritto; tanto è confermato dall’art. 11, comma 3, d.P.R. 380/2001, nella parte in cui sancisce espressamente che “il rilascio del permesso di costruire non comporta limitazione dei diritti dei terzi”. Sul punto, la giurisprudenza amministrativa ha più volte ribadito che «il rilascio del titolo edilizio abilitativo, facendo salvi i diritti dei terzi, non interferisce nell'assetto dei rapporti tra privati; pur restando fermo il potere (dovere) dell'Amministrazione di verificare la sussistenza di limiti di matrice civilistica per la realizzazione dell'intervento edilizio da assentire. Si tratta, in sostanza, di un controllo generale di conformità che non può spingersi comunque sino a penetranti analisi, nel senso che l'Amministrazione non è tenuta a svolgere complesse ricognizioni giuridico-documentali circa gli effetti pregiudizievoli dell'intervento progettato sui diritti reali vantati da terzi sulle parti comuni dell'edificio o sull'incidenza dell'intervento su vincoli reali gravanti sull'edificio stesso»; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 24 gennaio 2022, n. 435; Id., sez. IV, 13 novembre 2020, n. 5204, in giustizia-amministrativa.it.
[29] Cons. Stato, sez. IV, 30 giugno 2021, n. 4919; Id., 24 febbraio 2022, n. 1302, in Foro amm., 2022, 2, 191 ss.
[30] Diverso è il caso in cui in cui il Comune sappia che il diritto di chi richiede il titolo abilitativo è contestato: in tal caso, l’ente deve compiere le indagini necessarie per verificare se tali contestazioni siano fondate e negare il rilascio del titolo laddove il richiedente non sia in grado di fornire elementi seri a fondamento del suo diritto (così Cons. Stato, sez. IV, 12 aprile 2021, n. 2951, ove si specifica che se è vero che il rilascio del permesso non incide sui diritti dei terzi è anche vero che i principi di economicità dell’azione amministrativa sconsigliano di rilasciare titoli abilitativi aventi ad oggetto interventi edilizi oggetto di facili impugnative da parte dei controinteressati).
[31] In situazione di comproprietà dell’immobile oggetto di intervento (risultante, ad esempio, dall’atto di proprietà), si è rilevato come l’ente locale è tenuto ad accertare che vi sia l’assenso di tutti i comproprietari coinvolti, senza che possano essere opposte, al fine di escludere la necessità di tale assenso, vicende sostanziali e processuali che presuppongono accurate ed approfondite indagini circa i sottesi rapporti civilistici (T.A.R. Catanzaro, n. 56/2019 cit.). Più nel dettaglio, si è evidenziato come il comproprietario è singolarmente legittimato solo con l'avallo, esplicito (delega) o implicito degli altri, desumibile quest'ultimo anche dal c.d. “factum fiduciae” e cioè un comportamento concludente attestante un rapporto fiduciario tra i vari comproprietari, che è stato talvolta ricondotto alla c.d. “tolleranza pregressa”, ossia nel tempo trascorso senza che vi sia un’esplicita espressione di dissenso da parte degli altri comproprietari; Cons. Stato, sez. IV, 29 agosto 2019, n. 5947, in giustizia-amministrativa.it.
[32] Secondo il TAR Basilicata, nella pronuncia in commento, parte resistente «non ha affatto proceduto a una autonoma riqualificazione del contratto di affitto d’azienda in locazione, essendosi limitata ad affermarne l’equivalenza ai fini che qui rilevano, in quanto entrambi tali tipi contrattuali attribuiscono al locatore o all’affittuario un diritto personale di godimento». In particolare, si è evidenziato come l’affitto di azienda è un contratto in forza del quale il proprietario concede un diritto personale di godimento a un terzo dietro pagamento di un canone, integrando una “species” del “genus” della locazione.
[33] Si veda anche S. Speranza, Silenzio assenso tra P.A. e autorizzazione paesaggistica. Le prospettive del Consiglio di Stato (nota a Consiglio di Stato, Sezione Sesta, n. 4098 del 24 maggio 2022), in Giustizia Insieme, 2022. Sia consentito il rinvio anche a G. Delle Cave, «In interpretatione non fit claritas»: sulla duplice (anzi triplice) esegesi pretoria in materia di silenzio assenso ex art. 17 bis l. n. 241/1990 e parere paesaggistico soprintendizio, in Giustizia Insieme, 2023; Id., Autorizzazione paesaggistica e silenzio assenso tra P.A.: un connubio (im)possibile? competenze procedimentali e portata applicativa dell’art. 17 bis l. n. 241/1990, ivi, 2022.
[34] D. Galasso, Nelle aree vincolate l'autorizzazione paesaggistica è sempre necessaria, in Dir. e giust., 2016, 10, 12 ss.; L. Corti, Vincoli e autorizzazioni paesaggistiche: orientamenti consolidati e profili di novità, in Riv. giur. amb., 2011, 3, 524 ss.
[35] T.A.R. Liguria, sez. I, 26 maggio 2011, n. 1015 e T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 09 novembre 2010, n. 23672 in Foro amm.-T.A.R. 2010, 11, 3596 ss., secondo cui, ad esempio, non può essere annoverato tra questi soggetti il promissario acquirente «cui non sia stata attribuita la detenzione del bene». Pertanto, è necessaria la disponibilità materiale del bene «pena l'inefficacia del sistema di tutela giurisdizionale». Sul punto, si veda V. Parisio, Art. 146, comma 12, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, Giuffrè, 2019, 1310 ss. Recentemente, Cons. Stato, sez. I, 30 dicembre 2022, n. 2208, in giustizia-amministrativa.it.
[36] Si veda T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 09 novembre 2010, n. 23672, in Foro amm.-T.A.R., 2010, 11, 3596 ss.
[37] Cons. Stato, sez. IV, 15 marzo 2022, n. 1827, in giustizia-amministrativa.it.
[38] Sul punto, si veda Cons. Stato, sez. IV, 2023 n. 2836, in Riv. giur. ed., 2023, 3, 634 ss., ove si evidenzia che il parere di compatibilità paesaggistica costituisce un atto endoprocedimentale emanato nell’ambito di quella sequenza di atti e attività preordinata al rilascio o al diniego del provvedimento di autorizzazione paesaggistica: le valutazioni espresse sono finalizzate all'apprezzamento dei profili di tutela paesaggistica che si consolideranno, all’esito del procedimento, nel provvedimento di autorizzazione o diniego di tale autorizzazione. Cfr. T.A.R. Piemonte, sez. I, 11 febbraio 2019, n. 190; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 03 settembre 2018, n. 5317; T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 31 agosto 2016, n. 2040, tutte in giustizia-amministrativa.it. Cfr. S. Caggegi, Funzione del parere di compatibilità paesaggistica e sindacabilità degli atti finalizzati alla tutela ambientale. Nota a Consiglio di Stato, sez. IV, 21 marzo 2023, n. 2836, in Giustizia Insieme, 2023.
[39] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 2023 n. 5407, in giustizia-amministrativa.it.
[40] N. Durante, Il controverso regime delle autorizzazioni paesaggistiche, relazione nell’ambito del convegno “La tutela dei beni paesaggistici e culturali, a venti anni dall’entrata in vigore del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”, 2024.
[41] Si veda anche T.A.R. Sicilia, Catania, sez. IV, 17 febbraio 2023, n. 513, in giustizia-amministrativa.it.
[42] S. Amorosino, Autorizzazioni paesaggistiche: una sentenza “passatista” del Consiglio di Stato disattesa dal T.A.R. Salerno, in Urb. e app., 2021, 4; P. Carpentieri, Silenzio assenso e termine a provvedere, anche con riferimento all’autorizzazione paesaggistica. Esiste ancora l’inesauribilità del potere amministrativo?, in giustizia-amministrativa.it, 2022.
[43] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 09 giugno 2020, n. 3689, in giustizia-amministrativa.it.
[44] Si veda, sul punto, la lucida analisi di O. Carparelli, Brevi note in tema di soggetti legittimati a richiedere la concessione edilizia, in LexItalia, 2020.
[45] Secondo O. Carparelli, op. cit., detta causa, che, di regola, è tipica per ciascuna fattispecie di contratto, «deve essere lecita; sicché, non sarebbe legittimo e/o lecito che le parti facciano ricorso all’utilizzazione dello strumento negoziale per frodare la legge (art.1344 c.c.), nel senso che non è lecito che le stesse, intenzionalmente, attribuiscano al negozio una funzione obiettiva diversa da quella tipicamente prevista, per il raggiungimento di una comune finalità contraria alla legge».
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