ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Premessa – 2.Obiezione sulla costituzionalità dell'art. 577-bis c.p.: il femminicidio non viola il principio di uguaglianza - 2.1. L’introduzione del delitto di femminicidio è imposta dagli obblighi sovranazionali - 2.2. Il delitto di femminicidio disvela il trucco della falsa neutralità del diritto penale - 2.3.Il diritto penale in chiave antidiscriminatoria e la necessità di adottare la prospettiva di genere per “un diritto diseguale paritario” - 2.4. La legittimità costituzionale di un sistema sanzionatorio differenziato per il delitto di femminicidio (e per gli altri reati contro le donne). Non è “colpa d’autore” - 3.Obiezione sulla discriminazione degli uomini: il femminicidio è causato dalla discriminazione sessuale - 4.Obiezione sull’assenza di proporzionalita dell’ergastolo :il femminicidio prevede una pena proporzionata alla gravità del fatto - 4.1. La pena prevista dal codice penale per l’omicidio - 4.2. La proporzionalità della pena secondo la giurisprudenza costituzionale. In particolare, la sentenza n. 197 del 2023 - 5. Obiezione sul panpenalismo: il femminicidio non rappresenta un eccesso di criminalizzazione - 5.1. La funzione del diritto penale: non solo repressione ma anche orientamento culturale - 5.2. Il diritto penale come strumento di riconoscimento e definizione dei beni giuridici fondamentali - 5.3. La funzione general-preventiva della norma penale: orientamento dei comportamenti sociali ed effetti indirettamente preventivi - 6. L’obiezione sul difetto di tassatività. La fattispecie di femminicidio descrive il fatto tipico in modo preciso e determinato - 6.1. La prima parte della fattispecie: “in quanto donna” - 6.2. La seconda parte della fattispecie: la scelta autonoma della relazione - 6.3. La terza parte della fattispecie: la limitazione delle libertà individuali - 7. Obiezione sulla contrapposizione tra punizione e prevenzione: non sono alternative ma complementari - 7.1. La falsa contrapposizione tra repressione e prevenzione - 7.2. Il delitto di femminicidio produce effetti preventivi - 8.Conclusioni.
1. Premessa
Il disegno di legge che introduce nel codice penale l'art. 577-bis, dedicato al delitto di femminicidio (e le aggravanti che su di esso si modellano), rappresenta un passaggio epocale per l'ordinamento giuridico italiano perché interrompe la pratica interpretativa di invisibilizzazione delle donne e della violenza che su di esse viene agita “in quanto donne”.
Se fossero uomini, nelle stesse condizioni di fatto, non verrebbero sottoposte a maltrattamenti, abusi sessuali, persecuzioni, umiliazioni, manipolazioni.
Viene, dunque, spezzata la falsa neutralità del diritto penale; viene indicata, in termini chiari, la struttura culturale e discriminatoria in cui si sviluppa la violenza contro le donne con applicazione dell’art. 3, secondo comma, della Costituzione e delle fonti sovranazionali.
La norma proposta definisce il femminicidio come l'uccisione di una donna " quando il fatto è commesso come atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione o come atto di controllo o possesso o dominio in quanto donna, o in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali è punito con la pena dell’ergastolo. Fuori dei casi di cui al primo periodo si applica l’articolo 575…”.
Questa innovazione normativa, unica sulla quale mi soffermo in questa audizione, ha suscitato forti obiezioni che meritano una risposta puntuale e argomentata che deve necessariamente partire dagli obblighi costituzionali e sovranazionali del nostro Paese, soprattutto all’esito delle diverse condanne subite dall’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani (v. Talpis contro Italia, 2 marzo 2017; Landi c. Italia, 7 aprile 2022, De Giorgi c. Italia, 16 giugno 2022, M.S. c. Italia, 7 luglio 2022; I.M. e altri c. Italia, 10 novembre 2022; P.P. contro Italia, 13 febbraio 2025) l’ultima delle quali di pochi giorni fa: Scuderoni contro Italia, 23 settembre 2025.
Dobbiamo porci il problema del perché, a fronte del progressivo rafforzamento degli strumenti normativi nel contrasto alla violenza contro le donne, la Corte EDU continui a condannare l’Italia per passività giudiziaria.
La risposta risiede nelle seguenti gravi aporie su cui invito fortemente il Parlamento a lavorare servendosi dell’importante binario costituito dal recepimento della Direttiva 2024/1385 del 14 maggio 2024 sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica, al fine di:
a) affrontare in modo sistemico il contrasto alla violenza contro le donne prevedendo un apparato normativo unitario, chiaro e coordinato che riguardi tutti gli ambiti con i quali una donna vittima di violenza e i suoi figli entrano in contatto al fine di prenderla in carico, in modo professionale, efficace ed empatico, evitando vuoti di tutela e decisioni contraddittorie che conducono alla sfiducia nelle istituzioni e al rientro della donna e dei suoi figli nella relazione maltrattante;
b) investire su uno strutturato sistema di prevenzione in tutti gli ambiti formativi, a partire dagli asili nido, che metta al centro la libertà e la dignità femminile e ricostruisca un nuovo alfabeto nel rapporto tra uomini e donne;
c) imporre un coordinamento, con periodici monitoraggi circa la loro effettività ed efficacia, tra tutti i soggetti che entrano in contatto con le donne vittime di violenza e i loro figli (ospedali, medici di famiglia, enti territoriali, assistenti sociali, insegnanti, forze di polizia, polizia giudiziaria, consulenti tecnici, pubblici ministeri, giudici – civili, penali e minorili -, operatori dei centri per la giustizia riparativa, operatori dei centri per uomini maltrattanti, ecc.), riconoscendo il ruolo decisivo che svolgono i centri antiviolenza, altrimenti ogni intervento resta settoriale e a rischio di decisioni contrastanti tali da mettere in serio pericolo la donna e i suoi figli. Ad oggi ogni istituzione si muove in modo disarticolato, autonomo, separato e sovrapposto, con imponenti e spesso inutili costi, anche economici, e in totale assenza di indispensabili controlli.
d) rendere obbligatoria, strutturata, continuativa la formazione di tutti gli operatori, a partire da polizia giudiziaria e magistratura:
-sulla necessità di assumere una prospettiva di genere nell’affrontare questi delitti (come imposto dalle norme sovranazionali);
-sulle dinamiche culturali ed identitarie della violenza contro le donne;
-sulla valutazione del rischio;
- sui pregiudizi giudiziari inconsapevoli e persistenti – riconosciuti dalle fonti sovranazionali - che impediscono alle donne l’accesso alla giustizia (le donne mentono, le donne esagerano, le donne se la sono cercata, le donne provocano, le donne denunciano falsamente, ecc.) e che portano, invece, ad empatizzare o giustificare gli autori;
-sull’ascolto professionale delle vittime, previa conoscenza del ciclo della violenza;
- sulla consapevolezza del trauma – spesso ridimensionato o non accertato - che generano questi delitti;
- sulla necessità di un coordinamento serrato tra il procedimento civile di separazione ed affidamento dei figli ed il procedimento penale, ad oggi sostanzialmente ancora inesistente per la mancata applicazione dell’art. 64-bis disp. att. cod. proc. pen. e per l’assenza di controlli da parte dei dirigenti degli uffici giudiziari.
La formazione, per essere efficace e adeguata, dovrebbe essere innanzitutto comune e poi svolta soltanto da professionisti dalla competenza riconosciuta e accreditata, primi tra tutti le operatrici dei centri antiviolenza;
e) investire in modo consistente e strutturale sul personale (forze di polizia, polizia giudiziaria, addetti al monitoraggio dei braccialetti elettronici nelle sale operative, magistratura, cancellerie), che oggi opera ai limiti del collasso ed è del tutto insufficiente, perché a fronte di continue riforme, anche doverosamente acceleratorie, tutto è rimasto invariato ed è avvenuto a costo zero. Il contrasto alla violenza contro le donne può essere efficace e non consentire alibi a nessuno solo partendo da un imponente investimento economico.
2. Obiezione sulla costituzionalità dell'art. 577-bis c.p.: il femminicidio non viola il principio di uguaglianza
2.1. L’introduzione del delitto di femminicidio è imposta dagli obblighi sovranazionali
Il femminicidio non è l’uccisione di una donna, ma costituisce l’apice di una relazione di potere strutturalmente discriminatoria che termina con la sua definitiva soppressione.
Le donne sono le uniche persone ad essere uccise per il solo fatto di appartenere al loro sesso ("in quanto donne") e questa specificità richiede che le norme penali, lungi dall'essere neutre, esplicitino il meccanismo in cui si consuma il delitto.
L'introduzione dell'art. 577-bis cod. pen. attua gli obblighi sovranazionali derivanti dalle seguenti fonti vincolanti per l’Italia in via diretta o ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost. la Convenzione CEDAW (ratificata dall'Italia nel 1985), e le sue Raccomandazioni, la Convenzione di Istanbul (ratificata nel 2013), la Direttiva UE 2024/1385 sulla lotta alla violenza contro le donne che impongono agli Stati di adottare misure legislative specifiche per contrastare la violenza di genere nelle sue forme più gravi.
Si richiamano inoltre, fonti di soft law:
a) la Risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite[1], che ha raccomandato alle legislazioni nazionali di punire l'uccisione di ragazze e donne per motivi di genere, nonché meccanismi per prevenire e indagare queste forme di violenza;
b) la Dichiarazione di Vienna delle Nazioni Unite del 2013[2] che ha individuato, per la prima volta, diversi tipi di femminicidi oltre l’uccisione di donne a seguito di violenza da parte di un partner intimo, ad oggi non ritenuti tali nel nostro Paese tra cui:
c) la Risoluzione del Parlamento europeo del 28 novembre 2019 sull’adesione dell’UE alla Convenzione di Istanbul e altre misure per combattere la violenza di genere (2019/2855(RSP) che definisce il femminicidio come “la morte violenta di una donna per motivi di genere, che avvenga nell’ambito della famiglia, di un’unione domestica o di qualsiasi altra relazione interpersonale, nella comunità, a opera di qualsiasi individuo, o quando è perpetrata o tollerata dallo Stato o da suoi agenti, per azione o omissione”.
Da ultimo l’EIGE – l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere dell’Unione europea – ha sollecitato gli Stati membri dell’UE a considerare il femminicidio un reato autonomo proprio mettendo a punto gli indicatori utili ad armonizzare i processi di registrazione dei dati per migliorarne l’acquisizione e le Osservazioni conclusive sull’Italia del Comitato sull’Eliminazione della Discriminazione contro le Donne (CEDAW), pubblicate il 19 febbraio 2024, nell’VIII Rapporto periodico, hanno raccomandato allo Stato di introdurre il delitto di femminicidio.
Quindi la previsione della fattispecie di femminicidio nel codice penale è un atto dovuto.
2.2. Il delitto di femminicidio disvela il trucco della falsa neutralità del diritto penale
Vedere la disuguaglianza sessuale e la discriminazione quotidiana che vivono le donne in ogni contesto è il presupposto per contrastarla[3].
Il diritto penale ha il potere di "nominazione": dare un nome giuridico al femminicidio significa riconoscerne la matrice discriminatoria e fornire agli operatori gli strumenti interpretativi per decrittarlo correttamente.
Ad oggi in Italia, così come in gran parte dei Paesi europei, continua a prevalere un diritto neutro secondo un’impostazione arcaica che non tiene conto, invece, del valore promozionale dell’ordinamento a tutela dei diritti di chi ha strutturalmente meno potere di chi impone le regole del diritto neutro.
Il paradigma classico del diritto penale è la neutralità dei delitti rispetto al sesso[4], corollario del principio di uguaglianza formale, secondo il quale vi è un medesimo statuto giuridico per tutti i cittadini di fronte alla legge.
La neutralità evita tutele diversificate per tipi di vittima o di autore fondate sull’appartenenza del soggetto attivo o passivo del reato.
D’altra parte, la neutralità, id est oggettività, conferisce al dominio le apparenze della legittimità[5]. Tanto questo è vero che, mentre veniva teorizzato tutto questo, come è noto, nel nostro codice penale esistevano, tra gli altri, l’adulterio, il matrimonio riparatore e l’omicidio per causa d’onore, tutti delitti volti a convalidare, anche istituzionalmente, i segni inequivoci della mascolinità come relazione di dominio sulle donne, e sopravvissuti, nel silenzio generalizzato degli operatori del diritto, per decenni nonostante l’approvazione della Costituzione repubblicana e dell’articolo 3, secondo comma.
Non è un caso che la modalità linguistica gender neutral, volta a rendere le donne invisibili persino nei contesti giuridici in cui sono soggette a gravi forme discriminatorie “in quanto donne” - reati di violenza maschile contro le donne nell’ambito penale e diritto di famiglia e responsabilità genitoriale nell’ambito civile – è stata oggetto di serrate critiche degli organismi sovranazionali di controllo, come il Grevio[6], e da ultimo della stessa Commissione europea. Infatti, nel Rapporto sulle conseguenze giuridiche, per l’Unione europea, dell’adesione alla Convenzione di Istanbul si stigmatizza il mancato espresso richiamo alle donne e alle ragazze in numerose norme, anche della stessa legislazione europea, inclusa la Direttiva 2024/1385/UE, perché questa omissione, non riconoscendo l'impatto sproporzionato che ha su di loro la violenza «porta a una mancanza di comprensione delle dinamiche di potere tra uomini e donne, in particolare quelle all'intersezione di diversi motivi di discriminazione»[7].
Come già evidenziato in altra sede[8] declamare la neutralità e l'universalità del diritto è un trucco volto a cancellare le donne e i loro diritti.
Si parlava di suffragio universale elettorale anche quando era impedito alle donne di votare. Perché l’universale è sempre e solo maschile, unico modello riconosciuto e riconoscibile.
Il codice penale, nella sua presunta neutralità, ha storicamente occultato la specificità della violenza maschile contro le donne:
Alla luce di tutto questo apparato, è evidente la carica di rompente della nuova fattispecie penale e delle aggravanti che essa si conformano.
2.3. Il diritto penale in chiave antidiscriminatoria e la necessità di adottare la prospettiva di genere per “un diritto diseguale paritario”
Il punto di partenza per qualsiasi riflessione di carattere culturale, sociale, economico, ma soprattutto giuridico è la necessità di riconoscere la disuguaglianza sistemica e profonda nelle relazioni tra donne e uomini e di volerne garantire, nel concreto, il pieno superamento affinché i diritti umani e le libertà siano individuati, esercitati e protetti, in modo uguale, per donne e uomini[9].
Il Trattato sull’Unione europea (artt. 2 e 3, par. 3), la Carta dei diritti fondamentali (art. 21) e il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea stabiliscano che il diritto alla parità di trattamento e alla non discriminazione è un principio fondante dell’Unione europea (art. 8 e, in particolare, gli artt. 82, par. 2, e 83, par. 1).
Anche la Costituzione italiana sposta l’obiettivo : dalla parità di trattamento formale alla promozione dell’uguaglianza sostanziale tra uomo e donna di cui la violenza costituisce il più grave impedimento.
Si impone, dunque, la necessaria attivazione di una discriminazione positiva, costituzionalmente posta ma fortemente frenata da coloro che temono, che in tal modo, avvenga una deviazione qualificata del principio di uguaglianza, ignorando che il diritto delle donne di vivere libere dalla violenza costituisce un diritto umano inalienabile riconosciuto da fonti sovranazionali vincolanti per il nostro Paese.
L’obiettivo della legge sul femminicidio non è quello di garantire situazioni, giuridiche o di fatto, identiche, ma di creare le condizioni effettive per permettere alle donne la piena espressione delle loro potenzialità e più in generale della loro personalità che ad oggi non è consentita a causa della pratica quotidiana della violenza che subiscono, di cui il femminicidio è la forma più estrema.
Premesso che ogni vita merita di essere tutelata, la questione deve ruotare intorno al tema della differenza e non a quello dell’identità, nella logica prioritaria di riequilibrare lo svantaggio millenario, tuttora esistente, che vede le donne vittime della violenza maschile.
Il diritto penale, letto in una condivisibile prospettiva non solo emancipatoria, ma soprattutto antidiscriminatoria, che valorizzi l’articolo 3, secondo comma, della Costituzione, potrebbe costituire uno strumento di rafforzamento della tutela di beni, rectius diritti, già esistenti che la collettività percepisce come particolarmente bisognosi di protezione[10].
La funzione special-preventiva, invece, concepisce la pena come strumento per prevenire che l’autore di un reato ne commetta in futuro altri.
In questa cornice, spetta al potere legislativo selezionare i comportamenti penalmente rilevanti e stabilirne la pena, a seconda del valore attribuito al bene giuridico da tutelare e alla considerazione che merita nell’ambito della comunità sociale che ne richiede una maggiore protezione; mentre spetta al potere giudiziario accertare, nel caso concreto, l’avvenuta commissione del delitto, interpretando la norma penale di riferimento ed applicando all’autore pene adeguate nella prospettiva rieducativa sancita dalla Costituzione.
In piena condivisione delle tesi sostenute dalla dottrina penalistica più moderna possiamo riconoscere che la creazione di una fattispecie penale richiede :
In sostanza il precetto penale, in ragione della gravità delle conseguenze che derivano dalla sua inosservanza, richiede una giustificazione rilevante, in termini di idoneità, necessità e proporzionalità in senso stretto rispetto alle legittime finalità perseguite dal legislatore mediante l’incriminazione.
La Corte costituzionale spagnola, già a decorrere dal 1992, e soprattutto dopo la Ley organica n. 1/2004 contra la violencia de género – che ha introdotto venti anni fa delitti che prevedono un più severo trattamento punitivo per gli uomini che commettono determinate condotte criminose ai danni delle donne con le quali hanno o avevano una relazione affettiva, indipendentemente dalla convivenza - ha delineato la dottrina del diritto diseguale egualitario [14] in forza del quale la differenza di trattamento opera come “un rimedio correttore di passate ingiustizie consumate sopra un gruppo specifico, determinando una redistribuzione del lavoro, dell’educazione, delle spese pubbliche e di alcuni altri beni, a favore di questo gruppo, caratterizzato normalmente per la razza, l’etnia o il genere, arrivando a concedere un trattamento preferenziale per facilitare il loro accesso a questi beni, a titolo di risarcimento per la discriminazione attuale o passata diretta contro di loro, al fine di garantire una distribuzione proporzionale di quei beni”[15].
Non è un caso che detto sistema differenziato, volto anche ad interpretare in modo corretto i delitti di violenza maschile contro le donne e il contesto discriminatorio in cui sono commessi, ha consentito di evitare la diffusa minimizzazione di questi a vicende private o liti familiari da parte di operatori giudiziari non adeguatamente formati (e non solo specializzati), nelle fasi antecedenti ai femminicidi, tanto che questi in Spagna si sono drasticamente ridotti, tra 50 e 60 vittime annuali[16], a fronte dei circa 110-130 annui che registra stabilmente l’Italia[17].
Il diritto penale, inoltre, non è più racchiuso all’interno della tradizionale prospettiva nazionale, grazie alla interrelazione con le fonti sovranazionali che disegnano una progressiva evoluzione dell’ordinamento interno e dei diritti da questo tutelati nella costruzione della legalità europea e del rafforzamento dei diritti umani inalienabili, nei termini indicati anche dalla giurisprudenza della Corte Europea per i diritti umani.
Poiché la radice della violenza è la disuguaglianza tra uomini e donne, è necessario che venga nominata descrivendone i quotidiani meccanismi in cui si sviluppa nelle singole relazioni.
Perché questo avvenga, l'interprete deve assumere la prospettiva di genere che implica di dare un corpo sessuato ai protagonisti della vicenda giuridica per stabilire quando essere uomini o donne o assumere ruoli maschili o femminili determina l’effetto di essere o meno titolari di diritti oppure facilita o rende più difficoltoso o elimina del tutto il loro esercizio[18].
La prospettiva di genere è una visione, scientifica ed analitica, diffusa in gran parte del mondo[19], capace di osservare la violenza come un meccanismo che riproduce le disuguaglianze e le relazioni gerarchiche tra le persone basate Sull'appartenenza sessuale, così da imporre all’interprete di vedere che gli uomini e le donne, in concreto, non hanno lo stesso valore sociale, non hanno gli stessi diritti ed opportunità per decidere, per accedere alle risorse economiche e alla rappresentanza negli ambiti in cui si esercita potere.
Solo adottando la prospettiva di genere si può accertare, nel caso concreto, se la violazione dei diritti umani è conseguenza della discriminazione motivata dall’appartenenza sessuale[20].
Dunque, agli operatori - giudiziari, sanitari, socioassistenziali, eccetera - [21]serve acquisire strumenti di lettura, culturali ed interpretativi, per comprendere, nello specifico contesto da esaminare, se vi sia innanzitutto una effettiva condizione di libertà della donna e questa si traduca nella libertà di prendere delle decisioni senza imposizioni perché la violenza maschile contro le donne, in generale, ha le sue origini in una società che le considera esseri umani inferiori e oggetti sessuali al servizio dei bisogni e dei desideri maschili e quando non vengono assecondati sono uccise.
Una volta riconosciuto che la disuguaglianza nelle relazioni tra donne e uomini costituisce un dato di fatto storico ed universale e che la violenza ne costituisce una delle più esplicite rappresentazioni, la conseguenza logico-giuridica è che uno Stato di diritto, fondatore dell’Unione europea, tenuto al rispetto dei principi sopra richiamati, sia obbligato a predisporre strumenti giuridici capaci:
a) di tenere conto che le donne sono un soggetto giuridico autonomo e diverso da qualsiasi altro, iniziando con il nominarle nelle leggi;
b) di potenziare la loro esistenza, rimuovendo gli ostacoli strutturali che conseguono alla diffusa minimizzazione istituzionale e sociale della violenza che subiscono “in quanto donne”, in ogni contesto;
c) non confondere questa forma, unica e specifica di violenza, con qualsiasi altra vissuta da altri esseri umani.
2.4. La legittimità costituzionale di un sistema sanzionatorio differenziato per il delitto di femminicidio (e per gli altri reati contro le donne). Non è “colpa d’autore”
Nella prospettiva del principio generale di uguaglianza, la legittimità costituzionale della norma dipende dalla ragionevolezza di un trattamento differenziato quando vi siano presupposti di fatto disuguali, privi di una giustificazione oggettiva e che non comportino conseguenze sproporzionate alla luce dello scopo perseguito
La violenza nei confronti delle donne costituisce non solo un delitto, ma anche una forma estrema di discriminazione strutturale nei loro confronti, vietata dall'articolo 3 della Costituzione italiana e dalle Dichiarazioni universali sui diritti, perché costringe il genere femminile in una posizione di consolidata subordinazione a tutti i livelli della società.
Ne consegue che una più severa sanzione diventa del tutto ragionevole perché tiene conto di questo surplus di disvalore.
Non si tratta di punire più gravemente la violenza contro le donne in considerazione di uno specifico movente soggettivo dell’autore (provato facilmente per ogni delitto ed evincibile dalla sua stessa dinamica), ma di accertare la dinamica oggettiva della relazione con la vittima tenendo conto che l’offesa all’incolumità fisica, alla dignità, alla libertà personale, sessuale ed economica, realizzata attraverso i numerosi delitti di violenza contro le donne, di cui il femminicidio, per operatori specializzati, è soltanto il prevedibile apice, produce una lesione ulteriore in quanto, come stabilito dal Preambolo della Convenzione di Istanbul: a) costituisce “una manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne, che ha portato alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini e ha impedito il pieno avanzamento delle donne”; b) “la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”.
Per questo la particolare gravità delle aggressioni al genere femminile merita una risposta punitiva che renda l’uguaglianza sostanziale un bene giuridico meritevole di intervento penale, fermo restando che il più severo trattamento non attiene ad un tipo di autore, per responsabilità del genere cui appartiene, ma tiene conto del peculiare disvalore insito nella violenza contro le donne che il singolo, con un deliberato, specifico e volontario atto proprio - che impone, come per ogni delitto, un approfondito e garantito accertamento secondo le regole del processo penale – non fa altro che rinnovare, rafforzandola.
Non si punisce, dunque, come ribadito dal Tribunale Costituzionale spagnolo, un delitto per la colpa degli altri, ma per avere quello specifico autore consapevolmente realizzato quella violenza di genere che esprime adesione alla cultura maschilista e per avere riprodotto e confermato con la propria azione la sua carica di disvalore.
Soltanto chi nega la validità della situazione discriminatoria di partenza tra uomini e donne può escludere la maggiore gravità e lesività che esprime la violenza dell’uomo contro la donna nell’ambito di una relazione di potere discriminatorio che non può valere all’inverso.
In Italia, l’analisi della ragionevolezza della differenziazione sessuale per questi delitti, sino ad oggi estranea al diritto penale, richiede di iniziare con la ricerca della legittimità e della funzionalità dello scopo perseguito dalla fattispecie illecita, fondata sulle citate fonti sovranazionali, in materia di protezione integrale delle donne e di lotta alla discriminazione sessuale, e nella consapevolezza del legislatore che le aggressioni degli uomini nei confronti del genere femminile hanno un maggiore disvalore rispetto a qualsiasi altra “violenza di relazione”.
Questo perché:
-è un'aggressione che causa un danno maggiore alla vittima;
-l’autore agisce in conformità ad uno schema culturale ed identitario discriminatorio, contrario alla Costituzione, volto a limitare libertà e dignità della persona offesa “in quanto donna” così negandole lo status di persona in un rapporto paritario;
-rafforza nella società l’identificazione di metà del genere umano, le donne, con un sesso disprezzato, inferiore, privo di autonomia.
D’altra parte, il femminicidio è un delitto che si verifica quando le condizioni storiche generano pratiche sociali che permettono l’aggressione all’ integrità, allo sviluppo, alla salute, alle libertà e alla vita delle donne. Questo può avvenire in qualsiasi tempo e in qualsiasi spazio da parte di persone conosciute (mariti, parenti, fidanzati, compagni, colleghi di lavoro, clienti) o di sconosciuti, gruppi mafiosi, di narcotraffico o di criminalità che utilizzano la violenza.
Gli uomini che usano violenza sulle donne, conosciuti o sconosciuti che siano, a qualsiasi contesto appartengano, hanno un comune denominatore culturale: ritengono il genere femminile utilizzabile e maltrattabile nella certezza della più assoluta omertà, collusione, minimizzazione e normalizzazione di quello che subisce.
Questa è la ragione che impone allo Stato di creare condizioni di sicurezza per la vita delle donne all’interno delle famiglie, delle comunità, dei luoghi di lavoro, delle strade, delle palestre, dei locali, eccetera.
Un ambiente sociale sessista e misogino normalizza la violenza perché genera una convivenza insicura per le donne, pone a rischio la loro vita e favorisce i crimini nei loro confronti.
Contribuiscono alla commissione dei femminicidi il silenzio sociale, la disattenzione, la negligenza e l’assenza di formazione degli operatori, l’idea che ci siano problemi più urgenti, la minimizzazione, la negazione del problema e della sua gravità, il linguaggio.
3. Obiezione sulla discriminazione degli uomini: il femminicidio è causato dalla discriminazione sessuale
Un'obiezione frequente è che l’art. 577-bis cod. pen. cp creerebbe una discriminazione "al contrario" perché punirebbe più severamente l’uccisione di una donna rispetto a quella di un uomo.
È un’obiezione fallace sotto diversi profili:
a) questo reato non viola affatto il fondamentale diritto di uguaglianza e di non discriminazione tra uomini e donne, ma, al contrario, risponde ad una finalità costituzionale, euro unitaria e convenzionale cioè quella di prevedere una più adeguata protezione dei diritti delle donne, ed in particolare il diritto di vivere libere da qualsiasi tipo di violenza, quando le condotte illecite siano determinate da discriminazione sessuale che, ad oggi, colpisce solo il genere femminile;
b) non tiene conto della natura strutturale della sola violenza contro le donne, dato discriminatorio millenario, che il legislatore, nell’ambito della propria discrezionalità politica, esprimendo anche precise condivise istanze sociali, decide di considerare più riprovevoli e più gravi in quanto espressive di una radicata disuguaglianza che genera anche insicurezza, intimidazione e disprezzo nei confronti di metà del genere umano, le donne, e la autoalimenta;
c) non considera che l’uccisione di una donna (o di un uomo o di un bambino/a) in un contesto diverso da quello indicato dall’articolo 577 bis cod.pen. (come può essere quello di una rapina, di un regolamento di conti per questioni connesse al traffico di stupefacenti, dell’omicidio stradale, della strage, della tortura, eccetera) viene punito a prescindere dall’appartenenza sessuale della vittima, in quanto quella morte non assume un disvalore autonomo e diverso rappresentato dalla discriminazione sessuale.
La norma, dunque, non introduce un privilegio, ma riconosce e sanziona una specifica forma di violenza, unica a riguardare metà delle persone che abitano il pianeta, e non una minoranza, qualsiasi essa sia.
Se ancora vi fossero perplessità circa la natura discriminatoria “al contrario”, cioè ai danni degli uomini, derivante dalla tipizzazione del delitto di femminicidio nel codice penale, oltre che delle diverse aggravanti che ne riprendono la definizione - inserite in relazione a tutti i delitti di violenza contro le donne - è bene ricordare, oltre il già menzionato art. 3, secondo comma, Cost. , che l’articolo 4 della Convenzione di Istanbul (Diritti fondamentali, uguaglianza e non discriminazione) al paragrafo 4 (che riprende l’art. 4 della CEDAW) non solo impone agli Stati di «assumere le misure specifiche necessarie per prevenire la violenza e proteggere le donne contro la violenza di genere» ma aggiunge che dette misure «non saranno considerate discriminatorie».
La Relazione esplicativa della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica al paragrafo 55 spiega come l’articolo 4, stabilendo che le misure speciali volte a prevenire e proteggere le donne contro la violenza di genere non riguardano gli uomini, richiama il concetto di discriminazione per come interpretato dalla Corte europea dei diritti umani in relazione al corpus giurisprudenziale relativo all'articolo 14 della CEDU e, in particolare, la sentenza Abdulaziz, Cabales e Balkandali contro Regno Unito («si può parlare di discriminazione nel caso in cui la differenza di trattamento non abbia una oggettiva irragionevole giustificazione, ossia, non persegua un obiettivo legittimo o non vi sia un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi utilizzati e la finalità che si intende perseguire»)[22]. La Relazione aggiunge che «il fatto che le donne subiscano molto più degli uomini atti di violenza basata sul genere, inclusa la violenza domestica, può essere considerata una giustificazione oggettiva e ragionevole per utilizzare risorse ed assumere particolari misure solo ed esclusivamente a beneficio delle donne vittime di violenza».
Il legislatore statale è tenuto a creare un meccanismo giuridico volto innanzitutto a garantire che la vita delle donne non sia minacciata, ma anche a reprimere questa forma, del tutto autonoma e specifica di violenza, nell’ambito di una strategia politico-criminale come richiesto agli Stati dall’art. 5 della Convenzione di Istanbul [23].
Pertanto, la disposizione di cui all’art. 577-bis cod. pen. del codice penale (e le circostanze aggravanti su questa costruite), proposta dal disegno di legge, costituisce una misura oggettiva, positiva e ragionevole ai sensi:
- dell’articolo 3, secondo comma, della Costituzione;
- dell’articolo 4, paragrafo 4, della Convenzione di Istanbul;
- dell’articolo 50 della CEDAW e dell’articolo 12 della Convenzione di Istanbul che affermano esplicitamente il dovere dello Stato di “modificare le pratiche legali o consuetudinarie che favoriscono la persistenza e la tolleranza della violenza contro le donne”, adottando dunque norme specifiche di genere poiché la modifica dei modelli socioculturali richiede misure appropriate.
4. Obiezione sull’assenza di proporzionalità dell’ergastolo: il femminicidio prevede una pena proporzionata alla gravità del fatto
4.1. La pena prevista dal codice penale per l’omicidio
Il codice penale prevede, per la forma base del delitto di omicidio volontario, un minimo di ventuno e un massimo di ventiquattro anni di reclusione.
A questo delitto sono applicabili:
-tutte le circostanze aggravanti comuni (la cui presenza può innalzare il massimo sino a trent’anni);
- quelle speciali previste dagli artt. 576 e 577 cod. pen., la maggior parte delle quali può comportare la pena dell’ergastolo, in caso di assenza di attenuanti, o di ritenuta prevalenza delle stesse aggravanti rispetto ad eventuali attenuanti.
All’omicidio sono di regola applicabili tutte le circostanze attenuanti comuni (art. 62 cod. pen.) e le attenuanti generiche (art. 62-bis cod. pen.)[24] sicché, in caso di ritenuta prevalenza di queste ultime, il giudice potrà infliggere una pena sensibilmente inferiore al minimo edittale di ventun anni di reclusione e, più precisamente, arrivare:
- sino a un minimo di quattordici anni ove riconosca un’unica attenuante;
- nove anni e quattro mesi, ove ne riconosca due;
- sei anni, due mesi e venti giorni, ove ne riconosca tre.
La Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio della XVIII Legislatura, nella Relazione sulla risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia. Analisi delle indagini e delle sentenze. Il biennio 2017-2018, ha accertato che l’ergastolo è stato applicato nel 17,2% delle sentenze di condanna.
Inoltre, è bene sapere che l’ergastolo non è un “fine pena mai” perché secondo la Corte costituzionale e la Corte EDU vanno comunque assicurate «progressività trattamentale e flessibilità»[25], secondo i principi di proporzione e individualizzazione della pena[26] in quanto «la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento».
L’ergastolo, previsto per non pochi delitti, è sempre sopravissuto alle censure di incostituzionalità (tranne quella relativa al caso di ergastolo inflitto al minore), in relazione al potenziale contrasto con il principio dell’umanizzazione della pena e della finalità rieducativa di essa. Le diverse sentenze di rigetto della Consulta si sono basate essenzialmente sull’idea per cui i vari benefici premiali introdotti dal legislatore penale e penitenziario abbiano di fatto attenuato il carattere di perpetuità dell’ergastolo rendendolo compatibile alla Costituzione e fornendo tutti gli strumenti necessari a consentire il reinserimento in società del condannato. Infatti, i condannati all’ergastolo ordinario, come sono coloro che vengono condannati per il delitto di femminicidio, possono accedere ad una serie di benefici, trascorso un periodo di pena espressamente previsto dalla legge: la liberazione anticipata, che comporta una detrazione di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata qualora il condannato abbia dato prova di rieducazione; la semilibertà, che consente di trascorrere parte della giornata all’esterno, dopo aver scontato 20 anni; i permessi premio, che riconoscono al condannato la facoltà di coltivare fuori dal carcere i propri interessi affettivi; il lavoro all’esterno, cui si accede dopo 10 anni di pena scontata; la liberazione condizionale dopo aver scontato 26 anni di pena.
Ad oggi nessuno di detti benefici penitenziari viene comunicato né ai parenti della vittima, come ad esempio gli orfani di femminicidio, né alle madri sopravvissute alle uccisioni dei loro figli, con ciò che ne consegue in termini di messa in pericolo della loro integrità fisica e psichica.
Questa è una grave carenza che il disegno di legge in esame ha il merito di riempire con la modifica dell’articolo 58 sexies dell’ordinamento penitenziario.
4.2. La proporzionalità della pena secondo la giurisprudenza costituzionale. In particolare, la sentenza n. 197 del 2023
Non può farsi a meno di sottolineare come la questione della proporzionalità della pena e della irragionevolezza dell’ergastolo abbia visto una levata di scudi solo per il delitto di femminicidio che già oggi prevede questa sanzione (attraverso le aggravanti) e che, sotto il profilo della proporzionalità e dell’offensività, viola un diritto umano inalienabile attraverso la discriminazione sessuale che ne costituisce il fondamento.
La giurisprudenza della Corte costituzionale ha più volte sottolineato che il principio di proporzionalità della pena, desunto dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. esige che questa sia adeguatamente calibrata sia con riferimento al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, sia al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo il quale a sua volta «dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volontà criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile» (sentenza n. 73 del 2020, punto 4.2. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 94 del 2023, punto 10.3. del Considerato in diritto; sentenza n. 55 del 2021, punto 8 del Considerato in diritto).
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 197 del 2023, ha fornito indicazioni decisive sul rapporto tra proporzionalità della pena, individualizzazione del trattamento sanzionatorio e necessità di riconoscere la diversa gravità oggettiva e soggettiva dei fatti di reato esaminando proprio casi che con la nuova disciplina definiremmo femminicidi.
È lo stesso Giudice delle leggi a prendere atto che «Le statistiche annue sui femminicidi, sulle quali ha insistito l’Avvocatura generale dello Stato negli atti di intervento e nella discussione orale, dimostrano la necessità per il legislatore di intervenire con misure incisive, preventive e repressive, per contrastare efficacemente questo drammatico fenomeno, nonché la generalità dei fenomeni di violenza e abusi commessi nell’ambito di relazioni familiari e affettive» (Paragrafo 5.6).
La sentenza citata afferma testualmente che "ogni omicidio lede in maniera definitiva una vita umana. E poiché ciascuna persona ha pari dignità rispetto a tutte le altre, ogni omicidio parrebbe avere identico disvalore. Eppure, da sempre il diritto penale distingue – nell'ambito degli omicidi punibili – tra fatti più e meno gravi." (Paragrafo 5.1).
La Corte evidenzia che "quando la condotta omicida venga riguardata dal lato dell'autore anziché da quello della vittima, diviene agevole comprendere perché la gravità della condotta omicida sia suscettibile di significative graduazioni." e prosegue rilevando che “Dunque, l’unica figura legale di omicidio volontario abbraccia condotte dal disvalore soggettivo affatto differente: dall’assassinio compiuto da un sicario o da un membro di un gruppo criminale contro un esponente di una cosca rivale, alla brutale uccisione della moglie o della compagna, sino a condotte omicide…maturate in contesti di prolungata e intensa sofferenza, causata da una lunga serie di soprusi e maltrattamenti…”
In particolare, la sentenza conclude che "il principio di proporzionalità della pena, desunto dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. esige che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo"(Paragrafo 5.2).
La sentenza n. 197/2023 affronta anche il tema della proporzionalità "ordinale", ossia della coerenza del sistema sanzionatorio attraverso il confronto tra fattispecie di gravità comparabile concludendo che "…il principio di eguaglianza davanti alla legge di cui all'art. 3 Cost., [che] vieta non solo irragionevoli disparità di trattamento tra situazioni analoghe, ma anche irragionevoli equiparazioni di trattamento tra situazioni tra loro dissimili." (Paragrafo 5.5.1).
Alla luce dei menzionati principi declinati dalla Corte costituzionale, emerge con evidenza la peculiarità dei femminicidi - così denominati dalla stessa Corte - rispetto all'omicidio "semplice" in quanto i femminicidi sono fondati sulla discriminazione sessuale e sulla volontà di reprimere la libertà delle donne così da presentare un disvalore specifico e aggravato tale da giustificare pienamente una risposta sanzionatoria autonoma e più severa[27].
5. Obiezione sul panpenalismo: il femminicidio non rappresenta un eccesso di criminalizzazione
5.1. La funzione del diritto penale: non solo repressione ma anche orientamento culturale
L'obiezione del "panpenalismo" – inteso come ricorso eccessivo e superfluo alla sanzione penale – è del tutto fuori fuoco se applicata al femminicidio.
La preoccupazione per il cosiddetto 'panpenalismo' è legittima quando si tratta di punire fatti non meritevoli per il solo fatto di rappresentare la forza muscolare di uno Stato e sanzionare condotte non rilevanti né per la comunità, né per le istituzioni, né per l'ordinato assetto della convivenza civile.
Questi rischi, come è ovvio, non sono invocabili rispetto al diritto umano delle donne di non essere uccise per appartenere al sesso femminile e con dimensioni sistemiche che impongono, anche per obblighi sovranazionali, una risposta istituzionale chiara e leggibile.
5.2. Il diritto penale come strumento di riconoscimento e definizione dei beni giuridici fondamentali
Il diritto penale ha una funzione regolativa e non costitutiva; i fatti sociali non cessano con la loro tipizzazione o con la loro sanzione, vengono solo definiti stabilendo il livello di considerazione che di essi ha lo Stato.
Il paragone con il delitto di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.), già proposto nel libro «Codice Rosso. Il contrasto alla violenza di genere: Dalle fonti sovranazionali agli strumenti applicativi» è illuminante[28].
Nessuno ha mai neanche immaginato che la previsione del delitto di associazione di tipo mafioso, descritto in otto commi dal codice penale, riducesse la criminalità organizzata in Italia e nel mondo. Ciononostante, nessuno può negare che abbia costituito un potentissimo strumento culturale e giuridico per stabilire cosa è mafia e cosa non lo è, quali ne sono le sue caratteristiche[29].
Allo stesso modo, tipizzare il femminicidio non significa ritenere che i femminicidi cesseranno, ma semplicemente dare forma giuridica a un fenomeno che esiste, nominarlo, riconoscerne la matrice discriminatoria e fornire agli operatori – nessuno dei quali ad oggi ha una formazione obbligatoria - le categorie concettuali per comprenderlo, prevenirlo o punirlo, diversamente da quanto ancora accade quando si indulge in letture romantiche (amore malato, dolore per la separazione, gelosia, ecc.) o patologiche (raptus) o colpevolizzanti rispetto alle vittima (l’ha uccisa perché l’amava, perché l’aveva tradito, ecc.), come accertato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere della XVIII Legislatura, nella Relazione sulla risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia. Analisi delle indagini e delle sentenze. Il biennio 2017-2018, approvata all’unanimità nella seduta del 18 novembre 2021[30].
5.3. La funzione general-preventiva della norma penale: orientamento dei comportamenti sociali ed effetti indirettamente preventivi
Autorevoli penalisti nei loro manuali spiegano che il diritto penale ha una funzione "general-preventiva" che "orienta le scelte di comportamento della generalità dei consociati sia facendo leva sul contenuto afflittivo della pena - che sarà tanto più elevata quanto più il bene che tutela è essenziale ai fini di un'ordinata convivenza umana -, sia svolgendo un'azione pedagogica che confida che con il tempo la collettività spontaneamente aderisca ai valori espressi dalla legge penale."
In un'ottica liberale, il diritto penale va emancipato dalla tradizionale subordinazione alla morale corrente e all'autoritarismo statale per penalizzare soltanto i beni giuridici socialmente apprezzabili dotati di rilevanza costituzionale.
Il diritto umano delle donne di vivere libere dalla violenza costituisce indubbiamente un bene giuridico di rango costituzionale, la cui tutela attraverso la tipizzazione del femminicidio è pienamente legittima e necessaria.
6. L’obiezione sul difetto di tassatività. La fattispecie di femminicidio descrive il fatto tipico in modo preciso e determinato
6.1. La prima parte della fattispecie: “in quanto donna”
Le donne non possono uscire di sera da sole, non possono viaggiare da sole, non possono sostenere un colloquio di lavoro da sole, non possono bere e ballare, non possono studiare quello che desiderano, non possono scegliere la professione cui ambiscono, non possono vestirsi come ritengono, non possono lasciare un uomo che non amano; perché se fanno una di queste cose, in qualsiasi contesto socio-culturale, sanno di porsi automaticamente in una condizione di rischio rispetto alla violenza maschile che ne conseguirebbe e questo anche se la violenza non si esplica. E, dunque, rinunciano o subiscono o reagiscono. Con tutti gli effetti che ognuna di queste scelte determina.
Questo vuol dire “in quanto donna”, dizione contenuta nelle Definizioni dell'articolo 3, lettera d) della Convezione di Istanbul, mentre l'articolo 2, lettera a) della Direttiva 2024/1385 usa un'espressione simile "solo perché donne".
D’altra parte, sono i dati a mostrare in termini oggettivi che esistono delitti commessi quasi esclusivamente dagli uomini nei confronti delle donne “in quanto donne” cioè i delitti di violenza domestica, violenza sessuale ed atti persecutori: “Per quanto attiene alle vittime delle fattispecie di reato monitorate nel periodo in esame, l’incidenza delle donne sul totale si mantiene pressoché costante, attestandosi intorno al 75% per gli atti persecutori, tra l’81 e l’83% per i maltrattamenti contro familiari e conviventi e con valori che oscillano tra il 91 e il 93% per le violenze sessuali.”[31].
L'introduzione del femminicidio, e le aggravanti su di esso costruite, mostra questi numeri e rompe la neutralità per riconoscere una realtà: le donne sono maltrattate, violentate, perseguitate ed uccise perché nascono donne, per ragioni culturali e sociali legate alla loro appartenenza al genere femminile, per l’esercizio di minimali diritti di libertà e per il rifiuto di sottomettersi al potere maschile.
Nel delitto di femminicidio (e nelle aggravanti) le condotte sono delineate in modo chiaro ed univoco attraverso termini come odio, discriminazione, prevaricazione, controllo, possesso e dominio[32] che da decenni appartengono non solo alla descrizione di fattispecie tipiche (si vedano i termini discriminazione e odio già contenuti nell’art. 604 bis c.p.), ma sono richiamati nelle fonti sovranazionali[33] e soprattutto nell’ampia elaborazione della giurisprudenza della Corte costituzionale, della Corte di Cassazione, della Corte di Giustizia, della Corte EDU e del Comitato CEDAW.
Ciò vuol dire che non vi è alcun rischio di violazione del principio di tassatività in quanto la descrizione del delitto è ancorato a parametri univoci e precostituiti di riferimento.
6.2. La seconda parte della fattispecie: la scelta autonoma della relazione
La seconda parte della fattispecie, quella che accerta il «rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo», è ancora percepita, dal contesto sociale e familiare, come una condotta non accettabile che, in quanto tale, legittimamente inverte le responsabilità dell’atto violento che passano dall’autore alla vittima.
In sostanza, questa descrizione della disposizione penale rompe un assetto culturale profondamente radicato nel nostro Paese, il cui fondamento è costituito dal delitto per causa d’onore nel quale prevale, sempre e comunque, il diritto maschile ad esercitare il proprio dominio su una donna che, proprio per essere tale, è priva di autonomia e capacità decisionale: l’uomo lasciato perde potere non solo su di lei, ma soprattutto rispetto al contesto sociale che misura la virilità in base alla capacità di imporsi sulle donne. Un uomo che non domina sul genere femminile non lo umilia, non lo possiede, non lo comanda, non ha identità.
Per questo quasi un terzo di femminicidi si conclude con il suicidio dell’autore.
6.3. La terza parte della fattispecie: la limitazione delle libertà individuali
La terza parte della fattispecie è quella che descrive la condotta illecita come atti di limitazione delle libertà individuali delle donne.
Anche qui non si ravvisa alcuna genericità o assenza di tassatività. Si tratta, molto semplicemente, delle libertà minimali previste dalla Costituzione che nei processi, penali e civili che quotidianamente celebriamo, vediamo compresse o addirittura vietate: la libertà di uscire di casa, di aprire le finestre, di studiare, di fare acquisti in un negozio anziché in un altro, di spendere i propri soldi, di comprare gli assorbenti, di guidare l’ auto, di rivolgersi ai propri medici di fiducia, di lavarsi con l’acqua calda, di vedersi con le amiche, di parlare con i propri genitori a telefono, di abortire o di non abortire, di truccarsi il viso, di indossare i vestiti che desidera, di tingersi i capelli, ecc.
Sono molti facili queste libertà da individuare perché sono previste dagli artt. 13 e ss. della Costituzione e comunque vanno lette nel complesso dell’intera fattispecie, soprattutto della prima parte, perché la loro limitazione avviene proprio “in quanto donne”, perché se fossero uomini non avverrebbe.
Nessun appartenente al genere maschile ad oggi in Italia è stato ucciso dalla propria partner perché voleva lavorare, studiare, guidare la propria auto o uscire con gli amici.
Ecco il motivo per cui la nuova fattispecie, grazie a questa puntuale descrizione imporrà finalmente a magistrati, avvocati, forze di polizia, psicologi, sanitari, consulenti tecnici, assistenti sociali, interpreti, ecc.: a) di misurarsi con la vera radice culturale del fenomeno criminale sotteso ai singoli delitti che ne costituiscono la sua rappresentazione; b) di riconoscere e nominare la discriminazione sessuale strutturale che costituisce il sostrato della violenza.
La tipizzazione del femminicidio costituisce dunque il giusto riconoscimento della gravità specifica di questo delitto e della necessità di contrastarlo con strumenti adeguati visto che la violenza domestica è ancora ritenuta una sorta di destino femminile, di matrice privatistica, al quale le donne si adeguano per scelta o per assenza di alternative tanto da esserne in qualche modo masochisticamente compartecipi.
Attraverso l’enunciazione chiara di queste condotte non sarà più consentito banalizzare la vera e propria gerarchia di potere che continua a governare indisturbata un numero enorme di famiglie italiane e di relazioni di coppia, ancora normalizzata da molti provvedimenti giudiziari per l’inconsapevole retroterra culturale secondo il quale alle donne spetta pulire la casa, cucinare, occuparsi dei figli, rinunciare al lavoro, essere escluse dalle scelte economiche e finanziarie, adempiere ai cd doveri coniugali di natura sessuale, ubbidire senza porre domande, accettare umiliazioni davanti ai figli, evitare di separarsi sapendo che i bambini saranno per il padre un terreno di guerra con la madre anziché la prole di cui prendersi cura, rinunciare alla propria vita sociale per servire gli uomini di famiglia e quando non lo fanno la re-azione del marito o del compagno sarà ritenuta persino legittima o quantomeno comprensibile, così confondendo la violenza maschile contro le donne, soprattutto quella psicologica, con le liti familiari che ovviamente non costituiscono reato[34].
7. Obiezione sulla contrapposizione tra punizione e prevenzione: non sono alternative ma complementari
7.1. La falsa contrapposizione tra repressione e prevenzione
Un'obiezione ricorrente sostiene che sarebbe preferibile investire nella prevenzione piuttosto che nel sistema punitivo.
Si tratta di una contrapposizione fuorviante, anche perché o viene posta per qualsiasi fattispecie di reato espressiva di precisi ambiti sociali e culturali (omicidi sul lavoro, caporalato, criminalità mafiosa, inquinamento ambientale, corruzione, eccetera), altrimenti rischia di trasformarsi in uno sterile alibi che conduce solo all’immobilismo proprio rispetto ad una criminalità così radicata e strutturale che ha bisogno di decenni e decenni per vedere qualche positivo miglioramento in termini preventivi.
Nel frattempo che facciamo?
A fronte di un delitto che si fonda su una radicata ed ancestrale cultura millenaria, che impone alle donne una condizione di sudditanza rispetto all’ordine maschile sulla quale sono stati costruiti diritto (si pensi allo ius corrigendi o all’acquisizione del cognome del padre e del marito), scienza, religione, filosofia e medicina, è evidente che l’obiettivo prioritario è soltanto la prevenzione. Solo l'intera società deve e può farsi carico di debellare la violenza maschile contro le donne nelle parrocchie, nelle moschee, nelle associazioni sportive, nelle scuole musicali, nelle squadre sportive, negli studi dei pediatri e dei geriatri, in tutte le comunità sociali, nelle chat del calcetto e della scuola, ecc.
Tuttavia, la prevenzione deve andare di pari passo con il contrasto della violenza maschile contro le donne in sede penale, civile e minorile, imponendo allo Stato di assumersi le proprie responsabilità istituzionali. L'una non esclude l'altra: sono strumenti complementari e necessari.
È anche vero che il fenomeno della violenza maschile contro le donne è di tale estensione, in Italia e nel mondo, rispetto a qualsiasi altro, da non potere essere delegato a magistratura e forze di polizia, peraltro a costo zero, perché altrimenti si traduce in un vero e proprio abbandono di responsabilità.
Proprio per questo motivo, la prevenzione non può sostituire la risposta punitiva, ma deve affiancarla. Il legislatore deve farsi carico della prevenzione primaria (educazione, contrasto agli stereotipi, promozione della parità, campagne continue sull’empowerment femminile e sulla violenza maschile contro le donne a tappeto, ecc.); le istituzioni devono garantire la prevenzione secondaria (identificazione precoce dei casi, corretta valutazione del rischio, protezione delle vittime e dei loro figli, presa in carico completa ed empatica) e la risposta sanzionatoria (contrasto giudiziario, punizione dei responsabili).
7.2. Il delitto di femminicidio produce effetti preventivi
Paradossalmente la tipizzazione del femminicidio costituisce il presupposto culturale e concettuale della prevenzione in quanto simbolicamente, anche attraverso il trattamento sanzionatorio aggravato, lo Stato esprime il valore che attribuisce al diritto leso ritenendolo di dannosità sociale superiore ad altri.
Primo effetto preventivo: il confronto pubblico che ha preceduto e sta precedendo l’approvazione di una legislazione penale sui crimini contro le donne in quanto tali ha dato luogo a lunghi dibattiti nelle sedi parlamentari, nei partiti, nell’accademia, nelle istituzioni, nell’avvocatura, nella magistratura, nella società civile, in tal modo raggiungendo tutti coloro che fino a questo momento avevano mostrato uno scarso interesse o taciuto sull’esistenza di una strage, pressochè quotidiana, praticata dagli uomini nei confronti delle donne e del tutto assente dal dibattito collettivo perché ridimensionata a questione privata di strati sociali fragili.
Mi sono sempre chiesta cosa accadrebbe nel nostro Paese se ogni due giorni venisse ucciso un tifoso di una squadra di calcio o un testimone di mafia o un taxista o un abitante di una precisa città. E questo avvenisse senza sosta per anni, per decenni. La morte delle donne per essere nate in un corpo di donne da cui si pretendono obblighi e divieti non crea alcuna sollevazione di massa o indignazione paralizzante o presa seria di consapevolezza o blocco dell’esercizio di tutte le attività. Avviene e basta. Come un destino ineluttabile.
L’aula di giustizia non è sufficiente a fermare tutto questo, soprattutto se non dotata di adeguate risorse, perché è necessario far crescere la coscienza sociale e culturale del Paese, portandolo a misurarsi ovunque con le cause strutturali del fenomeno – lo storico rapporto di forza diseguale tra uomini e donne in ogni ambito e contesto – che tutti vedono ma pochi contrastano efficacemente perché vorrebbe dire partire da sé e dai propri modelli personali e familiari. E per gli uomini, metà del genere umano, rinunciare ai propri privilegi.
Secondo effetto: Aumentare la conoscenza e le informazioni grazie alla raccolta di dati quantitativi e qualitativi, alla casistica giurisprudenziale, sanitaria e sociale; creare operatori e operatrici empatici e competenti formati specificamente sulle cause della violenza e sui suoi traumi, per decrittarne immediatamente i minimi segnali di rischio; sapere cosa sono i centri antiviolenza e indirizzare tutte le donne presso di loro affinchè ricevano accoglienza adeguata, acquisizione di forza e consapevolezza di sé e della natura illecita di quanto subito. In questo modo si interviene per tempo, si evita che i delitti vengano portati a peggiori conseguenze, anche nell'interesse degli stessi imputati, e si crea fiducia nelle istituzioni.
Terzo effetto: Fornire parametri omogenei per identificare il femminicidio e non consentire più che ciascuno – istituzioni, associazioni, operatori, ecc. - includa o escluda l’uccisione di una donna tra i femminicidi sulla base soltanto di propri convincimenti soggettivi (l’uccisione di una donna che si prostituisce da parte di un cliente o della moglie di un uomo interno ad un clan di mafia da parte di un gruppo avverso o di una condomina per ragioni di vicinato o di una nonna uccisa dal nipote per procurarsi il denaro per la droga sono o meno femminicidi ?).
Quarto effetto: Imporre agli operatori del diritto di accertare quello che non vedono come un delitto, misurandosi con il suo significato. Con l’approvazione della legge avvocatura, accademia e magistratura inizieranno a misurarsi su cosa intendere per atto di odio misogino; per atto di discriminazione sessuale; per atto di prevaricazione; per atto di controllo o possesso o dominio quando esercitati su una donna “in quanto donna”, temi ad oggi poco praticati, di rado studiati, ritenuti di minimale rilievo e tali da non necessitare di adeguati e complessi approfondimenti.
8. Conclusioni
L'introduzione dell'art. 577-bis nel codice penale italiano, lungi dal rappresentare un eccesso di criminalizzazione o una norma simbolica priva di effetti concreti, costituisce:
Le obiezioni di incostituzionalità, panpenalismo e alternatività rispetto alla prevenzione sono dunque infondate.
Il ddl approvato all’unanimità al Senato e a breve in discussione alla Camera, pur con i limiti sistemici espressi nella premessa, soprattutto con riferimento alla fattispecie di femminicidio (e alle connesse aggravanti) rappresenta un passaggio epocale perché conferisce forma giuridica ad un fenomeno criminale millenario, rimuovendone banalizzanti letture intimiste e nominandolo per quello che è: un delitto di potere fondato sulla discriminazione nei confronti delle donne e sulla punizione della libertà femminile.
[1] UNODC (2014) Global Study on Homicide 2013, in www.unodc.org/documents/gsh/pdfs/GLOBAL_HOMICIDE_Report_ExSum.pdf;
[2] Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite (2012), Dichiarazione di Vienna sul femminicidio, ONU, New York www.unodc.org/documents/commissions/CCPCJ/CCPCJ_Sessions/CCPCJ_22/_E-CN15-2013-NGO1/E-CN15-2013-NGO1_E.pdf.
[3] I. Boiano, Nominare la violenza maschile contro le donne: diritto penale e giustizia tra conflitto simbolico e responsabilità politica, in Giustizia Insieme, 4 aprile 2025 https://www.giustiziainsieme.it/en/violenza-di-genere/3455-nominare-la-violenza-maschile-contro-le-donne-diritto-penale-e-giustizia-ilaria-boiano
[4] P. Di Nicola Travaglini, Il diritto penale non è un diritto per le donne: il caso della legittima difesa, in Questione giustizia, 19 gennaio 2023; I. Boiano, Nominare la violenza maschile contro le donne, cit.; La criminalità femminile. Un’indagine empirica e interdisciplinare, (a cura di) C. Pecorella, Sesto San Giovanni, 2020.
[5] P. Bourdieu, Il senso pratico, cit., p. 212.
[6] Ad esempio, nel rapporto di valutazione di base sui Paesi Bassi, il GREVIO, nel 2020, ha espresso preoccupazione per il fatto che il termine recentemente utilizzato "violenza nelle relazioni di dipendenza", che "intendeva cogliere le diverse manifestazioni di violenza domestica che qualsiasi individuo può sperimentare [...]", può portare a lacune nella protezione e nel supporto alle donne vittime di violenza perché "le politiche di genere neutro comportano il rischio di interventi da parte di professionisti privi di sensibilità di genere".
[7] S. De Vido, Legal implications of EU accession to the Istanbul Convention, 2025, www.equalitylaw.eu/downloads/6247eu-law-in-light-of-the-istanbul-convention-legal-implications-after-accession; M. Frulli, Ambito di applicazione della Convenzione in Commento alla Convenzione di Istanbul , pag. 98, cit.
[8] P. Di Nicola Travaglini, Il femminicidio esiste ed è un delitto di potere, su Sistema penale 2 maggio 2025 https://www.sistemapenale.it/it/articolo/di-nicola-travaglini-il-femminicidio-esiste-ed-e-un-delitto-di-potere uffa
[9] H. Chinkin- C. Charlesworth, The Boundaries of international law. A feminist analysis, Manchester, 2000.
[10] G. Marinucci, L’abbandono del Codice Rocco: tra rassegnazione e utopia, in La questione crim., 1981, 308; G. Neppi Modona, Tecnicismo e scelte politiche nella ridorma del diritto penale, in Dem. e dir., 1977, 682.
[11] F. Viganò, Diritto penale e diritti della persona, in diritto diseguale monetarioSistema penale, 8 marzo 2023.
[12] G. Fiandaca- E. Musco, Diritto penale, Parte generale, p. 29, cit.
[13] G. FIANDACA-E. Musco, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 31.
[14] Tribunale costituzionale spagnolo sentenze n. 229 del 1992 e n. 59 del 2008.
[15] Tribunale costituzionale spagnolo sentenza n. 45 del 2010.
[16] D. Bonsignore, La politica criminale spagnola sulla violenza di genere vent’anni dopo, in questa Rivista, 17 ottobre 2024.
[17] Detta cifra, peraltro, nel nostro Paese viene quantificata al ribasso perché non tiene conto delle seguenti morti:
— i suicidi conseguenti a maltrattamenti fisici o psicologici;
— le uccisioni dei figli e delle figlie delle donne vittime di violenza;
— le sparizioni di donne;
— le morti come conseguenza dei maltrattamenti;
— le uccisioni di donne in contesti di mafia e criminalità organizzata;
— i casi di grave inabilità in cui è costretta una donna a seguito di violenze efferate (deformazioni del viso e di apparati sensoriali, paralisi, ustioni, traumi psicologici insuperabili, ecc.);
— i casi dei testimoni scampati alle uccisioni della loro madre o sorella o figlia, che li rende “femminicidi in vita”.
[18] P. Di Nicola Travaglini, Il femminicidio esiste ed è un delitto di potere, su Sistema penale 2 maggio 2025 https://www.sistemapenale.it/it/articolo/di-nicola-travaglini-il-femminicidio-esiste-ed-e-un-delitto-di-potere; Justice for Everyone, The jurisprudence and legal lives of Brenda Hale (a cura di) Rosemary C. Hunter, Cambridge 2022; J. F. Lousada Arochena, El Enjuiciamiento de género, cit.; R. Hunter, C. Mc Glynn e E. Rackley, Feminist Judgments: From Theory to Practice, London, 2010; A. Di Martino, Immagini e metodi del sistema penale di fronte ai delitti c.d. di genere (Fra sollecitazioni internazionali ed esperienza interna), in archiviopenale.it, 2022; V. Bonini, La violenza di genere, in V. Bonini, V. Calderai, E. Catelani, A. Sperti, E. Stradella, Diritto e genere nella prospettiva europea, Napoli, 2021, pp. 161 ss.
[19] UN Women and OHCHR, 2014, Latin American Model Protocol for the Investigation of Gender related Killings of Women; UNODC, 2014, Global Study on Homicide 2013.
[20] A. Rodriguez Alvarez, Perspectiva de género y prueba, Madrid, 2024.
[21] . Libro bianco per la formazione sulla violenza contro le donne, a cura del Comitato Tecnico Scientifico dell’Osservatorio sul fenomeno della violenza nei confronti delle donne e sulla violenza domestica istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le pari opportunità, novembre 2024, consultabile su
www.pariopportunita.gov.it/media/1qlbact1/libro_bianco_08_web.pdf
[22] Corte EDU, Abdulaziz, Cabales e Balkandali contro Regno Unito, 28 maggio 1985.
[23] A.M. Maugeri, Le “aggravanti” nei confronti degli uomini autori di “violenza di genere” nella disciplina spagnola: possibile strategia politico criminale o strumento di una politica della “sicurezza” discriminatoria? in Jura Gentium, 2016.
[24] La Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere della XVIII Legislatura, nella Relazione sulla risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia. Analisi delle indagini e delle sentenze. Il biennio 2017-2018, ha accertato che il giudice di primo grado in media ha applicato una pena pari a 18 anni e 2 mesi di reclusione (pagg. 35 e ss):
- in un terzo dei casi aveva concesso le circostanze attenuanti generiche;
- la pena è stata quantificata tra 20 e 15 anni di reclusione nel 33,3 percento dei casi e sotto i 15 anni di reclusione nel 13,1% dei casi.
Il giudice di secondo grado ha confermato nel 63% dei casi le pronunce di primo grado e ha applicato una pena media pari a 13 anni e sette mesi di reclusione, rilevandosi una diminuzione media delle pene pari a circa quattro anni e tre mesi.
[25] Corte cost., n. 255/2006.
[26] Nella sent. della Corte costituzionale n. 149/2018 si ricorda «come criterio “costituzionalmente vincolante” quello che esclude “rigidi automatismi e richiede sia resa possibile invece una valutazione individualizzata e caso per caso” nella materia dei benefici penitenziari (sentenza n. 436 del 1999)».
[27]C. Pecorella, Perché può essere utile una fattispecie di femminicidio, in Sistema penale, 2 giugno 2025, https://www.sistemapenale.it/it/opinioni/perche-puo-essere-utile-una-fattispecie-di-femminicidio.
[28] P. Di Nicola Travaglini e F. Menditto, 2° ed., Milano, 2024.
[29] F. Menditto, Riflessioni sul delitto di femminicidio, su Sistema penale, 2 aprile 2025, https://www.sistemapenale.it/it/scheda/menditto-riflessioni-sul-delitto-di-femminicidio.
[30] Si vedano i paragrafi 4.6. e seguenti: «Il linguaggio delle sentenze e delle archiviazioni (79 decreti di archiviazione e 118 sentenze) il femminicidio non è contestualizzato, la pregressa condotta violenta dell’autore viene definita «relazione burrascosa, tumultuosa, turbolenta difficile instabile non tranquilla, caratterizzata da conflittualità domestiche, tutt’altro che felice, eccetera» anche a fronte di precedenti denunce per gravi maltrattamenti della vittima; le vittime di femminicidio sono spesso chiamato per nome e gli imputati per cognome; le vittime di femminicidio che svolgono attività prostitute vengono chiamate “prostitute”; la condizione di disagio sociale dell’autore è valorizzata e sembra quasi legittima la re-azione a comportamenti della vittima che viene colpevolizzata «per avere provocato, tradito, accusato, eccetera».
[31] Relazione al ddl 1294 AC divenuto l. n. 168/2023 pagg 29 ss tutti i dati del Ministero dell’interno (Dipartimento della Pubblica Sicurezza - Direzione Centrale della Polizia Criminale - Servizio Analisi Criminale), in occasione della Festa della Donna dell’8 marzo 2023.
[32] A. Massaro, Riflessioni sul disegno di legge in materia di femminicidio, su Sistema penale, 25 giugno 2025, https://www.sistemapenale.it/it/documenti/massaro-riflessioni-sul-disegno-di-legge-in-materia-di-femminicidio
[33] Nel Considerando 15 della Direttiva 2024/1385/UE, del 14 maggio 2024, sulla «lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica», vi è il termine dominio dove si descrivono le mutilazioni genitali femminili come "una pratica vessatoria e di sfruttamento riguardante gli organi sessuali di una donna, ragazza o bambina, attuata allo scopo di mantenere e affermare il dominio su tale donna, ragazza o bambina e di esercitare un controllo sociale sulla sua sessualità";
Nel considerando 11) si menziona il controllo coercitivo come espressivo della violenza domestica soprattutto quando l’autore conviva o abbia convissuto con la vittima ; altre forme di “controllo” sono quello economico (considerando 32 e 39) ; quello che opera attraverso i figli e che incide sul piano psicologico (considerando 39) tale da determinare una vera e propria manipolazione ricattatoria.
Nel Preambolo della Convenzione di Istanbul si usa il termine "dominazione” in senso strutturale quando riconosce che «la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini».
Nela Relazione esplicativa della Convenzione di Istanbul al paragrafo 194 si menziona la violenza sessuale come una forma comune «di esercizio del potere e di controllo nelle relazioni abusanti e possono accadere durante la relazione o successivamente alla sua interruzione»;
Al paragrafo 263 si menziona come «potente mezzo di controllo sulle vittime», con aumento del rischio di femminicidio, il possesso di armi da fuoco da parte dell'autore degli atti di violenza.
[34] Su questo tema si è dovuta formare una ricca giurisprudenza di legittimità proprio per il numero significativo di casi derubricati dai giudici di merito come mera conflittualità familiare a fronte di accertate gravissime forme di limitazione dell’autonomia e della libertà femminile, di atti di prevaricazione, di violenze fisiche, di denigrazioni, da parte dell’uomo di famiglia.
«…la confusione tra maltrattamenti e liti familiari avviene quando non si esamina e, dunque, non si valorizza l’asimmetria di potere e di genere, che connota la relazione, di cui la violenza costituisce la modalità più visibile (v., in motivazione, Sez. 6, n. 37978 del 03/07/2023, B., Rv. 285273; Sez. 6, n. 26934 del 12/03/2024, S.). Entro tale prospettiva si è affermato, in particolare, che qualificare, in un contesto di coppia o familiare, l’intimidazione, le minacce, l’isolamento, le lesioni, i danneggiamenti, la sottrazione di risorse economiche, il controllo, l’imposizione di ridurre i rapporti sociali, la coercizione, come espressive di un comune “conflitto” perché determinato da ragioni culturali, religiose o affettive, semmai dietro la banalizzazione giustificatrice della gelosia o di eccessi comportamentali, non solo deforma dati oggettivi, ma viola i principi fondamentali dell’ordinamento, a partire dall’art. 3 Cost. che impone di ritenere le donne in una condizione paritaria, giuridica e di fatto, rispetto agli uomini, perché titolari del diritto alla dignità e alla libertà, cioè diritti umani fondamentali e inalienabili, che non possono subire lesioni o limitazioni, neanche occasionali, in base a costrutti sociali o interpretativi fondati sull’ accettazione e la normalizzazione della disparità di genere, per come proposta ed incoraggiata dal ricorrente. La linea distintiva tra violenza domestica e liti familiari è netta e non consente confusioni.
Si consuma la prima quando un soggetto impedisce ad un altro, in modo reiterato, persino di esprimere un proprio autonomo punto di vista se non con la sanzione della violenza – fisica, psicologica o economica -, della coartazione e dell’offesa e quando la sensazione di paura per l’incolumità (o di rischio o di controllo) riguarda sempre e solo uno dei due, soprattutto attraverso forme ricattatorie o manipolatorie rispetto ai diritti sui figli della coppia prospettando il loro allontanamento dalla vittima se denuncia o se non soggiace ai volere dell’agente. Mentre ricorrono le liti familiari quando le parti sono in posizione paritaria e si confrontano, anche con veemenza, riconoscendo e accettando, reciprocamente, il diritto di ciascuno di esprimere il proprio punto di vista e, soprattutto, nessuno teme l’altro (Sez. 6, n. 37978 del 03/07/2023, cit.; Sez. 6, n. 19847 del 22/04/2022, M.), perché ciò che costituisce il fondamento della relazione sono la riconosciuta e reciproca parità -economica, psicologica, fisica, eccetera - e la piena libertà (Sez. 6, n. 32042 dell’08/07/2024, F.).
Immagine: Marie Petiet, Blanchisseuses, olio su tela, 1882.
L'articolo esplora il tema della mediazione dei conflitti focalizzandosi principalmente sulla chiave di volta: scioglie il conflitto il desiderio di riparare: prezioso per ogni tipo di contenzioso, non solo quello penale.
Valorizza un approccio filosofico-umanistico che integra aspetti etici, teologici, giuridici e psicologici. Offre una trattazione multidisciplinare con esempi concreti, riflessioni teoriche e riferimenti a nomi autorevoli, oltre a un caso pratico reale che illustra i limiti della giustizia formale rispetto alla mediazione riparativa.
Sommario: 1.Introduzione: Il valore della cura nell'era del consumismo - 2. L’insufficienza della giustizia formale: un caso studio - 3. Le radici multidisciplinari del dovere di riparare - 3.1. La riparazione in ambito psicologico: la cura intergenerazionale - 3.2. Prospettive etiche e filosofiche: responsabilità e bene comune - 3.3. Giustizia dialogica e diritto fiduciario - 3.4. Fondamenti teologici: dovere di giustizia e amore - 4. Conclusione: trasformare la crisi in rigenerazione.
1. Introduzione: Il valore della cura nell'era del consumismo
La mediazione dei conflitti, in particolare nel suo modello filosofico-umanistico, trova la sua chiave di volta nel far scattare nei contendenti il desiderio profondo e autentico di riparare.
Il verbo "riparare," rischia di dissolversi nel mondo consumistico contemporaneo, ove la cura e il recupero sono stati soppiantati dalla logica dell'usa-e-getta. Se un tempo si dava nuova vita alle calze smagliate e le scarpe venivano risuolate, oggi le cose vengono gettate e sostituite. Questo progressivo allontanamento dalla pratica di "ridare vita alle cose" si riflette inevitabilmente anche nel vissuto umano e nelle dinamiche relazionali.
Viviamo in un’epoca definita da Zygmunt Bauman come quella delle relazioni "liquide[1] ," caratterizzate dalla tendenza a scartare ciò che non appare più immediatamente utile, anche nelle interazioni tra persone. La conseguenza più grave è l'amnesia rispetto a quelle relazioni che, se trascurate, lasciano nel cuore e nell’anima una voragine—un "buco nero" che ostruisce la crescita autentica e le conquiste umane. Le incomprensioni diventato muri e le differenze diventano distanze come baratri. Ignoriamo il monito di Italo Calvino:” Se alzi un muro, pensa a cosa lasci fuori”.
La mediazione si pone l'obiettivo di cucire con cura proprio queste relazioni incrinate.
L’esito delle sedute della mediazione, praticata secondo il modello filosofico-umanistico, non si misura tanto né esclusivamente in base all’accordo formale raggiunto, bensì nella nascita del bisogno autentico di riparare il male e risarcire la dignità lesa. La vera mediazione apre, infatti, lo spazio per il desiderio di cura e ristoro, andando ben oltre la mera contesa giuridica.
2. L’insufficienza della giustizia formale: un caso studio
Il divario tra la giustizia formale e la riparazione umana emerge con chiarezza in recenti episodi. Si pensi al caso di una disputa tra comproprietari in un borgo lombardo, dove la richiesta ostinata di stacco da un contatore d’acqua comune ha trasformato la mediazione in un palcoscenico di sopraffazione e scontro. La parte istante non era assolutamente interessata alla ricerca della verità e di una soluzione rispettosa di Nonostante l'infondatezza della richiesta, la parte convenuta ha dovuto affrontare oneri economici, stress emotivo e la sofferenza dell'ingiustizia percepita.
La mediazione fallisce — come previsto e auspicato dalla parte più aggressiva, che cercava "un giudice a Berlino" piuttosto che il dialogo. Non era assolutamente interessata alla ricerca della verità e di una soluzione rispettosa ma di un modo per imporre il suo volere[2].
Segue ovviamente il ricorso al tribunale che ha prolungato la sofferenza dell’altro proprietario per tre lunghi anni. Quando finalmente si è giunti a una soluzione tecnica e a un accordo, questo è risultato privo di ogni gesto di riconoscimento o scusa. La parte lesa è rimasta gravata da spese e amarezze, senza alcun risarcimento morale, vittima di una giustizia che è stata mera forma senza sostanza.
Questo esempio dimostra perché la mediazione filosofica-umanistica miri a qualcosa di più del diritto: mira alla riparazione, intesa come un atto di responsabilità e umanità che coinvolge sia chi ha commesso il torto sia chi ne ha sofferto, permettendo così la ricostruzione di un tessuto di dignità e relazione. Solo un riconoscimento delle reciproche responsabilità e un risarcimento, anche simbolico, le cosiddette scuse, avrebbero riequilibrato i rapporti e, forse, consentito una ripresa. La chiusura giudiziaria del problema che li opponeva non ha smosso di un centimetro i motivi veri della lite.
La mediazione appartiene alla “restorative justice” (“giustizia che reintegra” di derivazione anglosassone), alternativa alla giustizia di tipo retributivo (la giustizia che stabilisce con una sentenza, in diverso modo, il risarcimento dei danni alla vittima ). Comunque l’accento viene posto sull’azione del riparare. Dove l’applicazione della pena tradizionale potrebbe apparire in relazione sia al destinatario (il reo) che alla vittima, inutile o addirittura controproducente.
La giustizia riparativa processo informale in cui vittima e autore del reato, che si assume pienamente responsabilità del suo comportamento, guidati da un mediatore insieme alla vittima, familiari delle parti in conflitto e alcuni componenti fondamentali delle rispettive comunità di appartenenza decidono collettivamente le modalità con cui gestire la soluzione del conflitto. Guidati da un mediatore si incontrano, discutono sviscerando cause ed effetti del fatto reato.
Ciò che non esclude affatto l’istituto della pena, ma ne modifica e chiarisce il profilo di utilità sociale mediante azioni di reale riconoscimento della vittima, riparazione dell’offesa nella sua dimensione globale, autoresponsabilizzazione del reo, coinvolgimento della comunità nel processo di riparazione, rafforzamento degli standard morali e contenimento dell’allarme sociale.
Ma è riduttivo ascrivere questo concetto solo alla mediazione penale. È il nocciolo di ogni mediazione che tratti il cuore del conflitto (le ferite e le offese relazionali) e il conflitto con il cuore (con la comprensione, il riconoscimento, il racconto di sé, la rielaborazione, la crisis e la catarsi). Qualunque sia l’oggetto del contendere, nella lite la persona viene coinvolta e travolta nei suoi vissuti più profondi, nelle sue vulnerabilità, nelle sue paure, nella sua dignità. Sono queste le ferite relazionali che è doveroso, e possibile, sanare o almeno curare.
Si annoverano quindi numerose e diversificate forme operative a elevato grado di flessibilità, in relazione al tipo e all’intensità del conflitto da affrontare, ma sempre resta fermo il senso del non giudicare ma di promuovere e vigilare sulla riparazione.
3. Le radici multidisciplinari del dovere di riparare
Il valore del riparare è un concetto universale, oggetto di riflessione oltre che da parte giuristi, anche dei teologi, filosofi, e psicologi.
3.1. La riparazione in ambito psicologico: la cura intergenerazionale
In ambito psicologico, la riparazione si traduce anche nella cura intergenerazionale. La psicogenealogia[3] insegna che eventi traumatici o dinamiche familiari irrisolte possono essere trasmesse inconsciamente, influenzando il benessere dei discendenti. In questa logica la riparazione psicologica è dunque il processo di presa di coscienza e guarigione delle ferite emotive che attraversano le famiglie. Il discendente "ripara" quando riconosce queste "eredità invisibili" e interrompe le catene di sofferenza attraverso l'elaborazione terapeutica e simbolica. L'obiettivo è duplice: liberare la persona dal peso emotivo degli antenati e permetterle di costruire un’identità più libera e autentica.
3.2. Prospettive etiche e filosofiche: responsabilità e bene comune
Il concetto di riparazione è centrale nell'etica delle relazioni, come dimostrato dai contributi di Paolo Bettineschi e Salvatore Natoli.
Paolo Bettineschi definisce la riparazione come un impegno etico profondo di presenza e responsabilità[4]. Richiede l’adesione attiva di entrambe le parti (chi ha causato il male e chi lo ha subito) in un processo di manifestazione e riconoscimento reciproco. Non è mera compensazione materiale, ma un'etica che integra memoria, fiducia e cura, rigenerando ciò che è stato ferito, coinvolgendo anche la dimensione esistenziale e l'ambiente.
Salvatore Natoli colloca la riparazione in un contesto politico e sociale[5]. La vede come un imperativo morale finalizzato alla costruzione del bene comune. Sottolinea la necessità di un'etica della pietas, vista come il legame umano fondamentale per la cura e la salvezza della specie. La riparazione diviene un compito etico e politico concreto per la giustizia sociale e la riconciliazione.
3.3. Giustizia dialogica e diritto fiduciario
Tommaso Greco introduce la prospettiva giuridico-fiduciaria[6], dove la riparazione richiama la giustizia dialogica. Essa non è né mero perdono né condanna, ma la ricostruzione della fiducia attraverso la responsabilità e la tutela del bene comune. Greco sostiene che il diritto si fonda sulla fiducia tra le persone. La riparazione, in questo quadro, è un atto che rinnova la relazione sociale, in cui la mediazione funge da ambiente per sperimentare questa "etica relazionale".
3.4. Fondamenti teologici: dovere di giustizia e amore
Nella teologia cristiana, e in particolare nella tradizione cattolica, la riparazione ha radici profonde: è un dovere fondamentale di giustizia e amore verso Dio e il prossimo, espressione della riconciliazione comunitaria spezzata dal peccato. Il credente è chiamato a riparare l'offesa fatta a Dio con le proprie colpe, unendo i propri atti di zelo e sacrificio all'azione redentrice. La riparazione, in questo senso, non riguarda solo l'offensore ma anche l'Offeso, cioè Dio e si manifesta in tre forme concrete: 1. Affettiva: preghiere e partecipazione ai sacramenti. 2. Effettiva: azioni quotidiane ispirate alla carità e alla giustizia.3. Afflittiva: sofferenze e tribolazioni accettate in unione a quelle di Cristo. La riparazione è quindi un percorso spirituale di conversione e giustizia, distinta concettualmente dall'espiazione (l'atto salvifico di Cristo, a cui l'uomo partecipa) e dalla penitenza (il sacramento e mezzo pratico per la soddisfazione e la correzione).
4. Conclusione: trasformare la crisi in rigenerazione
Da queste diverse angolazioni emerge un quadro convergente sull'essenziale: riparare è un atto che plasma sia la persona che la società, richiedendo il riconoscimento del danno, la disponibilità al cambiamento e l'inclusione di chi ha subito l'offesa in un percorso di recupero.
Nel percorso della mediazione filosofico-umanistica, il vero valore della pratica si incarna in questa tensione vitale al riparare. Non si tratta di un nostalgico ritorno al passato o di una rinuncia al conflitto, ma di una sfida contemporanea: trasformare la crisi in rigenerazione, la lacerazione in cura e l'offesa in responsabilità condivisa. In un tempo dominato dall'effimero, la mediazione chiama al coraggio di interrompere questa deriva e di riscoprire, con consapevolezza e passione, la forza di riparare, rigenerando non solo le cose, ma soprattutto le relazioni e, in definitiva, noi stessi.
[1] Zygmunt Bauman e la teoria delle "relazioni liquide": Bauman Z., Liquid Love: On the Frailty of Human Bonds, Polity Press, 2003.
[2] Storiella o metafora delle interazioni umane? Si racconta che due uomini stavano litigando. La discussione era: “Una fetta di pane cade con il lato imburrato sopra o sotto?”. Il primo disse: “Con il lato imburrato sotto, ovviamente”. Il secondo: “Con il lato imburrato sopra”. “Facciamo la prova”, disse il primo, “e vedrai che ti sbaglierai!”. Così la fetta di pane fu ben imburrata e lanciata in aria. Ricadde con il lato imburrato sopra. “Ho vinto!”, disse il secondo. “Solo perché io ho commesso un errore”, disse il primo. “Quale errore?”, riprese il secondo. “Ovviamente ho imburrato il lato sbagliato”, rispose il primo.
La persona che litiga non cerca la verità ma la conferma delle proprie convinzioni.
[3] Anne Ancelin Schützenberger, Gli Antenati e noi: Scoprire i numeri simbolici nelle storie familiari, Mondadori, 1991
[4] Paolo Bettineschi, Etica del riparare, Morcelliana 2021
[5] Salvatore Natoli, Etica della pietà, Laterza, 2010.
[6] Greco T., Il diritto fiduciario e la giustizia dialogica, Giuffrè, 2015; la legge della fiducia, Laterza 2023
Immagine: Paul Troger, L'Armonia tra Religione e Scienza, Affresco della Seitenstetten Abbey (Austria), 1735.
È ormai da più di un secolo - vale a dire dalla dichiarazione del Ministro degli Esteri britannico Balfour del 1917, in cui appare per la prima volta in un documento diplomatico il concetto di un “focolare” (home) ebraico in Palestina - che va avanti quella che lo scrittore israeliano Amos Oz ha definito anni fa una tragedia in senso greco, una situazione cioè in cui entrambe le parti in conflitto hanno valide ragioni da far valere a sostegno del proprio punto di vista, con la conseguenza che è maledettamente difficile venirne a capo. Matassa che, se non trattata, rischia di degenerare sempre di più, come l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 dimostra tristemente, con il pericolo che la violenza diventi la cifra inevitabile ed eterna della vita di quei due popoli.
Proviamo a capire come si è arrivati al punto in cui siamo. A mio parere, la migliore chiave di lettura è la parabola storica delle posizioni assunte nel tempo dalle due parti contrapposte rispetto alla possibile soluzione dei due Stati. Credo che si possano individuare tre fasi principali:
PRIMA FASE (1947-1978)
Nel 1947, l’ONU – con la Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale - propone la creazione di uno Stato palestinese e di uno Stato ebraico, ma i Palestinesi e i Paesi arabi vicini non accettano tale soluzione e, per annientarlo, decidono di attaccare Israele (più disposto, viceversa, a seguire l’impostazione onusiana, a parte qualche frangia estremista). Gli Israeliani prevalgono e avviene l’esodo, per lo più forzato, di circa 750.000 Palestinesi dalle loro case (cd. Nakba, cioè catastrofe). In questo trentennio hanno luogo altre tre guerre (1956, 1967 e 1973), nonché gravi episodi di terrorismo (come l’uccisione di atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco nel 1972). Israele riesce ad accaparrarsi vaste parti di territorio, vale a dire la striscia di Gaza (che era sotto amministrazione egiziana), la Cisgiordania (che era sotto controllo giordano) e l’intera città di Gerusalemme (la cui parte orientale era in mano ai Giordani), da allora denominati dall’ONU “Territori Occupati” (definizione non accettata da Israele) con tutti gli obblighi giuridici connessi a tale situazione.
SECONDA FASE (1978-1995)
I Palestinesi – intanto organizzatisi formalmente nell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) a partire dal 1964 e guidati dal carismatico leader laico Arafat – cominciano ad accettare l’idea di rinunciare alla distruzione dello Stato israeliano e di vivere in due entità statuali distinte, tanto che – passando per gli Accordi di Camp David del 1978 (che portano alla pace tra Israele e l’Egitto) e la prima Intifada (rivolta) palestinese del 1987 - si arriva agli Accordi di Oslo del 1993. Questo è il momento di massima vicinanza ad una possibile risoluzione del conflitto, dato che essi prevedono, insieme al reciproco riconoscimento politico tra l’OLP (in rappresentanza del popolo palestinese, pur ancora privo di uno Stato) e Israele, alcuni principi negoziali basati sul ritiro israeliano da aree della Striscia di Gaza e della Cisgiordania e sul diritto palestinese all'autogoverno attraverso la nascita dell'Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Si giunge dunque faticosamente all’accettazione del diritto all’esistenza di Israele e si pongono le premesse per la creazione di un vero Stato palestinese. Purtroppo, il meccanismo negoziale messo in piedi non ha successo, a causa del sabotaggio degli estremisti di entrambe le parti (soprattutto l’assassinio, da parte di un fanatico sionista di destra, del Premier israeliano Yatzik Rabin nel 1995, artefice degli Accordi di Oslo insieme ad Arafat).
TERZA FASE (1995-2025)
Prevalgono a poco a poco in entrambi gli schieramenti coloro che si oppongono alla soluzione delle due entità statuali, decisi invece ad instaurare il proprio Stato su tutto il territorio conteso dal fiume Giordano al mare. Tale cambio di atmosfera fa naufragare anche due successivi importanti tentativi (arenatisi in particolare sulla questione del ritorno dei rifugiati nelle loro case in Israele e sullo status di Gerusalemme): uno al Vertice di Camp David del 2000 , in cui un Arafat improvvidamente rigido, forse anche per timore di essere assassinato dagli estremisti islamici, rifiuta le offerte negoziali del Premier israeliano Ehun Barak; l’altro con riferimento all’“Iniziativa di pace araba” elaborata dai Sauditi nel 2002, malauguratamente non accettata da Israele, anche perché spaventato dalla maggiore violenza della seconda Intifada palestinese iniziata nel 2000 e poi proseguita fino al 2005. In sostanza, dal 1996 in poi comincia a farsi gradualmente strada nella dirigenza israeliana la nuova idea che non sia più necessario accettare uno Stato palestinese accanto ad Israele (vale a dire la formula “terra in cambio di pace”) e che si debba invece puntare ad uno Stato ebraico inglobante anche i “Territori Occupati” (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme) privando i Palestinesi di un loro territorio, in parte spingendoli ad emigrare in Giordania, in parte assorbendoli in uno Stato a guida ebraica. Tale nuovo approccio si è appunto incarnato nel Premier Benjamin Netanyahu, in carica dal 1996 al 1999, poi dal 2009 al 2021 e infine dal 2022 a oggi. Netanyahu ha basato la sua strategia su una massiccia e inarrestabile politica di nuovi insediamenti illegali di coloni nei territori occupati e su un’ambigua tolleranza nei confronti della fazione islamista radicale palestinese di Hamas (nata negli anni Ottanta e rafforzatasi nel tempo, fieramente contraria a ogni ipotesi di compromesso con Israele e impadronitasi di Gaza dopo l’abbandono della striscia da parte israeliana nel 2005), allo scopo di indebolire l’Autorità Nazionale Palestinese (al potere in Cisgiordania) e così vanificare la soluzione dei due Stati, accettabile solo per quest’ultima fazione. In pratica, Netanyahu ha alimentato la divisione tra i gruppi palestinesi per poter dire che la dirigenza palestinese non era d’accordo sugli obiettivi da raggiungere e dunque indisponibile per un negoziato serio. Si è al tempo stesso illuso di poter gestire indefinitamente Hamas - consentendo tra l’altro il passaggio di ingenti fondi del Qatar verso la striscia di Gaza – nella convinzione che tale fazione si sarebbe accontentata di arricchirsi e di governare la striscia senza creargli problemi reali, diventando così la sua polizza assicurativa contro la soluzione dei due Stati. In questo modo, mirava a far apparire l’opzione di un solo e grande Stato a controllo ebraico come l’unica soluzione realisticamente possibile. Ma la sua parallela strategia di allacciare relazioni con i Paesi arabi scavalcando i Palestinesi (tramite gli Accordi di Abramo del settembre 2020, favoriti dalla prima Amministrazione Trump e stipulati con le monarchie degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein, nonché il graduale avvicinamento all’Arabia Saudita ) ha fatto comprendere ad Hamas e al suo sponsor ideologico iraniano che tale evoluzione rischiava di provocare la loro emarginazione nel mondo musulmano (a vantaggio dell’Autorità Nazionale Palestinese guidata dal vecchio leader Abu Mazen) e il consolidamento definitivo della posizione di Israele nella regione, rendendone impossibile la cancellazione. Si è pertanto verificato un cortocircuito che il 7 ottobre 2023 ha fatto scoppiare tutto il meccanismo in mano a Netanyahu, rivelando il fallimento del suo progetto politico. Hamas – verosimilmente assistita tecnicamente dall’Iran e da Hezbollah – si è preparata nell’ombra per due anni, mentre il Premier israeliano si cullava nell’erronea certezza di avere sterilizzato il gruppo estremista, abbassando di conseguenza la guardia nei suoi confronti (anche perché la sua attenzione era rivolta in quel momento alle massicce proteste interne contro la riforma giudiziaria da lui caldeggiata per evitare i processi relativi alle gravi accuse di corruzione rivoltegli in patria). In realtà, ha semplicemente ottenuto il risultato di incattivire i miliziani terroristi di Hamas, spingendoli a radicalizzarsi e disumanizzarsi sempre di più, come dimostra il comportamento incredibilmente barbaro adottato nel corso del loro feroce attacco.
A quel punto, Israele si è trovato di fronte a uno dei dilemmi più difficili della tormentata storia del Paese. Da un lato, aveva la necessità di riaffermare con forza la propria credibilità di deterrenza sia di fronte ai nemici (per intimorirli) sia di fronte ai propri cittadini (per rassicurarli), dall’altro doveva tutelare la propria immagine internazionale. Poteva scegliere una via mediana, atta a dimostrare la propria forza in maniera ragionevole e proporzionata (per esempio con bombardamenti di alcuni giorni come rappresaglia immediata e poi omicidi mirati dei capi politici e militari di Hamas), chiedendo al contempo il supporto dell’ONU per negoziare uno scambio tra i circa 200 ostaggi israeliani e i prigionieri palestinesi nelle proprie carceri, preservando in qualche modo il ruolo di vittima aggredita. Viceversa - anche per l’interesse personale di Netanyahu ad una guerra lunga, che gli consentisse di rinviare i processi a suo carico e restare in sella – il Governo estremista da lui guidato ha scelto una reazione del tutto sproporzionata facendo migliaia di vittime civili (con altissima percentuale di bambini) e ricorrendo addirittura all’arma della fame. Israele è così caduta in pieno nella trappola di Hamas, che aveva posto in essere azioni particolarmente odiose proprio per provocare Tel Aviv e spingerla ad un comportamento bellicoso ed aggressivo che avesse l’effetto di isolarla sul piano mondiale, facendola apparire come uno Stato violento e inumano, incurante di macchiarsi di crimini di guerra e contro l’umanità, se non addirittura di genocidio (spetterà alla Corte di Giustizia Internazionale, su impulso del Sudafrica e di altri Paesi, decidere formalmente se ricorrono gli estremi per configurare tale gravissimo reato, come peraltro recentemente ritenuto da una Commissione indipendente nominata dall’ONU).
Dopo i tragici fatti del 7 ottobre 2023 e dei mesi successivi, che hanno incendiato il Medio Oriente (con l’estensione delle ostilità anche a Libano, Siria, Yemen e Iran), appare ormai chiaro che la “madre di tutti i problemi” era e rimane la questione israelo-palestinese, frettolosamente archiviata una dozzina di anni fa nell’illusione che sarebbe svaporata da sola come per magia. Pertanto, per risolvere il “puzzle” mediorientale, si deve ripartire dalla ricerca di una definitiva soluzione politica di tale annosa questione. La maggior parte dei Governi di tutto il mondo ha indicato la formula dei due Stati come la soluzione auspicabile dello spinoso problema. Ma tale approccio, che resta senza dubbio lo sbocco più razionale ed equo, si scontra al momento con due ordini di difficoltà: la continua erosione del territorio che andrebbe spartito per via negoziale, a causa dell’espansione degli insediamenti illegali dei coloni in Cisgiordania; la radicalizzazione delle due popolazioni, che sembrano mostrare al momento meno fiducia nella possibilità di una convivenza pacifica fianco a fianco, a causa di un radicato processo di disumanizzazione della controparte. D’altro canto, le soluzioni alternative a quella dei due Stati sarebbero:
-uno Stato unico binazionale, con pari diritti per ebrei e palestinesi, che , pur idealmente valida, appare ancor meno realizzabile dei due Stati, alla luce della aumentata diffidenza reciproca tra le due popolazioni, senza contare che gli Israeliani sarebbero destinati a perdere la partita demografica nel lungo termine;
-uno Stato unico di natura ebraica, con i Palestinesi cittadini di serie B, che esporrebbe Tel Aviv a serie accuse di “apartheid”, con probabili conseguenti pesanti sanzioni da parte della comunità internazionale (senza dimenticare il già citato futuro problema demografico) Tanto più che la vicenda di Gaza ha fatto cadere per la prima volta il tabù sinora imperante della tolleranza e impunibilità di qualsivoglia azione israeliana, derivante dalla drammatica vicenda della Shoah, aprendo la strada a provvedimenti punitivi recentemente adottati da vari Stati, nonché al riconoscimento, seppure simbolico, dello Stato palestinese da parte di un rimarchevole numero di Paesi occidentali);
-uno Stato ebraico senza i Palestinesi di Gaza e Cisgiordania, espulsi e trasferiti nei Paesi vicini, che costituirebbe una seconda Nakba (cacciata) dopo quella del 1948 (sogno del Governo di estrema destra di Netanyahu), con tutti gli strascichi di odio che ne conseguirebbero, perpetuando un clima di violenze e attentati nell’area;
-una Confederazione composta da Israele, Giordania e neonato Stato palestinese (inclusivo di Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est), ipotesi che sta acquistando un certo favore tra gli osservatori, in quanto intermedia tra l’opzione dei due Stati e quella dello Stato unico binazionale. Tale formula consentirebbe in sostanza di soddisfare, da un lato, l’esigenza di auto-determinazione dei Palestinesi e, dall’altro, la necessità di sicurezza di Israele, garantita da un controllo congiunto insieme alla Giordania sulla nuova entità palestinese, al fine di prevenirne una deriva estremista ed aggressiva. Ma è tutto da appurare se le tre parti in causa siano convinte della bontà di tale approccio…
In questo intricato quadro, si è adesso inserito con prepotenza il fattore Trump al suo secondo mandato, con il suo stile dirompente ed eccentrico rispetto al comportamento politico a cui il mondo si era abituato negli ultimi 80 anni. Il nuovo Presidente USA sta infatti inoculando nel contesto mondiale una massiccia dose di aggressività spiazzante e pragmatismo affaristico, prestandosi ad accuse di pericoloso disprezzo del diritto interno e internazionale.
Ciò detto, va ammesso che il suo caparbio attivismo sta smuovendo le acque sia nel conflitto ucraino (con scarsi risultati per il momento), sia nel conflitto israelo-palestinese, dove è invece riuscito ad ottenere – tramite il suo Piano di Pace in 20 punti e pressioni mai viste prima sulle parti - una tregua che ha fermato o quantomeno ridimensionato la furia omicida a danno della popolazione di Gaza, consentendo al tempo stesso la liberazione degli ostaggi israeliani e la scarcerazione dei prigionieri palestinesi. Ai fini pratici, poco importa se le motivazioni hanno le proprie radici prevalentemente nel suo narcisismo patologico (aspirazione al Premio Nobel per la Pace) e nella sua avidità venale (contratti lucrosi con i ricchi Paesi del Golfo). Naturalmente, la tregua è solo il primo e più facile passo del Piano proposto, che prevede nelle fasi successive il disarmo di Hamas (vero e spinosissimo nodo del problema) e un’articolata “governance” della striscia, non esente tra l’altro da critiche di neo-colonialismo (un “Board” internazionale guidato dal Presidente Trump, un Comitato di gestione con tecnocrati palestinesi e una forza militare multinazionale di stabilizzazione, propedeutici al subentro a data non stabilita di un’Autorità Nazionale Palestinese rinnovata). Purtroppo, l’Amministrazione Trump maneggia gli strumenti diplomatici in maniera goffa e spesso improvvisata, per cui l’esito positivo del suo tentativo è tutt’altro che certo e la situazione potrebbe precipitare da un momento all’altro, tanto più che la seconda fase del suo Piano sta procedendo troppo lentamente, con il rischio che Hamas riconsolidi il suo potere sul terreno, divenendo più rigida, e i Ministri israeliani estremisti convincano Netanyahu a riprendere la guerra. Ma in realtà – dato l’immobilismo della precedente Amministrazione USA e la ormai inesistente influenza europea nell’area – l’azione di Trump è l’unico elemento di speranza presente sul tavolo, anche perché è riuscito a porre i Paesi arabi della regione di fronte alle proprie responsabilità, spingendoli ad andare oltre le semplici dichiarazioni ideologiche di principio per rendersi disponibili ad impegnarsi in prima persona, soprattutto facendo una effettiva pressione su Hamas.
A ben vedere – anche se l’attuale tentativo di Trump dovesse malauguratamente fallire - la responsabilizzazione dei Paesi del Golfo (in particolare Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti), spalleggiati da Egitto e Giordania, potrebbe costituire un cambio di paradigma utile e forse cruciale nel medio e lungo termine, in vista di ulteriori tentativi di soluzione del problema. Sono infatti proprio questi i Paesi che possono godere della fiducia di entrambe le parti e in grado di andare incontro a molti dei loro concreti interessi. Sono in realtà gli unici attori capaci di spingere i due contendenti ad individuare un meccanismo di convivenza (auspicabilmente la creazione di due entità indipendenti, ovvero soluzioni creative che vi assomiglino) sufficiente a rassicurare Tel Aviv quanto alla sua sicurezza e i Palestinesi quanto alla loro auto-determinazione.
Da una parte, Israele - tramite i Paesi del Golfo - può anzitutto ottenere il riconoscimento generalizzato del proprio diritto ad esistere da parte degli Stati che la circondano (sulla scia della già menzionata "Iniziativa di pace araba " proposta nel 2002 proprio da Riyadh, dato il ruolo di leadership anche religiosa svolto dall’Arabia Saudita). Questo fortissimo e prioritario interesse può convincere Tel Aviv ad accettare una qualche forma di entità palestinese, considerato che tale sviluppo costituisce la "conditio sine qua non" di Riyadh per aderire agli Accordi di Abramo (in quanto le masse arabe e islamiche non perdonerebbero un tradimento della causa palestinese), spianando appunto la via della definitiva normalizzazione tra Israele e mondo arabo/islamico. In secondo luogo, ciò aprirebbe la strada ad un aumento esponenziale dei rapporti economici di Tel Aviv con i Paesi della regione, dal punto di vista commerciale, tecnologico e turistico, regalando ad Israele una supremazia pacifica di fatto, con benefici per tutti. Inoltre, i Paesi del Golfo hanno un proprio vitale interesse alla pace e alla stabilità nell’area, unica condizione che consente loro di prosperare grazie alla produzione energetica, agli investimenti esteri, ai trasporti marittimi ed aerei, nonché al turismo proveniente da tutto il mondo. Da ultimo , si creerebbe un vasto fronte politico di contenimento del comune avversario Iran. In conclusione, solo il Golfo può offrire un pacchetto così ricco e appetibile a Tel Aviv.
Dall’altro lato, i Palestinesi possono trovare nei Paesi del Golfo – appoggiati da Amman e Il Cairo - dei mediatori in cui avere piena fiducia, condividendone la stessa mentalità, fattore che facilita il dialogo e la comprensione reciproca. Infine, la potenza di fuoco finanziaria di Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti rappresenta una forte garanzia per la sopravvivenza di una futura entità palestinese (aiuti cruciali che verrebbero sicuramente condizionati ad un’attitudine pacifica nei confronti di Israele). Gli Emiri del Golfo sono anche gli unici a poter imporre il necessario cambio nella leadership palestinese, facendo emergere personalità più oneste e carismatiche (magari convincendo Tel Aviv a liberare Marwan Barghuthi, il cd. “Mandela” palestinese), favorendo al tempo stesso un‘evoluzione politica più moderata di Hamas (non eliminabile tout court, godendo nei sondaggi dell’appoggio di almeno un 20% dei consensi).
Se invece, nonostante tutti i vantaggi sopraelencati di un compromesso ragionevole, a Tel Aviv dovessero prevalere su ogni altra cosa gli impulsi messianici e irrazionali al possesso della terra (con la cacciata di tutti i Palestinesi da Gaza e Cisgiordania) e/o la parte palestinese non fosse capace di elaborare – sotto una leadership più credibile - una posizione unitaria incentrata sul diritto di Israele alla propria esistenza, il ciclo di violenza non si interromperebbe, condannando all’instabilità tutto il Medio Oriente. Episodi traumatici come quello del 7 ottobre 2023 - se non ancora peggiori – rischierebbero di ripetersi all’infinito, imponendo una condizione di timore e orrore perpetuo. E questo non è certamente ciò che le due popolazioni, israeliana e palestinese, meriterebbero. Spetterà peraltro a loro decidere i propri destini al momento in cui – in un prossimo futuro – avranno la possibilità di recarsi alle urne per scegliere i rispettivi rappresentanti.
1. Mentre prosegue indisturbata l’ormai ultra-triennale aggressione russa all’Ucraina e una tregua precaria sopisce il conflitto medio-orientale, una giurista esperta e uno storico della contemporaneità ci regalano un volume che ha lo scopo di fare chiarezza sulla storia, le finalità e la crisi della giustizia penale internazionale.
Caos – La giustizia internazionale sotto attacco (Laterza, 2025) è uno strumento prezioso per chiunque, giurista o laico curioso, intenda farsi un’idea e prendere una posizione consapevole nel dibattito, rovente e talvolta ideologico: sull’utilità della giustizia penale internazionale, sull’appropriata qualificazione dei crimini attribuiti alle parti in conflitto, sul rapporto tra pace e giustizia in quadro che impone di aggiornare l’ormai sessantennale motto di Luther King “No Peace without Justice, No Justice without Peace”.
Il volume ripercorre agilmente l’iter del diritto penale internazionale dai processi di Norimberga, Tokyo e Gerusalemme (il processo Eichmann, cui Hanna Arendt dedicò il noto reportage su La banalità del male, un tòpos ineludibile per gli studiosi del male incommensurabile e delle ragioni della sua affermazione su larga scala), ai Tribunali ad hoc costituiti per i crimini commessi nella ex-Yugoslavia e nel Ruanda, fino alla istituzione, con lo Statuto di Roma, della Corte Penale Internazionale.
La traiettoria, agilmente illustrata nel volume, in estrema sintesi, è scandita dalle seguenti tappe: giustizia dei vincitori sui vinti, attuata da Tribunali militari che applicano, talvolta retroattivamente, un diritto di guerra a conflitto finito; definizione convenzionale del genocidio nella Risoluzione Onu del 1946 e nella Convenzione del 1948; giustizia amministrata dagli Stati in applicazione dei crimini definiti in sede convenzionale o interna; Tribunali internazionali e Tribunali misti (composti cioè da giudici interni e internazionali) istituiti ad hoc al termine di sanguinosi conflitti; fino ad arrivare allo Statuto di Roma che definisce e sanziona con apposite disposizioni il genocidio, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità e, attraverso dettagliate previsioni processuali, istituisce la Corte penale internazionale come Corte permanente, fondata sul consenso degli Stati e indipendente dalle Nazioni Unite, che interviene in funzione complementare quando gli Stati non siano capaci o non siano disponibili a reprimere il male smisurato, superando lo schema della giustizia dei vincitori e le deroghe ai principi di irretroattività della norma penale sostanziale e della naturalità e precostituzione del giudice.
La ricostruzione di Emanuela Fronza e Marcello Flores non manca di segnalare alcune criticità insite nel meccanismo di funzionamento della Corte che ne hanno condizionato politicamente l’operato, restituendo nei primi anni del suo funzionamento l’immagine di un organismo sostanzialmente concentrato sulle questioni africane.
Tra questi limiti rilevano innanzitutto la mancata adesione o la mancata ratifica di Stati importanti sullo scenario internazionale, come la Russia, gli Stati Uniti, la Cina, Israele, alcuni dei quali compongono il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e sono perciò in grado di impedire, esercitando il diritto di veto, il referral che costituisce l’unico meccanismo di investitura della Corte nei confronti di Paesi che non aderiscono alla convenzione istitutiva.
Si tratta di un limite, per così dire, istituzionale, in forza del quale può procedersi nei confronti di Putin e della commissaria per l’Infanzia Lvova Belova per la sottrazione dei bambini ucraini (parte del piano di deportazione della popolazione delle zone occupate) ma non anche per il crimine di aggressione perché questo richiederebbe l’adesione della Russia allo Statuto di Roma: ragione per la quale il Comitato dei Ministri degli esteri del Consiglio d’Europa, sollecitati dalla cd. dichiarazione di Leopoli del 9 maggio 2025, ha avviato un percorso che dovrebbe condurre all’istituzione di un Tribunale speciale che se ne occupi.
Un altro limite è segnato dalla sostanziale discrezionalità delle policies di scelta dei casi da parte del Procuratore presso la Corte penale internazionale che ha fatto sì, per esempio, che le indagini sul caso afghano si concentrassero sui crimini dei talebani, trascurando gli abusi dei militari statunitensi.
2. Il libro fornisce informazioni importanti che possono aiutare il lettore ad orientarsi nell’acceso dibattito sull’esatta qualificazione delle condotte di Israele a Gaza, sottraendolo al furore delle contrapposte ideologie.
Gli autori ci fanno comprendere, anzitutto, le ragioni di questo furore, segnalando come convivano nella nozione di genocidio una dimensione strettamente giuridica, una dimensione storica ed una forte risonanza emotiva. Di qui il valore aggiunto di un volume curato da una giurista colta e da uno storico.
In questo quadro Fronza e Flores ci ricordano che:
a) il delitto di genocidio non era annoverato dallo Statuto di Norimberga e non fu perciò applicato alla Shoah che pure rappresenta, nella dimensione storica ed emotiva, l’archetipo del male assoluto;
b) quella carenza ci rimanda ad un dibattito della dottrina internazionalistica novecentesca, vividamente ricostruito da Philip Sands, nel bellissimo La strada verso est (Guanda, 2024), che vide quali protagonisti Rahael Lemkin, sostenitore della categoria del genocidio quale crimine contro i gruppi (nazionali, etnici, religiosi) e Hersch Lauterpacht, fiero avversario di quella categoria che riteneva sbilanciata in favore della tutela dei gruppi, anziché degli individui, e foriera di difficoltà probatorie e che perciò sosteneva, piuttosto, la categoria dei crimini contro l’umanità: un dibattito che vide prevalere le teorie di quest’ultimo, nonostante gli intensi sforzi di persuasione profusi da Lemkin (autore del fondamentale saggio nel collegio del procuratore Jackson;
c) il mandato di cattura emesso dalla Corte penale internazionale nei confronti di Netanyahu, Gallant e dei leader di Hamas non contempla il crimine di genocidio (si contestano crimini di guerra e contro l’umanità), mentre la Corte Internazionale di Giustizia (che, come precisano gli Autori, si occupa della responsabilità degli Stati e non degli individui), su impulso del Sud Africa, ha ritenuto “plausibile” una deriva genocidiaria delle condotte israeliane, ammonendo il governo di quel Paese.
Soprattutto però Fronza e Flores ci ricordano che il dibattito sulla qualificazione dei crimini di Israele è, nella prospettiva del diritto, meno rilevante di quanto suggeriscano i toni accesi del dibattito pubblico perché lo Statuto della Corte penale internazionale non sancisce gerarchie tra il genocidio e gli altri crimini di guerra o contro l’umanità e stabilisce una cornice edittale unica, nell’ambito della quale a fare la differenza sono le concrete modalità della condotta e la gravità delle sue conseguenze; e perché i crimini contro l’umanità annoverano figure come la starvation, lo sterminio, l’apartheid, le sparizioni forzate che, anche sul piano evocativo, possono qualificare adeguatamente certi fatti senza banalizzarli.
Nel contempo, il libro dissolve alcune delle principali obiezioni mosse dai sostenitori della natura non genocidiaria delle condotte israeliane, a partire da quella che fa leva sulla quantità (migliaia e non milioni) dei civili uccisi e sulla circostanza che, nel tempo della reazione, considerata la sua superiorità militare, Israele avrebbe potuto sterminare un numero ben maggiore di palestinesi se davvero avesse inteso distruggere quella entità (laddove la nozione convenzionale si accontenta dell’intenzione di distruzione parziale di «un gruppo nazionale, etnico, razziale religioso»).
In breve, gli autori ci ricordano che l’archetipo della Shoah non corrisponde alla fattispecie giuridica del genocidio che, infatti, è stata riconosciuta in casi (quantitativamente) meno gravi dello sterminio nazifascista degli ebrei, come il massacro dei tutsi in Ruanda, quello delle minoranze musulmane bosniache a Srebrenica (circa 8mila civili), e delle minoranze vietnamite, cinesi e cham in Cambogia; mentre l’elemento intenzionale genocidiario – escluso dai commentatori più vicini alle ragioni del governo di Israele – è seriamente indiziato da alcune dichiarazioni delle autorità israeliane riportate in un bel saggio di Didier Fassin (Une étrange défaite, La Découverte, 2024), nel quale si sottolinea anche la forte rilevanza sintomatica di alcune condotte come l’ostacolo ai soccorsi umanitari e all’operatività delle agenzie internazionali a ciò preposte.
Come dire che, sottratta agli stereotipi ideologici, agli slogan e alle semplificazioni dei social media, la questione definitoria si fa complessa, non consente prese di posizione emotive e svela come sia prematura e, forse, non immediatamente necessaria una presa di posizione critica nei confronti di esponenti del mondo ebraico - prime fra tutte, due sopravvissute alla Shoah come la senatrice a vita Segre e la scrittrice Edith Bruck - che, pur rifiutando l’etichetta genocidiaria, si sono già pronunciate, così come molti intellettuali israeliani, in termini inequivocabili sulla gravità e la sproporzione della reazione israeliana ai fatti del 7 ottobre.
3. Rifuggendo da ingenui entusiasmi, il libro esalta il valore irrinunciabile della giustizia penale internazionale come garanzia della soggezione degli Stati e dei governanti ai principi supremi del diritto umanitario, garanzia di eguaglianza tra occidente e oriente, tra nord e sud del mondo, tra Stati forti e Stati deboli, tra vincitori e vinti, una conquista che – insieme alla preminenza delle Costituzioni e alla necessità di presidiare il rischio della legge ingiusta - costituisce il portato più rilevante e irrinunciabile delle tragedie umanitarie del novecento: un’utopia necessaria e concreta, dicono gli autori, rifuggendo, ad un tempo, dal cinismo della realpolitik (il diritto internazionale che vale fino ad un certo punto; la guerra che non può non produrre morti) e dalla cecità verso i diversi segnali della crisi.
La narrazione è attraversata da diversi paradossi.
Proprio quando si emancipa dalla dimensione della giustizia dei vincitori la giustizia penale internazionale è sabotata: dalle sanzioni statunitensi contro il procuratore e i suoi collaboratori impegnati nelle indagini su Israele e sui crimini dei soldati americani in Afghanistan, dalla dichiarata indisponibilità di alcuni Paesi occidentali (Italia, Germania, Polonia, Francia) ad eseguire l’arresto di Netanyahu; dall’analoga indisponibilità di Paesi tradizionalmente o politicamente vicini alla Russia (Ungheria e Mongolia) di eseguire l’arresto di Putin; dai mandati di arresto emessi dalla Federazione russa nei confronti del Procuratore e di alcuni giudici della Corte.
Proprio nei confronti del male smisurato il diritto penale sembra incapace di esprimere quella funzione preventiva che sa esprimere, a livello domestico, nei riguardi di condotte assai meno gravi.
4. Attualizzando la massima di Luther King dalla quale abbiamo preso le mosse, gli autori non mancano di segnalare, alla luce dell’esperienza, la problematicità del rapporto tra giustizia e pace: se da un lato il rito della giustizia è condizione essenziale perché la soluzione dei conflitti sia in qualche modo accettata e condivisa dalle comunità, emarginando la vendetta (lo scempio di piazzale Loreto, le esecuzioni sommarie, il dileggio del cadavere di Gheddafi); dall’altro, le istanze della punizione possono ostacolare i processi di pace, che spesso esigono il coinvolgimento dei protagonisti del conflitto autori dei crimini, come avvenuto nel contesto del conflitto tra il governo ugandese e il Lord’s Resistance Army di Joseph Kony, dove il processo di pace fu interrotto dal mandato emesso dalla Corte penale internazionale nei confronti di Kony.
Il libro apre così scorci sulle esperienze di giustizia transizionale e riparativa del Sud Africa e della Colombia, come tentativi, più o meno fortunati, di conciliare la messa al bando delle blanket amnesty per i crimini internazionali con le esigenze di pacificazione e di ripresa della convivenza nelle comunità attraversate da cruente guerre civili.
5. Condivisibile è, infine, l’argomentata analisi dei fattori politici e culturali che permeano uno spirito del tempo ostile al funzionamento della giustizia penale internazionale.
Le tendenze autoritarie e i rigurgiti sovranisti muovono gli Stati, anche appartenenti al novero delle democrazie occidentali, a recuperare gli spazi della politica e della ragion di Stato, pure a discapito dei vincoli illo tempore liberamente accettati[1].
L’approssimazione culturale indotta dai social e dalla disintermediazione delle espressioni politiche dei cittadini favorisce il rifiuto della complessità delle logiche del diritto e del processo che è chiamato a ricostruire verità affidabili, un rifiuto che ha talvolta derive giustizialiste, talaltra produce esiti di cinico lassismo.
A questo Zeitgeist non sembrano sottrarsi alcuni intellettuali, pur muniti di conoscenze storiche, per i quali «Leggi, trattati e tribunali possono stabilire quanto gli aggrada, tutto quanto sembra loro “giusto”, ma se il mondo ha deciso di andare da un’altra parte si può essere certi che ci andrà. Ora, da più di un secolo (in verità direi da sempre) la guerra colpisce in maniera più o meno indiscriminata le popolazioni civili. Non ne ricordo neppure una, e sfido chiunque a farlo, in cui ciò non sia accaduto»[2].
Forse nobilitandola, gli autori riconducono questa affermazione ad una logica hegeliana secondo la quale “tutto il reale è razionale”.
Può darsi sia così, ma allora si potrebbe dire lo stesso dei crimini domestici, anche più efferati, la cui repressione produce raramente risultati di stabile eradicazione.
È questa una prospettiva troppo cupa per essere supinamente accettata. Ed allora Fronza e Flores ci invitano, senza velleitarismo, a reagire coltivando l’utopia necessaria di una giustizia, anche internazionale, uguale per tutti.
[1] A tale proposito (p. 95), gli autori richiamano, riproducendola, la lettera aperta inviata il 22 maggio 2025 dai governi italiano e danese (con l’adesione dei governi austriaco, belga, ceco. Estone, lettone, lituano e polacco) alla Corte europea dei diritti dell’uomo, accusata di aver fornito interpretazioni dei diritti umani eccessivamente penalizzanti per la capacità dei leader di «prendere decisioni politiche nelle nostre democrazie…di proteggere le nostre società democratiche e le nostre popolazioni dalle sfide che il mondo di oggi ci pone», con riferimenti esemplificativi alla materia dell’espulsione dei cittadini stranieri criminali «in cui l’interpretazione della Convenzione ha portato alla protezione delle persone sbagliate e ha posto troppe limitazioni alla capacità degli Stati di decidere chi espellere dai propri territori».
[2] Ernesto Galli della Loggia, La guerra e i crimini di guerra, in «Corriere della Sera», 11 dicembre 2024.
Il volume di Marcello Flores ed Emanuela Fronza, Caos. La giustizia internazionale sotto attacco, Laterza, 2025 verrà presentato a Roma nel pomeriggio del 3 dicembre 2025 nell'ambito dell'incontro
IL DIRITTO INTERNAZIONALE NEL CAOS: L’IMPATTO DELLA CRISI DELL’OCCIDENTE SULLA TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI
L'incontro è a cura dei Magistrati di Area Democratica per la Giustizia, Corte di cassazione.
Segreteria organizzativa: antonio.scalera@giustizia.it
Mercoledì 3 dicembre 2025, h. 15.00
Aula Magna – Facoltà Teologica Valdese Via Pietro Cossa n. 40 – ROMA oppure da remoto su piattaforma ZOOM https://us06web.zoom.us/j/.86426268125?pwd=9qRXcUb3aNCGff2INQJQYrQNrLENOa.1 ID riunione: 86423238125 codice accesso: 016651


Marcello Flores - Emanuela Fronza, Caos. La giustizia internazionale sotto attacco, Laterza, 2025.
Era un venerdì come tanti quel terribile 13 novembre del 2015, giorno in cui Parigi è stata teatro degli attentati terroristici al Bataclan, allo Stadio di Francia e presso alcuni bistrot della città.
Centotrenta i morti e trecentocinquanta i feriti.
I numeri (impressionanti) non raccontano le storie di quei ragazzi e ragazze le cui vite sono state spezzate mentre si godevano momenti di spensieratezza: una passeggiata, un aperitivo o un concerto.
Erano le 21: 20 e al Bataclan gli Eagles of Death Metal stavano suonando la canzone Kiss the Devil (“Io amo il Diavolo, amo cantare la sua canzone, amerò il Diavolo e la sua canzone”) quando una scarica di proiettili ha atterrato centinaia di corpi.
Forse solo un altro terribile scherzo del destino, o forse gli attentatori avevano studiato in anticipo la scaletta (chissà); certamente quel famoso V13 non il Diavolo ma la parte più oscura dell’essere umano ha fatto ingresso in un luogo ove allegria, musica e leggerezza fino a quel momento erano stati gli unici ospiti graditi.
Quegli eventi hanno squarciato non solo la Francia, ma tutta l’Europa. Una ferita profonda che nel corso degli anni è stata al centro di dibattiti ed oggetto di riflessioni da parte di storici, esperti di geopolitica, giornalisti e non solo.
Nel 2022 la penna illuminata di Emmanuel Carrère ha dato luce a V13, un’opera difficilmente catalogabile nei canonici generi letterari, ma con un impatto emotivo che lascia il segno .
Un resoconto delle udienze del processo ai complici e all’unico sopravvissuto tra gli autori del massacro; un processo a cui l’autore ha assistito per una decina di mesi e di cui ha riferito in articoli settimanali, rielaborati poi nel libro.
Il racconto si apre l’8 settembre 2021 quando all’ Île de la Cité, nel pieno centro di Parigi, nel tribunale sito tra la Sainte-Chapelle e il quai des Orfèvres, in un’aula appositamente costruita, inizia il processo. Nella prima parte (forse la più toccante) sono presentate le parti civili, “feriti, congiunti, persone offese”; parlano i sopravvissuti o i parenti degli uccisi, le cui testimonianze fanno vivere le scene orribili e strazianti dell’attacco, i vissuti di chi lo ha subito, le conseguenze devastanti e permanenti in chi è rimasto in vita.
Tra le vittime di quella strage c’era anche un’italiana, Valeria Solesin, giovane ricercatrice veneziana di 28 anni, simbolo di una generazione europea che vede oltre i confini territoriali una opportunità e sogna la libertà, la ricerca e gli scambi, umani e culturali.
Valeria, come tanti, credeva in una Europa aperta e inclusiva: uno spazio dove viaggiare, sperimentare e confrontarsi.
Quel progetto non è fallito, ma occorre accettare il fatto che sia stato tradito da persone che sono cresciute e vissute in Europa proprio grazie a quell’idea inclusiva; un’idea che hanno volontariamente deciso di sporcare con il sangue di corpi innocenti.
È innegabile che ciò faccia male, a tutti.
Lo spiega bene la testimonianza di Nadia Montagner, madre di Lamia, uccisa in un bistrot di boulevard Voltaire, a centocinquanta metri da casa: “Pensare che quelli che l’hanno uccisa avevano la sua età. L’età di tutti loro, tra i venticinque e i trent’anni. Che sono stati accompagnati a scuola tenendoli per mano, come lei accompagnava Lamia, tenendola per mano. Erano dei bambini che venivano tenuti per mano.”
Salah Abdeslam, l’unico degli attentatori sopravvissuti (condannato all’ergastolo all’esito del processo nel quale, senza essere creduto, ha riferito: “ho rinunciato a far esplodere la mia cintura per umanità”) è nato il 15 settembre 1989 a Bruxelles, in Belgio ed è cresciuto nel quartiere di Molenbeek – Saint Jean. Figlio di genitori marocchini, immigrati in Belgio negli anni ’70, ha vissuto in una famiglia normale e rispettata nel quartiere . Salah aveva due fratelli, tra cui Brahim Abdeslam, che ha partecipato agli attentati di Parigi e si è fatto esplodere in un bar la sera del 13 novembre.
Salah ha frequentato un istituto tecnico e poi, per un periodo, ha lavorato per la compagnia dei trasporti pubblici di Bruxelles. In seguito, con il fratello, Salah ha gestito un bar a Bruxelles e solo nel 2014-2015 ha iniziato un percorso di radicalizzazione islamista.
La sua biografia pone tanti interrogativi sulla evoluzione del pensiero verso la scelta finale. Né le indagini, né il processo hanno consentito di comprendere – prima ancora che accertare – cosa abbia indotto Salah, suo fratello ed altri giovani ragazzi “normali” a organizzare, nel nome dello Stato islamico, un commando armato che ha seminato solo morte e terrore.
Ed allora occorre indagare il mistero del male, della radicalizzazione e della colpa, senza temere di non saper trovare risposte ai molti interrogativi che la vicenda ha posto nella mente di ciascuno di noi.
Interrogativi sulla esistenza umana, ma anche sulla stessa funzione del linguaggio, della memoria e dello stesso processo penale.
Nel tribunale parigino la giustizia si è trasformata in rito civile: il processo non solo quale strumento verso la punizione, ma quale senso del dolore che trova posto al centro di Parigi ( nella “scatola bianca” costruita ad hoc per celebrare il processo), perché è al centro dell’attenzione, anche mediatica, che deve essere ricollocato, così come prima è stato protagonista il terrore.
E poi vi è il trauma collettivo ed il tentativo di una società intera di “processare” un evento che è contemporaneamente causa ed epilogo.
In questa prospettiva il linguaggio diventa la stampella della memoria e la parola diviene l’unico strumento per affrontare l’orrore.
È ancora la voce di Nadia, la mamma di Lamia, a descrivere il dolore per la perdita della figlia in modo lucido e realistico: “Allora si è aperta una botola. Siamo stati risucchiati, ingoiati dal fondo di una stiva. Al di sopra sul ponte gli altri continuano ad agitarsi. Noi non facciamo più parte di questo mondo con il quale pochi minuti prima eravamo in empatia. Non ho urlato. In me è venuta una dissociazione. Era irreale e reale”.
È reale ammettere che anche noi, quali spettatori non protagonisti, abbiamo provato spaesamento e dubitato dell’idea che la sicurezza di tutti abbia come presupposto le parole accoglienza e integrazione.
Dobbiamo ammettere che quell’attentato ha spezzato anche la nostra empatia verso il mondo ed il genere umano. Ma da quello strappo occorre ripartire per non far sì che la strategia del terrore porti con sé, come strascico, la risposta dell’odio.
Lo strazio subito dalle vittime, il dolore dei loro familiari e lo stress post-traumatico con il quale convivono i sopravvissuti devono responsabilizzare tutti per perseguire e perseverare in quella strada di apertura e integrazione.
Nel giorno della commemorazione delle vittime (la parola anniversario – come ha ricordato un sopravvissuto in una recente intervista pubblicata su La Repubblica – suona troppo allegra) è stato inaugurato il “Jardin du 13 novembre 2015”, un nuovo spazio verde nel cuore di Parigi dedicato al ricordo delle stragi.
Un luogo che oltre ad essere simbolo della memoria si auspica diventi spazio di incontro e convivialità: tutto può ripartire da un giardino, come progettualità di una effettiva integrazione che inizia dalle strade, dai bar, dagli stadi e dai teatri.
Forse anche un piccolo gesto quotidiano può divenire un vero atto politico, un grido contro la paura in grado di lenire una ferita collettiva che (forse) non sarà mai completamente rimarginata.
Mi piace immaginare che in quel giardino ci sia una panchina in cui tra qualche giorno potrà sedersi una giovane e brillante ricercatrice italiana, giunta a Parigi per inseguire i propri sogni e con lo sguardo trasparente di chi intravede nell’altro una opportunità e non un pericolo.
E nel frattempo al Bataclan si suona ancora.
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