ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Riflettere sulla giustizia e sulla verità significa scontrarsi con la loro naturale ineffabilità, ma esse tuttavia rappresentano quanto di più afferente alla vicenda umana.
Da questa consapevolezza si sviluppa il contributo di Enrico Opocher: giustizia e verità devono essere riferite all’esperienza concreta, all’azione nel suo dinamico e concreto manifestarsi.
In tal senso devono essere considerate come valori.
In questa prospettiva il processo è il luogo in cui la verità, processualisticamente intesa come conformità all’ordine degli accadimenti, esalta la dimensione umana, scevra da dogmatismi e calata nel fermento della società civile. L’uomo e le sue vicende sono quindi l’humus dell’esperienza giuridica e della giustizia.
L’esaltazione della dimensione umana è il baricentro nonché il fil rouge che lega in una prospettiva comparativistica le riflessioni di Paul Ricoeur e John Rawls a quella di Enrico Opocher, con risultati eterogenei e di notevole vigore speculativo.
1. La verità processuale e l’indefettibile imperfezione della giustizia. - 2 La crisi del diritto come crisi della verità: un ripensamento della giustizia in chiave valoriale. - 3. L’idea di Giustizia come elemento comune nelle speculazioni di Enrico Opocher, John Rawls e Paul Ricoeur
1. La verità processuale e l’indefettibile imperfezione della giustizia.
Sebbene la filosofia del diritto si sia sempre confrontata con il problema della giustizia, cercare di comprenderne oggi il significato e il ruolo, in quello che è un mondo globalizzato e dinamico, è un obiettivo imprescindibile.
Questa “umanissima idea carica di tutta la disperazione e di tutta la speranza che alimentano le alterne vicende della condizione umana”[1] è stata oggetto di un originale contributo ad opera del giurista e filosofo contemporaneo padovano Enrico Opocher [2]
L’intento del suo apporto giusfilosofico è quello di cogliere a pieno le criticità riferibili alle dinamiche sussistenti tra giustizia e diritto, alla luce dei concetti di valore e verità.
La giustizia si manifesta come riconoscimento della verità, intesa non in senso assoluto bensì come valore, strettamente legata ad una dimensione fattuale e conforme all’ordine degli accadimenti[3].
Solo in questa prospettiva si può comprendere l’autentica portata della tematica; esclusivamente in riferimento a situazioni contingenti ha senso invocare la giustizia e la verità dando così un’autentica legittimazione alla dimensione del diritto.
L’esaltazione della concretezza e l’invito ad un riferimento continuo alla vita nel suo pratico dispiegarsi, ha come canale preferenziale la dimensione del processo nel cui dinamismo i fatti, l’esperienza e le istanze delle parti trovano compiuto accoglimento.
Non si vuole in tal modo sancire una sorta di priorità del processo rispetto al diritto sostanziale; l’intento è piuttosto quello di sottolineare come nella prospettiva processuale, diversamente e in maniera più pregnante rispetto ad altri ambiti del diritto, si incarni l’idea di giustizia come riconoscimento della verità.
Il giudice si trova a dover decidere quale delle ricostruzioni della verità sia da preferire, poiché maggiormente conforme all’ordine degli accadimenti.
Si tratta quindi di una verità processuale, così come ricostruita attraverso gli strumenti che l’ordinamento offre, attraverso il lavoro dei giudici e in generale degli operatori del diritto. Una giustizia che essendo umana può e deve essere imperfetta, laddove imperfezione non implica irragionevolezza e diseguaglianza ma attinenza alla natura umana che è per definizione defettibile.
Il processo diventa, nella riflessione opocheriana, sulla base delle intuizioni mutuate dall’amico e maestro Giuseppe Capograssi, il baricentro della esperienza giuridica.
Luogo in cui dialetticamente si passano in rassegna tutti gli aspetti della esperienza, in cui la priorità è di giungere ad un momento conclusivo, ossia la sentenza, che in qualche modo sia autentico, come momento in cui “la questione del vero si rivela come necessaria ed insieme irrisolvibile”[4].
Nella dimensione processuale la ricerca del vero si attua dialetticamente attraverso il confronto con tutta la varietà del reale, attraverso le maglie delle vicende umane, avendo come obiettivo primario il dotare di senso l’esperienza giuridica, che diversamente non avrebbe ragion d’essere[5], senza cioè quel contributo conferitole dal continuo mettersi in discussione.
Portando dinanzi alla terzietà del giudice le rispettive storie e così facendo la storia, il processo assume una prospettiva corale[6]; palesando una vocazione collettiva nella misura in cui “tocca tutte le persone e tutti gli interessi: seppure è un problema tecnico, al di sotto c’è come in ogni problema tecnico, un problema di vita, un problema della vita”[7].
Il processo è “l’unico momento in cui l’esperienza si trova a ripensare se stessa” [8], a riflettere sugli accadimenti, sulle azioni degli uomini e sul significato che esse assumono in una prospettiva giuridica.
Il giudice terzo si trova a dover passare al vaglio eventi passati, deve interpretarli alla luce delle norme, ripensare i vari significati e trovarne di nuovi.
Il tempo, le esperienze e i fatti vengono cioè ripercorsi, ricostruiti: “ il processo è la vera e sola ricerca del tempo perduto che fa l’esperienza pratica” [9] , teleologicamente teso a risolvere problemi ed appianare liti.
2. La crisi del diritto come crisi della verità: un ripensamento della giustizia in chiave valoriale.
La riflessione di Enrico Opocher si innesta nel tronco di un dibattito giusfilosofico eterogeneo e fecondo, il cui comune denominatore è rinvenibile nell’esigenza di rinvigorire il ruolo del diritto.
La filosofia opocheriana ha inteso la crisi del diritto come una crisi della verità, cui è correlato uno svuotamento dell’idea di giustizia.
Il depauperamento del ruolo del diritto è legato storicamente secondo Enrico Opocher allo smarrimento contenutistico che ha caratterizzato Novecento, in cui esso appare svincolato dall’idea di giustizia e piegato a centri di potere diversamente influenti: perdendo la sua autonomia diventa incapace di essere portatore di una qualsivoglia forma di giustizia e verità.
Per comprendere al meglio le ragioni della crisi, occorre determinare con precisione quale significato dare al concetto di verità. L’intenzione non è di esaltare un’accezione assolutistica di verità, poiché Opocher rifiuta nettamente concezioni dogmatiche o visioni assolutistiche del reale.
D’altro canto, tale circostanza non deve far pensare alla predilezione per una visione relativista o, all’estremo, nichilista. Questa deduzione oltre ad essere semplicistica, pecca di superficialità.
Il rischio di intendere la verità in maniera assoluta o, al contrario, totalmente priva di significato è innegabile, specie in una società multiculturale e in un’epoca difficile come quella attuale.
Allo stesso modo il relativismo a tutti i livelli crea smarrimento e senso di vuoto: la mancanza di appigli e contenuti, l’indifferenza, la massificazione e l’individualismo possono essere considerati, del resto, il nostro mal du siècle.
L’obiettivo cui devono tendere gli operatori di diritto è quello di rinvigorire l’ordinamento giuridico attraverso un ripensamento dell’idea di giustizia, intesa come valore; ciò si traduce preliminarmente nel riconoscere agli atti e alle azioni dell’uomo una ratio nonché una potenzialità di lasciare un segno nel mondo, in cui la giuridicità sublimata a valore sia, in primis per l’agire, una sorta di parametro orientativo.
Il messaggio opocheriano ci invita a concepire la giustizia come valore al fine di rinvenire in essa un substrato contenutistico imprescindibile, nella misura in cui essa è declinata in riferimento al concetto di verità.
3. L’idea di Giustizia come elemento comune nelle speculazioni di Enrico Opocher, John Rawls e Paul Ricoeur
Nell’ottica di un approccio di tipo comparatistico si inserisce l’interesse nei riguardi di filosofi e pensatori contemporanei, i quali hanno discusso e avuto a cuore, come Enrico Opocher, il tema della giustizia.
Intrecciare le esperienze filosofiche di tre contemporanei come Enrico Opocher, John Rawls[10] e Paul Ricoeur [11] significa mettere a confronto contributi e soluzioni eterogenee: la crisi della giustizia, vissuta e dibattuta in contesti geopolitici diversi — rispettivamente Italia, Stati Uniti e Francia — pensata alla luce di esperienze e sensibilità differenti.
Il contributo rawlsiano consta di un approccio procedurale al problema della giustizia, sulla base di principi di equità e giusta distribuzione.
La concezione di giustizia proposta da Rawls si presenta come un modello di giustizia sociale[12], intesa soprattutto come equità, il cui obiettivo è porre rimedio alle diseguaglianze per garantire a tutti un’esistenza libera e dignitosa.
I cittadini di uno Stato democratico non dovrebbero mai accettare le diseguaglianze socio-economiche, causate e perpetuate da un assetto istituzionale che non sia in grado di legittimarle a livello etico e morale: allorquando non si possa giustificare moralmente una disparità di trattamento essa non risulta essere democraticamente accettabile.
Rawls intende perciò la giustizia come meccanismo di redistribuzione delle risorse, al fine di colmare quei deficit di opportunità e di uguaglianza che la natura ha negato agli individui ab origine, il tutto attraverso strumenti messi a disposizione dal diritto e dalle istituzioni: “la struttura fondamentale della società è l’oggetto principale della giustizia”[13] .
Tale impostazione, in aperta polemica con le teorie di matrice utilitaristica, viene criticata da Paul Ricoeur con cui Rawls condivide la necessità di ridefinizione e rivalutazione dell’idea di giustizia.
Il pensiero ricoeuriano si sviluppa attraverso un confronto dialettico tra amore e giustizia, attuato grazie una disamina del linguaggio amoroso e giuridico, oltre che attraverso un attenzione al significato sostanziale dei concetti.
Ricoeur ha dato vita ad un tentativo di conciliazione delle istanze sottese al rapporto amoroso e al rapporto giuridico, avendo come denominatore comune il concetto di riconoscimento[14].
In quest’ottica, valori di solidarietà, mutuo riconoscimento e compassione hanno il compito di rinforzare e dotare di una diversa carica di senso le logiche della giustizia; questo obiettivo è raggiungibile sostanzialmente perché entrambi gli aspetti — giustizia e amore — afferiscono alla condizione umana, la determinano e la definiscono come momenti di massimo fulgore della dimensione antropologica, seppure diversamente declinati[15].
Il filo conduttore tra le riflessioni proposte da Rawls, Ricoeur e Opocher è rinvenibile nell’esaltazione della dignità umana, del rispetto reciproco e del valore dell’alterità, vissuti alla luce dell’idea di giustizia come principio fondante di una società che possa dirsi libera, giusta e democratica.
Se Opocher ha inteso rinvigorire l’idea di giustizia e conseguentemente la funzione del diritto conferendo loro un determinante appiglio valoriale, il medesimo intento è stato perseguito da Rawls e Ricoeur, seppure con metodi e strumenti differenti.
Non deve pertanto stupire se l’invito opocheriano a concepire il diritto e la giustizia come valori, assuma un senso originale ed inedito, nella misura in cui fornisce strumenti interpretativi adatti a cogliere con consapevolezza le complesse e spesso contraddittorie vicende del nostro tempo.
Lungi dal proporre la giustizia quindi come verità universale e assoluta, appare più coerente pensare ad essa come l’alfa e l’omega di un percorso accidentato e tortuoso, un cammino complesso e faticoso, una sorta di ‘motore immobile’ per l’intera società civile, in un quadro che coinvolge simultaneamente la politica, la filosofia e il diritto.
Katia Laffusa
[1] E. Opocher, Analisi dell’idea di giustizia , Milano, 1977, p. 3.
[2] Filosofo italiano del diritto (Treviso 1914 - Padova 2004). Allievo di Ravà e Capograssi, divenne professore di filosofia del diritto nell’università di Padova dal 1948 al 1984 (dal 1990 emerito); fu (1976-83) presidente della Società italiana di filosofia giuridica e politica. Dall’iniziale interesse per il valore dell’individualità nell’idealismo fichtiano, Opocher si avvicinò ai principi dell’esistenzialismo e della filosofia dell’esperienza di Capograssi e, attraverso la critica agli approcci normativisti, diede vita a una «prospettiva processuale del diritto» in cui l’esperienza giuridica viene concepita come valore sia in senso soggettivistico sia nell’accezione di ‘far valere’, ossia di rendere più generalmente valide, nel risultato processuale, posizioni soggettive. Tra le opere principali si ricordano: Fichte e il problema dell’individualità (1944); Il valore dell’esperienza giuridica (1948); Lezioni di filosofia del diritto (1949; ultima ed. 1984); Il problema della natura della giurisprudenza (1953); Analisi dell’idea di giustizia (1977); Giuseppe Capograssi filosofo del nostro tempo (1991). Da Dizionario Biografico degli Italiani, Enciclopedia Treccani.
[3] “Certo il senso del valore suggerisce alla coscienza l’idea dell’assoluto. Ma la suggerisce sul piano della coscienza dell’uomo e quindi dell’esistenza e della storia, secondo un processo ascendente. Riferiti all’assoluto i valori perdono ogni significato perché l’assoluto è ciò che deve essere, mentre riferiti all’uomo esprimono la costitutiva esigenza di assoluto che, in ragione della sua contingenza caratterizza la nostra umanità”. Enrico Opocher, Lezioni di filosofia del diritto, Padova, 1993 p. 46.
[4] A. Punzi, Dialettica persuasione Verità , La pratica della ragione giuridica negli scritti postumi
di Giuseppe Capograssi , in G. Capograssi, La vita etica , Milano, 2008, p. 847.
[5] Cfr. ibidem.
[6] La caratteristica della coralità del processo è stata oggetto di interesse non solo giuridico, ma anche storico-antropologico: è stato assimilato il processo al teatro, e in particolare alle sacre rappresentazioni che si tenevano nei villaggi medievali; si rammenta come durante la pantomima fosse permesso, anche solo per qualche ora, a cittadini di ogni estrazione sociale e particolarmente ai poveri, ai bambini, agli emarginati, di essere il perno della vita collettiva. Questa operazione messa in atto dal teatro, di focalizzazione sulle vicende di soggetti che in genere vivevano invece ai margini della società, è la medesima che si presenta durante il processo; sulla scena, in giudizio ci sono soggetti cui solo la dimensione giuridica ,insieme a poche altre, conferisce una forma di dignità e riconoscimento, riuscendo laddove solo l’arte e in questo caso specifico una rappresentazione teatrale è riuscita.
Cfr. P. Grossi, Uno storico del diritto in colloquio con Capograssi , in Riv. int. fil. dir ., p. 34.
[7] G. Capograssi, Giudizio, Processo, Scienza, Verità in Opere, V, Milano,1959.p. 53.
[8] Ibidem
[9] Ivi, p. 58
[10] (Baltimora, 21 febbraio 1921 – Lexington, 24 novembre 2002)
[11] (Valence, 27 febbraio 1913 – Châtenay-Malabry, 20 maggio 2005)
[12] “La giustizia è la prima virtù dei sistemi sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero”. Si tratta delle prime pagine di Una teoria della giustizia, che Rawls apre con un parallelismo tra i sistemi sociali e i sistemi di pensiero, rinvenendo rispettivamente la giustizia e la verità come elementi fondanti e strutturali. Il testo così prosegue: “Una teoria, per quanto semplice ed elegante, deve essere abbandonata e modificata se non è vera. Allo stesso modo leggi ed istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste”. J.Rawls, Una teoria della giustizia , cit., p. 21.
[13] Ivi, p. 24.
[14] Il maggior apporto speculativo sull’argomento si rinviene in P. Ricoeur, Amore e Giustizia, Brescia, 2007
[15] “amore e giustizia si rivolgono all’azione, ciascuno a proprio modo: l’uno e l’altra la rivendicano” appartengono all’uomo con lo stesso impeto e la stessa intensità. Entrambe hanno il potere di spingerlo all’azione, lo trascinano in una dimensione di ineludibile socialità e lo invitano costantemente a prendersi cura degli altri e del mondo, sradicandolo dal suo solipsismo e gettandolo così nella trama delle vicende umane. Cfr Ivi, p 31.
La tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi dei magistrati, rispetto a quella di qualsiasi altro funzionario di un’amministrazione pubblica, presenta peculiari profili problematici legati essenzialmente all’esistenza di un organo di autogoverno, competente per l’adozione dei provvedimenti relativi allo status del personale (nomine, promozioni, trasferimenti, disciplina etc). Tali competenze vengono così sottratte a quella che sarebbe altrimenti l'amministrazione titolare del potere di provvedere in materia, ed affidate ad un organo che non ha natura amministrativa, ponendo con ciò il problema di capire se e come le sue decisioni siano eventualmente impugnabili. Il fenomeno non è solo della magistratura ordinaria, ma caratterizza ormai anche le magistrature speciali, il cui ordinamento si è progressivamente avvicinato al modello di autogoverno della prima con il crescere del distacco dal potere esecutivo, nelle cui articolazioni erano precedentemente assorbite [1].
Il modello dell’autogoverno caratterizza il rapporto di servizio del personale di magistratura in ragione della necessità di assicurare il rispetto dei principi costituzionali che vogliono che il giudice sia soggetto “soltanto alla legge” (art. 1001 Cost.) e che la magistratura sia costituita in “ordine autonomo e indipendente da ogni altri potere” (art. 104 Cost.); principi che evidentemente escludono che i magistrati possano essere governati, così come qualsiasi altro dipendente pubblico, da organi appartenenti al sistema dell’amministrazione pubblica e che rendono con ciò peculiare il problema della tutela giurisdizionale avverso gli atti di un pubblico potere non riducibile ad una pubblica amministrazione.
Per i magistrati ordinari, il problema sembrerebbe espressamente risolto dall'art 17 della legge 24 marzo 1958 n. 195, che, nel prevedere che “tutti provvedimenti riguardanti i magistrati sono adottati, in conformità delle deliberazioni del Consiglio superiore, con decreto del Presidente della repubblica controfirmato dal Ministro; ovvero, nei casi stabiliti dalla legge, con decreto del Ministro per grazia e giustizia”, dispone altresì che “contro i predetti provvedimenti, è ammesso ricorso al Consiglio di Stato per motivi di legittimità” e che “contro i provvedimenti in materia disciplinare, è ammesso ricorso alle sezioni unite della Corte suprema di Cassazione”.
Se la ricorribilità in Cassazione avverso i provvedimenti disciplinari tutto sommato non ha mai creato particolari problemi, in quanto l'attività del Consiglio in tal caso viene qualificata come giurisdizionale (ad vocem), più di un dubbio è stato invece avanzato con riferimento alla previsione dell'impugnabilità dei provvedimenti incidenti sullo status innanzi al giudice amministrativo, sia per l'intrinseca impugnabilità degli atti, sia per la scelta del giudice amministrativo. Sotto questo profilo, la norma dà per scontata la soluzione affermativa del problema dell'ammissibilità della tutela giurisdizionale avverso gli atti del Consiglio Superiore della Magistratura, e l’individuazione del giudice naturale in quello amministrativo.
L'articolata soluzione proposta dal citato art. 17 della l. 195/1958 appare oggi consolidata in giurisprudenza, nonostante la dottrina non sia mai stata del tutto convinta della bontà della soluzione e sia rimasta comunque perplessa [2]. Il fatto è che quello della tutela giurisdizionale per le violazioni della normativa in materia di ordinamento giudiziario rimane pur sempre un problema particolarmente delicato e complesso, in quanto tocca principi costituzionali fondamentali (la tutela dei diritti ed interessi legittimi riconosciuta come diritto inviolabile di ogni cittadino – magistrati compresi – dall' art. 24 Cost.) e le fondamenta stesse dell'ordinamento repubblicano (il principio di separazione dei pubblici poteri e della soggezione del giudice soltanto alla legge – artt 101 e 104 Cost.).
Nella loro essenza, i termini della questione sono riassunti e ponderati nella pronuncia della Corte Costituzionale n. 44 del 14 maggio 1968 [3], occasionata dalle già ricordate disposizioni recate dall'art. 17 della legge 24 marzo 1958 n. 195 .
Sotto un primo profilo, il problema si riassume nella necessità di chiarire se il buon adempimento della funzione strumentale affidata al Consiglio Superiore della Magistratura esiga la sua sottrazione ad ogni interferenza, non solo dei poteri attivi (ed in specie di quello esecutivo) ma anche del potere giurisdizionale. Contrapposta, è la già ricordata esigenza di assicurare a tutti i cittadini, compresi quelli appartenenti alla categoria dei magistrati, la tutela giurisdizionale dei propri diritti ed interessi legittimi.
Sotto un secondo profilo, il problema riguarda l'individuazione del giudice competente. Le esigenze che si contrappongono, nell'affermare la sussistenza della giurisdizione amministrativa o ordinaria, sono, rispettivamente, quella di evitare di qualificare e considerare semplicemente come pubblica amministrazione il Consiglio Superiore della Magistratura; e di evitare “la confluenza che verrebbe a verificarsi negli appartenenti allo stesso ordine di destinatari dei provvedimenti del Consiglio Superiore della Magistratura e di giudici della regolarità dei medesimi”.
Affermata la prevalenza dell'esigenza di tutela giurisdizionale su quella d'indipendenza del Consiglio, con l'affermazione della sussistenza della giurisdizione amministrativa è altresì evidentemente prevalsa l'esigenza di evitare la confluenza nel medesimo ordine sulle decisioni dell'organo di autogoverno; superando il problema della non appartenenza al potere esecutivo del Consiglio Superiore della Magistratura senza limitarsi al fatto che le decisioni vengono formalmente recepite in decreti ministeriali, ma sottolineando la natura sostanzialmente amministrativa dell'attività svolta (in tal senso v. già Corte Cost. 168/1963).
Pacificamente ammessa nei confronti del decreto presidenziale o ministeriale di recepimento, l'impugnativa è stata dunque ben presto estesa alla delibera del Consiglio Superiore della Magistratura in quanto atto preparatorio del procedimento concluso dal decreto presidenziale o ministeriale[4] e, successivamente, alla deliberazione in quanto tale, indipendentemente dalla circostanza che si traduca in un decreto presidenziale o ministeriale[5].
Su tali basi, può oggi ritenersi definitivamente risolto il problema tradizionale dell'impugnabilità delle decisioni del Consiglio Superiore della Magistratura.
Non possono tuttavia non rilevarsi talune anomalie di sistema derivanti dalla concentrazione in capo al giudice amministrativo della giurisdizione per le controversie riguardanti gli appartenenti tanto alla magistratura ordinaria, quanto a quella amministrativa.
Innanzi tutto perchè è evidente che in tal modo i due ordinamenti giurisdizionali non rimangono separati e distinti, ma vengono collegati in un intreccio contraddittorio: il giudice amministrativo, le cui decisioni sono pur sempre impugnabili, anche se solo per motivi di giurisdizione (art 111 Cost.), in Cassazione, è in condizioni di poter incidere sull'ordinamento giudiziario, compreso il suo organo di vertice. E sotto questo profilo non si tratta di un rischio remoto, poiché gran parte del contenzioso finisce con il riguardare il conferimento degli uffici direttivi e, nel 2007, l'intervento del giudice amministrativo ha riguardato proprio la nomina del Primo Presidente della Corte di Cassazione[6]. Né si tratta di un rischio puramente astratto, se si considera che al giudice amministrativo è riconosciuto anche il potere di adottare le misure necessarie per assicurare l'esecuzione delle proprie decisioni ricorrendo, in caso di inottemperanza, ad un commissario ad acta per sostituire il CSM [7].
In secondo luogo va sottolineato che si ripropone per altro verso quella situazione di “confluenza” ritenuta inammissibile dalla Corte Costituzionale; se solo si considera che la magistratura amministrativa è soggetta all'autogoverno non del Consiglio superiore della magistratura ma del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, e che le decisioni di quest'ultimo rimangono impugnabili innanzi al giudice amministrativo. In sostanza: il giudice amministrativo conosce delle decisioni sui giudici amministrativi (anche quando si tratta di provvedimenti disciplinari, viene esclusa la competenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione)[8].
La disarmonia appena rilevata tocca i principi informatori del sistema complessivamente considerato. Anche scendendo ad analizzare il sistema di tutela concretamente vigente per i magistrati ordinari, si rivela però come esso sia caratterizzato dalla coesistenza non perfettamente armonizzata di una giurisdizione esclusiva e di una giurisdizione generale di legittimità.
Le peculiarità della prima sono più che altro nelle ragioni che hanno giustificato la conservazione dello status pubblicistico del rapporto di servizio dei magistrati. Differentemente dalle altre categorie parimenti sottratte al processo di privatizzazione che ha interessato il personale professionale alle dipendenze di amministrazioni pubbliche, la conservazione del rapporto di pubblico impiego non è stata imposta dalla necessità di salvaguardare, rispetto allo schema di lavoro privatistico, i tratti autoritari e di subordinazione gerarchica, ma, al contrario, sempre e solo l’autonomia e l’indipendenza della magistratura[9]. Salva questa precisazione di principio e salvo il fatto che la giurisdizione esclusiva presuppone la sussistenza di un rapporto d’impiego professionale e non onorario, per il resto la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per i rapporti d’impiego dei magistrati, almeno sotto il profilo del trattamento economico, non presenta peculiarità di rilievo. Diversamente, la giurisdizione generale di legittimità, proprio a causa dell’imputazione o della partecipazione all’esercizio della funzione amministrativa dell’organo di autogoverno, presenta più di una peculiarità nel concreto svolgimento del giudizio amministrativo e nella sua instaurazione: in ordine al provvedimento impugnabile, alle parti del processo, all’ampiezza del sindacato giurisdizionale[10].
[1] Il Consiglio superiore della magistratura viene istituito con l. 24 marzo 1958 n. 195; il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa con l. 27 aprile 1982 n. 186; il Consiglio di presidenza della corte dei conti con l. 13 aprile 1988 n. 117; il Consiglio della magistratura militare con l. 30 dicembre 1988 n. 561. Sul quadro d’insieme in dottrina v. D’Aloia,.L’autogoverno delle magistrature, 71 ss ; S.Senese, Giudice (nozione e diritto costituzionale), in Dig. Disc. Pubbl., VII, Torino Utet, 1991, 218 ss; I. Lolli, L’autogoverno delle giurisdizioni speciali : profili problematici e prospettive di riforma, in Giur. Cost., 1997, 2071 ss
[2] Cfr.: G. FERRARI, Consiglio Superiore della Magistratura, in Enc. Giur. Treccani, VIII, Roma, IPZS, 1988; G. CUGURRA, Atti del Consiglio Superiore della Magistraura e sindacato giurisdizionale, in Dir. Proc. Amm., 3/1984, 310ss. Più in generale, sul problema dell'impugnabilità delle delibere del C.S.M. v. anche E. CANNADA - BARTOLI, Tutela dei magistrati eletti al Consiglio superiore, giurisdizione del Consiglio di Stato e forma degli atti, in Foro amm., 1972, p. 109 s.; V. SPAGNA MUSSO, Sulla sindacabilità degli atti del C.S.M. da parte del Consiglio di Stato, in Giur cost., 1962, p. 1609 ss; A. M. SANDULLI. , Atti del Consiglio superiore della magistratura e sindacato giurisdizionale, in Giust. civ., 1963, II, 3 ss. ; U. DE SIERVO, A proposito della ricorribilità in Consiglio di Stato delle deliberazioni del Consiglio superiore della Magistratura, in Giur. cost., 1968, p.690 ss.
[3] Corte cost. 14.5.1968, n.44, in Foro it., 1968, I, 1396 ss.
[4] Cons Stato, Sez. IV, 14 marzo 1962 n. 248; Id., 22 novembre 1962 n. 752
[5] Tar Lazio, Sez. I, 8 giugno 1983 n. 491
[6] Cfr.: Cons Stato, Sez. IV, 10 luglio 2007 n. 3893)
[7] Corte Cost. 8 settembre 1995 n. 419, in Foro It., 1995, I, 2641; Id. 15 settembre 1995 n. 435
[8] Cfr.. Cass. SU 29 settembre 2000 n. 1049
[9] S. BATTINI, Il personale, in Trattato di diritto amministrativo diretto da S. CASSESE, I, Milano, 2003, 563.
[10] Amplius v. F. FRANCARIO, M. ROSSI SANCHINI, La tutela giurisdizionale amministrativa, in E. ALBAMONTE, P. FILIPPI (a cura di) Ordinamento giudiziario. Leggi regolamenti e procedimenti, Lavis (Tn), 2009, 943 ss.
Senza la magistratura onoraria l’amministrazione della Giustizia non può funzionare e se le risorse umane (le persone) che la compongono sono utilizzate in modo inadeguato si producono effetti negativi per tutti.
La magistratura onoraria ha diverse componenti: i vice procuratori onorari sono indispensabili per le piccole Procure (in molti sedi esposte a periodiche gravi carenze di organico) per lo svolgimento delle udienze e le indagini sui reati minori; il ruolo dei giudici onorari (come pure dei giudici di pace) potrebbe rivisitarsi nell’ambito di una nuova concezione dell’Ufficio del processo.
Per comprendere meglio i problemi attuali, ho intervistato un magistrato togato e un magistrato onorario esperti della materia.
Il primo è Raimondo Orrù, vice Procuratore onorario a Roma e presidente della FEDERMOT.
Il secondo è Ernesto Aghina che, per anni, si è occupato della magistratura onoraria -prima come membro della apposita commissione all’interno del CSM e poi come componente del consiglio direttivo della SSM che si occupa anche della loro formazione - e attualmente ne organizza il lavoro nel circondario del tribunale di Torre annunziata di cui è presidente.
D. I magistrati onorari chiedono al Ministro Bonafede di cambiare la riforma Orlando. Quali sono le criticità poste in evidenza?
R. La riforma non rilancia la funzione di supporto dei magistrati onorari, imponendo anche a quelli di lungo corso un regime part-time incompatibile con l'incremento di produttività. I diritti economici sono poi completamente disconosciuti
D. Un inquadramento full-time non snaturerebbe il rapporto di servizio onorario?
R. Secondo il Consiglio di Stato il trattenimento in servizio a tempo pieno e sino all'età pensionabile è attuabile in relazione a una specifica platea di destinatari, come avvenne nel 1974 per i vice-pretori onorari.
D. Quali ragioni giustificherebbero una misura straordinaria di questo tipo?
R. Il filo pilota non può che essere l'interesse pubblico. Occorre erodere in modo deciso l'arretrato giudiziario e i tempi medi di durata dei processi, che restano i più alti in Europa. Tale obiettivo non può prescindere dal trattenimento di personale già formato.
D. Si tratterebbe di un reclutamento straordinario nei ruoli ordinari?
R. No. Il magistrato onorario resterebbe tale; l'incarico rimarrebbe revocabile, senza accesso ai ruoli ordinari o al relativo cursus honorum.
D. L'idea è quindi quella di riproporre per intero i contenuti dello schema legislativo usato nel 1974 per i vicepretori?
R. La nostra proposta è di seguire quella impostazione ma con alcune precisazioni: esclusione espressa dell'elettorato attivo e passivo in relazione agli organi di autogoverno; esclusione di progressioni economiche; mantenimento delle attuali competenze.
D. Quale trattamento economico reclamano i magistrati onorari?
R. Quello che rispetti i parametri ritenuti loro applicabili in sede CEDU dal Comitato europeo dei diritti sociali: ossia retribuzione equiparata, pro rata temporis, a quella del magistrato di tribunale, ossia del magistrato di ruolo all'inizio della carriera.
D. Perché ritiene che un inquadramento part-time sia disfunzionale al buon andamento della giustizia?
R. Indurre lo svolgimento di altre attività lavorative conduce a trascurare quella giudiziaria, che non si compone solo di udienze, ma di studio dei procedimenti, di formazione permanente obbligatoria, di aggiornamento specialistico. Inoltre un rapporto full-time elimina in radice le ipotesi di incompatibilità ambientale e professionale, assicurando una maggiore imparzialità e incentivando una qualità professionale adeguata. Insomma: meglio un magistrato onorario a tempo pieno, sempre reperibile e "fidelizzato", di due a tempo parziale.
D. Le coperture finanziarie ci sono?
R. Vanno trovate; ma si parla di aggiungere circa 100 milioni di euro agli attuali stanziamenti; una somma irrisoria rispetto ai benefici macroeconomici correlati all'abbattimento dell'arretrato e della durata media dei processi. Senza contare i benefici fiscali dati dall'aumento delle sentenze percosse dalla imposta di registro e dei risparmi di spesa correlati al congelamento delle retribuzioni attualmente percepite dai numerosi magistrati onorari impiegati in altre amministrazioni come dipendenti pubblici.
D. L'ANM è diffidente sul trattenimento in servizio dei magistrati onorari sino all'età pensionabile.
R. Lo considero un errore strategico. Si tratta di una misura eccezionale, l'alternativa alla quale è aumentare stabilmente il numero dei magistrati di ruolo o fare affidamento su nuovi più rilevanti reclutamenti di magistrati onorari, che però potrebbero essere operativi solo tra alcuni anni, impegnando comunque le medesime risorse finanziarie richieste dal trattenimento di professionisti già formati.
D. Sulla qualità professionale il concorso rimane però una garanzia irrinunciabile.
R. Ne siamo convinti. Per questo riteniamo che la magistratura di ruolo debba essere sollevata dalla gestione del contenzioso di prossimità o seriale, devolvibile a una figura che la coadiuvi stabilmente senza invaderne le prerogative esclusive.
D. Nel caso di anticipata cessazione dall'incarico onorario, cosa accade?
R. La nostra proposta specifica è che il magistrato onorario deve poter tornare a fare il lavoro precedentemente svolto, senza perdere l'anzianità di servizio che avrebbe maturato nel frattempo. Per questo proponiamo che i dipendenti pubblici siano posti in aspettativa non retribuita per la durata dell'incarico e che gli avvocati, per non perdere l'anzianità professionale, possano rimanere iscritti all'albo ma esclusivamente nella sezione dedicata agli avvocati degli uffici legali, ossia senza possibilità di operare su libero mercato.
D. Esiste un unico modello di utilizzo dei magistrati onorari negli ordinamenti giudiziari dell’Unione? In questo contesto come si colloca la situazione italiana?
R. I magistrati onorari sono presenti in molti ordinamenti giudiziari europei, e quasi sempre in numero considerevolmente più elevato rispetto ai magistrati professionali. La loro utilizzazione è variabile ed è tendenzialmente dedicata - come in Italia - alla trattazione dei procedimenti (civili e penali) di minore rilevanza. La nozione di “onorarietà” viene esaltata dalle modalità di selezione, dalla temporaneità dell’incarico e, soprattutto, da una sorta di “onorabilità professionale” che ne costituisce la principale forma di retribuzione, sotto forma di riconoscimento sociale. Del tutto diversa è la situazione italiana, in cui i magistrati onorari si caratterizzano per una sorta di precarietà solamente virtuale, per effetto di un’iterazione di proroghe nell’incarico e per forme di retribuzione stabili.
D. Quali sono le problematiche più ricorrenti per un magistrato dirigente di un ufficio giudiziario nell’utilizzo dei magistrati onorari?
R. I magistrati onorari (nella vigente distinzione tra vice procuratori onorari e giudici onorari di pace) costituiscono per i dirigenti degli uffici di primo grado (Tribunali e Procure della Repubblica) una risorsa ineludibile cui attingere costantemente per fronteggiare le croniche carenze (anche temporanee) nell’organico dei magistrati professionali.
Viene costantemente in rilievo la nozione di “magistratura vicaria” che ha sin qui caratterizzato i v.p.o. e i g.o.t., e ha consentito di affrontare autentiche emergenze e garantire una risposta alla (rilevantissima) domanda di giustizia.
In proposito può essere utile ricordare come i dati offerti dal rapporto del Cepej su “Efficiency and quality of justice” e dall’European Justice Scoreboard della CE collocano l’Italia nella media europea nella percentuale di giudici per abitanti, ma solo in virtù dell’apporto numerico dei magistrati onorari.
Diverso discorso va fatto per i giudici onorari addetti alla giustizia di pace: la riforma del 2017 affida al presidente del tribunale compiti di coordinamento inediti ed onerosi, che vanno affrontati con particolare impegno, perché le dinamiche degli uffici del giudice di pace, fatalmente influenzate da fattori concorrenti (risorse ridotte, compenso a cottimo dei giudici di pace, abuso del processo, ecc..), determinano non pochi problemi gestionali, aggravati da una “separazione” territoriale e culturale dal Tribunale capoluogo di circondario.
D. Non tutti gli appartenenti alla categoria sono soddisfatti della recente riforma (in particolare quelli che per molti anni sono stati inseriti con reiterata precarietà nel sistema), hanno delle buone ragioni? A parte questo, la riforma costituisce un approdo soddisfacente o servirebbero dei correttivi?
R. Nonostante la riforma del d.lgs.vo. 116 del 2017 abbia determinato novità significative, quali l’uniformità di status tra “magistrature onorarie” sin qui troppo diverse tra loro, non vi è dubbio che non tutti i problemi siano stati risolti, principalmente il regime dei magistrati onorari in attività, che vedono bruscamente limitate le loro possibilità di utile impiego.
Ritengo che sia possibile, ed anche auspicabile un intervento correttivo, che accentui il “doppio binario”, pur parzialmente previsto dalla riforma, diretto a differenziare la disciplina applicabile ai magistrati onorari in attività rispetto a quelli di futura nomina, consentendo la permanenza illimitata in servizio dei primi, previo regolamento dei profili di incompatibilità.
Non si tratta peraltro delle uniche criticità della riforma, atteso che - se pure al termine di una fase transitoria - la limitazione nell’utilizzazione in tribunale dei giudici onorari e l’incremento della civile dell’ufficio del giudice di pace aprono dei fronti da presidiare con doveroso anticipo, senza far conto del termine del 2021, in cui la riforma entrerà a regime.
D. Più in generale, c’è ancora una distanza tra magistratura professionale e onoraria che è stata spesso denunziata come presente?
R. Non posso negare che in passato sia esistita una scarsa attenzione alle problematiche della magistratura onoraria da parte della magistratura professionale, ma il clima è (molto) cambiato da tempo.
I magistrati onorari non sono più considerati una sorta di “extracomunitari del diritto”, bensì una componente insostituibile della giurisdizione.
Per questo si è investito nella loro formazione e aggiornamento professionale (prima da parte del C.S.M. e poi della Scuola superiore della magistratura), nel costante confronto operato dall’ A.N.M. con le componenti sindacali (troppe..!!) dei giudici onorari, e più in generale nel rapporto che lega negli uffici magistrati professionali ed onorari.
Se esiste ancora una “distanza” forse oggi è più accentuata quella che separa la magistratura onoraria dall’avvocatura, di cui pure i magistrati onorari fanno parte a pieno titolo.
Oggi si parla della “presa delle funzioni”, della presa delle funzioni qui, a Catanzaro e in Calabria.
E credo che per parlare di questo, dell’esperienza che qui vi aspetta, il discorso debba esser fatto al passato e al presente, ma soprattutto al futuro, guardando all’esperienza che è stata, ed è, ma ancor di più all’esperienza che potrebbe essere.
Per questa ragione il mio intervento è un discorso su quelli che mi sembrano essere i punti critici dell’esercizio della giurisdizione in questa sede. Una critica, quindi, che da un lato è una autocritica e, dall’altro, un appello a chi ha appena preso le funzioni qui per tentare di mettere in moto qualche cambiamento.
Sono quattro le parole che possono sintetizzare quello di cui vorrei parlare. Le prima parola è numeri. La seconda è timore. La terza è dialogo. La quarta parola, invece, la lascio per la conclusione.
La prima parola è “numeri”, intesi come scusa e pretesto.
“I numeri sono alti perché le iscrizioni e pendenze elevate, dai numeri si giudica la giustizia e quindi la giustizia si assicura garantendo buoni numeri”. Tra le tante cose che si dicono, il rumore di sottofondo che spesso si sente durante le giornate di lavoro è questo.
In una realtà giudiziaria come quella attuale - in cui si tenta di svuotare il mare con una disorganizzata conchiglia - l’affanno costante, e proclamato, sui numeri determina inevitabilmente un approccio all’esercizio della giurisdizione basato sulla perenne emergenza.
Questo ha due conseguenze immediatamente percepibili.
La prima è che i numeri, e quindi l’approccio d’emergenza, sono la scusa per ogni cosa, per ogni prassi, anche la più svilente e deleteria. E ciò perché, si dice, non si può fare altrimenti. Udienze-mercato con decine e decine di procedimenti; gestione del ruolo con la finalità prevalentemente della statistica; decadente qualità delle decisioni e della gestione delle udienze (che forse non bisogna dimenticare è il principale veicolo attraverso cui la cittadinanza vede e percepisce i magistrati e la giustizia); un complessivo caos che aumenta in modo ipertrofico e ingiustificato il potere del magistrato (che con un rinvio, sempre giustificato dal “carico del ruolo”, può decidere le sorti di un procedimento); l’impossibilità di individuare le effettive responsabilità di una mala gestione dei ruoli e delle sezioni.
La scusa dei “numeri” porta a trasformare tutto in carta. Le cause sono carte da “smaltire” (e di “smaltimento” parlano i piani di gestione), i diritti dei cittadini sono carte, le persone sono carte e le responsabilità sono solo sulla carta. Con la conseguenza che anche la giustizia diventa di carta, una tigre di carta che perde progressivamente la fiducia e il rispetto della cittadinanza.
La seconda conseguenza è che i “numeri”, l’approccio d’emergenza sui “numeri”, determinano nel magistrato, soprattutto alle prese con le prime funzioni, quell’occupazione costante che contribuisce a formare e a consolidare il disinteresse e la mancanza di partecipazione dei magistrati nell’esercizio della giurisdizione. Esercizio della giurisdizione che significa anche organizzare la giurisdizione, progettare la giurisdizione e non limitarsi a scrivere provvedimenti.
E così non c’è il tempo per fare la spesa, figuriamoci se c’è tempo per dialogare, discutere e occuparsi di cambiare prassi, organizzazione, di politica giudiziaria, figuriamoci se c’è tempo di curare orientamenti o sentenze che possano contribuire alla giurisprudenza.
La giurisdizione così perde l’apporto soprattutto delle sue forze più fresche, e smorza gli entusiasmi, affogando tutto nei numeri e nell’emergenza perenne. Risulta sempre più difficile risolvere i problemi alla radice e la Giustizia si mostra debole nel cambiare se stessa, debolissima nel contribuire al progresso della società in cui opera.
La seconda parola è “timore”, intesa come presenza.
E’ il timore dello spauracchio del disciplinare, delle valutazioni di professionalità, di intoppi nella carriera.
Un timore che si fonda, credo, su tre cose: ritmi che rendono l’errore inevitabile e il senso di stare in difetto costante; la scarsa trasparenza delle regole, dei dati, dei procedimenti e delle logiche delle decisioni dei direttivi e dell’autogoverno; la diffusa pratica della vicinanza correntizia usata in modo, diciamo, poco ortodosso.
Il risultato è che il sistema attuale si è sviluppato in un modo tale che chi non dovrebbe temere niente, chi esercita la giurisdizione in modo serio, comunque un poco teme e in qualche modo si ritira, si mette da parte.
Colui che, invece, dovrebbe temere - chi non esercita seriamente la giurisdizione - vivacchia abbastanza indisturbato, raggiunge le giuste statistiche, si occupa di presenziare all’evento giusto, nella consapevolezza che ci sarà sempre qualcuno pronto a mettersi una mano sul cuore.
Il timore è poi anche quello di scontentare, di cambiare.
E non mi riferisco alle sentenze ma a al timore di prendere decisioni relative a come si esercita la giurisdizione. Decisioni che scontentano colleghi, direttivi o il foro ma che possono cambiare tante prassi e tanti atteggiamenti di compromesso al ribasso che bloccano la giurisdizione effettiva in favore di una giurisdizione burocratica e difensiva.
E c’è da dire che tante volte il magistrato, soprattutto se di prima nomina e con almeno quattro anni davanti nella stessa sede, è costretto a far buon viso a cattivo gioco e a preferire di accettare la prassi o la decisione sbagliata per non mettere a rischio i rapporti con colleghi e direttivi che dovrà vedere ogni giorno in ufficio.
La terza parola è “dialogo”, inteso come assenza.
Il dialogo, il confronto partecipato sui problemi e le soluzioni, manca tra magistrati, tra i direttivi, tra le sezioni, tra i diversi uffici, manca con la cittadinanza.
La mancanza di dialogo è sia causa che effetto della totale assenza di progettualità.
I problemi della giurisdizione sono male inquadrati e affrontati con soluzioni precarie e istantanee, di regola autoritative, che mostrano la loro fragilità dopo poco tempo.
Non vi sono progetti che riguardano l’esercizio della giurisdizione, la giurisdizione non è progettuale, non vi è coinvolgimento, soprattutto dei magistrati di prima nomina, in un pensiero organizzato ed orientato ad un futuro più lungo del problema che si presenta quel giorno alla porta.
Il Tribunale si riduce così ad essere un posto in cui si esercita solo il potere della decisione, invece di essere un luogo in cui si esercita la responsabilità della giurisdizione.
L’ultima parola è “opportunità”, parlo dell’ opportunità di cambiare tante cose.
L’esperienza calabrese è per tanti versi unica, da nessuna parte vi è un così alto tasso di giovani all’interno degli uffici che provengono da esperienze diverse da ogni parte d’Italia. Da nessuna parte si assumono così rapidamente ruoli delicati ed importanti.
La giurisdizione poi, qui in Calabria, è qualcosa di davvero importante, ha una netta forza conformativa nei confronti della società che va oltre il diritto.
Quel che voglio dire è che la presa delle funzioni qui, deve essere considerata come presa delle responsabilità che la giurisdizione comporta, non solo la presa d’atto che bisogna scrivere dei provvedimenti.
La maggior parte di noi qui in Calabria - e concludo - sono di passaggio, e sappiamo bene che fra qualche anno ce ne andremo. Ma questo non significa che non possiamo fare qualcosa e soprattutto lasciare qualcosa.
Il Tribunale dei ministri, questo sconosciuto. Annotazioni sparse
di Zaira Secchi
Parlare del Tribunale dei ministri è come entrare nella storia della Repubblica.
Il testo originario della Costituzione licenziato nel dicembre 1947 dall’Assemblea Costituente prevedeva all’art. 96, in combinazione con gli artt. 134 e 135, che fosse la Corte Costituzionale a giudicare il Presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, dopo la loro messa in stato di accusa da parte del Parlamento in seduta comune. La legge costituzionale 11 marzo 1953, numero 1, consente infine l’effettivo funzionamento della Corte Costituzionale con l’introduzione delle norme integrative di cui all’art. 137, Cost. .
Pertanto in origine per i ministri era prevista una giurisdizione speciale del tutto analoga a quella del Presidente della Repubblica, per il quale invece, ancora oggi, è stata mantenuta la competenza della Corte Costituzionale nell’ambito di un procedimento che più recentemente anche da noi è stato denominato “impeachment” (anche quest’ultimo salito agli onori della cronaca da poco!), mutuando in maniera impropria tale termine dall’ordinamento anglosassone, istituto ivi utilizzato a partire dal 1376 per colpire i ministri del Re resisi responsabili di gravi prevaricazioni.
La disciplina oggi ancora in vigore viene, infine, introdotta nel 1989 con la legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1, qui, invece, il destino penale dei ministri viene separato da quello del Presidente della Repubblica, consegnandolo alla giurisdizione ordinaria, ma attraverso un procedimento speciale molto articolato, pieno di particolarità e caratterizzato da un difficile sbocco giudiziale. A questa svolta si giungeva ben 11 anni dopo l’iniziativa popolare referendaria, quando, in seguito alla deflagrazione del cosiddetto “scandalo Lockheed” nel 1977, in cui erano stati coinvolti alcuni ministri, si era proposto di eliminare la giurisdizione speciale che non si percepiva più come garanzia, bensì come mero privilegio a favore dei ministri, che si volevano invece equiparati agli altri cittadini. Però il quesito, dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale insieme ad altri tre tra gli otto proposti, veniva accantonato un mese prima della sua sottoposizione alla volontà popolare grazie ad un intervento legislativo operato con legge 10 maggio 1978, n. 170, che in realtà non mutava affatto la natura di “giustizia politica” propria del procedimento originario. E’ inoltre significativo ricordare che il caso Lockheed fu l’unica vicenda giudiziaria penale a carico di ministri della Repubblica, che, passando attraverso le forche caudine della Commissione parlamentare inquirente, riuscì ad approdare davanti alla Corte Costituzionale. Alla svolta costituzionale del 1989 si arrivava, infine, dopo due anni dall’esito referendario -al secondo tentativo si riuscì, infatti, a tenere il relativo referendum- che abrogò nel novembre 1987 i primi otto articoli della legge 10 maggio 1978, n. 170, proprio quella con la quale si era “dribblata” la precedente iniziativa referendaria.
Con la legge costituzionale del 1989, quella ancora oggi in vigore, il legislatore ha spostato il connotato della “specialità” dalla figura del Giudice, prima Corte Costituzionale oggi Giudice ordinario, al procedimento che per la sua complessità ed articolazione può essere rappresentato visivamente come un percorso ad ostacoli, di cui l’ultimo ostacolo è rappresentato dall’autorizzazione a procedere. Tale autorizzazione può essere concessa dalla Camera di appartenenza o dal Senato in tutti i casi in cui il Presidente del Consiglio o il ministro non appartenga a nessuna delle due (come sarebbe il caso, per esempio, dell’attuale Presidente del Consiglio, che non fa parte di nessuna delle due Camere). Ma tale snodo del procedimento crea una radicale discontinuità tra il Tribunale dei ministri, che per tutta la fase delle indagini si muove secondo le regole del diritto penale valevoli per tutti, e la Camera interpellata, che in sede di autorizzazione a procedere è legittimata ad esprimere un giudizio, assolutamente insindacabile e di natura squisitamente politica, su quale interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o su quale preminente interesse pubblico nella funzione di governo sia concretamente prevalso o meno rispetto all’interesse invece tutelato dalla norma incriminatrice. L’autorizzazione a procedere concessa dalla competente Camera vale come condizione di procedibilità e risulta necessaria perché il Tribunale del capoluogo del distretto di Corte di appello competente per territorio possa, poi, procedere oltre secondo le norme ordinarie del codice di procedura penale, ma senza che nell’organo giudicante ci siano quegli stessi magistrati che hanno fatto parte del Collegio che ha svolto le indagini e che ha richiesto l’autorizzazione a procedere.
Iniziamo con l’individuare quale sia l’autorità giudiziaria a cui è stata assegnata la competenza ad indagare e a cui il Procuratore della Repubblica deve, omessa ogni indagine, trasmettere entro 15 giorni gli atti con le sue richieste. Va precisato innanzitutto che il ruolo del PM è più incisivo di quello che sembrerebbe emergere da una prima lettura degli articoli di legge, infatti egli: 1) prima di inviare gli atti al Tribunale dei ministri, deve comunque avere svolto tutte quelle indagini che gli consentano di qualificare il fatto come reato ministeriale, 2) deve dare parere obbligatorio, ma non vincolante, sull’archiviazione, potendo anche richiedere ulteriori indagini, se ritenute necessarie, 3) deve dare il proprio parere al Collegio che ritenga di rimettere gli atti alla competente Camera per acquisirne l’autorizzazione a procedere, 4) sarà il PM stesso, nel caso in cui lo richieda il Tribunale dei ministri, a trasmettere gli atti alla Camera competente per l’autorizzazione a procedere.
Il Tribunale dei ministri è un organo collegiale inesistente nello scenario ordinario e viene costituito ad hoc con sorteggio dei tre componenti ogni biennio nell’ambito di ogni singola Corte di appello: ha infatti una competenza distrettuale ovvero il Tribunale dei ministri si insedia presso il Tribunale del capoluogo del distretto di Corte di appello. Naturalmente quello di Roma ha una competenza di fatto quasi totalizzante, perché è la regola che i ministri esercitino le funzioni all’interno dei loro ministeri o delle riunioni consiliari, ma non è detto che l’evento antigiuridico si consumi sempre nell’ambito romano. La competenza territoriale, sempre di natura distrettuale, segue le regole ordinarie del codice di procedura penale nella ripartizione tra i vari Tribunali dei ministri. L’organo, si diceva, è collegiale ed è composto da un Presidente e da due Giudici a latere, che ne diventano i membri effettivi, sorteggiati tra tutti i magistrati di Tribunale del distretto aventi una anzianità non inferiore ai cinque anni. Viene infatti istituito presso la Corte di appello un seggio elettorale composto da tutti i Giudici civili e penali insieme ed è questa la prima particolarità, poiché tramite il sorteggio possono essere chiamati a decidere in materia penale anche Giudici civili. E’ infatti il caso a scegliere e magari può capitare che tutti e tre i componenti sorteggiati siano dei Giudici civili (come è capitato qui a Roma, dove peraltro la competenza non è mai promiscua), ma ci si attrezza: siamo Giudici o no? Dal sorteggio vengono esclusi i magistrati collocati fuori ruolo e vengono inserite all’interno di un’urna le schede recanti il nome di ogni singolo Giudice del distretto. All’estrazione a sorte procede in pubblica udienza il Collegio elettorale appositamente riunito presso la Corte di appello e presieduto dal Presidente della Corte e, una volta sorteggiati i tre membri effettivi, nella stessa seduta possono già venire estratte con le medesime modalità altre tre schede per i tre supplenti, al fine di garantire il costante funzionamento dell’organo collegiale; altrimenti ad ogni impedimento o trasferimento si dovrà procedere ad altro sorteggio con costituzione di una Commissione elettorale ad hoc. Si diceva che la durata di ogni singolo Collegio sorteggiato è di due anni, ma tale periodo può subire delle proroghe con riferimento a quei procedimenti per i quali siano già iniziate, seppure non terminate, le indagini: insomma tutto ciò che incameri fino al giorno prima della tua scadenza rimane tuo fino a conclusione delle indagini. Presidente lo diventa chi possiede le funzioni più elevate e, a parità di funzione, è il più anziano di età e non di carriera. Altra curiosità: ci si è infatti fidati maggiormente dell’esperienza di vita, piuttosto che professionale del magistrato.
E che funzioni si è chiamati a svolgere! Insieme di indagine e decisionali, insomma il Tribunale dei ministri cumula in sé la figura del PM e quella del Giudice delle indagini preliminari: una figura molto simile a quello che era il vecchio Giudice istruttore, ma questa volta in versione collegiale. Sì, perché si fanno le indagini sempre in tre, ma senza una propria polizia giudiziaria con la quale avere potuto costruire una pregresso affiatamento: il Tribunale dei ministri infatti si può rivolgere all’ “universo mondo” per la delega delle indagini, insomma con una totale discrezionalità nella scelta. La collegialità, che è senz’altro un valore, in questo caso affatica e rallenta non poco le attività, perché i tre Giudici possono, come capita assai spesso, avere tra loro sedi lavorative differenti, non solo nell’ambito della medesima città, ma anche nell’ambito di città diverse. Trattandosi di competenza distrettuale, il Tribunale dei ministri di Roma, per esempio, attinge i suoi componenti, oltre che dalla sede di Roma, anche tra i giudici dei Tribunali di Cassino, Civitavecchia, Frosinone, Latina, Rieti, Tivoli, Velletri e Viterbo, a distanza di centinaia di chilometri tra loro e senza che sia prevista una qualche esenzione dal lavoro ordinario. Quindi il Giudice del Tribunale dei ministri è costretto a muoversi sul territorio per riunirsi con gli altri componenti e a combinare i propri impegni con questi ultimi al fine di decidere collegialmente cosa fare e al fine di provvedere con atti collegiali, continuando comunque a svolgere appieno le proprie udienze ed a osservare tutte le scadenze nel deposito dei propri provvedimenti. Ma quale è il problema, ci si attrezza: siamo Giudici o no?
Il Tribunale dei ministri entro novanta giorni dal ricevimento degli atti o archivia con decreto non impugnabile oppure con relazione motivata trasmette gli atti al PM per l’inoltro alla Camera competente ai sensi dell’art. 5, l. cost. n. 1/1989. Il decreto di archiviazione può essere revocato dal Collegio qualora sopravvengano nuove prove, su specifica richiesta del PM. Il termine di novanta giorni per il compimento delle indagini dà il senso dell’estrema celerità con cui gli atti debbano essere compiuti e con cui si debba giungere ad una decisione conclusiva, ma comunque esso non è perentorio, bensì meramente ordinatorio. I reati ministeriali, si diceva, sono solo quelli commessi nell’esercizio delle loro funzioni dal Presidente del Consiglio e dai ministri, ma questi ultimi possono essere sottoposti al procedimento speciale in questione anche dopo che siano cessati dalla carica, nel caso in cui ovviamente la notitia criminis sia emersa o sia arrivata al Tribunale dei ministri successivamente.
Nulla è scontato in questo procedimento, neppure chi debba decidere sulla natura ministeriale del reato: il pubblico ministero che per primo raccoglie la notizia di reato, il Tribunale dei ministri che la riceve ed indaga su di essa o la Camera chiamata a pronunciarsi sull’autorizzazione a procedere? Al riguardo è stato infatti più volte sollevato conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale, che, via via chiarendo sempre di più gli aspetti procedurali, ha infine statuito sul conflitto sollevato dalla Cassazione contro il Senato in riferimento ai reati di ingiuria e diffamazione attribuiti all’allora ministro Castelli <<che non spetta all’organo parlamentare la valutazione in ordine alla natura ministeriale del reato, rimessa invece in modo esclusivo all’Autorità giudiziaria>> (Corte Cost. 25.2.2014, n. 29). In tali occasioni la Corte Costituzionale non è stata mai chiamata a sindacare il contenuto delle decisioni prese, bensì a regolare il procedimento, individuando semplicemente chi avrebbe dovuto decidere sul punto, se, appunto, l’organo giudiziario o quello parlamentare.
In conclusione, attingendo dall’esperienza personale, posso dire che lo svolgimento di tali funzioni può rappresentare una bella palestra professionale, giocata sempre sul filo della difficile conciliabilità degli impegni lavorativi, della delicatezza dei temi e della necessità di rapidità dell’intervento.
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