ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
[...resto convinta che il lavoro in Cassazione sia il più bello che un magistrato possa svolgere. La funzione nomofilattica che la legge assegna alla Corte, e che la Corte cerca con affanno di espletare, affida al giudice di legittimità con sempre maggiore frequenza la ricerca di nuove frontiere interpretative, imponendogli di misurarsi con i profondi cambiamenti nella società e nel sentire collettivo, con i progressi della ricerca scientifica, con le sfide della globalizzazione.
M.G.Luccioli, Diario di una giudice. I miei cinquant’anni in magistratura, Udine 2016, 66]
Sommario
1. Cos’è e cosa fa, oggi, la Corte di Cassazione. 2. Il volto della Cassazione visto dal giudice non di legittimità. 3. Alla ricerca di una simbiosi fra giudici di merito e Corte di Cassazione.
1. Cos’è e cosa fa, oggi, la Corte di Cassazione.
Mi è stata sollecitata un riflessione sulla funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, con particolare riferimento al settore civile.
Non mi sento affatto legittimato ad offrire punti di riferimento validi in senso oggettivo rispetto al tema appartenendo, peraltro, ad una generazione di magistrati che è approdata in Corte da un tempo non particolarmente lungo, anche se dopo avere svolto, ininterrottamente, le funzioni di merito per vent’anni.
Esperienza che si è misurata con una progressiva apertura della Corte di Cassazione verso sempre più pressanti occasioni di confronto, non sempre indolori, con altre Corti, nazionali e sovranazionali, capaci di cambiarne il volto a legge invariata, visto che essa è pur sempre tenuta ad assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, insieme all’unità del diritto oggettivo nazionale – così recita testualmente l’art.65 del R.D.30.1.1941, n. 12 sull’ordinamento giudiziario – ma anche il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni – ed a tutti gli altri compiti affidati dallo stesso art.65 e dalla legge.
Giudice di ultima istanza chiamato, dunque, a dovere curare e gestire i rapporti con il suo ordinario interlocutore, il giudice di merito appunto, ma che è sempre più assillato dal trovarsi all’interno di quel circuito di Corti nelle quali ‘inventa’ il diritto vivente, per dirla con Paolo Grossi[1].
Cassazione che, proprio per l’esistenza di sistemi normativi che si affiancano a quello interno è posta, addirittura, in una posizione tale da potere essere bypassata o sconfessata dal giudice di merito, divenendo essa stessa ‘controllata’ da quel giudice di merito che, soggetto anch’egli soltanto alla legge (art.101 Cost.), reputa, addirittura anche in sede di rinvio ed al cospetto del principio di diritto fissato dalla Corte (art.384 c.2 c.p.c.) di non doversi allo stesso conformare, magari attingendo alle giurisprudenze sovranazionali che a tanto sembrerebbero abilitarlo, per disapplicare la legge contrastante con il diritto UE[2] o per rivolgersi alla Corte di giustizia al fine di sollecitare un’interpretazione ‘contro’ il principio fissato dalla Cassazione in sede di rinvio. È, d’altra parte, noto che non vige il principio del precedente vincolante, sicché qualunque giudice di merito può motivatamente discostarsi dall’orientamento espresso dalla Carte di legittimità, contribuendo a quel dinamismo interpretativo ed a quei mutamenti giurisprudenziali che, purché frutto di consapevole e ragionato dissenso, costituiscono sempre e comunque linfa vitale del nostro sistema[3]
Dunque una Cassazione civile per certi versi vulnerabile e, per altri, vocata al dialogo[4] interno –“blindato” fra singole Sezioni e le Sezioni Unite per effetto dell’art.374 c.p.c. – ed esterno con la Corte costituzionale e la Corte di Giustizia – obbligata per come è al rinvio pregiudiziale ex art.267 TFUE in assenza dell’atto chiaro – e presto legittimata a richiedere pareri non vincolanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo – appena sarà reso esecutivo in Italia il Protocollo n.16 annesso alla CEDU, già operativo in dieci Paesi del Consiglio d’Europa –[5].
Il mutare delle coordinate rappresentato dall’avvento del diritto di matrice sovranazionale – diritto UE, CEDU, trattati internazionali che riconoscono diritti fondamentali, in relazione a quanto previsto dall’art.117, 1^ comma, Cost. – rende così viepiù evidente il cambio di prospettiva della funzione nomofilattica e, in definitiva la mutazione genetica della Corte di Cassazione, ormai "giuridicamente obbligata" a garantire – anche – l’uniforme interpretazione della legge come reinterpretata alla luce della CEDU e delle altre Carta dei diritti fondamentali.
In questa prospettiva abbiamo già proposto alcune riflessioni sui temi della metamorfosi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione e della c.d. nomofilachia europea alle quali qui è sufficiente rinviare[6].
Una Corte di legittimità, per altro verso, capace anche di essere contromaggioritaria quando fronteggia, con le sue poliedriche professionalità, le più spinose questioni biogiuridiche, sull’immigrazione e sulle persone, compone i contrasti fra i diversi sistemi normativi in materia commerciale e sanzionatoria, alimenta e aggiorna il sistema della responsabilità civile, tenta di governare il magmatico subcontinente del diritto tributario con gli enormi flussi di denaro che ivi scorrono – non paragonabili a nessun’altro contenzioso pendente innanzi al giudice di legittimità – e contribuisce a fissare periodicamente il catalogo dei diritti e dei doveri nel complesso e cangiante mondo del lavoro. Una Corte che, spesso, anticipa le linee della futura legislazione, essendo chiamata a risolvere casi non solo prima inesplorati, ma anche gravidi di sempre nuove istanze dei cittadini. Non è, dunque, un caso che l’ordinanza n.207/2018 della Corte costituzionale non manchi di sottolineare apertamente il processo di normativizzazione della giurisprudenza resa dalla Cassazione sul caso Englaro che ha condotto all’adozione della legge 22 dicembre 2017, n. 219.
Tutto ciò essa fa al servizio di plurime funzioni che ne atteggiano il tratto, al contempo, di giudice controllore rispetto al merito – ma non sempre, per quanto detto appena sopra – e giudice controllato rispetto alle altre giurisdizioni nazionali – Corte costituzionale – e sovranazionali – Corte europea dei diritti dell’uomo e, per con tratti diversi, ma non troppo, Corte di Giustizia dell’UE–[7].
Una Corte di Cassazione a Sezioni Unite che, ancora, può svegliarsi, una mattina, ed apprendere dal giudice costituzionale che essa ha errato nell’individuazione del concetto di giurisdizione dinamica tratteggiato, negli anni, per garantire la massima e piena tutela dei diritti, al punto da originare un’interpretazione della Costituzione contra constitutionem – Corte cost.n.6/2018 –.
A quella stessa Corte di legittimità può anche accadere di scoprire, improvvisamente, un innovativo indirizzo interpretativo della Corte costituzionale che, a distanza di dieci anni dalla piena vincolatività della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ha mostrato di non gradire la disapplicazione da parte del giudice comune – di merito e di legittimità – della norma interna contrastante con la Carta – in quanto sovrapponibile alla Costituzione– dovendosi prediligere il controllo accentrato della Corte costituzionale, piaccia o non piaccia alla Corte di giustizia, come sembra suggerire, in modo non tanto felpato, l’obiter – in attesa di ulteriori precisazioni – espresso da Corte cost.n.269/2017.
Una Corte di Cassazione che, dunque, fronteggia diverse criticità, alle quali si aggiungono quelle che la vedono come gradino ultimo, oltrepassato il quale si aprono, a favore di chi assume di avere subito un torto dall’istanza giudiziaria, le porte della giurisdizione di Strasburgo. Ciò che determinerà, in caso di condanna della Stato italiano per una violazione convenzionale, il compito di affrontare complessi problemi, chiamando la Corte di legittimità, in fase di ritorno, a verificare quali effetti potrebbero o dovrebbero prodursi in esito alla condanna pronunziata a Strasburgo sul giudicato nazionale ‘corrotto’, per effetto della pronunzia della Corte edu[8].
Ambiti vissuti per lunghi anni dalla stessa Corte con atteggiamenti a volte di indolenza e indifferenza, altre di più o meno manifestato svilimento delle istanze giurisdizionali sovranazionali, ritenute non adeguate a fronteggiare il diritto interno e la ‘grandezza’ della Corte di Cassazione e, altre ancora, con atteggiamenti di supina osservanza o ‘deificazione’ – secondo taluni – delle stesse istanze giudiziarie sovranazionali.
Non meno delicato il fronte aperto sul ruolo della Cassazione rispetto al tema dell’interpretazione del diritto.
Ancora, una Corte che, a volte, sembra supplire all’inerzia del legislatore richiamandosi al principialismo[9] ed alla duttilità strutturale dei suoi canoni, visti da taluni come attività di vera e propria usurpazione di poteri camuffata da interpretazioni ardite che mascherano vere e proprie attività di produzione legislativa e, da altri, come fulgida espressione di una giurisdizione dinamica, indirizzata ad un’opera di ‘creazione’ rivolta ad attuare in modo pieno la Costituzione e le Carte dei diritti internazionali con i diritti che lì vengono riconosciuti e protesa verso un ideale di massimizzazione delle tutele.
Insomma, una Corte di Cassazione vista, in questa prospettiva, come giudice “garante di diritti a protezione multilivello”[10] ed ultimo avamposto della giurisdizione interna, capace di assumersi le responsabilità che, per funzione, ad essa competono rispetto alla tutela dei diritti.
Una Corte di legittimità che, benché ciò sfugga spesso all’analisi corrente che si fa attorno alla giurisdizione di legittimità, come qualunque altro giudice, è chiamata a misurarsi con i temi dell’arretrato, dei flussi, della produttività, del poco gestibile numero di sentenze e del loro parimenti complesso modo di atteggiarsi quali ‘precedenti vincolanti’. Cassazione alla quale sono chiesti standard lavorativi costantemente in crescita che fanno impallidire – e forse inorridire – qualunque altra Corte suprema occidentale e che, è ormai comune opinione di molti, rendono meno autorevole il ruolo del giudice di ultima istanza – se si vuole continuare a chiamarlo così, pur con le precisazioni appena svolte – appannando la funzione nomofilattica stessa che ad esso appartiene.
2. Il volto della Cassazione visto dal giudice non di legittimità.
Queste dunque, elencate sicuramente per difetto e con una certa approssimazione, appaiono essere alcune delle peculiarità del mestiere del giudice di legittimità[11], per effetto delle quali chi vi opera, almeno i più coscienziosi, ha ormai perso completamente la velleità di sentirsi “organo supremo della giustizia” come pure ancora recita l’art.65 cit. invece maturando, progressivamente, un habitus di vero e proprio crocevia di pulsioni centrifughe e centripete assai difficili da gestire e controllare.
Vi è, almeno a mia personale opinione, un’idea sempre più diffusa, anche se a volte non esternata o altre volte ancora palesata in modo scomposto, che la Corte di Cassazione finisca spesso col porsi in stridente contrasto con chi opera quale giudice del merito compromettendone, a volte con superficialità, l’operato, mandando in fumo processi condotti con fatica e abnegazione, con decisioni ammantate di formalismo e poco persuasive. Un giudice, in definitiva, distante da chi si sporca le mani e maneggia le pulsioni che nel merito si vivono in presa diretta, in vivo, e non in vitro.
Tensioni che si sono materializzate, di recente, con la richiesta di modificare il sistema di accesso alla Corte proposta dai consiglieri di Area sulla base di un’indicazione contenuta nel programma presentato all’atto delle elezioni dei nuovi membri del CSM, quasi a volere individuare un diretto collegamento fra le qualità degli ultimi arrivati – a giudizio di taluni non adeguatamente ponderate o comunque frutto di meccanismi capaci di ipervalorizzare elementi (produzione scientifica, esperienze extragiudiziarie di vario tipo) a scapito di chi ha lavorato con fatica nella giurisdizione – e i risultati non sempre commendevoli espressi dal giudice di legittimità.
Un convincimento che, d’altra parte, sembra innervato dall’idea che l’attuale assetto del reclutamento, troppo incline al correntismo e malamente mascherato da istanze meritocratiche, finisca col favorire nell’accesso i giudici di primo grado, non invogliandoli affatto a svolgere un’esperienza in grado di appello per la quale non viene, ad oggi, riconosciuto alcun vantaggio – in termini di accesso alla Corte – e che invece, andrebbe considerata come fisiologicamente necessaria per svolgere al meglio le funzioni di legittimità – e perciò stesso in qualche modo premiata –, proprio per essere le Corti di appello il fisiologico interlocutore del giudice di ultima istanza.
3. Alla ricerca di una simbiosi fra giudici di merito e Corte di Cassazione
A mia opinione l’attivismo che ha caratterizzato il mondo giudiziario e la Corte di legittimità, sia pure in maniera zigzagante, nel corso degli ultimi anni, al netto di possibili esasperazioni che pure potranno esserci state, spesso dipese dal recepimento di input provenienti dalle Corti sovranazionali di Lussemburgo e Strasburgo e da innegabili vuoti normativi, ben lungi dall’essere espressione di arretramento culturale, contribuisce ad inverare le democrazie occidentali dei nostri tempi, al contempo individuando alcuni canoni fondativi imprescindibili, per l’appunto rappresentati dal rispetto della dignità umana, nella sua proteiforme dimensione, e dei diritti fondamentali della persona. Un percorso che non solo non può essere interrotto, ma che deve essere continuamente implementato ed arricchito.
Come che sia, si fa in ogni caso strada la consapevolezza che l’idea del giudice nazionale di vertice come portatore e dispensatore di “certezze cristallizzate” risulta inadeguata.
Si delinea infatti, con tratti marcati, un’immagine della giurisdizione nazionale di ultima istanza costantemente in progress proprio perché chiamata, fuori da una dimensione museale, a misurarsi e prim’ancora a dialogare, in un ciclo continuo e mai conchiuso, con le altre Corti – nazionali e sovranazionali-[12], contribuendo ad un’evoluzione sempre più incessante dei diritti, i quali tendono costantemente e continuamente a favorire nuove forme di bilanciamento fra diritto vigente e diritto vivente.
Facile, a questo punto, fermarsi alla critica che intravede in questa Corte una fucina di incertezze, a fronte del perseguimento della certezza del diritto classicamente intesa.
Ma altrettanto agevole è rispondere ad essa riflettendo sul fatto che la certezza, se calibrata sull’appiattimento del diritto visto in dimensione formalistica e statica, finisce con l’essere certezza del nulla, come ha finemente riconosciuto Lipari[13].
Ora, non è qui il caso di fermarsi sui singoli problemi, né sul nodo del reclutamento in Corte – rispetto al quale non mi riconosco affatto, per quel nulla che vale e per ragioni che qui non occorre esporre, nell’idea di attribuire un punteggio aggiuntivo a chi ha esercitato funzioni di appello, semmai ritenendo che la valorizzazione ed il rafforzamento della Commissione tecnica potrebbe essere l’unico antidoto alle carriere comandate –.
Preme, invece, sottolineare che quelle tensioni, quelle pulsioni, quelle contraddizioni, quei nodi irrisolti che si è cercato di rappresentate qui sinteticamente altro non sono – recte, devono essere – che le ansie di qualunque giudice, di merito o di legittimità.
Un giudice che, per dirla ancora con Lipari, dovrebbe essere sempre e comunque animato da un sentire che si tinteggia con espressioni che egli usa come trincea, coraggio, paura, complesso, delicato.
Si tratta di uno scenario rispetto al quale il giudice – soprattutto di merito –, si trova per l’un verso tutto a contatto con i fatti che, nella loro innata diversità e nella loro carnalità – per usare un’espressione cara a Paolo Grossi[14]– vengono portati al suo cospetto e, per l’altro, viene chiamato a maneggiare Costituzioni, Carte sovranazionali, pronunzie delle Corti (nazionali e non), fonti, giuridiche e non – soft law –.
Stento, quindi, a trovare su questi temi delle diversità di sostanza fra la posizione del giudice, sia esso di legittimità o di merito.
Entrambi sono quotidianamente posti di fronte a numerosi interrogativi. Farsi interprete rigoroso della lettera della legge senza tralasciare l’intenzione del legislatore e dunque muoversi negli angusti spazi dell’art.12 delle preleggi ovvero ricercare il senso complessivo che dalla stessa disposizione promana? Dare prioritario ed assoluto respiro, nell’interpretazione della legge, al canone costituzionale che tutto sovrasta ovvero modularne il significato alla luce delle spinte provenienti dalle Corti sovranazionali e/o dalle Corti straniere che in esso si posizionano giocando alla pari con la Costituzione? Essere artefice e difensore di una legalità legale o garante di una legalità giusta o giudiziale[15] e, per ciò stesso, orientata alla piena tutela dei diritti fondamentali anche quando in apparenza il legislatore è silente o, peggio legifera travolgendo i diritti magari delle persone più vulnerabili? Parametrare, fuori dalle lusinghe offerte dall’essere arbitro di una controversia destinata a produrre ripercussioni che vanno ben oltre la specificità del caso, la tutela a quel livello che la maggioranza del corpo sociale avverte comunemente come giusta o comunque identitaria, ovvero garantire, comunque e sempre, protezione ad una minoranza portatrice di diritti ancora non uniformemente riconosciuti, ma non per questo non meritevoli di protezione e, anzi, per questo stesso motivo bisognosi di quelle tutele rafforzate che meritano i più vulnerabili? Accostarsi, ancora, ad un esercizio della giurisdizione che riporti i principi – siano essi di matrice costituzionale e sovranazionale – nel campo dei comandi espressi dalla legge ovvero porre l’asticella sulla valenza generale del principio, capace per la sua naturale elasticità di porre sotto il suo ombrello ipotesi che non risultano magari espressamente contemplate dal quadro giuridico espresso dal legislatore?
Sfido qualunque giudice preparato ed intellettualmente onesto a mettere in discussione l’idea che i temi testé enunciati si pongano soltanto per i consiglieri della Corte di legittimità e non per i giudici di merito.
Si tratta, del resto, di nodi problematici sui quali le opinioni e le prospettive sono fortemente contrastanti anche all’interno della giurisdizione[16] e che alimentano, pertanto, modi di esercitare le funzioni giudiziarie profondamente diversi, tanto nel merito che in sede di legittimità.
A mia opinione, allora, non è tanto importante dare o trovare una soluzione fissa e preconfezionata alle questioni, quanto favorire l’idea che tutti i giudici, in tutte le loro articolazioni, partecipino attivamente, senza scale gerarchiche e senza gradini, ad un’idea di giurisdizione al servizio dei diritti, rispetto alla quale è vitale recuperare un’unità di intenti fra merito e legittimità, favorendo le occasioni di reciproca conoscenza e confronto, alimentando le occasioni di formazione comune, allentando le tensioni che un deficit di conoscenza delle dinamiche interne alla Corte può in qualche modo favorire, ponendo, infine, a beneficio di tutti i giudici strumenti di conoscenza e iniziative che possano andare a beneficio dell’intera giurisdizione.
Cosa, però, può davvero minare la prospettiva che si è qui accennata.
A mio giudizio si tratta di due fattori, incidenti tanto sulla giurisdizione di legittimità che su quella di merito.
Per un verso, la produzione elefantiaca della giurisprudenza di legittimità reca inevitabilmente un decadimento delle motivazioni del giudice di legittimità, minandone la credibilità.
In dottrina, Davide Galliani ha di recente iniziato una riflessione approfondita sul ruolo della motivazione che si attaglia in modo particolare alla figura del giudice di legittimità[17]. Analisi approfondita e complessa che, condivisibile o meno che sia, coglie la crisi in cui versa il principale strumento operativo nelle mani del giudice e, dunque, l’aspetto più qualificante della sua funzione sulla quale, come piace dire ai più colti, si costruisce tanto lo ius litigatoris ma anche lo ius constitutionis. Di guisa che la necessità di motivazioni adeguate alla causa trattata non è esigenza che riguarda tanto e solo il giudice di legittimità, ma a, monte, l’intero sistema giudiziario, potendosi agevolmente preconizzare che ad una crescente richiesta di maggiore produttività non potrà che seguire uno scadimento ulteriore del prodotto e dunque della giustizia.
Per altro verso, il peso del contenzioso ed i numeri che spesso aggravano i giudici di merito costituiscono la migliore giustificazione per ritenere che quello della Cassazione sia, spesso, un ‘volare alto’ che poco consideri, appunto, il lavoro sporco e quotidiano del giudice di merito e, a volte, l’impossibilità oggettiva, in relazione al fattore tempo, di misurarsi, magari pur volendolo, con ciò che si avverte essere mera speculazione astratta, sulla quale prevale il peso delle carte, dei ruoli, dei capi che stringono sui tempi di deposito, che assillano con il pericolo dei ritardi e dei conseguenti procedimenti disciplinari e della incombente Legge Pinto.
Insomma, un pensare alto che allontana quasi ineluttabilmente il merito dalla legittimità e si scontra con una realtà bassa, nella quale il bilanciamento che ciascuno deve operare, per tentare almeno la sopravvivenza, tende ad orientarsi verso l’esercizio di una giurisdizione meno cervellotica e più celere, senza porsi grandi problemi.
Sono convinto che i capi degli Uffici – e non solo quelli che operano nella giurisdizione di merito – hanno spesso dovuto prediligere una logica diversa da quella che qui si è prefigurata alimentando, magari sulla spinta di pressioni provenienti da diversi ambienti, una ‘cultura’ che non è in sintonia con quanto si è qui provato a rappresentare.
Sarebbe dunque illusorio pensare che il “volare alto” della Corte di Cassazione, nel senso in verità problematico che si è qui cercato di rappresentare, possa o debba rimanere nel compartimento stagno di quel giudice che, per posizione, è chiamato a controllare l’operato del giudice di merito ed a fornire la risposta (quasi) definitiva al processo.
Potrebbe dunque essere utile e fecondo ispirarsi ad un’idea di giurisdizione capace di favorire il massimo travaso di esperienze tra merito e legittimità, muovendo da dinamiche scevre da logiche di sovraordinazione ed invece orientate ad affermare, all’interno di una comune cultura dei diritti fondamentali, la centralità della persona, cittadino e non e con essa, della funzione giudiziaria per la democrazia del Paese.
In questa prospettiva, la creazione di più stringenti canali di collegamento fra legittimità e merito, magari valorizzando al meglio le strutture che in atto già esistono in Corte, come anche il travaso diretto delle esperienze lavorative, realizzato anche attraverso i meccanismi già previsti a livello ordinamentale – ricorso nell’interesse della legge del Procuratore generale, affermazione del principio di diritto nei ricorsi inammissibili (art.373 c.p.c.) – potrebbero favorire quella “contaminazione tra i gradi della giurisdizione” di cui ha parlato, con la sua consueta profondità e finezza, Guido Cataldi poco tempo addietro[18], tutta indirizzata ad allontanare da sé il vizio peggiore del giurista, la pigrizia[19].
Ciò consentirebbe di fare conoscere più in profondità le dinamiche del lavoro del consigliere di Corte e di fare emergere meglio le criticità evidenziate dai giudici di merito rispetto alle decisioni della Cassazione[20] o anche l’autoreferenzialità che viene avvertita come dato non rispondente a ciò che serve al giudice di merito[21], così venendo incontro all’esigenza del merito di avere fissati dei punti saldi da parte del giudice di legittimità in materie particolarmente delicate[22] e, al contempo, allentare il peso dell’arretrato.
Una Corte, quella di Cassazione, che non va, in definitiva, in cerca di salvacondotti ma alla quale, nemmeno, può essere negato il ruolo – che essa non intende in alcun modo abdicare – di crocevia del diritto nazionale e sovranazionale, giocato in modo relazionale con le altre giurisdizioni superiori e purché essa riesca a mettersi al servizio dei suoi destinatari e dell’intera giurisdizione nazionale in modo efficace e lineare, pur nella complessità dei tempi moderni.
[1] P. Grossi, L’invenzione del diritto, Bari-Roma 2017, 82 e 115.
[2] V. Corte Giust. 5 ottobre 2010, causa C–173/09, Elchinov, secondo la quale il diritto dell’Unione osta a che un organo giurisdizionale nazionale, al quale spetti decidere a seguito di un rinvio ad esso fatto da un organo giurisdizionale di grado superiore adito in sede d’impugnazione, sia vincolato, conformemente al diritto nazionale di procedura, da valutazioni formulate in diritto dall’istanza superiore qualora esso ritenga, alla luce dell’interpretazione da esso richiesta alla Corte, che dette valutazioni non siano conformi al diritto dell’Unione. In altre parole, secondo la Corte di Lussemburgo, il giudice nazionale che abbia esercitato la facoltà ad esso attribuita dall’art. 267, secondo comma, TFUE è vincolato, ai fini della soluzione della controversia principale, dall’interpretazione delle disposizioni in questione fornita dalla Corte e deve eventualmente discostarsi dalle valutazioni dell’organo giurisdizionale di grado superiore qualora esso ritenga, in considerazione di detta interpretazione, che queste ultime non siano conformi al diritto dell’Unione, potendo all’occorrenza disapplicare, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale. V. altresì, Corte giust. 15 gennaio 2013, causa C–416/10, Križan, ove si è addirittura ritenuto che il giudice del rinvio al quale sia stato rimessa dal giudice di ultima istanza la decisione sulla base di un principio di diritto confliggente con il diritto UE, non è vincolato a detto principio, ma è a sua volta legittimato a prospettare un nuovo rinvio pregiudiziale per avere l’interpretazione del diritto UE sul quale esistono sei dubbi.
[3] Cfr. R. Conti, Il mutamento del ruolo della Corte di cassazione fra unità della giurisdizione e unità delle interpretazioni, in http://www.giurcost.org/studi/conti5.pdf.
[4] V., sulla centralità del dialogo per il giudice federale americano, ma in una prospettiva che non è molto diversa da quella del giudice di ultima istanza nazionale, G. Calabresi, Il mestiere di giudice. Pensieri di un accademico americano, Bologna 2014, 66 e ss. Anche l’ordinanza n.207/2018 della Corte costituzionale, appena pubblicata, sulla vicenda “Cappato” è sintomatica di quanto le Corti superiori tendano quasi naturalmente a favorire soluzioni che presuppongono un dialogo con il legislatore o le altre Corti. Dialogo cercato addirittura forzando prassi secolari ed attingendo ad esperienze oltreoceaniche pur se proprie di sistemi giuridici che la tradizione giuridica colloca in ambiti diversi da quelli nostrani.
[5] V., ancora, R. Conti, La richiesta di “parere consultivo” alla Corte europea delle Alte Corti introdotto dal Protocollo n. 16 annesso alla CEDU e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE. Prove d’orchestra per una nomofilachia europea, in http://www.giurcost.org/studi/conti2.pdf.
[6] V., volendo, R. Conti R., Il rinvio pregiudiziale alla Corte UE: risorsa, problema e principio fondamentale di cooperazione al servizio di una nomofilachia europea, Relazione al Convegno sul tema "Le questioni ancora aperte nei rapporti tra le Corti Supreme Nazionali e le Corti di Strasburgo e di Lussemburgo" – 23 e 29 ottobre 2014–, organizzato presso la Corte di Cassazione dalle Strutture territoriali di formazione decentrata della Corte di Cassazione e della Corte d’Appello di Roma, in www.cortedicassazione.it.; Id., La giurisdizione del giudice ordinario e il diritto Ue, in www.questionegiustizia.com.; A. Barone, The european « nomofilachia » network, in Riv. It. Dir. Pubb. Com., fasc.2, 2013, pag. 351.
[7] I tratti, a volte accidentati, di questo cammino della Corte di Cassazione sono stati esteriorizzati in maniera brillante da A. Cosentino, Il dialogo fra le Corti e le sorti (sembra non magnifiche, né progressive) dell’integrazione europea; in www.questionegiustizia.com.
[8] Questione, quella accennata nel testo, che evoca il tema, diverso rispetto alla c.d. efficacia di cosa giudicata della sentenza di Strasburgo, teso a comprendere in che misura un precedente della Corte edu possa determinare un revirement rispetto a precedenti indirizzi interpretativi interni – c.d. efficacia di cosa interpretata delle sentenze della Corte edu –.
[9] Sui tormentati rapporti fra giudice e legislatore v., per tutti, R. Rordorf, Giudizio di cassazione. Nomofilachia e motivazione, in Libro dell’anno del diritto 2012, spec. par.2.1, in www.treccani.it. e in più scritti, A. Ruggeri, «Non gli è lecito separarmi da ciò che è mio»: riflessioni sulla maternità surrogata alla luce della rivendicazione di Antigone, in “itinerari” di una ricerca, sul sistema delle fonti, XXI, Torino 2018, 101 ss.
V., volendo, R. Conti, Leggendo l’ultimo Lipari, in www.questionegiustizia.com
[10] M. G. Luccioli, I miei cinquant’anni in magistratura, Udine 2016,139.
[11] Per un’analisi approfondita del ruolo del giudice di legittimità, v., di recente, L. Tria, La funzione di nomofilachia della Corte di cassazione alla luce dei principi del giusto processo di derivazione europea nonché del principio costituzionale di razionalità-equità, in www.europeanrights.eu. V., altresì, A. Valitutti, Il valore vincolante del precedente di legittimità. La Corte di Cassazione tra nomofilachia e nomopoietica, in http://www.lanuovaproceduracivile.com/valitutti-il-valore-vincolante-del-precedente-di-legittimita-la-corte-di-cassazione-tra-nomofilachia-e-nomopoietica/
[12] La nostra Corte di Cassazione è stata la seconda in Europa a stilare un protocollo di dialogo con la Corte edu che si è rivelato assai fruttuoso, coinvolgendo tutte le sezioni, civili e penali, all’interno del Gruppo di attuazione appositamente creato per favorire sia la diffusione della giurisprudenza sovranazionale, che la conoscenza delle tecniche di decisione della Corte edu e delle pronunzie interne che alla stessa fanno riferimento. V., sul punto, A. Di Stasi, Corte di Cassazione e Corti europee, in I processi civili in Cassazione, a cura di A. Didone e F. De Santis, Milano 2018, 248 ss.
[13] N. Lipari, Il diritto civile tra legge e giudizio, cit., 184.
[14] P. Grossi, Il diritto civile italiano alle soglie del terzo millennio(una pos–fazione), in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 2010, 473; id., Un impegno per il giurista di oggi: ripensare le fonti del diritto, Napoli, 2007, p.73.
[15] V., in modo più ampio su tale dicotomia (apparente), A. Ruggeri, Rapporti interordinamentali e conflitti tra identità costituzionali (traendo spunto dal caso Taricco), in www.penalecontemporaneo.it, 14. Per un ulteriore completamento delle riflessioni espresse nel testo sia consentito il rinvio a R. Conti, Alla ricerca degli anelli di una catena, in http://www.dirittoequestionipubbliche.org/page/2015n15–1/0000DQsommario.pdf
[16] E che sul tema vi siano diversità di vedute marcate anche nel mondo giudiziario pare dimostrato dall’esistenza di voci fortemente dissonanti sui temi qui in discussione. V., ad es., G. Cricenti, I giudici e la bioetica. Casi e questioni, 16 ss. che si colloca lontano dal principialismo, come anche L. Cavallaro, La memoria e il desiderio, in www.questionegiustizia.it. e, dello stesso Autore, Il diritto civile tra legge e giudizio. Note in margine a un libro di Nicolò Lipari, in www.giustiziaonline.com, 30 aprile 2018. Invece, favorevoli ad una visione più aperta del diritto mediante operazioni di bilanciamento che coinvolgono i diritti fondamentali e della loro influenza sul processo di interpretazione E. Scoditti, Scoprire o creare il diritto? A proposito di un recente libro, in www.questionegiustizia.com, e M. Fresa, I diritti civili e i doveri del giudice, 3 settembre 2014, La Repubblica.
[17] D. Galliani, Il senso dell’obbligo costituzionale di motivazione, anche rinforzata, nel paper gentilmente concesso in visione dall’Autore, in corso di pubblicazione.
[18] G. Cataldi, Ruolo e funzione della Corte di cassazione: il punto di vista del giudice d’appello, in www.questionegiustizia.com, f.n.3/2017.
[19] P. Grossi, L’invenzione del diritto, cit., 103.
[20] L. de Ruggiero, Cosa si aspettano i giudici di merito dalla Cassazione: i “precedenti” e il controllo della motivazione, in www.questionegiustizia.com, f.n.3/2017.
[21]B. Rizzardi, Il giudice di merito e la Corte di cassazione: alla ricerca della nomofilachia perduta, in www.questionegiustizia.com., f.n.3/2017.
[22] Sulla solitudine del giudice di merito in relazione a materie sensibili insiste, opportunamente, M. G. Luccioli, I miei cinquant’anni in magistratura, cit., 67.
«Arrestare il cambiamento politico non costituisce un rimedio e non può portare la felicità. Noi non possiamo mai più tornare alla presunta ingenuità e bellezza della società chiusa. Il nostro sogno del cielo non può essere realizzato sulla terra...» (K. R. Popper, La società aperta ed i suoi nemici, 1945)
La società aperta ed il diritto penale del popolo: il tema cruciale delle intercettazioni tra sicurezza sociale e libertà individuale di Cataldo Intrieri
Sommario: 1.Introduzione. 2.L’evoluzione scientifica e le incerte regole di legge. 3.L’agente provocatore e le conversazioni tra presenti: l’evoluzione del concetto di privata dimora secondo la giurisprudenza delle Corti.
1. Introduzione.
La vicenda della riforma Orlando sulle intercettazioni è emblematica dello stato di confusione in cui versa il settore Giustizia, tra ritardi, improvvisazioni e strumentalizzazioni politiche ma è anche il terreno si cui si misurerà la tenuta democratica del sistema giudiziario e politico.
La situazione attuale è divenuta particolarmente complessa e merita qualche riflessione non solo di natuta tecnica per contribuire ad una maggiore chiarezza.
Partendo dall’analisi della situaziona attuale, ome noto, con il decreto “mille-proroghe” 2018 è stata ottimisticamente rinviata al 31 marzo 2019 l’entrata in vigore della più discussa delle riforme delle intercettazioni.
Una morte annunciata perché mai in passato vi era stata una cosi completa e condivisa disapprovazione da tutte le parti in causa, dai giornalisti, agli avvocati, agli studiosi , ai magistrati.
In particolare (e come noto), il punto dolente (non unico) della riforma voluta dal Guardasigilli Orlando concerneva la gestione delle intercettazioni, dalla selezione di quelle rilevanti alla custodia ed alla pubblicazione.
I motivi di tale diffusa avversione erano distinti: per i giornalisti, ad esempio la preoccupazione maggiore derivava dalla riduzione del materiale da cui poter trarre notizie, per gli avvocati l’impossibilità materiale di poter orientarsi nella sterminata quantità di captazioni, per i Pm la delega in bianco alla polizia giudiziaria sulla selezione delle intercettazioni rilevanti, ma mai bocciatura fu più unanime.
Non sfuggiva a nessuno infatti il pericoloso sbilanciamento che la riformulazione dell’art. 268 c.p.p. avrebbe comportato spostando sugli organi investigativi di polizia la leva di comando dell’indagine.
Ovviamente si fa riferimento ad indagini complesse ed estese, che ormai secondo una prassi consolidata vedono il ruolo di sofisticate agenzie investigative di rilievo pari a quello degli organi giudiziari, se non, in alcuni casi preponderante. Si pensi ad esempio a quale possa essere il reale grado di autonomia nei procedimenti ad a istruiti presso procure medio-piccole dove il ricorso ai reparti specializzati è una necessità.
Più in generale l’esperienza insegna che i reparti investigativi nel corso degli anni hanno guadagnato un grande spazio di manovra nel corpo dell’indagine, quasi fatalmente verrebbe da dire perché le tecniche sempre più sofisticate delle intercettazioni richiedono competenze sempre più avanzate e specialistiche.
Dal punto di vista dei difensori l’evidente squilibrio di una non meditata (o forse fin troppo?) riforma si risolveva in un duplice danno: alla mancanza di un adeguato controllo dell’Autorità Giudiziaria su di una pervasiva indagine si aggiungeva la sostanziale impossibilità di sopperirvi con una effettiva completa conoscenza del materiale intercettato.
Secondo l’articolato, infatti, al difensore venivano concessi un massimo di venti giorni per ascoltare le captazioni, senza neanche avere la mappa dei brogliacci riassuntivi che lo potessero indirizzare in un oceano vocale sovente sterminato (i soli riassunti delle conversazioni di Mafia Capitale riempivano un file di circa 70 Giga).
In questa situazione già alterata veniva a porsi la decisione del legislatore per cui la polizia giudiziaria delegata all’ascolto non avrebbe avuto neanche più l’obbligo di annotare in modo riassuntivo le singole telefonate.
In buona sostanza veniva a crearsi una sorta di riserva probatoria privilegiata in favore di un soggetto che non riveste la qualità di parte, in danno dei titolari dei diritti processuali.
Lo scopo professato dal Legislatore era quello di porre fine all’immotivato pregiudizio del diritto alla riservatezza, un principio costituzionale e convenzionale, derivante dalla illegittima diffusione delle intercettazioni private (peraltro già vietata dall’art.114 c.p.p.).
Resta da chiedersi, ed in tal senso erano già stati preannunciati possibili incidenti di costituzionalità se il contemperamento del diritto di difesa e della riservatezza fosse sufficientemente equilibrato.
Per dirla con una autorevole fonte, «ci sono almeno quattro interessi costituzionalmente garantiti che devono essere messi in equilibrio. Primo: quello dello Stato di perseguire il reato. Secondo: il diritto di difesa. Terzo: il diritto di informazione e la libertà di critica. Quarto: quello alla privacy» (Dott. G. Pignatone Procuratore Capo della Repubblica del Tribunale di Roma).
A ben comprendere l’entità dei diritti in gioco ed i rischi gravissimi che alcuni di essi avrebbero corso (e correranno) vi è il pensiero del nuovo Ministro di Giustizia succeduto a proponente la legge che ha provveduto a differirne (al 31 Marzo 2019) e presumibilmente bloccarne definitivamente l’entrata in vigore.
Secondo Bonafede la riforma delle intercettazioni sarebbe stata una “legge bavaglio” per coprire scandali politici. Dalla natura dei contrasti è agevole desumere la strumentalizzazione del tema fatta dai diversi settori politici in funzione dei propri interessi e non per quelli dei cittadini.
Eppure va detto che una riforma sia pure “in house” era stata tentata da alcune Procure con l’emanazione di circolari finalizzate ad un attento controllo sulla effettiva rilevanza delle captazioni affidate però all’Autorità Giudiziaria e dunque con maggiori garanzie.
Va detto che anche nei modelli poi diffusi (oltre Roma, anche Napoli e Torino) permanevano gli stessi problemi e discrasie poi criticati dalla stessa magistratura nel progetto Orlando.
Un acuto osservatore della realtà giudiziaria ha efficacemente sintetizzato le varie caratteristiche.
«Sulle intercettazioni non rilevanti per le indagini, infatti, le circolari di Napoli e Roma contengono una precisa direttiva alla polizia giudiziaria, la quale non dovrà inserirle nei verbali delle operazioni (i cd. brogliacci) né nelle annotazioni di polizia giudiziaria. In caso di dubbio in merito alla rilevanza la polizia giudiziaria dovrà riferirne, con nota autonoma, al pubblico ministero, che darà disposizioni al riguardo. La circolare di Torino non contiene, invece, direttive per la polizia giudiziaria, e prevede che le intercettazioni ritenute non rilevanti per le indagini (e lesive della privacy) siano distrutte, su iniziativa del pubblico ministero, con la procedura di cui all’art. 269 c.p.p.. La prima soluzione, intervenendo, per così dire, a monte, ha il pregio di evitare che il contenuto di conversazioni non rilevanti per il processo sia inserito negli atti del procedimento e quindi riduce maggiormente il rischio di una loro diffusione. Ma paga il prezzo (in parte sempre inevitabile in questo campo) di affidare la selezione del materiale non rilevante alla polizia giudiziaria, con il rischio di pregiudicare la acquisizione di conversazioni utili alle indagini (o che si rivelino tali ex post). La soluzione torinese, al contrario, ha il pregio di garantire un maggiore controllo dell’ufficio di procura sul contenuto delle intercettazioni, ma paga il prezzo, oltre che di una procedura un po’ macchinosa, di non evitare l’inserimento nei brogliacci e nelle annotazioni di materiale non rilevante e potenzialmente lesivo della privacy» (G. Cascini ).
Esaminando le proposte si può ben vedere che esse erano state recepite, nelle linee essenziali nel disegno Orlando, ivi compresa la “delega” alla polizia giudiziaria sulla scelta delle intercettazioni.
Restava, invero, irrisolto il problema del divieto ai difensori di poter estrarre copia di tutti i file audio e non solo di quelli di cui si chiedeva la registrazione un’impostazione avallata da sentenze della Suprema Corte
« Ai difensori è riconosciuto il diritto di ottenere copia non di tutte le registrazioni, ma solo di quelle ritenute rilevanti per il giudizio e, in quanto tali, de/imitative del campo di confronto tra accusa e difesa. Questa speciale disciplina del subprocedimento ex art. 268 c.p.p. è fìnalizzata alla realizzazione del condivisibile equilibrio tra esigenze conoscitive della difesa, doverosamente informata dell'evoluzione del quadro indiziario, ed esigenze delle persone estranee alle indagini, che - coinvolte in conversazioni irrilevanti ai fini del decidere - doverosamente sono tutelate nel loro diritto alla riservatezza. Appare del tutto razionale affermare che questo contemperamento tra diritti fondamentali del nostro ordinamento, realizzato con la procedura in esame, non possa essere vanificato e svuotato di concreta vigenza, grazie al riconoscimento di una indiscriminata facoltà - concessa ai difensori, dopo gli adempimenti ex art. 415 bis c.p.p. - di ottenere copia integra/e di tutte le registrazioni.” (Cass., Sez. V pen., n. 4976 del 2010)
E’ del tutto evidente, però, il profondo ed immotivato disequilibrio che si è venuto a creare ( e che la novella differita ulteriormente aggrava) tra i poteri dell’accusa e le ridotte prerogative della difesa.
In una delle indagini più importanti degli ultimi anni resterà emblematica l’immagine di una conferenza stampa in cui il procuratore della repubblica legge alcune intercettazioni estremamente suggestive scelte fior da fiore, mentre alla difesa è stato negato di poter estrarre copie di centinaia di migliaia di registrazioni, costringendo i difensori ad accalcarsi nelle poche postazioni disponibili in angusti uffici della Procura. La stessa disagevole situazione si sarebbe riprodotta su scala più larga ove fosse passata la riforma Orlando.
A tale incongrua situazione si sarebbe aggiunta una radicata prassi ormai codificata dalla giurisprudenza che consente di potere disporre la perizia sulle intercettazioni a processo iniziato. È capitato nella realtà processuale di assistere ad una istruttoria dibattimentale svolta sulla lettura dei brogliacci della polizia giudiziaria in attesa dei verbali certificati dai periti.
Tempo verrà (ma è già in parte successo) che la perfezione di impianti di captazione sempre più sofisticati renderà sufficiente il semplice deposito delle intercettazioni facendo carico alle parti di richiedere eventualmente l’ascolto diretto in aula di quelle di cui riterranno insoddisfacente la trascrizione effettuata dalla polizia giudiziaria.
Un simile quadro da solo cristallizza la sproporzione di mezzi e di possibilità tra le parti e pone un preciso interrogativo in cui si cercherà di dare risposta in questo scritto: se tale diseguglianza non finisca di incidere non solo sulla equità del processo inteso come simmetria di posizioni tra le parti ma anche in relazione alla funzione di corretto accertamento della verità.
La bulimia probatoria rischia di ingozzare il dibattimento di materiale non sempre di prima qualità ma in eccesso con il rischio di una seria intossicazione e che come per la nota legge monetaria “la prova cattiva scaccia quella buona”.
2. L’evoluzione scientifica e le incerte regole di legge.
Il progresso scientifico costituisce una spinta evolutiva verso il miglioramento della condizione umana ma il cattivo e non correttamente regolamentato uso che si faccia di esso può costituire un serio pericolo. L’uomo oggi vive infinitamente meglio dei suoi avi, più a lungo, in condizioni di salute migliori, usufruendo di cure mediche avanzate e di alimentazione adeguata.
E’ però altrettanto innegabile che la scienza ha portato con sé aspetti assai meno positivi tra cui assume una particolare importanza l’inquinamento ambientale causato dalle esalazioni delle industrie che producono ciò che aiuta l’uomo a vivere meglio e più a lungo.
La nascita e lo sviluppo del web è stata la novità più rilevante dell’ultimo ventennio, esso ha permesso all’uomo di poter accedere ad un numero illimitato di contatti e di conoscenze tecniche ed umane.
Tuttavia e contrariamente a quanto ci si aspettasse la qualità della cultura non è migliorata, perché la quantità di informazioni ha sommerso gli utenti giungendo al paradossale effetto di impedire la distinzione tra buona e cattiva informazione.
Un fenomeno simile ha riguardato l’evoluzione delle tecniche scientifiche nel campo delle intercettazioni d cui una efficace descrizione si deve alle S.U. della Cassazione.
«La rivoluzione che ha trasformato la telefonia nel recente passato ha segnato, in estrema sintesi, il progressivo passaggio dalla trasmissione di segnali in maniera analogica a quella in forma digitale, trasformando il servizio telefonico in un sistema informatico o telematico. Di conseguenza è stato fatto progressivamente ricorso alla utilizzazione di sistemi di registrazione digitale computerizzata che hanno sostituito gli apparati meccanici. In definitiva si è assistito ad una profonda trasformazione della realtà presupposta dal legislatore del 1988. Da qualche anno infatti per la registrazione vengono utilizzati apparati multilinea (collegati ad un flusso di linee telefoniche) che registrano dati trasmessi in forma digitale e successivamente decodificati in file vocali immagazzinati in memorie informatiche centralizzate. I dati cosi memorizzati vengono poi di regola trasferiti su supporti informatici per renderli fruibili all'interno dei singoli procedimenti» (Cass., S.U., 23 settembre 2008, ud. 26.6.2008, n. 36359).
In soli dieci anni il progresso ha ulteriormente accelerato consentendo la “ripresa diretta” della vita delle persone sull’arco di 24 ore. Spostamenti, attività, incontri, l’intimità personale, tutto è monitorato e contro questa invasività non vi è difesa.
Il sistema più sofisticato ed avanzato è costituito dai cosiddetti “virus spia”meglio conosciuti come “Trojan”, strumenti che possono svolgere la loro attività di captazione dentro gli apparati di comunicazione Smartphone ed ogni tipo di device elettronico anche quando gli stessi sono fuori uso.
In sostanza la sorveglianza è illimitata senza confini di tempo e di luogo, e come detto efficacemente consentono «più che un potenziamento, un recupero dell’efficacia perduta o compromessa delle tecniche tradizionali» (Relazione alla Cass., S.U. della Procura Generale Cassazione-sentenza 28 Aprile 2016 n.26889).
Certamente i Trojan sono uno strumento di avanzata tecnologia ma anche estremamente invasivo «un congegno bulimico che permette di gestire, in un centro remoto di comando e controllo, la captazione – spegnendo e accedendo, all’occorrenza, microfono e webcam – e, dunque, di carpire immagini e suoni prelevandoli dal dispositivo bersaglio» (L. Palmieri, La nuova disciplina del captatore informatico tra esigenze investigative e salvaguardia dei diritti fondamentali Dalla sentenza “Scurato” alla riforma sulle intercettazioni, su DPC -Diritto Penale Contemporaneo, Rivista Trimestrale n. 1/18, pp. 59-66).
L’enorme potenzialità e l’estrema invasività di tali mezzi hanno suscitato come da attendersi un vivace dibattito sulla regolamentazione dell’uso dei captatori, soprattutto con riferimento al possibile impiego nei luoghi di privata dimora, oltre i limiti posti dal 2 comma dell’art. 266 c.p.p. con riferimento alle eccezioni poste dall’art.13 d.lgs. n. 152/91.
L’interprete delle Leggi, come spesso è capitato ha preceduto il pigro ed incerto legislatore affermando tre punti cruciali:
– «deve escludersi la possibilità di compiere intercettazioni nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p., con il mezzo indicato in precedenza, al di fuori della disciplina derogatoria per la criminalità organizzata di cui all’art. 13 d.l. n. 152 del 1991, convertito in legge n. 203 del 1991, non potendosi prevedere, all’atto dell’autorizzazione, i luoghi di privata dimora nei quali il dispositivo elettronico verrà introdotto, con conseguente impossibilità di effettuare un adeguato controllo circa l’effettivo rispetto del presupposto, previsto dall’art. 266, comma 2, c.p.p., che in detto luogo «si stia svolgendo l’attività criminosa»;
– «è invece consentita la captazione nei luoghi di privata dimora ex art. 614 c.p., pure se non singolarmente individuati e se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa, per i procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata, anche terroristica, secondo la previsione dell’art. 13 d.l. n. 152 del 1991»;
– «per procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata devono intendersi quelli elencati nell’art. 51, commi 3bis e 3quater, c.p.p. nonché quelli comunque facenti capo a un’associazione per delinquere, con esclusione del mero concorso di persone nel reato». (Cass., S.U., 28 aprile 2016, n. 26889).
Echeggiano nella sentenza non condivisibili richiami a quella “giurisprudenza di scopo” che la Corte Costituzionale pone all’indice nell’ordinanza n. 24/17 come totalmente estranea al ruolo della Giurisdizione, ma va posto l’accento sul fatto che la Cassazione non trascura la tutela dei diritti della persona con un “obiter” significativo proprio alla luce del mancato varo della riforma Orlando.
“Per quel che riguarda l'eventualità che lo strumento captativo in argomento possa produrre, in casi estremi, esiti lesivi della dignità umana, va osservato - come opportunamente prospettato dai rappresentanti della Procura Generale nella memoria in atti - che si tratta di un pericolo che ben può essere neutralizzato con gli strumenti di cui dispone l'ordinamento; ad esempio «facendo discendere dal principio personalistico enunciato dall'art. 2 della Costituzione, e dalla tutela della dignità della persona che ne deriva, la sanzione di inutilizzabilità delle risultanze di "specifiche" intercettazioni che nelle loro modalità di attuazione e/o nei loro esiti abbiano acquisito "in concreto" connotati direttamente lesivi della persona e della sua dignità». (cit.)
Un inciso volutamente schematico e generico ma che pone una sanzione di “inutilizzabilità” come rimedio all’invasività degli strumenti ed al loro uso improprio che leda dritti costituzionali, un tema su cui si ritornerà per le sue importanti prospettive.
Va detto che la sentenza Scurato ha suscitato notevoli perplessità in ordine al paventato pericolo di consolidate prassi di strumentale iscrizione per il delitto associativo per consentire l’uso del mezzo anche in casi in cui sarebbe vietato, una “bad practice” che tuttavia la stessa Cassazione con le sue pronunce ha avallato, ma nel complesso le SU hanno escluso un uso indiscriminato.
Con il d.lgs. n. 216/2017, il legislatore ha varato una specifica disciplina per l’uso dei Trojan e inopinatamente ha rotto gli argini posti dalle Sezioni Unite, (a riprova come certe volte sia più garantista l’interprete che il legislatore, anche se non sempre ciò viene apprezzato) rendendo possibile l’uso dei captatori in tutti i tipi di reato che ricadono nell’ambito della disciplina delle intercettazioni.
Il problema della violazione del diritto alla riservatezza ed alla tutela della vita familiare (art. 8 CEDU) viene flebilmente quanto elusivamente garantito da una generica indicazione contenuta nel comma 2bis dell’art. 268 ed all’obbligo ex art. 267 c.p.p. che grava sul Gip all’atto di autorizzare l’intercettazione dei “luoghi e tempo anche indirettamente determinati in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono”.
Chiunque abbia conoscenza dello strumento immagina benissimo il contenzioso che si sarebbe scatenato circa la esatta individuazione dei luoghi dove ascoltare. Il fatto è che a differenza delle telecamere, dei microfoni installati in luoghi statici oppure su automezzi, i captatori inseriti su devices come smartphone seguono il possessore ovunque ed in ogni singolo momento della sua giornata.
Come norma “di chiusura” avrebbe dovuto esservi l’art. 268 comma 2bis c.p.p. che fa carico al Pm di individuare e vietare la trascrizione “delle comunicazioni o conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini, sia per l'oggetto che per i soggetti coinvolti, nonché di quelle, parimenti non rilevanti, che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge” per limitare ad indicare “soltanto la data, l'ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta”.
Meglio avrebbe fatto il legislatore a seguire fedelmente le orme della nomofilachia che avendo delimitato ai reati di criminalità organizzata il campo di applicazione degli strumenti investigativi, senza limiti di localizzazione, agevolando così di molto il lavoro degli investigatori ed ancor più quello degli interpreti. Così non è stato e dunque provvidenziale, sotto questo profilo, è stata la proroga disposta dal nuovo governo.
Ma nulla è mai semplice, ed a mantenere un sufficiente clima di confusione è rimasta come eccezione la disciplina nei procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, che consente le intercettazioni secondo la disciplina speciale di cui all’art. 13 d.l. n. 152/1991 in tema di criminalità organizzata
L’unica norma che entra in vigore, dunque, è quella che “allarga” i presupposti dell’intercettazione. Infatti per molti delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione l’autorizzazione ad eseguire intercettazioni viene concessa allorché le stesse appaiano «necessarie» (anziché «indispensabili») in presenza di «sufficienti» (e non «gravi») indizi di reato, per «lo svolgimento delle indagini» (e non per «la prosecuzione»).
Non solo ma anche è previsto un termine di durata delle operazioni di intercettazione di quaranta giorni (e non gli ordinari quindici) con successive proroghe di venti giorni (anziché di quindici). Si applica una frazione della nuova disciplina prorogata allorchè nei “casi d’urgenza” provvede lo stesso P.M. alla proroga dell’intercettazione, procedendosi poi ai sensi dell’art. 267 comma 2 c.p.p. per la convalida.
La deroga più rilevante e grave, consiste nel fatto che, come per i reati di criminalità organizzata l’intercettazione nel domicilio è consentita anche se non vi è “fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa”.
Si è dunque venuta creare una sovrapposizione di norme per situazioni omogenee:
1- La vecchia normativa per le ordinarie intercettazioni per tutti i reati ad eccezione di quelli previsti dall’art.13 l. n. 152/91 con i limiti posti dal 266 comma 2 c.p.p. quanto all’uso nel domicilio.
2- Una nuova normativa per i reati contro la p.a. cui viene applicata la disciplina ex art.13 l. n. 152/91.
3- Una fonte ermeneutica (transitoria fino al 31 Marzo 2019) costituita dalla sentenza delle Sezioni Unite Scurato che disciplina l’applicazione dei captatori informatici per i reati di criminalità organizzata oltre ex art. 51 commi 3bis e quater c.p.p. e «quelli comunque facenti capo a un’associazione per delinquere, con esclusione del mero concorso di persone nel reato» (Cass, S.U. Scurato, cit.), senza i limiti posti dal 266 comma 2 c.p.p..
4- Una fonte normativa in attesa di entrare in vigore tra qualche mese che consente l’uso dei captatori informatici coi limiti previsti dal 2 comma dell’art. 266 e dalla disposizione inserita nel primo comma dell’art. 267 c.p.p., che impone, per i reati diversi da quelli dell’art. 51 comma 3bis e quater c.p.p., di indicare nel decreto autorizzativo “i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono”.
In tale situazione è poi subentrata la dichiarata volontà del nuovo Governo di rivedere nel frattempo il suo contenuto non solo e non tanto a causa delle violazioni del diritto di difesa e delle disfunzioni organizzative collegate conseguenti alla disciplina del cosiddetto archivio riservato, evidenziate dagli operatori già nel corso dell’iter di approvazione del decreto, quanto piuttosto rispetto alla denunciata natura di “legge bavaglio” del provvedimento e alla necessità di non ostacolare le indagini finalizzate alla “lotta” ai diversi fenomeni criminali.
3. L’agente provocatore e le conversazioni tra presenti: l’evoluzione del concetto di privata dimora secondo la giurisprudenza delle Corti.
A rendere ulteriormente complesso il quadro, va aggiunto che l’8 settembre è stato licenziato il Disegno di Legge “spazzacorrotti” che introduce per i reati contro la PA la possibilità di impiego nelle indagini di agenti infiltrati.
Nonostante le “rassicurazioni” sulla non riconducibilità di tale fonte investigativa al ruolo dell’agente provocatore appare chiaro che la particolarità dell’indagine tesa ad evidenziare uno specifico reato di concussione o malversazione necessariamente condurrà all’identificazione sia pur ambigua delle due figure. Ciò apre un altro fronte non meno controverso in materia di intercettazioni che riguarda le cd “registrazioni tra presenti” condotte dagli emuli nostrani di Donnie Brasco il poliziotto americano capace di infiltrarsi nella mafia newyorkese protagonista d un famoso film con Al Pacino e Johnny Depp .
E’ facile prevedere l’uso “congiunto” di infiltrati e captatori con una efficacia invasiva senza precedenti. Abitualmente il diritto rifugge dalle valutazioni politiche ma come sottolineava in tempi non ancora così gravi uno dei più sensibili interpreti del diritto penale esiste un “livello minimale” oltre il quale l’afonia dello studioso sul contesto storico sarebbe un ennesimo “ tradimento dei chierici”.
«Tale livello minimale è costituito: 1) da un’azione strettamente informativa, che miri a contrastare il populismo penale dominante, e con ciò anche l’uso del penale come strumento di lotta tra partiti (o tra privati), con un’azione la più consona al dibattito scientifico..; 2) dall’intervento pubblico su alcune linee minimali comuni di politica del diritto» (M. Donini, I professori di diritto e il dibattito sulla questione penale e la questione giustizia, in Questione Giustizia http://questionegiustizia.it/articolo/i-professori-di-diritto-e-il-dibattito-sulla-questione-penale_e-la-questione-giustizia_25-10-2017.php).
Ebbene proprio la dilatazione incontrollata di strumenti di spionaggio e di ibride figure di soggetti d’indagine in un contesto politico segnato dal declino delle tradizionali forme di democrazia liberale deve essere oggetto di massima attenzione e di deciso ostacolo di effetti che possono essere devastanti.
Il problema principale che pongono i nuovi sofisticati mezzi di indagine è la tutela della libertà individuale, della vita di relazione e familiare, di quel nucleo essenziale di rapporti, segreti che costituiscono il nucleo del diritto fondamentale di ogni essere umano.
Un’idea così chiara ed elementare che mai il legislatore ne ha osato violare i confini se non nei casi estremi in cui la natura del reato (mafioso o terroristico) imponeva scelte eccezionali.
Il principio generale era che potesse essere autorizzata l’intrusione nel domicilio personale solo se in esso si consumasse il reato. Nel corso degli anni, tuttavia , questa regola è stata ridimensionata fino ad arrivare con il decreto “scaccia-corrotti” a concepire l’eccezione destinata a diventare regola. Per i reati contro la p.a. varranno le stesse regole previste per quelli di criminalità organizzata o di eversione. Il presupposto è la insindacabile scelta del legislatore di individuare in base alle proprie convinzioni o alle esigenze della maggioranza le violazioni su cui imprimere il marchio di gravità e tramite esse perseguire lo scopo di un controllo diffuso ed opprimente sulla vita delle persone e le loro idee.
Non è un caso dunque che negli ultimi tempi la giurisprudenza sia ritornata ad occuparsi specificamente del concetto di tutela della vita privata con un breve inciso nella surricordata sentenza Scurato dopo circa un decennio dall’altro fondamentale arresto in materia (Cass, S.U., 28 marzo 2006, n. 26795, Prisco, cit.).
Nella sentenza Scurato, le Sezioni Unite avevano richiamato l’attenzione su «l'eventualità che lo strumento captativo in argomento possa produrre, in casi estremi, esiti lesivi della dignità umana» indicando come si tratti tuttavia di «un pericolo che ben può essere neutralizzato con gli strumenti di cui dispone l'ordinamento»; ad esempio facendo discendere dal principio personalistico enunciato dall'art. 2 della Costituzione, e dalla tutela della dignità della persona che ne deriva, la sanzione di inutilizzabilità delle risultanze di "specifiche" intercettazioni che nelle loro modalità di attuazione e/o nei loro esiti abbiano acquisito "in concreto" connotati direttamente lesivi della persona e della sua dignità».
Nella sentenza Prisco, le Sezioni Unite in tema di video registrazioni “non comunicative” avevano affrontato il problema inquadrando tali tecniche nella categoria delle prove atipiche ex 189 c.p.p. giungendo alla conclusione che non si potessero ritenere utilizzabili le riprese all’interno della dimora privata. È da aggiungere che quelle Sezioni Unite (segno dei tempi) diedero del concetto di abitazione ex 614 c.p. una definizione assai più allargata di quella fatta più recentemente dal supremo consesso nomofilattico (Cass, S.U., 23 marzo 2017 - dep. 22 giugno 2017-, n. 31345).
La sentenza Prisco si è ispirata ad un indirizzo per cui ha negato rilevanza probatoria alle videoregistrazioni in questione facendo riferimento alla: categoria delle prove incostituzionali. A tale scopo il riferimento culturale è la sentenza della Corte Costituzionale n. 34 del 1973 e del «principio secondo il quale attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione e a fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito».
Nello stesso solco la sentenza della Corte Costituzionale n. 81 del 1993 «non possono validamente ammettersi in giudizio mezzi di prova che siano stati acquisiti attraverso attività compiute in violazione del1e garanzie costituzionali poste a tutela dei fondamentali diritti dell'uomo o del cittadino».
A conclusioni analoghe anche le sentenze delle Sezioni Unite del 16 maggio 1996 (Sala), del 13 luglio 1998 (Gallieri) e del 23 febbraio 2000 (D' Amuri), le quali hanno fatto rientrare «nella categoria delle prove sanzionate dall'inutilizzabilità, non solo le "prove oggettivamente vietate", ma le prove formate o acquisite in violazione dei diritti soggettivi tutelati dalla "legge", ed, a maggior ragione, quindi, quelle acquisite in violazione dei diritti tutelati in modo specifico dalla Costituzione. Ipòtesi quest'ultima sussumibile nella previsione dell'art. 91 c.p.p., proprio perché l'antigiuridicità di prove così formate od acquisite attiene alla lesione di diritti fondamentali, riconosciuti cioè come intangibili dalla Costituzione».
Appare facile previsione che sulla base di tali precedenti sulla normativa attinente l’uso dei “captatori informatici” come sull’incombente decreto “spazza-corrotti” (triste come la corruzione del linguaggio tecnico si accompagni al deterioramento del diritto) sarà chiamato a pronunciarsi il Giudice delle leggi o almeno è questo l’augurio.
Ciò richiederà la sensibilità dell’interprete, della magistratura capace di rifuggire da un improprio ruolo di esecutrice di politiche legislative sempre più repressive e incuranti dei diritti individuali. Molto di ciò che sarà la società, se “aperta” o meno ( nel senso caro a Karl Popper) dipenderà dal confronto su una materia controversa ma che mai come oggi è cosi connessa al tema delle libertà individuali.
Sommario: 1. La “riforma Orlando” sulle intercettazioni. Il Decreto Legislativo 29.12.2017 n° 216. - 2. La proroga dell’entrata in vigore della riforma con il c.d. Decreto Milleproroghe. 3. Le criticità della riforma sulle intercettazioni. - 4. In mezzo al guado …. quali prospettive sulla disciplina delle intercettazioni?
1. La “riforma Orlando” sulle intercettazioni. Il Decreto Legislativo 29.12.2017 n° 216.
Il Decreto Legislativo 29.12.2017 n° 216 di modifica della disciplina delle intercettazioni, come noto, è stato emanato nella scorsa legislatura in attuazione della delega di cui all'articolo 1 commi 82,83 e 84 lett.a ) e b) c) d) ed e) della legge 23 giugno 2017 n° 103 contenente modifiche al Codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario.
La riforma interviene su punti essenziali del regime processuale delle intercettazioni nella prospettiva di garantire un’adeguata tutela e il conseguimento di finalità ed interessi potenzialmente confliggenti.
Il Decreto contiene una serie di norme che mirano da un lato ad assicurare l'efficacia di tale mezzo fondamentale di ricerca della prova e dall'altro lato intendono assicurare un adeguato livello di tutela della riservatezza delle comunicazioni attraverso la repressione della diffusione di intercettazioni non rilevanti ai fini di indagine e potenzialmente lesive dei diritti alla riservatezza in particolare se coinvolgenti terzi soggetti estranei al procedimento.
Per quest’ultimo aspetto nella Relazione illustrativa al provvedimento si espone come le disposizioni in esame “ perseguono lo scopo di escludere, in tempi ragionevolmente certi e prossimi alla conclusione delle indagini, ogni riferimento a persone solo occasionalmente coinvolte dall'attività di ascolto e di espungere il materiale documentale, ivi compreso quello registrato, non rilevante ai fini di giustizia, nella prospettiva di impedire l'indebita divulgazione di fatti e riferimenti a persone estranee alla vicenda oggetto dell'attività investigativa che ha giustificato il ricorso a tale incisivo mezzo di ricerca della prova”.
Tale obiettivo è stato perseguito in primo luogo attraverso la rigida selezione delle trascrizioni inseribili nei verbali delle operazioni (c.d brogliacci) redatti dalla Polizia Giudiziaria oltre che con la previsione dell’inserimento, solo se necessario e comunque limitato ai brani essenziali, delle conversazioni e comunicazioni nell'ambito dei provvedimenti cautelari.
In questa prospettiva assume un rilievo centrale l'istituzione presso ogni Procura del c.d Archivio riservato delle intercettazioni, destinato alla conservazione e custodia degli atti relativi alle intercettazioni prima della dichiarazione di rilevanza da parte del Giudice e della conseguente acquisizione delle stesse al fascicolo delle indagini del Pubblico Ministero nonché delle conversazioni o comunicazioni ritenute non rilevanti ai fini di indagine.
Nel quadro di tali esigenze sono state inoltre dettate dal legislatore specifiche disposizioni in materia di intercettazione ambientale attraverso captatori informatici installati su dispositivi elettronici mobili (c.d trojan horses).
Quanto ai tempi di entrata in vigore della riforma il legislatore del 2017 ha introdotto all'articolo 9 del Decreto in sede di disciplina transitoria un meccanismo di applicazione differenziata sul piano della efficacia temporale del complesso delle disposizioni.
Risultavano applicabili al 26 gennaio 2018, data di entrata in vigore DLVO, le disposizioni di cui all'articolo 1 e 6 che prevedono rispettivamente l'introduzione della nuova figura delittuosa di cui all'articolo 617 septies CP di diffusione di riprese e registrazioni fraudolente e quelle che modificano le modalità di impiego di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni telefoniche e telematiche nei procedimenti per i più gravi reati contro la Pubblica Amministrazione estendendo alle stesse la disciplina di cui all’art. 13 del D.L 13.5.1991 n° 152.
Le restanti norme sub articoli 2 ( ad eccezione della disposizioni di cui al comma 1 lettera b) 3, 4, 5 e 7 in materia di deposito, trascrizione ed acquisizione delle comunicazioni e conversazioni oggetto di intercettazione nonché in materia di Archivio informatico, di fatto le disposizioni principali che modificavano il regime delle intercettazioni, si sarebbero dovute applicare alle operazioni di intercettazione relative a provvedimenti autorizzativi emessi dopo il 180º giorno successivo alla data di entrata in vigore del decreto e quindi alle intercettazioni autorizzate con provvedimenti emessi a partire dal 26 luglio 2018 .
2. La proroga dell’entrata in vigore della riforma con il c.d. Decreto Milleproroghe.
Sul “filo di lana” Il legislatore attuale con il DL 25 luglio 2018 n° 91 c.d decreto Milleproroghe all’art 2 comma 1 ha sospeso per quest’ultima parte l’entrata in vigore della riforma sulle intercettazioni sino al marzo del 2019 prevedendo che il termine dell’art 9 comma 1 del 180° giorno per l’entrata in vigore delle disposizioni sopra indicate sia prorogato e sostituito da un nuovo termine fissato nel provvedimento dopo il 31 marzo 2019 .
Le ragioni della proroga sono state indicate tra l’altro l’11 luglio 2018 in sede di audizioni del Ministro Giustizia Alfonso Bonafede avanti alle Commissioni parlamentari Giustizia di Camera e Senato.
Da un lato si prospettano ragioni tecniche relative ai tempi necessari per l’esecuzione nelle Procure dei lavori per la creazione e per l’approntamento dei supporti logistici, informatici e strumentali per gli Archivi riservati e per le sale ascolto per gli avvocati.
Dall’altro lato, in modo in parte non coerente rispetto alle indicate ragioni tecniche, vengono evidenziati rilievi fortemente critici sul contenuto della riforma ORLANDO. Si sottolinea infatti in quella sede come la riforma "... Non riesca nell'obiettivo di assicurare un effettivo contemperamento dei diversi interessi richiamati. Le modifiche introdotte, anzi, appaiono come un dannoso passo indietro sulla strada della qualità ed efficacia delle indagini e rispetto alla corretta distribuzione dei compiti funzionali tra i diversi soggetti coinvolti. Si tratta di un testo che ha suscitato i rilievi critici tanto dei magistrati requirenti, quanto della classe forense..." Tanto da annunciare come si fosse " scelto di avviare sin da subito dopo l'insediamento del nuovo Governo una capillare fase di ascolto e confronto, partendo dalle concrete esperienze vissute dalle Procure e dagli avvocati, in modo da giungere alla definizione di una base di lavoro condivisa che possa fungere da piattaforma su cui innestare la riscrittura della disciplina delle intercettazioni..”
3. Le criticità della riforma sulle intercettazioni.
La riforma introdotta con il DLVO 216/2017 presenta un impianto complessivo che risponde, come visto, a finalità assolutamente condivisibili indicate in sede di delega ma disegna in vari punti scelte normative e una disciplina per alcuni versi eccessivamente rigida e di non facile gestione concreta in sede processuale.
Si devono ricordare, pur nella necessaria sintesi, alcuni degli aspetti di particolare criticità tralasciando per brevità alcuni rilievi sulla complessa disciplina in materia di captatori informatici su dispositivi portatili:
Si delinea in primo luogo un meccanismo eccessivamente rigido e “burocratico” nel circuito PM – PG per l’individuazione delle conversazioni/comunicazioni rilevanti e sul corrispondente contenuto dei brogliacci.
Il legislatore ha previsto con la modifica dell’art.267 comma 4 cpp che la Polizia Giudiziaria fornisca un'informazione preventiva al Pubblico Ministero sui contenuti delle comunicazioni o conversazioni per le quali la Polizia Giudiziaria abbia operato una valutazione di non trascrivibilità.
Tale informazione deve essere trasmessa dalla Polizia Giudiziaria al Pubblico Ministero in una comunicazione in forma scritta mediante un'annotazione di PG che deve indicare non soltanto gli estremi delle comunicazioni e conversazioni ma anche il contenuto delle stesse.
Il Pubblico Ministero in base alla previsione dell'articolo 268 comma 2 ter c.p.p potrà disporre con decreto motivato, ove valuti diversamente rispetto alla PG la rilevanza delle conversazioni o comunicazioni, che le stesse siano trascritte nel verbale/brogliaccio quando ne ritenga la rilevanza per i fatti oggetto di prova. Allo stesso modo potrà disporre la trascrizione nel verbale se necessarie ai fini di prova delle comunicazioni e conversazioni relative a dati personali definiti sensibili dalla legge.
Il meccanismo previsto dal legislatore delegato, con la comunicazione scritta da parte della PG e la decisione nella forma del decreto del PM, appare frutto di una scelta legislativa eccessivamente rigida e formale se si tiene conto che coinvolge nell’ambito della fase di indagine i rapporti interni tra un organo quale il PM che ha poteri direttivi di indagine (e a cui deve essere sostanzialmente rimessa quale dominus delle indagini la valutazione in questa fase sulla rilevanza delle intercettazioni ) e la PG che opera per delega nell’ambito di tali direttive.
E infatti in alcune Direttive emanate dalle Procure si ritiene auspicabile prevenire tale passaggio “burocratico” mediante contatti, interlocuzioni e comunicazioni in via informale e preventiva tra PM e PG delegata in tutti quei casi che appaiono di dubbia valutazione. Deve essere infatti ritenuto fondamentale in tal senso un collegamento ed un raccordo immediato tra la Polizia Giudiziaria e il Pubblico Ministero titolare dell'indagine e che esercita i poteri direttivi sulla stessa per sottoporre al PM, per le relative valutazioni e decisioni, i casi di conversazioni “problematiche” in punto di rilevanza e trascrivibilità anche in relazione al coinvolgimento di dati sensibili.
La disciplina risulta carente rispetto alle conversazioni e comunicazioni che contengono nel loro sviluppo sia dati rilevanti che dati non rilevanti per l’indagine (si pensi ad un’intercettazione ambientale prolungata all’interno di un’ abitazione o di un ufficio).
Nulla si prevede infatti da parte del legislatore in caso di rilevanza parziale della conversazione intercettata e il vuoto nella disciplina ha imposto alle Procure in questa fase l'individuazione di meccanismi compatibili con le contrapposte esigenze di tutela del diritto alla riservatezza e della conservazione del materiale di indagine.
In caso di parziale rilevanza, in forza di una corretta interpretazione sistematica, la comunicazione / conversazione, non essendo scindibile ai fini dell'acquisizione, dovrebbe essere considerata rilevante ai fini di indagine e quindi il supporto fonico acquisibile nella sua integralità nel fascicolo di indagine e trascrivibili in brogliaccio ed utilizzabili i passaggi della comunicazione/ conversazione che contengono elementi rilevanti o necessari ai fini di indagine pur se confliggenti con la protezione di dati sensibili.
Unica soluzione alternativa, pur nel silenzio della legge, per evitare tale conseguenza in parziale conflitto con la ratio della novella legislativa sarebbe quella di “frazionare” la conversazione/ comunicazione in più brani o passaggi basati sulla scansioni temporali interne di acquisire in copia la registrazione della comunicazione/ conversazione soltanto nelle parti rilevanti ai fini di indagine mediante duplicazione informatica di tali punti ed invio della registrazione integrale in originale nell’archivio riservato intervenendo nei brogliacci con omissis sulle parti non rilevanti. Una soluzione peraltro comportante un aggravio notevole sul piano degli incombenti per le Procure e la PG.
Il punto più critico della riforma risulta essere peraltro indiscutibilmente quello inerente alla disciplina dell’Archivio riservato delle intercettazioni ed alle modalità di accesso per le parti alle conversazioni coperte dal segreto di indagine contenute nello stesso.
Si deve ricordare che l'Archivio riservato viene gestito anche con modalità informatiche e rientra nella direzione e sorveglianza diretta del Procuratore della Repubblica che deve assicurare modalità idonee a tutelare la segretezza della documentazione custodita impartendo, con particolare riguardo alle modalità di accesso, le prescrizioni necessarie per garantire la tutela del segreto su quanto ivi custodito.
Con la modifica dell'articolo 269 c.p.p . nell’Archivio riservato presso l'ufficio del Pubblico Ministero che ha richiesto ed eseguito le intercettazioni devono essere custoditi integralmente e sono coperti dal segreto:
- le annotazioni, i verbali, gli atti e le registrazioni delle intercettazioni, prima dell’acquisizione delle conversazioni o comunicazioni al fascicolo di indagine del Pubblico Ministero in quanto ritenute rilevanti, con riferimento agli atti di intercettazione delle conversazioni/comunicazioni non utilizzati per fondare una richiesta di applicazione di una misura cautelare;
- gli atti contenenti le comunicazioni e conversazioni intercettate ritenute dal Giudice non rilevanti o inutilizzabili (art 92 comma 1 bis Disp. Attuazione CPP).
Non sono invece coperti da segreto e non sono destinati alla conservazione nell’Archivio riservato:
- gli atti di intercettazione utilizzati per fondare la richiesta di applicazione di una misura cautelare destinati all'acquisizione ed all'inserimento immediato nel fascicolo di indagine del Pubblico Ministero;
- gli atti, i verbali e le registrazioni delle comunicazioni e conversazioni dopo che sono dichiarati utilizzabili e come tali acquisiti e facenti parti del fascicolo di indagine del PM di cui all'articolo 373, comma 5 cpp.
Il Giudice in vista delle valutazioni sulla acquisizione delle conversazioni indicate dalle parti e i difensori dell'imputato per l'esercizio dei loro diritti e facoltà sul punto possono accedere all'Archivio riservato per la consultazione degli atti e per l'ascolto delle conversazioni o comunicazioni registrate.
L’accesso all’ Archivio riservato, o meglio alle sale ascolto (posto che gli archivi riservati sono stati predisposti e forniti dal Ministero quali supporti informatici con la dotazione ed installazione di un sistema di collegamento e derivazioni dei dati ivi contenuti alle sale ascolto) prevede il solo ascolto delle conversazioni /comunicazioni secondo rigide garanzie di riservatezza stante la consultazione di materiale di intercettazione coperto da segreto di indagine.
La disciplina risulta strettamente collegata al regime di rigida segretezza voluto dal legislatore per il complesso degli atti di intercettazione depositati informaticamente negli Archivi riservati nella fase precedente alla fase di acquisizione al fascicolo di indagine delle intercettazioni rilevanti per le parti.
A seguito del deposito di tali atti da parte del PM, alla scadenza delle singole operazioni di intercettazione o alla conclusione delle indagini come avviene usualmente a seguito di richiesta da parte del PM di ritardato deposito degli atti di intercettazione, i difensori delle parti potranno dunque solo visionare ma non estrarre copia dei brogliacci e non avranno la possibilità di avere copia delle registrazioni , registrazioni che potranno essere oggetto solo di ascolto . Le copie degli atti e dei supporti audio o informatici potranno essere ottenuti dalle difese delle parti solo una volta emessa da parte del Giudice l'ordinanza di acquisizione delle conversazioni/ comunicazioni rilevanti indicate dalle parti ai sensi dell’art 268 quater comma 3 cpp in quanto in quel momento viene meno il segreto di indagine.
Sono escluse da tale disciplina, come detto, gli atti di intercettazione utilizzati per fondare la richiesta di applicazione di una misura cautelare destinati con discovery anticipata all'acquisizione ed all'inserimento immediato nel fascicolo di indagine del Pubblico Ministero senza transitare nell’Archivio riservato.
Si tratta di una scelta normativa chiaramente penalizzante e con aspetti di possibile rilievo costituzionale per l’attività delle difese in quanto impone alle stesse la necessità di ascoltare le intercettazioni depositate senza averne copia, a prescindere dalla rilevanza valutata dal Pm, per la selezione delle conversazioni rilevanti ai fini difensivi e per l’interlocuzione sulla rilevanza delle singole intercettazioni ritenuta dal PM e per le successive determinazioni.
L’attività di ascolto potrà risultare prolungata e defatigante specie in procedimenti complessi e caratterizzati da lunghe attività di intercettazione anche in considerazione dei tempi contenuti (10 giorni prorogabili dal Giudice per un periodo non superiore ad ulteriori 10 giorni) riservati alle difese per la formulazione delle richieste di acquisizione delle intercettazioni. Inoltre il meccanismo previsto dal legislatore comporta un aggravio non indifferente anche per le Procure in merito ai correlativi impieghi del personale amministrativo per le attività connesse all’attività presso le sale ascolto.
4. In mezzo al guado …. quali prospettive sulla disciplina delle intercettazioni?
Dopo la proroga temporanea introdotta con il Decreto Milleproroghe si è in presenza di un quadro di totale incertezza sul destino della riforma, delle costose strutture investite con la stessa e sul contesto normativo che si definirà in questi mesi e sino al marzo 2019.
I rilevanti investimenti informatici e strumentali previsti e avviati nella passata legislatura per la realizzazione degli archivi riservati, delle sale di ascolto e delle sale CIT, con la ulteriore realizzazione di server e di sistemi di videosorveglianza e di controllo accessi e la installazione di porte REI, sono di fatto "congelati" e non si comprende se e come potranno essere completati ed in ogni caso utilizzati sia pure in un diverso contesto normativo sulla materia.
La riforma Orlando sulle intercettazioni, per ora solo sospesa, di fatto sembra accantonata e sarà comunque oggetto, alla luce delle dichiarazioni del Ministro sopra riportate, di una profonda riscrittura e revisione.
In ogni caso non è certo che da qui a marzo 2019 si possa definire una nuova delega legislativa e l'iter per un nuovo provvedimento legislativo delegato in materia di intercettazioni, di modo che si imporrà verosimilmente un ulteriore proroga della riforma Orlando con il mantenimento delle disposizioni sulle intercettazioni attualmente in vigore.
Eppure una possibile linea di politica legislativa consentirebbe di raggiungere gli obiettivi di una riforma su vari punti condivisibile nei principi ispiratori superando le segnalate criticità con una correzione e rimodulazione delle norme della riforma Orlando su alcuni degli aspetti sopra indicati.
Si potrebbe intervenire prevedendo un meccanismo di valutazione sulla rilevanza delle conversazioni/comunicazioni rimesso esclusivamente al PM , quale organo con funzioni di direzione e coordinamento delle indagini, con il solo adempimento della formazione da parte del PM dell'elenco delle conversazioni rilevanti previsto dall' articolo 268 bis CPP previa costante interlocuzione “interna” con la PG per la individuazione delle conversazioni di cui richiedere l’acquisizione e dunque eliminando il farraginoso meccanismo di invio di annotazione scritta da parte della PG e di emissione di decreto da parte del PM in caso di diversa valutazione sulla rilevanza.
E soprattutto si potrebbero ampliare le facoltà di accesso da parte delle difese ai verbali delle operazioni e alle registrazioni delle conversazioni/comunicazioni anche se non poste alla base delle richieste di misura cautelare prevedendo il diritto non solo di ascolto ma di estrazione di copia dei verbali e delle intercettazioni depositate dal Pubblico Ministero quanto meno con riferimento alle comunicazioni e conversazioni depositate e che sono state inserite dal PM nell'elenco delle intercettazioni rilevanti ai fini di prova ai sensi dell'articolo 268 bis comma 1 CPP.
Si deve considerare in primo luogo, a fronte delle possibili obiezioni in ordine al pericolo di diffusione di dati e registrazioni coperte dal segreto e in violazione dei diritti dei terzi , che a seguito dell'usuale ricorso da parte del PM al meccanismo di ritardato deposito delle intercettazioni tale atto interviene normalmente in coincidenza con la notifica dell'avviso ex art 415 bis cpp di conclusione indagini o con il deposito della richiesta di giudizio immediato ex art. 454 cpp e quindi in una fase finale delle indagini in cui è prossimo il venir meno del segreto di indagine.
In secondo luogo tale possibilità di estrazione di copia "anticipata" degli atti di intercettazione da parte delle difese avrebbe per oggetto verbali e supporti audio di intercettazioni già valutate dal PM come utilizzabili e rivelanti rilevanti ai fini di prova e per le quali sussiste, se il vaglio del PM è stato attento, una rilevante probabilità di acquisizione a breve al fascicolo delle indagini con conseguente cessazione del segreto di indagine.
Il meccanismo di mera consultazione dei verbali delle operazioni e di solo ascolto da parte delle difese verrebbe ad essere pertanto limitato agli atti di intercettazione ed alle registrazioni delle comunicazioni e conversazioni non inserite dal PM nell’elenco ex 268 bis CPP in quanto non ritenute rilevanti o necessarie ai fini di prova da parte del Pubblico Ministero con il conseguente ampliamento dei diritti dei difensori e contrazione dei tempi per l'analisi degli atti e per l’ascolto supporti audio nella parte residua.
In conclusione: tali modifiche della riforma Orlando sia pure parziali consentirebbe in tempi relativamente brevi di perseguire in modo ragionevole le finalità delle riforma senza pregiudicare le esigenze di indagine, in modo di “attraversare il guado” e di superare la disciplina in vigore dando nel contempo certezza a tutti gli operatori sull’evoluzione del quadro normativo in materia.
Claudio Gittardi
Breve nota a Sez. 3 n. 29613 del 2018
La Terza sezione della Corte di Cassazione è stata chiamata a verificare se abbia rilevanza penale la condotta di un soggetto straniero, posta in essere nella assoluta inconsapevolezza del suo disvalore e nella convinzione di ottemperare ad una prassi del paese di provenienza che considera il comportamento normale, approvandolo o, in alcuni casi imponendolo.
Il tema dei “reati culturalmente orientati” non è nuovo, e l’aumento dei flussi migratori verso il nostro paese di etnie dalle diverse abitudini rende la problematica di stringente attualità giuridica.
La complessa ed inevitabile sfida del multiculturalismo affida anche, e soprattutto, alla magistratura il delicato compito di verificare in che modo il rispetto delle altre culture e l’integrazione possano realizzarsi, in concreto, senza frizioni con i principi fondamentali della Carta Costituzionale.
Nel caso di specie gli imputati erano stati tratti in giudizio poiché, in violazione degli articoli 609 bis e 609 ter del codice penale, in più occasioni, abusando della loro qualità di genitori, costringevano il figlio minore, con violenza, ad abbassarsi i pantaloni e a compiere e subire atti sessuali (palpeggiamenti nelle parti intime e rapporti orali).
La tesi difensiva si fondava sull’assunto che le condotte incriminate, nella cultura degli imputati, fossero prive di disvalore, consentite e tollerate.
In entrambi i precedenti gradi di giudizio i giudici di merito erano pervenuti all’assoluzione, valorizzando la scriminante culturale.
I giudici di primo grado, infatti, avevano ritenuto che, sebbene sussistesse l’elemento oggettivo del reato per l’indubbia valenza sessuale degli atti compiuti, difettava la coscienza e volontà di compiere atti diretti alla concupiscenza sessuale.
Di contro, la Corte d’appello aveva ritenuto che gli atteggiamenti in contestazione fossero espressione di “compiacimento e di orgoglio del genitore nei confronti del figlio”, e non frutto di istinto sessuale, e, coerentemente ne avevano escluso anche la coscienza e volontà.
La Terza Sezione, disattendendo entrambe le ricostruzioni, pur richiamando i principi enunciati dalla Corte di legittimità in merito alla necessità di interpretare le fattispecie penali alla luce del continuo mutare dei valori della società, sempre più multietnica, ha ribadito che nessun sistema penale potrà mai adbicare, alla punizione di fatti che mettano in pericolo i beni di maggior rilievo in ragione del rispetto di tradizioni culturali e religiose del cittadino o dello straniero.
La Corte, quindi, sottolinea che la valutazione del rilievo penale dei cd. reati culturalmente orientati non può prescindere da un attento bilanciamento “ tra il diritto, sia pure irrinunciabile, del soggetto agente a non rinnegare le proprie tradizioni culturali, religiose ed i valori offesi dalla sua condotta”.
Inoltre, al fine di valutare l’incidenza della matrice culturale sulla consapevolezza dell’agente, si è evidenziata la necessità di tenere conto: 1) della natura religiosa o giuridica della norma culturale, in adesione alla quale è stato commesso il reato; 2) dell’intensità della forza vincolante della norma all’interno del gruppo culturale di riferimento; 3) del grado di inserimento dell’immigrato nella cultura e nel tessuto sociale del paese d’arrivo o del suo grado di perdurante adesione alla cultura d’origine, indipendentemente dal tempo di permanenza nel nuovo paese.
Applicando i principi di diritto nel caso di specie, la Corte ha escluso che la condotta posta in essere dagli imputati fosse priva di valenza penale.
Da un lato, infatti, si è accertato che essa solo asseritamente era conforme alle tradizioni del paese di provenienza (le risultanze processuali hanno portato ad escludere l’esistenza di una corrispondente norma di costume o religiosa e disvelato che la condotta era sanzionata anche dal codice penale del paese d’origine); dall’altro, in relazione all’elemento soggettivo del reato, si è esclusa la non consapevolezza degli imputati dell’illiceità delle azioni commesse alla luce della loro lunga permanenza in Italia e della loro compiuta integrazione nel contesto sociale del nostro paese.
Non è semplice racchiudere in un piccolo spazio le considerazioni, numerose e complesse, maturate in una esperienza così intensa quale una intera consiliatura. Provo a farlo per mettere a disposizione alcune riflessioni che possano arricchire un dibattito, interno ed esterno alla magistratura, troppo spesso caratterizzato da semplificazioni e dalla proposta di soluzioni salvifiche che in concreto sono di ardua e poco convincente realizzazione.
Muovo dalla piena consapevolezza dei problemi legati al correntismo ed alle degenerazioni che tanto affliggono il sistema del governo autonomo. Non li posso negare e li devo dare purtroppo per presupposti. Le degenerazioni vanno denunciate come un male da combattere tutti i giorni ed in ogni sede, evidenziando storture, deviazioni, debolezze, prevaricazioni. Seguendo in modo attento i lavori consiliari, pretendendo la spiegazione delle scelte operate e sottolineando le contraddizioni. Ma anche operando sul territorio, non solo a livello di consiglio giudiziario o di controllo associativo, ma soprattutto negli uffici, sia ad opera dei dirigenti che dei magistrati tutti.
Dunque innanzitutto controllo diffuso, pretesa di trasparenza e motivazioni chiare di provvedimenti, spiegazioni costanti.
Poi, in via assolutamente prioritaria, un impegno dell’intero sistema ad operare per valutazioni di professionalità effettive e utili alle comparazioni, non burocratiche, non meramente elogiative, ma capaci di far emergere i diversi profili. Un enorme problema della magistratura, mai risolto, forse difficilmente risolvibile, che chiama in causa la capacità dell’intero circuito del governo autonomo, e dunque dei magistrati, di operare giudizi “su stessi”, puntuali, differenziati, genuini. Il sistema attuale è chiaramente incapace di operare in questo senso, e si è rivelato inadatto nella sua concreta attuazione. Per ragioni tecniche? Di sistema? Correntizio? Più in generale per ragioni corporative? E’ la risoluzione di questi interrogativi che può far compiere decisivi passi avanti. Un nuovo sistema, all’interno del governo autonomo, che sia però compatibile con i principi di autonomia ed indipendenza e con la necessità di garantire qualità alla giurisdizione, efficienza ed efficacia all’utenza.
L’effettività delle valutazioni di professionalità è il primo strumento per spiazzare il criterio dell’appartenenza nelle nomine. Per esigere scelte effettive, motivazioni chiare, trasparenza nei percorsi decisionali, occorre mettere a disposizione del Consiglio profili professionali specifici e differenziati, facilmente leggibili, su cui poter innestare un giudizio comparativo “evidente”. Direi che chi oggi vuole cambiare il TU sulla Dirigenza, deve farlo senza iniziare toccando quel testo, ma lavorando in quarta commissione ed aprendo un serio dibattito sulle valutazioni di professionalità, capace anche di superare lo “zero virgola” o poco più che caratterizza le statistiche delle valutazioni non positive /negative, percentuale chiaramente incapace di raffigurare la reale situazione della magistratura come in concreto si manifesta nelle aule di giustizia e viene percepita dall’utenza. Dunque prima le valutazioni di professionalità, l’ampliamento delle fonti di conoscenza, un sistema meno burocratico che sappia misurare quantità e qualità senza il tourbillon dei provvedimenti a campioni, la effettiva verifica della tenuta dei provenienti giudiziari nei controlli giurisdizionali successivi, un ripensamento del contenuto obbligatorio del rapporto del dirigente dell’ufficio; prima la modifica della disciplina della conferma, con l’aumento delle informazioni utilizzabili e dei dati acquisiti dai magistrati dell’ufficio; poi, solo poi, una nuova riflessione sul Testo unico sulla dirigenza, la cui modifica altrimenti rischia di ingenerare solo nuove illusorie attese. Prima un occhio vigile e critico sul funzionamento dei consigli giudiziari, organi di prossimità ben capaci di esigere una piena corrispondenza fra realtà e sua rappresentazione nei pareri. Insomma prima la pretesa di un esercizio responsabile e non corporativo delle valutazione di professionalità da parte dei dirigenti, poi, solo poi, la possibilità di smascherare in concreto l’utilizzo e l’abuso del criterio dell’appartenenza nelle nomine; solo allora sarà davvero possibile e persino semplice operare serie e dettagliate critiche, non solo per i magistrati di base, ma per le stesse correnti che intendessero farsene portatori, perché facilmente sostenibili su basi documentali chiare e differenziate. In mancanza sarà invece facile, per chi intende praticare logiche di appartenenza, continuare su una strada così autolesionista per la magistratura senza dover pagare dazio all’evidenza di forzature e scorciatoie. Difficile, per chi vuole sottrarsi a questo metodo, farlo senza poter utilmente reggere un dibattito pubblico che sarà sempre drogato da motivazioni buone per ogni soluzione. Con la continua necessità di individuare la giusta opzione fra il doversi sottrarre ad un sistema di nomine così complesso (come chi sistematicamente sceglie la comoda posizione dell’astensione), ovvero operare per la riduzione del danno, finalizzata a dare agli uffici le migliori nomine possibili, in un dialogo faticoso, non sempre contenuto nelle fisiologia delle diverse sensibilità culturali, con tutte le componenti consiliari.
Questo, quello delle valutazioni di professionalità, il primo vero obiettivo su cui lavorare.
Un altro fondamentale settore è quello della sdrammatizzazione delle nomine dei dirigenti, pur così importanti per il funzionamento del sistema. Essa passa innanzitutto per un recupero complessivo della dignità e della capacità di attrazione del lavoro del giudice (e del pm). La corsa alla carriera si è accentuata di pari passo col venir meno della appetibilità del lavoro giudiziario, non tanto, o forse non solo, per ragioni ideali, quanto per ragioni concrete legate alla demotivazione conseguente ad un lavoro di cui non si riesce a percepire più come un tempo la capacità di fornire risposte alle esigenze di giustizia dei cittadini. Il progressivo diminuire delle risorse, le farraginose procedure, i tempi infiniti dei processi, il numero spropositato di prescrizioni, qualificano come sostanzialmente inutile il lavoro del magistrato, che si accorge che gran parte del suo sforzo non produce alcuna riposta efficace. Da qui pulsioni centrifughe, fuori della giurisdizione verso gli incarichi fuori ruolo o l’impegno extragiudiziario (come quello nella magistratura tributaria), e pulsioni centripete, verso gli incarichi dirigenziali, ritenuti i soli capaci di far recuperare la “dignità della funzione” e comunque forieri di maggiori soddisfazioni professionali.
A tali considerazione occorre aggiungere la necessità di recuperare il senso dell’incarico dirigenziale come servizio e non come premio alla carriera. Qui va stimolata una complessiva maturazione della magistratura, che fatica ad introitare gli esiti della riforma del 2006 e non ha facilità nel superare l’ancoraggio all’anzianità come criterio selettivo tranquillizzante. Non siamo ancora disposti ad accettare con serenità che, se un magistrato che ha dieci anni di anzianità meno di un altro ma ha una professionalità di rilievo nell'organizzazione, merita di fare il dirigente e può spiegare al collega più anziano come va organizzato il lavoro per renderlo funzionale al risultato finale, che è l'interesse dell'utenza al servizio complessivo. Non abbiamo ancora compreso appieno la sfida dell’organizzazione, la sua complessità culturale, che richiede attitudini e capacità che non possono misurarsi prevalentemente solo col numero di anni trascorsi in giurisdizione. Abbiamo le regole che lo dicono chiaramente, ma quando le attuiamo, continuiamo a vederci troppo spesso uno “scavalcamento” – proprio questo il termine comunemente utilizzato – inaccettabile. Un’idea, questa del recupero dell’anzianità, addirittura tramite punteggi, fuori tempo e fuori della realtà, non solo giudiziaria. Per non parlare dell’eccessivo allarme per alcune esperienze fuori ruolo che, se ben calibrate con l’esperienza giurisdizionale, possono essere un ritorno formidabile per il singolo e per l’ufficio nel complesso. Occorre opporsi fortemente alle carriere parallele, che sono cosa diversa e deleteria per l’intero sistema, ma avere la capacità di valorizzare esperienze ed attitudini anche quando in parte maturate in incarichi fuori ruolo attinenti all’organizzazione della giurisdizione.
Infine occorre accettate l’idea che sia il CSM (!), nell’esercizio della sua discrezionalità, a decidere chi è il più adatto a ricoprire quel ruolo, e dunque accettare l’idea che in quel consesso debba formarsi una maggioranza capace di investire su quella persona per quell’incarico. Affermazione che può essere oggetto di una interpretazione semplicistica e negativa (appunto il rifugiarsi nell’appartenenza ed il praticare la logica dello scambio), oppure capace di far riflettere sul valore delle idealità e del confronto fra diverse sensibilità nella lettura e valutazione dei profili professionali. Il ché rimanda anche al valore della dirigenza ed alla importanza e delicatezza dell’attività in quinta commissione (e in terza) quando si rinnova la classe dirigente degli uffici. Si tratta, quella della Dirigenza, di un anello della catena dell’autogoverno che oggi rappresenta il fulcro del sistema, tanto nel settore requirente quanto nel settore giudicante, proprio in conseguenza della riforma del 2006. Il legislatore del nuovo ordinamento giudiziario ha “investito” in misura rilevante sulla Dirigenza degli uffici per ottenere qualità ed efficienza; ne ha conseguentemente aumentato i poteri, introducendo una gerarchizzazione marcata, piuttosto evidente nelle Procure, ma sensibile anche negli uffici giudicanti. E’ fisiologico ci sia, in Consiglio, chi preferisca un dirigente che segue un modello caratterizzato da partecipazione, cultura della giurisdizione e della prova, efficienza e qualità delle decisioni, coinvolgimento dei magistrati nelle scelte decisionali organizzative, e chi un modello che privilegia una efficienza più aziendalista ed una più evidente gerarchia interna. Chi un maggiore rigore valutativo del lavoro del magistrato e chi una più diffusa accettazione di un metodo inclusivo e meno selettivo. Se pensiamo ai poteri del Procuratore della Repubblica, a come i dirigenti esercitano il potere valutativo nelle valutazioni di professionalità, a quanto sano diversi gli approcci al tema dell’organizzazione, ci rendiamo conto che avere un dirigente, piuttosto che un altro, pur fra magistrati di pari livello attitudinale e di merito, significa delineare diversi modelli di giurisdizione in un dato territorio. Con esiti assai diversi per l’utenza e perfino per l’interpretazione (si pensi al ruolo di un presidente di sezione).
Da qui la faticosa opera di dialogo e confronto fra tutte le componenti, non ultime quelle laiche, che portano sensibilità assai diverse da quelle interne e che possono giocare un ruolo decisivo. Un dialogo che se attuato con la esclusiva lente dell’appartenenza determina esiti nefasti per la singola nomina e per l’intero sistema, e se invece attuato per la ricerca della migliore soluzione possibile, nel confronto fra le diverse componenti, diventa l’ineludibile strumento di un buon governo. Tanto per i togati quanto per i laici, il cui operato troppo spesso viene ignorato nel dibattito sul buon funzionamento dell’organo, e che invece sono essi stessi capaci di indirizzare il confronto o positivamente, attraverso un fisiologico apporto di conoscenze, oppure negativamente, attraverso il sostegno a candidati sulla base di fattori esogeni e imperscrutabili.
La complessità dell’organo ne costituisce la forza e la capacità di tenuta, nei diversi tempi in cui l’istituzione è chiamata a governare la magistratura. Un’istituzione di cui nel dibattito interno si valuta solo l’attività che in qualche modo incide all’interno della categoria, in una accezione assai restrittiva del suo ruolo e della funzione, certamente individuata dall’art. 105 Cost., ma che la legge istitutiva e la prassi costituzionale hanno assai ampliato, facendone un organo capace di dialogare con le maggiori istituzioni del Paese sui temi della giustizia (Presidente della Repubblica, Ministro della Giustizia, Parlamento, istituzioni europee ed internazionali), e dunque portatore di una anomala ma autorevole rappresentanza esterna della magistratura, nonché portatore di un potere di indirizzo e promozione che ne fa il vertice organizzativo degli uffici giudiziari.
Da questa premessa derivano alcune considerazioni.
La prima è legata alla funzione rappresentativa della componente togata. Funzione disciplinata dalla Costituzione che esige la “elezione” dei togati e, di conseguenza, un sistema democratico di rappresentanza all’interno dell’organo. Ne consegue il rilievo dei gruppi associativi quali soggetti portatori di un programma, di un progetto per il governo autonomo, di idee e di sensibilità presentate all’elettorato per agganciare la rappresentanza al consenso interno alla magistratura, secondo un criterio democratico irrinunciabile. In altre sedi ed in maniera più diffusa si è risposto a chi sostiene il sorteggio come strumento di selezione della rappresentanza. Vorrei solo ricordare che il sorteggio individua “singoli” senza alcun aggancio ad idee e pregressi percorsi professionali e associativi. “Singoli” di cui non si sa nulla e nemmeno se siano buoni magistrati. E, seppure lo fossero, deve essere chiaro che essere bravi magistrati, o eccellenti in alcuni casi, non basta per fare bene il consigliere superiore. La considererei una condizione importante (vorrei dire necessaria) ma assolutamente non sufficiente. Ed anche il sorteggio temperato, con una preselezione a cui far seguire le elezioni, si rivela uno strumento in parte inidoneo a raggiungere il preventivato scopo (i sorteggiati sarebbero o già legati ai gruppi associativi o fisiologicamente portati a farlo prima dell’elezione), in parte certamente capace di affidare al caso la scelta e dunque non necessariamente con esiti di qualità (ove si parta dal presupposto che dire che tutti sono in grado di svolgere la funzione perché del resto si tratta di magistrati chiamati quotidianamente ad esercitare la giurisdizione ed applicare la legge, è davvero una considerazione del tutto semplicistica e riduttiva del ruolo e della funzione del Consiglio e dei singoli consiglieri). Dunque sicuramente no al sorteggio, e si ad una nuova legge elettorale. Sicuramente si ai gruppi per le ragioni sopra esposte e perché la rappresentanza esige responsabilità. Ed i gruppi associativi, in quanto costantemente rivolti all’elettorato per la verifica dl consenso conseguente all’operato dei vari rappresentanti, garantiscano che componenti eletti e non rieleggibili siano ancorati ad una responsabilità “politica” di cui gli stessi consiglieri sentono costantemente il bisogno. Ed è corretto che la proiezione di questi rappresentanti sia la costituzione di gruppi consiliari che consentono in maniera trasparente di portare avanti il programma sottoposto agli elettori e di contribuire al buon funzionamento dell’organo ed alla composizione equilibrata delle commissioni (in teoria capace di riprodurre in proiezione la composizione del plenum).
Seguendo questa linea, voglio però completare la riflessione sul rapporto fra consiglieri e gruppi associativi di riferimento, rapporto del quale ho sottolineato la natura virtuosa e gli effetti positivi, nella misura in cui l’appartenenza non diventi il criterio guida nelle nomine. Il legame al gruppo consente un ancoraggio al programma ed alle idee condivise con gli elettori, e la costante verifica, nel dibattito che ne segue, dell’adeguatezza dell’azione consiliare rispetto alle attese dei magistrati.
Ma … ciò che spesso sfugge nel dibattito interno è che la dimensione principale e prioritaria del consigliere resta quella “istituzionale”, che richiama innanzitutto a scelte effettuate secondo scienza e coscienza per il buon funzionamento del sistema giudiziario. Spesso si assiste a considerazioni che richiamano valutazioni di opportunità o di strategia che stridono con la necessità di confrontarsi innanzitutto con il quadro normativo ed ordinamentale e, in secondo luogo, con scelte compiute esclusivamente nell’interesse dell’amministrazione. Che, in alcuni casi, in concreto, potranno significativamente discostarsi dal programma iniziale sottoposto agli elettori o dai contenuti discussi nel gruppo associativo. Sarà utile spiegare le ragioni, rappresentare la natura della scelta eventualmente dissonante con il programma elettorale. Il consigliere opera avendo sempre chiaro di essere il rappresentante di tutta la magistratura e non solo di quella che lo ha sostenuto dal punto di vista elettorale e della acquisizione del consenso. Insomma si è prima componente dell’istituzione, poi rappresentante di tutti i magistrati, infine magistrato legato ad un gruppo associativo ed al suo programma ideale di contenuto e valori. Questi, i contenuti ed i valori di riferimento orienteranno fisiologicamente le scelte e le decisioni, conformando naturalmente l’agire del consigliere ed il suo operato complessivo, ma le “attese” del gruppo associativo di riferimento o di singoli elettori non potranno influenzarne l’agire istituzionale. E’ dalla consapevolezza di questa poliedrica accezione che si ricava la traccia per un corretto compimento del mandato consiliare. Durante il quale ti soccorreranno due irrinunciabili guide: la tua esperienza professionale nella giurisdizione pregressa ed il contatto che con essa saprai mantenere, e un forte dimensione deontologica a cui legare l’esercizio della funzione e della responsabilità, da una postazione in cui ti accorgi di esercitare un enorme potere.
Fra mille cose, una riflessione ulteriore vorrei riservarla, poi, al funzionamento della sezione disciplinare.
Non mi sfugge quanta prudenza occorra per trattare questa materia e quanto delicato sia il tema delle incompatibilità fra l’attività di amministrazione e quella giurisdizionale interna al Consiglio. Assai problematica per molteplici aspetti e difficile da affrontare in una prospettiva di riforma per l’impossibilità di controllare gli esiti di una discussione pubblica che facilmente scivolerebbe verso derive pericolose. Né voglio assecondare la suggestione, periodicamente riproposta, per cui “chi nomina non giudichi e chi giudica non nomini”. Ma è chiaro a tutti che la sezione disciplinare accrescerebbe ulteriormente la sua autorevolezza e apparenza di imparzialità se la funzione giurisdizionale interna al Consiglio, con le stesse caratteristiche di composizione e di eleggibilità, fosse separata dalla diversa e complessa funzione amministrativa. Ma non è tempo per parlare di riforme in questo settore. Piccole cose però si possono fare. Una, con un piccolo sforzo organizzativo interno, può essere quella di evitare che almeno i componenti titolari della sezione disciplinare compongano la prima commissione. Evitare che il giudice, per le inevitabili sovrapposizioni di alcune vicende fra profili disciplinari e paradisciplinari che di fatto si realizzano in prima commissione, sia stato partecipe delle attività di commissione, abbia svolto attività istruttoria, sia stato relatore di pratiche i cui fatti poi si trova a giudicare in disciplinare. Una minima soluzione, forse solo estetica, che però può rappresentare un segnale di attenzione per i magistrati incolpati.
Inoltre è utile e necessario prestare la massima attenzione all’organizzazione tabellare della sezione, alla gestione dei carichi di lavoro, alla ricorrenza degli impedimenti dei giudici ed alle conseguenti sostituzioni, alla predeterminazione dei collegi, alla gestione dei rinvii fuori udienza, alla effettiva partecipazione del Vice presidente alle udienze ed alla generale attività di direzione della sezione. Occorrono provvedimenti organizzativi che il Vice Presidente deve assumere, quale Presidente della Sezione disciplinare, e che, a mente del nuovo Regolamento, deve portare in plenum per la presa d’atto.
Più in generale, poi, mi pare giunto il tempo per una riflessione sulle regole che caratterizzano il processo disciplinare e sulle garanzie per l’incolpato.
Ma di questo e altro non è possibile trattare in questa sede, di confusi e sparsi pensieri di un ex Consigliere.
Antonello Ardituro
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