ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sulla commerciabilità della cannabis sativa
La sesta Sezione della corte di Cassazione, con la sentenza n. 4920 del 2019, motiva la decisione assunta in tema di commerciabilità della cannabis light.
La liceità della commerciabilità è corollario logico giuridico della liceità della coltivazione come introdotta della legge n. 242 del 2016, come peraltro già affermato dalla giurisprudenza di merito (Tribunale di Ancona 27.7.2018; Tribunale di Rieti 26.7.2018; Tribunale Macerata 11.7.2018; Tribunale Asti 4.7.2018).
La liceità della coltivazione della cannabis sativa contenente principio di thc inferiore allo 0,6% determina l’effetto che detta sostanza non è soggetta alla disciplina di cui al d.p.r. n 309 del 1990, al pari di altre varietà vegetali che non rientrano nelle tabelle allegate al predetto d.p.r., vale dunque il principio generale secondo il quale la commercializzazione di un bene che non presenti specifici divieti o controlli preventivi previsti dalla legge deve ritenersi consentita.
Decisioni difformi sono state assunte dalla III e dalla IV sezione della Corte di Cassazione per cui si attende la remissione alle Sezioni Unite.
Nota redazionale
Nessuno deve marcire in carcere
Per non spegnere i riflettori, come ci esorta a fare Glauco Giostra con il suo articolo dal titolo Oltraggi visivi (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-processo-penale/563-oltraggi-visivi), abbiamo ritenuto utile pubblicare la sentenza della V sezione penale n. 50187 /2017 in tema di continenza, valenza sociale delle parole e obiettiva lesività dell’onore di espressioni contro l’umanità della persona.
La corte ricorda che nessuno, nemmeno chi è stato dichiarato colpevole di delitti efferati, può essere disumanizzato e assimilato a concetti ripugnanti o cose destinate a marcire.
E’ proprio il riconoscimento dei diritti fondamentali e irrinunciabili della persona e il rispetto della dignità umana che qualificano la superiorità dell’ordinamento statale necessariamente fondato sulla centralità della protezione dell’individuo.
“Deve marcire in carcere” è una frase che mai avremmo voluto sentir pronunciare da un Ministro della Repubblica dal quale ci si aspetta il rispetto dei principi della nostra Costituzione e dello Stato di diritto.
Nota redazionale
Caso Diciotti. Brevi note sulla decisione del Tribunale dei Ministri di Catania di Sandro Saba
L’autore affronta le questioni sottese all'avvio della procedura per il rilascio dell’autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro Salvini, la prospettiva normativa, le violazioni accertate, il reato ministeriale. Evidenzia, sotto il profilo tecnico giuridico, come tra la tesi dell’ accertamento giurisdizionale del reato, in applicazione del principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti la legge, e quella dell’insindacabilità dell’atto politico si tratti di coniugare l’istanza di legalità e con l’autonomia dei poteri. Il nostro augurio è che il senato decida con la forza del ragionamento, nel rispetto dei principi costituzionale, e non con la forza della maggioranza.
Sommario: 1. La decisione. Gli accadimenti tra il 15 e il 25 agosto 2018. - 2. Il quadro normativo. Le violazioni riscontrate. - 3. L’ipotesi di delitto quale reato ministeriale. - 4. La tesi dell’insindacabilità dell’atto politico nella pronuncia del Tribunale dei Ministri. - 5. Una diversa soluzione ermeneutica: la sindacabilità a geometrie variabili dell’atto politico.
1. La decisione. Gli accadimenti tra il 15 e il 25 agosto 2018.
Con provvedimento depositato il 22 gennaio 2019, il Tribunale di Catania – Sezione Reati Ministeriali ha disposto, ex art. 8, comma 1, l. cost. 16 gennaio 1989, n. 1, la trasmissione degli atti al Presidente del Senato per l’avvio della procedura prevista dall’art. 9, legge costituzionale citata, per il rilascio dell’autorizzazione a procedere nei confronti del Senatore Matteo Salvini, in ordine al reato di sequestro di persona aggravato (ai sensi dell’art. 605, commi 1, 2 n. 2 e 3, c.p.), per aver, nella sua qualità di Ministro dell’Interno e con abuso dei propri poteri, privato della libertà personale 177 migranti di varie nazionalità (tra cui soggetti minori d’età), giunti al porto di Catania a bordo dell’unità navale di soccorso “U. Diciotti” della Guardia Costiera italiana (fatto commesso dal 20 al 25 agosto 2018).
La decisione prende le mosse dalla ricostruzione degli accadimenti tra il 14 agosto 2018 (cui risale l’avvistamento del barcone a bordo del quale viaggiavano i migranti) e il successivo 25 agosto 2018 (allorquando il Ministro dell’Interno, in tarda serata, ha autorizzato lo sbarco di quanti ancora a bordo dell’unità navale di soccorso). Il 14 agosto la Centrale Operativa del Comando Generale delle Capitanerie di Porto – Guardia Costiera (IMRCC – Italian Maritime Rescue Coordination Centre) è stata informata dell’avvistamento di un barcone con numerose persone a bordo, giunto l’indomani in zona SAR maltese (dopo un tentativo d’intervento della guardia costiera libica). Alle ore 00:28 del 15 agosto 2018, quanto l’imbarcazione si trovava ancora in acque SAR maltesi, l’IMRCC ha allertato l’Ufficio Circondariale Marittimo di Lampedusa del possibile arrivo del barcone nell’area di competenza, provvedendo alle successive ore 08:00 a chiedere alle Autorità maltesi di comunicare le proprie intenzioni sull’operazione di salvataggio, rispondendo tuttavia RCC – Malta che stava procedendo al monitoraggio della situazione, non qualificata come “evento SAR” (Search and Rescue), in assenza di pericolo di affondamento. Poiché nel frattempo l’IMRCC era stata contattata mediante telefono satellitare dai migranti, che avevano segnalato le difficoltà dell’imbarcazione a proseguire nella navigazione, alle ore 20:24, preso atto dell’attendismo di Malta, la Centrale Operativa ha informato il competente Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno della predisposizione di mezzi idonei a intervenire qualora il barcone fosse entrato in acque SAR italiane, avanzando una preliminare richiesta di indicazione di POS (Place of Safety), dove sbarcare i migranti eventualmente soccorsi. Il mattino del 16 agosto 2018, i migranti hanno chiesto immediati soccorsi all’IMRCC, avendo il natante iniziato a imbarcare acqua. Preso atto dell’atteggiamento maltese (che disconosceva la situazione di emergenza), l’IMRCC, ricevuta ulteriore richiesta di SOS, ha disposto l’intervento delle proprie motovedette (che stazionavano in acque SAR italiane), ordinando il soccorso dei migranti in acque SAR maltesi, atteso l’imminente affondamento dell’imbarcazione. Effettuato il salvataggio verso le ore 04:00, tenuto conto del peggioramento delle condizioni atmosferiche, le due motovedette hanno raggiunto le coste dell’isola di Lampedusa, ove, alle ore 07:43, si è proceduto al trasbordo dei 190 naufraghi (143 uomini, 10 donne e 37 minori) sulla motonave “U. Diciotti”, nominata coordinatrice SAR dalla Centrale Operativa di Roma. Alle ore 10:00, il Comandante ha attivato il protocollo sanitario MEDEVAC, autorizzando lo sbarco a Lampedusa di 13 migranti in precarie condizioni di salute. Nel frattempo, proseguendo la controversia tra le Autorità italiane e quelle maltesi sulla competenza a indicare il porto dove sbarcare i migranti, la “U. Diciotti” continuava a stazionare nei pressi dell’isola di Lampedusa. Il 17 agosto 2018 l’IMRCC ha inviato, alle ore 22:15, una nuova richiesta di POS al Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione (analoga richiesta è stata inoltrata alle Autorità maltesi). La sera del 19 agosto 2018, il Comando Generale delle Capitanerie di Porto ha dato ordine alla “Diciotti” di dirigersi verso Pozzallo, dove l’unità di soccorso è giunta il mattino successivo. Il 20 agosto 2018 l’IMRCC Roma ha ordinato alla motonave di raggiungere Catania, ove ha attraccato alle ore 23:49, con a bordo i 177 migranti rimasti. Il Comandante ha, tuttavia, ricevuto l’ordine di non calare la passerella e lo scalandrone. Permanendo la situazione di stallo e di diniego di POS, il 22 agosto 2018, su esplicita richiesta del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minori di Catania, il Ministero dell’Interno ha autorizzato lo sbarco dei soggetti minorenni non accompagnati. Dopo ulteriore e inutile attesa protrattasi per altri due giorni, il 24 agosto 2018 l’IMRCC Roma ha inviato una terza richiesta di POS. Solo nella tarda serata del 25 agosto 2018, il Ministero dell’Interno ha autorizzato lo sbarco dei migranti ancora a bordo. Le operazioni, iniziate alle ore 00:08 del 26 agosto 2018, si sono concluse poche ore dopo con il trasferimento degli stessi presso l’Hotspot di Messina, dove sono state ultimate le procedure di riconoscimento e identificazione.
Reputa il Collegio desumibile con certezza dalle esternazioni del Ministro dell’Interno agli organi di stampa nonché dalle dichiarazioni rese dai massimi vertici amministrativi competenti l’esistenza di una precisa volontà del Ministro a fondamento della decisione del Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione di non esitare tempestivamente la richiesta d’indicazione di POS avanzata in data 17 agosto 2018 dal MRCC Roma.
2. Il quadro normativo. Le violazioni riscontrate.
Il Tribunale di Catania, a fronte della ricostruzione degli accadimenti offerta, ha riscontrato la violazione di plurimi parametri normativi.
Innanzitutto, della Convenzione internazionale di Amburgo sulla ricerca e il soccorso marittimi del 1979 (c.d. Convenzione SAR – Search and Rescue, ratificata in Italia con l.n. 147/89), del decreto di attuazione d.p.r. n. 662/94, della Risoluzione MSC 167-78 nonché della direttiva SOP 009/15. La Convenzione (concretamente attuata nell’ordinamento interno col menzionato regolamento del 1994) obbliga gli Stati parte a garantire, nelle regioni SAR di competenza (ripartite d’intesa tra gli stessi), che sia prestata assistenza a ogni persona in pericolo in mare (senza distinzioni relative alla nazionalità o allo status di tale persona o alle circostanze nelle quali venga trovata) nonché a fornirle le prime cure mediche e di altro genere e a trasferirla in un luogo sicuro (POS – Place of Safety), ossia una località dove le operazioni di soccorso possano considerarsi concluse e dove: a) la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non sia più minacciata; b) le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possano essere soddisfatte; c) possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale. Così le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (di cui alla Risoluzione MSC 167-78 del maggio 2004), ove si prescrive, peraltro, alle parti contraenti di dotarsi di un Centro nazionale di coordinamento delle attività di soccorso (MRCC – Maritime Rescue Coordination Centre) nonché di appositi piani operativi. In Italia il piano operativo è stato adottato con direttiva SOP 009/15, edita nel settembre 2015 dal Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto – Guardia Costiera (l’IMRCC), con l’obiettivo di individuare le procedure da seguire per una più rapida e tempestiva individuazione del POS nei casi in cui l’IMRCC abbia assunto il coordinamento di operazioni di soccorso, quand’anche al di fuori della Search and Rescue Region (SRR). Nel dettaglio, s’è previsto che, ove l’attività di soccorso in mare sia stata effettuata materialmente da unità navali della Guardia Costiera italiana, la richiesta di assegnazione del POS debba essere presentata da MRCC Roma al Centro nazionale di coordinamento (NCC), con successivo inoltro al Dipartimento per le Libertà Civili e per l’Immigrazione del Ministero dell’interno, competente all’indicazione del POS ove operare lo sbarco. Ora, reputa il Tribunale dei Ministri che detta disciplina sia stata violata nel caso sub iudice, attesa l’omessa indicazione del place of safety da parte del Dipartimento per le Libertà Civili e per l’Immigrazione del Ministero dell’interno sino al 25 agosto 2018, a fronte d’istanza validamente inoltrata da MRCC Roma già in data 17 agosto 2018.
Si ritiene, in secondo luogo, violato il precetto di cui all’art. 10ter, comma 1, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (introdotto con d.l. 17 febbraio 2017 n. 13, conv. in l. 13 aprile 2017 n. 46), che esclude qualsivoglia forma di costrizione dei migranti salvati in mare, cui è garantita l’immediata conduzione in strutture ricettive, per le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico e la presentazione di istanze volte all’attivazione di procedure di protezione internazionale, potendo le attività di prima assistenza e soccorso essere prestate al di fuori dei centri istituiti soltanto per il tempo strettamente necessario all’avvio ai predetti centri o all’adozione dei provvedimenti occorrenti per l’erogazione di specifiche forme di assistenza di competenza dello Stato (così l’art. 23, comma 1, d.p.r. 31 agosto 1999, n. 394, Regolamento attuativo del t.u. Immigrazione), presupposti della disciplina in deroga evidentemente non ricorrenti nel caso di specie. V’è, infine, la violazione del divieto assoluto di respingimento alla frontiera di minori stranieri non accompagnati, sancito all’art. 19, comma 1bis, citato decreto legislativo (comma inserito dalla l. 7 aprile 2017, n. 47), atteso il ritardato sbarco degli stessi (risalente al 22 agosto 2018 e, peraltro, disposto su sollecitazione del Procuratore della Repubblica per i Minorenni di Catania).
Il Tribunale di Catania evoca, inoltre, le sentenze C. edu, 1° settembre 2015 e 15 dicembre 2016, Khlaifia e altri c. Italia, ove s’è ritenuta la violazione dell’art. 5, par. 1, CEDU (che consente la limitazione della libertà personale, per finalità di gestione del fenomeno migratorio, solo in presenza di base legale nel diritto interno) in ipotesi di trattenimento forzoso presso i centri di soccorso e di prima accoglienza (di cui all’art. 10ter t.u.), in quanto attuata in difetto d’idonea base giuridica, prevedendo l’ordinamento italiano, quale unica forma lecita di trattenimento dello straniero, la misura della detenzione amministrativa nei centri di permanenza per i rimpatri, ex art. 14 t.u., soggetta, come noto, alla convalida dell’Autorità giudiziaria ordinaria (commi 3 ss.).
3. L’ipotesi di delitto quale reato ministeriale.
Il Tribunale di Catania reputa, pertanto, fondata la notitia criminis a carico del Ministro dell’Interno, in ordine al delitto di sequestro di persona aggravato di cui all’art. 605 c.p., avendo questi, nella veste di pubblico ufficiale e con abuso delle funzioni attribuitegli, arbitrariamente posto il proprio veto all’indicazione da parte del Dipartimento per le Libertà Civili e per l’Immigrazione di un place of safety, quale atto propedeutico e necessario per autorizzare lo sbarco, così determinando la forzosa permanenza dei migranti a bordo dell’unità navale “U. Diciotti” (tra cui soggetti minori d’età), con conseguente illegittima privazione della loro libertà personale per un apprezzabile lasso temporale (dal 20 agosto 2018, data dell’ormeggio in Catania, sino al 25 agosto 2018), al di fuori dei casi consentiti dalla legge.
Esclude il Collegio che il reato sia stato commesso in presenza di cause di giustificazione, in particolare ex art. 51 c.p. (esercizio di un diritto o adempimento di un dovere). Il Tribunale s’è, invero, confrontato con l’efficacia potenzialmente scriminante dell’esercizio dei poteri accordati al Ministro dell’Interno, quale autorità nazionale di pubblica sicurezza, ai sensi dell’art. 1, l. 1° aprile 1981, n. 121. Tuttavia, s’osserva come, nel caso di specie, lo sbarco dei 177 cittadini stranieri non regolari non potesse costituire un problema cogente di ordine pubblico, essendosi, da un lato, assistito nel medesimo periodo a numerosi sbarchi di migranti destinatari di diverso trattamento e non risultando, dall’altro, che tra gli stranieri a bordo della “Diciotti” vi fossero soggetti pericolosi per la sicurezza e l’ordine pubblico nazionale. Ne consegue che la decisione del Ministro non è stata dettata da esigenze di ordine pubblico in senso stretto bensì da motivazioni meramente politiche (estranee alla procedura amministrativa prescritta dalla summenzionata disciplina internazionale e di diritto interno).
Del delitto si afferma, infine, la natura ministeriale (e, così, la competenza funzionale del Tribunale dei Ministri) in ragione della perpetrazione dello stesso nell’esercizio della funzione governativa, facendo applicazione delle coordinate ermeneutiche offerte dalla pronuncia Cass. pen., S.U., 1° agosto 1994, n. 14, a mente della quale, ai fini del giudizio sulla ministerialità del reato, accanto alla particolare qualificazione giuridica soggettiva dell’autore, occorre unicamente ricercare un rapporto di strumentale connessione fra la condotta integratrice dell’illecito e le funzioni esercitate dal Ministro, rapporto che sussiste tutte le volte in cui l’atto o la condotta siano comunque riferibili alla competenza del soggetto, dovendo, invece, ritenersi siano esclusi dalla categoria quei reati in cui sia ravvisabile un rapporto di mera occasionalità tra la condotta illecita e l’esercizio delle funzioni (cfr. Cass. pen., sez. V, 6 agosto 2014, n. 34546 nonché Cass. pen., sez. VI, 20 maggio 1998, n. 8854). Per contro, non integra requisito del reato ministeriale che lo stesso o il suo movente abbiano carattere politico, né che vi sia la presenza di un interesse pubblico collegato alla funzione esercitata dal ministro, in quanto criteri idonei a giustificare la concessione o la negazione dell’autorizzazione a procedere da parte della Camera dei deputati o del Senato della Repubblica, ma non certamente qualificabili come condizioni per la configurabilità di reati ministeriali.
4. La tesi dell’insindacabilità dell’atto politico nella pronuncia del Tribunale dei Ministri.
Esclusa la rilevanza, quale scriminante, delle ragioni politiche sottese alla condotta serbata del Ministro dell’Interno, il Collegio ne indaga la possibile qualificazione in termini di atto politico. Reputa, infatti, il Tribunale che l’eventuale inclusione della decisione ministeriale nel novero degli atti politici ne determinerebbe l’insindacabilità tout court da parte dell’Autorità giudiziaria.
Secondo consolidata giurisprudenza amministrativa, la politicità dell’atto deriva dalla convergente presenza di due requisiti, l’uno soggettivo l’altro oggettivo. In ordine al primo (che attiene alla provenienza del provvedimento), deve trattarsi di «atto emanato dal governo, e cioè dall’autorità cui compete, altresì, la funzione d’indirizzo politico e di direzione al massimo livello della cosa pubblica» (cfr. C. Stato, sez. V, 6 maggio 2011, n. 2718 e C. Stato, sez. V, 6 ottobre 2009, n. 6094). Sotto il profilo oggettivo, invece, si deve essere al cospetto di un atto adottato «nell’esercizio di un potere politico, anziché nell’esercizio di un’attività meramente amministrativa», che «deve riguardare la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione» (si vedano C. Stato, sez. IV, 12 marzo 2001, n. 1397 nonché TAR Veneto, sez. III, 25 maggio 2002, n. 2393), talora specificandosi che «gli atti politici costituiscono espressione della libertà politica commessa dalla Costituzione ai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione di esigenze unitarie ed indivisibili a questo inerenti e sono liberi nella scelta dei fini, mentre gli atti amministrativi, anche quando sono espressione di ampia discrezionalità, sono comunque legati ai fini posti dalla legge» (cfr. C. Stato, sez. V, 27 luglio 2011, n. 4502 e C. Stato, sez. V, 23 gennaio 2007, n. 209; in dottrina, per un’attenta disamina dell’istituto, G. Tropea, Genealogia, comparazione e decostruzione di un problema ancora aperto: l’atto politico, in Dir. amm., 2012, III, p. 329 ss.).
Ora, il Collegio non ravvisa, nel caso sub iudice, gli estremi della politicità testé descritti, attesa la natura propriamente amministrativa dell’atto omesso (o meglio illegittimamente ritardato), vincolato nell’an nonché di immediata e diretta incidenza nella sfera giuridica soggettiva e individuale dei destinatari. Preme, peraltro, evidenziare come, in subiecta materia, si sia esclusa la caratura politica del decreto di espulsione emesso dal Ministro dell’Interno ai sensi dell’art. 13, comma 1, t.u. (così C. Stato, sez. VI, 16 gennaio 2006, n. 88), diversamente reputato atto di alta amministrazione (dunque soggetto al giudizio di legittimità, sebbene limitato, in ragione della latitudine dell’apprezzamento discrezionale, al vaglio estrinseco in ordine alla mancanza di una motivazione adeguata o alla sussistenza di eventuali profili di travisamento, illogicità o arbitrarietà), argomento che si menziona per evidente specularità e contiguità logica.
5. Una diversa soluzione ermeneutica: la sindacabilità a geometrie variabili dell’atto politico.
La tesi dell’assoluta insindacabilità dell’atto politico da parte del Giudice ordinario, pur autorevolmente sostenuta, non pare pienamente condivisibile. Innanzitutto, per l’assenza di disposizioni normative del medesimo tenore dell’art. 7, comma 1, c.p.a. (che pone il divieto di giustiziabilità innanzi al Giudice amministrativo), norma che, in quanto eccezionale, risulta insuscettibile di applicazione analogica (così già O. Ranelletti-A. Amorth, Atti politici (o di Governo), in NDI, I, 2, Torino, 1958, p. 1515, in relazione all’art. 31 t.u. C. Stato). Va, inoltre, evidenziata la diversità strutturale del giudizio ordinario (rispetto a quello amministrativo), avente principalmente a oggetto il vaglio di liceità di condotte (si veda, sulla distinzione fra illegittimità e illiceità, E. Guicciardi, L’atto politico, in ADP, 1937, 504-505): in altri termini, il Giudice ordinario conosce della legittimità dell’atto soltanto in via incidentale, quale mero elemento della fattispecie fattuale dedotta, di cui verificare l’aderenza al paradigma normativo di riferimento, secondo operazioni logiche di sussunzione o distinzione (cfr. Cass. pen., S.U., 21 dicembre 1993, n. 11653 nonché, da ultimo, Cass. pen., sez. III, 10 ottobre 2017, n. 46477), senza, di norma, adottare pronunce demolitorie (per scongiurare le quali – esito tipico del giudizio amministrativo – s’è posto per l’atto politico il limite d’impugnabilità).
Né può, surrettiziamente, sostenersi l’idoneità dell’atto, in sé considerato, a elidere l’antigiuridicità della condotta tipica, in particolare ai sensi dell’art. 51 c.p., qualora il provvedimento, lungi dal rappresentare l’antecedente della condotta, integri esso stesso il fatto di reato (per evidente circolarità logica dell’opposto ragionamento).
In definitiva, non paiono riscontrabili nella disciplina dell’illecito penale argomenti a sostegno dell’imperscrutabilità tout court dell’atto politico (come fosse attributo suo proprio), dovendosi, di contro, analizzare il tema della punibilità puntualmente verificando la sussistenza di guarentigie eventualmente accordate dall’ordinamento a tutela della funzione pubblica. Si fa, evidentemente, riferimento alle immunità riconosciute dalla Costituzione, che costituiscono il corollario operativo dell’autonomia accordata ai poteri supremi dello Stato. Spetta, dunque, all’interprete coniugare le opposte istanze – legalità secondo il diritto comune e autonomia dei poteri – applicando istituti positivamente disciplinati.
In alcuni casi l’immunità compenetra intimamente l’apprezzamento sostanzialistico, talora integrando causa di giustificazione (Cass. pen., sez. V, 24 novembre 2006, n. 38944) o, comunque, di non punibilità (Cass. pen., sez. V, 11 aprile 2008, n. 15323 e Cass. pen., sez. V, 22 novembre 2007, n. 43090), talaltra concorrendo persino alla perimetrazione del fatto tipico. In merito alla possibile incidenza della prerogativa tutelata sulla tipicità della condotta, si veda la più recente giurisprudenza di legittimità (così Cass. pen., sez. VI, 11 settembre 2018, n. 40347), ove si è esclusa la configurabilità del delitto di corruzione propria nell’esercizio della funzione legislativa, ostandovi il combinato disposto degli artt. 64, 67 e 68 Cost. (che non consente l’individuazione di doveri specificamente e riconoscibilmente correlati al mandato parlamentare), così residuando la sola punibilità per il meno grave reato di corruzione impropria (per effetto del mero divieto di ricevere indebite remunerazioni per lo svolgimento del munus publicum).
In altri, derivando l’immunità dall’attivazione di particolari procedure, la distinzione tra penale rilevanza e concreta punibilità rimane netta: così in ipotesi di reati ministeriali (art. 96 Cost.), in relazione ai quali soltanto il rituale svolgimento dell’iter procedurale prescritto (con l’insindacabile valutazione di cui all’art. 9, comma 3, l. cost. 16 gennaio 1989, n. 1) determina esenzione dalla reazione sanzionatoria. Tanto induce a ritenere che l’imperscrutabilità non sia attributo genetico dell’atto (quand’anche politico), il quale, diversamente, “diviene” immune da stigma penale solo all’esito della procedura a tutela della prerogativa statuale, nel vaglio diacronico che s’è descritto.
LA DIFFICILE TRASPOSIZIONE DEL CONCETTO DI PERDITA DI CHANCE NEL DANNO NON PATRIMONIALE a margine di Cass. 5641/2018
La Corte di Cassazione torna ad occuparsi del danno non patrimoniale, in particolare, è la volta del danno da perdita di chance che da anni la giurisprudenza tenta di armonizzare con i principi della responsabilità civile e della preventiva verifica del nesso causale. La Corte chiarisce che la chance nasce e si sviluppa in ambito patrimoniale e poco senso ha trasporla nell’ambito del danno non patrimoniale e, ancora una volta, dà un monito alla scorretta sovrapposizione tra danno – evento e verifica del nesso causale.
Sommario 1. La perdita di chance. - 2. Il caso di specie. - 3. La chance come concetto di sola rilevanza patrimoniale che richiede sempre il previo accertamento del nesso causale.
1. La perdita di chance
La parola chance, che deriva etimologicamente dal latino cadentia” (cadere dei dadi), esprime il concetto di “buona probabilità di riuscita”.
Dal riferimento letterale, è evidente che si tratta di una situazione orientata ad un’utilità o ad un vantaggio e caratterizzata da una possibilità di successo.
La dottrina prevalente e la giurisprudenza di legittimità definiscono la chance come una concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o vantaggio
La perdita di chance è attualmente riconosciuta come danno risarcibile e appare funzionale, quindi,
alla tutela del patrimonio del soggetto sia sul versante della perdita dell’occasione, sia su quello delle utilità che da quell’occasione potevano (sarebbero potute) derivare (v. art. 1223 c.c.).
I problemi che più hanno interessato la sua rilevanza sono l’operatività del concetto di probabilità relativa sia considerando la perdita di chance come una tecnica di accertamento della causalità sia come un criterio di liquidazione del danno.
Preliminarmente, chiarito che l’argomento in esame milita nell’area del danno risarcibile, la cui fisionomia, si articola ex art. 1223 c.c. nelle due sottocategorie normative del danno emergente inteso come “violazione dell’interesse del creditore al conseguimento del bene dovuto e alla conservazione degli altri beni che integrano il suo patrimonio” e del lucro cessante, che “s’identifica con l’incremento patrimoniale che il danneggiato avrebbe conseguito mediante l’utilizzazione della prestazione inadempiuta o del bene leso ovvero mediante la realizzazione del contratto”, occorre specificare che il danno da perita di chance è stato talvolta ricondotto al lucro cessante, talaltra al danno emergente.
Per ricostruire, accertare e quantificare questo tipo di danno, sono state elaborate due opposte teorie: quella eziologica e quella ontologica.
Secondo la tesi che ricostruisce la chance in chiave eziologica, quest’ultima si configura come “occasione persa” intesa in termini di lucro cessante. Diversamente, la tesi che ricostruisce la chance in chiave ontologica la qualifica in termini di danno emergente, come posta attiva già esistente nel patrimonio del soggetto che “non va configurato come danno futuro, legato alla ragionevole probabilità di un evento, ma come danno concreto, attuale, certo, ricollegabile alla perdita di una prospettiva favorevole, già presente nel patrimonio del soggetto”.
2. Il caso di specie.
Di recente la Cassazione ha affrontato la configurabilità del danno da perdita di chance nella responsabilità medica.
Per vero, l’ambito medico legale è ampiamente battuto dalla giurisprudenza che, anche quanto al danno da perdita di chance, ha avuto modo di individuare quest’ultimo non solo nel danno-conseguenza patrimoniale derivante dalla perdita totale o parziale della capacità lavorativa come fonte di reddito, ma anche a fronte di un danno non patrimoniale inveratosi nella perdita o riduzione della possibilità di conseguire la guarigione ovvero di realizzare un miglioramento di uno stato di malattia.
Più nel dettaglio, è il caso in cui un’omessa od errata diagnosi ha privato il paziente della possibilità di vivere più a lungo.
Ebbene, la giurisprudenza, nel caso richiamato, ha costantemente riconosciuto la configurazione di un danno da perdita della chance, con tutto quanto ne consegue in termini di liquidazione e quantum risarcitorio.
Da ultimo, però, rivoluzionaria appare la sentenza in commento che, abiurando la figura del danno da perdita di chance, richiama piuttosto la configurabilità di un danno autonomo e distinto.
L’occasione di analisi muove dalla trasformazione, ritenuta illegittima ed arbitraria, ad opera della Corte d’appello, del danno da perdita del rapporto parentale, richiesto e liquidato in primo grado, in una fattispecie di danno del tutto diversa individuata nel danno da perdita di chance di una più lunga sopravvivenza della paziente.
In tal senso, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito più volte che non esiste identità sostanziale di petitum tra una richiesta di risarcimento per un evento di danno da lesione di un interesse costituzionalmente tutelato (sia esso la salute o un rapporto parentale) che, nel corso del giudizio, muti in domanda per danno da perdita di chance, attesa l’ontologica diversità del bene tutelato (Cass. 13491/2004 e Cass. 21245/2012).
3. La chance come concetto di sola rilevanza patrimoniale che richiede sempre il previo accertamento del nesso causale.
Così impostato il problema, la Cassazione chiarisce che il danno da perdita di chance nasce e si sviluppa nell’area del danno patrimoniale, dibattuta essendone la sola forma, cioè quella del danno emergente o del lucro cessante.
Per avvalorare la tesi si richiama il primo intervento che storicamente ha riconosciuto la chance quale entità risarcibile ponendo a fondamento della decisione, evidentemente rationes di rilievo patrimoniale:
Così chiarito, la Corte ritiene che il concetto di chance mal si concilia con il danno non patrimoniale e con la perdita della possibilità di conseguire un risultato migliore.
Del resto, si richiama il sostrato fattuale sul quale si fonda la rilevanza della chance che è intesa quale possibilità di conseguire un risultato migliorativo della situazione preesistente.
La chance patrimoniale, infatti, postula la preesistenza di un quid su cui va ad incidere sfavorevolmente la condotta colpevole del danneggiante impedendone la possibile evoluzione migliorativa, così non è nell’area del danno non patrimoniale rappresentata anch'essa (e segnatamente nel sottosistema della responsabilità sanitaria), sul piano funzionale, dalla possibilità di conseguire un risultato migliorativo della situazione preesistente, ma morfologicamente diversa rispetto alla prima: la presenza del sanitario, infatti, rappresenta una chance per il miglioramento delle condizioni di vita del pazienza “prima ancora della sua cancellazione colpevole”.
Manca, cioè, nel caso della condotta del medico, un quid, inteso come preesistenza di una situazione “positiva” che invece è peggiorata dalla condotta colpevole (il paziente è portatore di una condizione di salute che, prima dell'intervento del medico, rappresenta un pejus, e non un quid in positivo, sul piano della chance).
Questa diversità fattuale incide poi sulla liquidazione del danno posto che solo nel danno patrimoniale l’accertamento della chance può essere legato a valori oggettivi (id est, al risultato perduto), mentre per il danno non patrimoniale dovrà verificarsi la possibilità perduta di realizzo.
Inoltre, la Corte sottolinea che la qualificazione del danno come possibilità perduta non esclude la necessità di verifica del nesso causale tra condotta ed evento
“L'attività del giudice dovrà, pertanto, muovere dalla previa disamina della condotta (e della sua colpevolezza) e dall'accertamento della relazione causale tra tale condotta e l'evento di danno (la possibilità perduta), senza che i concetti di probabilità causale e di possibilità (e cioè di incertezza) dell'evento sperato possano legittimamente sovrapporsi, elidersi o fondersi insieme”
Ed è a questo punto che la sentenza chiarisce che “qualora l'evento di danno sia costituito non da una possibilità - sinonimo di incertezza del risultato sperato - ma dal (mancato) risultato stesso (nel caso di specie, la perdita anticipata della vita), non è lecito discorrere di chance perduta, bensì di altro e diverso evento di danno”.
La sentenza, più chiaramente, disegna alcune ipotesi verificabili in ambito sanitario:
“Ne consegue che l'incertezza del risultato incide non sulla analisi del nesso causale, ma sulla identificazione del danno, poiché la possibilità perduta di un risultato sperato (nella quale si sostanzia la chance) è la qualificazione/identificazione di un danno risarcibile a seguito della lesione
di una situazione soggettiva rilevante, e non della relazione causale tra condotta ed evento, che si presuppone risolta positivamente prima e a prescindere dall'analisi dell'evento lamentato come fonte di danno”
Si conclude, pertanto, che “ove risulti provato, sul piano etiologico, che la mancata diagnosi di una patologia tumorale abbia cagionato la morte anticipata del paziente, che sarebbe (certamente o probabilmente) sopravvissuto significativamente più a lungo e in condizioni di vita (fisiche e spirituali) diverse e migliori, non di "maggiori chance di sopravvivenza" sarà lecito discorrere, bensì di un evento di danno rappresentato, in via diretta ed immediata, dalla minore durata della vita e dalla sua peggiore qualità (fisica e spirituale), con tutto quanto ne discente in termini di quantificazione e liquidazione, a questo punto non limitato al lucro cessante o al danno emergente ( a seconda della tesi che si intende sposare).
Le affermazioni, in realtà, non sono nuove nel panorama giurisprudenziale. Già alcuni Tribunali di merito avevano affermato che il” ragionamento secondo cui la possibilità di conseguire un vantaggio rappresenta un bene (già) presente nel patrimonio del danneggiato (una sorta di avviamento), si può avere una sua logica relativamente ai diritti patrimoniali, non appare trasponendo nel campo del danno non patrimoniale (derivante dalla lesione di interessi non patrimoniali)" (Tribunale di Rimini, sez. civile, sentenza 04/11/2016).
Anche la verifica del nesso causale è stata sempre al centro del dibattito giurisprudenziale, la stessa sentenza del Tribunale di Rimini, con affermazione di forte impatto, si chiedeva come giustificare il fatto "che alla perdita di chance consegua un risarcimento che - salvo il profilo quantitativo - si correla allo stesso bene giuridico finale la cui lesione, in tesi, si è negato sia eziologicamente ascrivibile al danneggiante"
La questione resta discussa, ma è innegabile un orientamento interpretativo che cerca di restringere il concetto di chance risarcibile limitandola all’area della responsabilità patrimoniale, ferma restando la necessaria previa verifica del nesso causale.
Bioetica e biodiritto. Nuove frontiere
Roberto Giovanni Conti*
Sommario: 1.Il ruolo dei diritti fondamentali.2. Dalla vulnerabilità alla fragilità della persona, attraverso un inestricabile intreccio di diritti che reclamano tutti tutela e protezione. 3 La fame di dignità nel biodiritto. 4. Il principio di cooperazione fra i protagonisti delle vicende biogiuridiche, giudici e fonti. 5. Quale giudice per il biodiritto.
L’Autore torna a riflettere sui temi eticamente sensibili, provando ad individuare gli scenari che si aprono davanti agli operatori del diritto chiamati a maneggiare le vicende che ruotano attorno alla fragilità della persona. In questa ricerca coglie non solo la centralità della dignità umana, ma l’emersione del metaprincipio di cooperazione capace di produrre frutti fecondi nei rapporti fra giudici, interessi coinvolti e fonti.
1. Il ruolo dei diritti fondamentali.
È davvero un onore parlare dopo che il Premio Nobel per la pace Essid Abdelaziz ha infiammato i nostri cuori.
Proverò allora a pormi in continuità con i messaggi che lui ha lanciato, anzitutto mettendo in chiaro come il tema che intendo qui affrontare sulla base delle indicazioni degli organizzatori è esso stesso consustanziale rispetto a quello della pace e della giustizia, nel senso che non vi è pace e giustizia nel mondo se non si tutelano e garantiscono i diritti e le libertà fondamentali dell’uomo, bastando ricordare l’art.11 della Costituzione – che pone a giustificazione dell’adesione del nostro Paese alle organizzazioni internazionali le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni – insieme al Preambolo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, laddove riconosce che le Libertà fondamentali costituiscono le basi stesse della giustizia e della pace nel mondo e il cui mantenimento si fonda essenzialmente, da una parte, su un regime politico veramente democratico e, dall'altra, su una concezione comune e un comune rispetto dei Diritti dell'Uomo a cui essi si appellano.
Dunque, assodato il nesso di collegamento, indissolubile, fra diritti fondamentali, pace e giustizia, il tema del biodiritto è fortemente condizionato da alcuni fattori che credo vadano individuati con nettezza.
Da un lato assistiamo ad una diffusa e crescente sensibilità di una platea sempre più ampia attorno al ruolo dei diritti fondamentali, ormai avvertiti nel loro significato estremo che ad essi aggancia il controllo di legalità diffuso operato dall’ordine giudiziario[1].
A questa si affianca la crescita quasi esponenziale del numero dei diritti fondamentali e, con essi, la crescita delle fonti dai quali i diritti stessi promanano e dei plessi decisionali chiamati a riconoscerli ed applicarli.
Il governo delle fonti provenienti da sistemi autonomi ancorché collegati e delle interpretazioni che di queste stesse fonti offrono gli interpreti qualificati (secondo i diversi sistemi) danno al contempo la misura delle questioni che si pongono sul tavolo dell’operatore del diritto ma, direi ancora prima, innanzi a chi dovrebbe godere di quelle tutele offerte alle persone coinvolte.
Ruotando ora la lente verso il biodiritto, lo scenario non sembra per nulla diverso.
Si è assistito, in effetti, ad un’esplosione di diritti in favore di persone che, accomunate da una condizione di vulnerabilità, hanno via via fruito di tutele e protezioni crescenti, coinvolgendo una platea di soggetti sempre più ampia. Riavvolgendo quello che cinque fa, sempre camminando insieme a Cammino, provai a rappresentare sullo status e sulla condizione di vulnerabilità[2] , vale ora la pena di ricordare alcune delle più rilevanti novità nel panorama normativo e giurisprudenziale.
Il pensiero va immediatamente alle discipline in tema:a) di indennizzo per i casi di sovraffollamento carcerario (art.35 ter l. ord. pen.)- alla quale si è affiancata una giurisprudenza nazionale che ha raccolto il testimone lasciato dalla sentenza Torreggiani della Corte edu raggiungendo soglie elevate di protezione[3] –; b) di regolamentazione delle unioni civili (legge.n.76/2016); c) di tutela offerte, per via giurisprudenziale, alla condizione del soggetto adottato rispetto alla conoscenza delle proprie origini (Cass.S.U. n.1946/2018, Cass.n.6963/2018); d) di trascrizione di atto di nascita redatto all’estero su istanza di coppia omosessuale (Cass.n.19599/2016); e) di adozione non legittimante del minore da parte del partner dello stesso sesso del genitore (Cass.n.12962/2016).
Si arriva, così, fino alla più recente legge n.219/2017 dedicata alla relazione di cura fra medico e paziente ed alle disposizioni anticipate di trattamento, alla quale ha fatto seguito, ancora più di recente, l’ordinanza n.207/2018 della Corte costituzionale sul tema dell’aiuto al suicidio, nella nota vicenda Cappato.
2.Dalla vulnerabilità alla fragilità della persona, attraverso un inestricabile intreccio di diritti che reclamano tutti tutela e protezione
Cosa insegnano i recenti interventi legislativi e giurisprudenziali in campi eticamente sensibili?
Anzitutto, essi dimostrano la continua espansione delle forme di tutela che prendono in considerazione la fragilità della persona che il legislatore ed i giudici considerano come meritevole di tutela e protezione.
Emerge, così, la precisa scelta legislativa di normare vicende nelle quali la particolare posizione di debolezza di un soggetto suggerisce un intervento statale in funzione di sostegno o protettiva.
Un ulteriore tratto caratterizzante la materia biogiuridica è, a me pare, dato dal fatto che la condizione di fragilità di cui si è detto si declina spesso al plurale.
Ed infatti. la condizioni di fragilità viene posta a base di un intervento normativo prendendo come punto di riferimento diversi soggetti coinvolti, tutti direttamente esposti ad una situazione di potenziale debolezza.
Si pensi alla materia che riguarda le relazioni genitori separati-figli ed al contestato ddl Pillon che, al di là delle pertinenti ed autorevoli critiche ad esso rivolte, ho l’impressione sia partito proprio dall’idea che le relazioni familiari presentano un contenuto di vulnerabilità-fragilità non limitato a chi tradizionalmente viene considerato il perno della tutela (id est, il minore).
Non meno marcato mi pare risulti, in questa stessa prospettiva, il filo rosso che scorre all’interno della legge n.219/2017, solo apparentemente eretta per salvaguardare in via esclusiva e prioritaria la fragilità del paziente ed il suo diritto all’autodeterminazione, ed invece essa stessa dimostrativa che i vari soggetti ed interessi coinvolti – malato, parenti, fiduciari, persone che si prendono cura del malato, sanitari – in quel rapporto di cura possono versare in una condizione di fragilità idonea a giustificare l’adozione di misure protettive nei loro stessi confronti[4].
La pluralità della condizioni di fragilità di cui si diceva si declina, poi, anche in un altro senso.
A ben considerare, le contese fra genitori e figli minori in ambito familiare, fra parenti dei malati e loro congiunti, fra genitori di minori e sanitari o fra minori e genitori rispetto agli atti di cura, si muovono all’interno di un assai peculiare scenario nel quale tutti i protagonisti, a vario titolo, si sentono partecipi e portatori non del solo interesse individuale ma di quello ulteriore, in astratto appartenente ad un diverso soggetto ma che viene avvertito come proprio e rispetto al quale quegli stessi soggetti rivendicano il diritto di potere influire, in relazione alla particolare funzione svolta secondo decisioni che ritengono rivolte a difendere o valorizzare l’interesse altro. Da ciò consegue l’assai peculiare situazione che impone la piena valorizzazione e considerazione di questo fascio di interessi.
È dunque questa complessità delle vicende che ruotano attorno all’ambito biogiuridico a richiedere una capacità non solo di ascolto, ma di conoscenza ed approfondimento notevoli rispetto a fasci di interessi apparentemente autonomi e slegati ma invece, a mio avviso, talmente tra loro avviluppati ed aggrovigliati da escludere operazioni di automatica prevalenza dell’un diritto sull’altro, invece abbisognando di tutele e protezioni elastiche e creative, per dirla con Paolo Grossi.
3.La fame di dignità nel biodiritto.
Infine, le vicende appena ricordate fanno emergere, tutte, un bisogno estremo di considerare la dignità della persona come autentico supervalore che l’ordinamento, in tutte le sue diverse articolazioni, deve considerare e proteggere, alimentando ancora una volta i dubbi e le incertezze che questo concetto reca con sé[5].
Si deve convenire sull’insostituibilità del canone di dignità quale principio-base dal quale non può prescindersi ove si intende affrontare temi di biodiritto, pur nella difficoltà, spesso inestricabile, di offrire uno stabile e sicuro approdo – al giudice prima ed alla collettività – circa la soluzione della questione posta al suo vaglio.
Qualcosa di ulteriore merita di essere detto quando discutiamo di dignità più che di altri diritti fondamentali, che pure in essa trovano la loro copertura di base.
E quel qualcosa sta proprio nella consapevolezza di dovere rifuggire dall’idea che sia possibile ‘scrivere’ e ‘decodificare’, una volta per tutte, che cos’è la dignità, invece accettando l’idea per cui essa, spettando a qualsiasi essere umano, non può essere declinata senza un’adeguata interpretazione nelle diverse circostanze[6] e ‘non può essere perduta da alcun essere umano, anche da quello più misero e sofferente o da quello più miserabile e abbrutito’[7], al contempo rappresentando espressione massima della libertà (recte, autodeterminazione) dell’individuo e limite all’autonomia del medesimo soggetto[8]. Dignità della quale nessuno può essere deprivato, sia esso cittadino o straniero, “in quanto ogni persona è portatrice della dignità di tutta l’umanità.”[9]
4. Il principio di cooperazione fra i protagonisti delle vicende biogiuridiche, giudici e fonti.
Allora quali frontiere, quali ponti costruire in un periodo storico che sembra orientato verso logiche che tendono ad edificare barriere.
Ecco appunto, il ruolo e l’importanza dei diritti fondamentali, con tutta la complessità che questi determinano per l’attività di riconformazione dei dati normativi alla quale essi chiamano indefettibilmente gli interpreti quando i plessi decisionali – nazionali e sovranzionali, legislativi e giurisdizionali – su tali diritti si moltiplicano e tendono quasi naturalmente ad entrare in competizione fra loro.
Allora, rispetto a questi “scontri” quale arma prediligere, quella del conflitto bellicoso, quella della regolazione gerarchica fra i diversi plessi, quella della scelta tra chi dice sempre il giusto e chi declama ciò che è sbagliato, quella che predilige l’ottica nazionale come bene assoluto e guarda a quella sovranazionale come aggressiva e pericolosa minaccia al sovranismo, oppure quella che tende a considerare la prospettiva sovranazionale sempre e comunque prevalente, perché portatrice di valori che, in quanto destinati a ricadere su tradizioni diverse ma comuni, meritano una protezione superiore per la forza attrattiva che gli stessi hanno?
Nessuna di queste prospettive, a mio avviso, può e deve prevalere, convinto come sono dell’utilità di praticare e disseminare l’idea della cooperazione fra le fonti e fra gli interpreti. E ciò non in una logica buonista o di accomodamento, reputando per davvero che il confronto, quando si fa tra portatori di istanze realmente aperte all’interazione ed alla conoscenza reciproca, è in grado di realizzare frutti prima inimmaginabili.
Si tratta di una prospettiva che, riguardo alla funzione dei giudici, trae le sue origini dal principium cooperationis che, per dirla con Antonio Ruggeri, suggerisce di considerare tutti i giudici come “orizzontali”, siccome distinti tra di loro unicamente per le funzioni esercitate o, se si preferisce, per la tipicità dei ruoli, comunque bisognosi di essere espressi al massimo rendimento possibile ad ogni livello istituzionale, senza dunque alcuna “graduatoria” tra di loro: siano giudici comuni e siano pure giudici costituzionali o materialmente costituzionali, quali ormai in modo sempre più marcato e vistoso vanno conformandosi le stesse Corti europee[10].
Lo stesso principio, d’altra parte, alimenta i rapporti fra le diverse fonti dei diritti fondamentali, pienamente introiettato dalla nostra Costituzione che, aprendosi indiscutibilmente al riconoscimento del diritto dell’Unione europea ed ai diritti fondamentali di matrice internazionale, mostra attraverso il suo magnifico arsenale, costituito dagli artt.2,3,10,11 e 117, quanto sia la centralità della persona umana ad escludere l’idea stessa di una ‘scala’ fra le fonti e fra i valori fondamentali, questi ultimi invece tutti quanto abbisognando del sostegno delle Carte e dei loro interpreti per poter realizzare l’obiettivo di una sempre più elevato livello di protezione di quei valori[11].
Ed è, ancora, la stessa logica cooperativa a dovere essere preferita come regola aurea nei rapporti fra legislatore e giudici, dovendosi il primo orientare, quando in gioco è la materia del biodiritto, verso regolamentazioni minimali capaci di individuare la cornice generale al cui interno sussumere la singola vicenda, per poi lasciare al decisore di turno il ruolo di attuatore concreto del comando, in modo che esso sia modulato e modellato nel modo migliore rispetto alla singola vicenda ed agli interessi, sempre cangianti, che ivi emergono.
In questa prospettiva, proprio la legge n.219/2017 – al netto dei pur esistenti deficit che possono intravedersi al suo interno[12] – proseguendo la linea tracciata dalla legge n.6/2004[13], sembra essersi pienamente coniugata e coordinata con alcuni punti di partenza offerti dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione – al cui interno un ruolo fondamentale hanno svolto la Presidente Luccioli e la nota sentenza Englaro –. Ciò in uno spirito di piena e leale cooperazione, che ha visto, nel caso di specie, la legge fissare in termini astratti alcuni elementi di base già valorizzati in precedenza dalla giurisprudenza di legittimità all’interno di una disciplina che si presta, poi, ad essere attuata dal giudice nel caso concreto. Tutto all’interno di un circuito circolare che è destinato ad ulteriormente arricchirsi attraverso l’opera ermeneutica del giudice, al quale spetterà, eventualmente di colmare le lacune esistenti attraverso il ricorso ai principi fondamentali del sistema dotato di immediata precettività o di investire la Corte costituzionale per verificare l’esistenza di disposizioni che determinano uno iato con questi stessi principi, riletti anche attraverso le Carte dei diritti sovranazionali
Del resto, la stessa presa di posizione della Corte costituzionale nel già ricordato caso Cappato, nel concedere al legislatore un termine per normare la materia, non risulta essere tanto espressione di un conflitto fra giudici e legislatore ma, più che mai, desiderio di dialogo, di riconoscimento del ruolo istituzionale che legislatore e giudici hanno, ciascuno, all’interno delle prerogative costituzionali.
Alla medesima prospettiva di cooperazione credo debba ispirarsi l’attività del giudice chiamato ad affrontare questioni biogiuridiche.
Ciò vale, anzitutto, quando il giudice maneggia fonti sovranazionali.
In questa prospettiva si muovono nono solo i protocolli d’intesa conclusi fra le più alte giurisdizioni nazionali e la Corte edu a partire dal dicembre 2015[14] , ma lo stesso Protocollo n.16 annesso alla CEDU, che, non appena ratificato dall’Italia, offrirà alle Alte Corti nazionali la possibilità di dialogare direttamente con la Corte edu, formulando richieste di parere preventivo al quale seguiranno risposte del giudice europeo “non vincolanti”, anch’esse aperte al confronto franco ed aperto con il giudice nazionale e dunque ad una logica non di contrapposizione, ma di piena ed autentica cooperazione. Non è un caso che l’Adunanza Plenaria della Cassazione francese abbia, pr prima, attivato tale meccanismo in materia di maternità surrogata[15]
Per altro, verso, è fin troppo facile notare quanto decisivo sia stato l’impulso della giurisprudenza della Corte edu su diverse materie eticamente sensibili.
E tuttavia, l’osservatore attento e occhiuto non potrà fare a meno di notare che proprio in tale ambito spesso la Corte ha agito sia come propulsore per il riconoscimento di nuove nicchie di tutela, sia da mediatore rispetto a fenomeni che le tradizioni nazionali hanno, lentamente ma progressivamente ricondotto ad un livello tale da rendere poi necessario l’intervento omogeneizzante della Corte europea, generalmente rivolto ad approfondire gli standard di tutela più che a ridurli.
Insomma, un andamento altalenante, condizionato dal comune sentire delle legislazioni e delle giurisprudenze nazionali, tutte capaci di incidere su un testo, quello della Convenzione europea, vocato ad essere letto ed attuato in chiave dinamica[16].
Andamento che, in definitiva, è pur esso rispettoso delle realtà nazionali, invitate a considerare i livelli di tutela raggiunti, ad interrogarsi sulla compatibilità di quei livelli con i diritti di matrice convenzionale e dunque a cooperare attivamente nel processo di implementazione e massimizzazione delle tutele, con logiche antitetiche rispetto a quelle gerarchiche.
Non meno centrale per il biodiritto è, poi, la comparazione, anche questa destinata ad essere applicata e compresa secondo una chiave di lettura improntata a logiche di cooperazione.
Non può sfuggire, infatti, che la materia del fine-vita ha visto confrontarsi diverse soluzioni adottate in contesti socio-culturali diversi che hanno contribuito non poco a condizionare, per effetto della circolazione dei modelli e delle tecniche decisorie, quelle realtà nelle quali l’assenza di discipline normative ha lasciato per lungo tempo il giudice arbitro dei destini delle persone colpite da malattie terminali[17].
La prospettiva della comparazione è divenuta strumento di ridefinizione semantica di istituti per effetto dell’apertura del sistema interno al diritto internazionale e sovranazionale nonché metodo di lavoro basico per il giurista anche di civil law e, soprattutto, per il giudice che maneggia i diritti della persona e le scelte che questa compie.
Comparazione che non costituisce orpello ornamentale destinato ad abbellire e rendere dotte le decisioni del giudice, ma piuttosto criterio ermeneutico capace di giocare un ruolo di sostanza pieno ed importante quando il giudice è chiamato ad interpretare il quadro normativo primario di un sistema democratico fondato sulla persona o quello secondario o, ancora, ad esaminare gli effetti di lacune del sistema[18].
Ed è stata proprio Corte cost. n. 207/2018 a sottolineare la decisività del ricorso alla comparazione, allorché essa ha ritenuto di innovare in modo profondo l’indirizzo fino a quel momento espresso a proposito dei casi in cui la soluzione del quesito di legittimità costituzionale coinvolge l’incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone, in via diretta ed immediata, scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere. Colpisce, allora, che la legittimazione rispetto all’assai innovativa posizione della Corte costituzionale, espressa concedendo al legislatore un termine di un anno per legiferare sospendendo il giudizio di legittimità costituzionale sia stata desunta richiamando precedenti di altre corti supreme – Corte Suprema del Canada, sentenza 6 febbraio 2015, Carter c. Canada, Corte Suprema del Regno Unito, 25 giugno 2014, Nicklinson e altri – che avevano utilizzato analoghe forme di dialogo con il legislatore in materie eticamente sensibili. Un’ulteriore conferma di quanto le decisioni giudiziarie, oltre ad essere naturalmente vocate al dialogo fra le Corti[19], trovino sempre di più alimento proprio nella comparazione. Ed è forse superfluo evidenziare che questo processo si è compiuto senza tralasciare le radici del contesto nazionale nel quale il giudice è chiamato ad operare, ma nemmeno perdendo di vista la dimensione universale che certi valori tendono progressivamente ad acquisire.
5. Quale giudice per il biodiritto.
L’idea che mi sono fatto svolgendo il mestiere di giudice tutelare e, al contempo, tentando di approfondire il ruolo dei diritti fondamentali nelle materie che toccano i valori più cari alla persona umana, soprattutto quando versi in condizioni di vulnerabilità, è che l’operato del giudice riesce ad offrire al meglio la propria risposta quando coinvolge nel modo più pieno tutti gli interessi coinvolti, offre loro voce e dignità non nascondendoli, ma facendoli emergere in tutta la loro reale consistenza per poi tentare di fare al meglio ciò che è chiamato a fare per funzione, bilanciando i fasci di interessi coinvolti, considerarli tutti e quindi decidere, quando una decisione gli viene chiesta. Un’attività, quest’ultima, ancora una volta naturalmente vocata a realizzare una cooperazione fra i fasci di interessi coinvolti, per di più come già detto tra loro aggrovigliati al punto da rendere difficile l’individuazione dell’unico centro di imputazione[20]
Un’ottica, quest’ultima, tesa a favorire il bilanciamento fra diritti fondamentali qualunque ne sia la loro fonte, come di recente hanno riconosciuto le Sezioni Unite civili con la sentenza n.33208/2018, proprio a proposito di soggetti anch’essi fragili e vulnerabili quali possono risultare i collaboratori di giustizia sottoposti a programmi di protezione da parte dello Stato. Un’attività, quella giudiziale, mossa da un dato di partenza indefettibile, per cui qualunque valore fondamentale “ … è da sé medesimo[o] portato[o] ( e, comunque obbligato[o]) a comporsi armonicamente in sistema coi restanti valori. La “logica” dei valori è…quella del reciproco contemperamento, non già l’altra della tirannica sopraffazione di un valore sull’altro ( o sugli altri)” [21].
Ecco, così, emergere, lentamente ma inesorabilmente, la difficoltà del mestiere del giudice, per l’un verso orientato a concretizzare e materializzare nel modo più pieno e compiuto i diversi interessi e le diverse prospettive delle quali i vari “attori” sono portatori, all’interno di un circuito giudiziario nel quale essi devono confrontarsi.
Per altro verso, il decisore di turno è chiamato, per funzione, a governare i plessi normativi e giurisprudenziali in modo da realizzare, nel caso concreto, il corretto bilanciamento degli interessi contrapposti.
Egli dovrà farsi così garante di un metodo dialogico volto a favorire l’emersione di tutte le posizioni in gioco e, al contempo, ad attingere a tutte quelle fonti, giuridiche e non, necessarie per realizzare al meglio gli interessi che è chiamato a maneggiare.
Quel giudice si troverà, così preso, parafrasando la riflessione di Guido Calabresi sul mestiere del giudice[22], da un intreccio di contatti con giurisdizioni, legislazioni, istituzioni – sanitarie e non – relazioni che lo renderanno meno solo e più capace di offrire la soluzione più giusta rispetto al caso.
Un giudice che, in definitiva, nelle decisioni che è chiamato ad adottare, non per scelta ma per funzione, è ogni volta giurista, ma prima ancora persona, paziente, parente, padre, madre e figlio.
Un giudice, ancora, che sulla linea marcata dalla legge n.219/2017, non condanna, non determina il soggetto che vince a discapito dell’altro che perde ma, invece, offre o tenta di offrire soluzioni miti[23].
Un giudice, in definitiva, che la legge n.219/2017 sembra silenziosamente incamminarsi dal mondo degli incapaci affetti da patologia psichiatrica cronica a quello delle persone malate, per ciò stesso strutturalmente deboli.
Dunque, quale giudice per il biodiritto.
Mi piace prendere a prestito le espressioni utilizzate dal collega Giacomo Travaglino in una pronunzia della Corte di Cassazione - Cass.20 aprile 2016 n.7766 - quando invita il giudice - qualsiasi giudice - a “dismettere il supponente abito di peritus peritorum ed ascoltare la concorde voce della scienza psicologica, psichiatrica, psicoanalitica, che comunemente insegna, nell'occuparsi dell'essere umano, che ogni individuo è, al tempo stesso, relazione con se stesso e rapporto con tutto ciò che rappresenta "altro da se", secondo dinamiche chiaramente differenziate tra loro, se è vero come è vero che un evento destinato ad incidere sulla vita di un soggetto può (e viceversa potrebbe non) cagionarne conseguenze sia di tipo interiore …, sia di tipo relazionale, ontologicamente differenziate le une dalle altre, non sovrapponibili sul piano fenomenologico, necessariamente indagabili, caso per caso, quanto alla loro concreta (e non automatica) predicabilità e conseguente risarcibilità. E tali conseguenze non sono mai catalogabili secondo universali automatismi, poiché non esiste una tabella universale della sofferenza umana. È questo il compito cui è chiamato il giudice della responsabilità civile, che non può mai essere il giudice degli automatismi matematici ovvero delle super-categorie giuridiche quando la dimensione del giuridico finisce per tradire apertamente la fenomenologia della sofferenza. Compito sicuramente arduo…ma reso meno disagevole da un costante lavoro di approfondimento e conoscenza del singolo caso concreto o, se si vuole, di progressivo e faticoso "smascheramento" della narrazione cartacea rispetto alla realtà della sofferenza umana.”
La prospettiva che disegna Travaglino, apparentemente conchiusa all’interno del pianeta responsabilità civile è, a ben considerare, la dimensione comune del giudiziario rispetto alle vicende che coinvolgono la persona, i suoi beni supremi, le sue aspettative interiori, la sua dignità[24].
Un giudice che tocca con mano, in vivo, i diritti coinvolti, li maneggia, li fa emergere, li delinea nel loro preciso contenuto ritagliandoli volta per volta, caso per caso, nel giudizio che è chiamato ad esaminare.
Ma certo c’è uno iato, una crasi, un distacco fra essere e dover essere, fra ciò che sono i Tribunali e le Corti e ciò che dovrebbero essere, per dinamiche che spesso sfuggono al controllo del singolo e diventano, invece, scelte di sistema, per le quali e sulle quali il singolo non ha forza, non ha potere e per questo spesso subisce, più o meno supinamente, dinamiche protese a favorire, più o meno scopertamente, la burocratizzazione della funzione (che costituisce anticamera della normalizzazione delle sue decisioni e dell’inaridimento della sua stessa funzione) e logiche volte a ridurre al minimo i rischi insiti nelle scelte giudiziarie ed a favorire, piuttosto, la navigazione quieta.
La magistratura deve mostrare di essere pronta a comprendere non solo la centralità del ruolo del giudice negli ambiti che si è qui cercato di rappresentare, ma anche il ‘modello di giudice’ che è necessario offrire alle nuove generazioni perché esse siano capaci di offrire alla società il miglior servizio possibile.
Ma anche l’Accademia e l’Avvocatura, che spesso non mancano di sostenere il “cammino” della magistratura nel senso qui prospettato, ha il dovere di cooperare nella condivisione degli aspetti problematici del “sistema giustizia” che ad esse pure appartiene, prima che alle persone.
Queste, dunque, in estrema sintesi, le sfide che mi sembra potranno e dovranno essere affrontate da quanti hanno compreso la centralità del biodiritto nell’ambito di una società che senza dignità e diritti fondamentali è destinata a regredire verso forme di oscurantismo.
Una società nella quale occorre lasciarsi alle spalle l’epoca della contrapposizione e del conflitto insanabile, invece costruendo proprio su quelle contrapposizioni e sulle derive egoistiche che pure serpeggiano con sempre maggiore consistenza nei tempi moderni una condizione di resilienza[25] sulla quale ciascuno – legislatore, giudice, avvocato, cittadino – nel proprio ruolo, memore delle ferite subite nel tempo passato, possa contribuire a realizzare il diffuso radicamento dei diritti umani senza retorica, ma con la consapevolezza che una società che calpesta i diritti degli ultimi, degli indifesi, degli emarginati e dei ‘fragili’ non è più tale ma lascia il posto a barbarie.
* Intervento al convegno di studio su Persone vulnerabili: nuove e antiche frontiere nella tutela dei diritti fondamentali, organizzato dall'Associazione CamMiNo, Roma, 24-26 gennaio 2019.
[1] A. Ruggeri, Il futuro dei diritti fondamentali, sei paradossi emergenti in occasione della loro tutela e la ricerca dei modi con cui porvi almeno in parte rimedio, nel paper concessomi in anteprima dall’Autore.
[2] V., volendo, R. Conti, Diritti fondamentali, soggetti vulnerabili: tappe e obiettivi di un articolato “cammino” interno, in Questione giustizia on line, 8 febbraio 2014. Testo rielaborato di un intervento al Convegno organizzato in occasione del 15^ anniversario della costituzione dell'Associazione CamMiNo, sul tema Persone vulnerabili e diritti fondamentali esigenze di tutela, nodi critici, lacune legislative, Roma, 24 gennaio 2014, Biblioteca del Senato della Repubblica.
[3] Del tema ho provato a discutere in R. Conti, La nuova frontiera dopo la “Torreggiani”: tracciati e prospettive per il giudice e il legislatore, a cura di F. Fiorentin e D. Galliani, Milano, in corso di stampa.
[4] Si intende qui fare riferimento a tutte le disposizioni, inserite nella legge n.219/2017, che regolamentano gli effetti delle condotte del sanitario e degli altri soggetti che interagiscono con il malato, determinandone compiti, funzioni ed esenzioni di responsabilità.
[5] È sufficiente rinviare ai numerosi scritti di A. Ruggeri sul tema della dignità, ricordati, da ultimo in A. Ruggeri, Fraintendimenti concettuali e utilizzo improprio delle tecniche decisorie nel corso di una spinosa, inquietante e ad oggi non conclusa vicenda (a margine di Corte cost. n. 207 del 2018), nel paper gentilmente concessomi in visione dall’Autore.
[6] M. Reichlin, La discussione sulla dignità umana nella bioetica contemporanea, in Biolaw Journal - Rivista di BioDiritto, n.2/2017, 101.
[7] F. Viola, I volti della dignità umana, in Colloqui sulla dignità umana. Atti del convegno internazionale, Palermo 2007, 107.
[8] Sull’uso della dignità in funzione deontica riflette G. Cricenti, I giudici e la bioletica. Casi e questioni, Roma 2018, 21.
[9] M. G. Luccioli, Diario di una giudice. I miei cinquant’anni in magistratura, Udine 2016, 64. Nel diario della Luccioli alla dignità l’Autrice più volte si riferisce, dimostrando anche ai più scettici come questo “supervalore”, pur nel suo complesso e a volte scivoloso carattere plurale, costituisce sempre fonte insostituibile ed inesauribile alla quale il giudice, il buon giudice, deve attingere.
[10] A. Ruggeri, Costituzione e CEDU, alla sofferta ricerca dei modi con cui comporsi in “sistema”, in “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti. XVI. Studi dell’anno 2012, Torino, 2013,246.
[11] Non ci si può così, mai stancare di ricordare che “la pluralità delle Carte dei diritti gioca naturalmente nel senso di rendere particolarmente oneroso il compito demandato ai giudici, a tutti i giudici (costituzionali e non), al fine della loro ottimale salvaguardia, alle condizioni oggettive di contesto: un compito, dunque, assai impegnativo e non di rado sofferto, specie laddove – come si diceva – si tratti di risolvere questioni di biodiritto, al quale tuttavia nessun operatore può sottrarsi.”- A. Ruggeri, Tutela dei diritti fondamentali e ruolo “a fisarmonica” dei giudici, dal punto di vista della giurisprudenza costituzionale, in www.dirittifondamentali.it, fascicolo n.2/2018, 18 novembre 2018 -. Attenzione al giudiziario che è, in definitiva, deferenza piena e totale ai valori fondamentali della persona, rispetto ai quali occorre, ancora una volta, individuare un metodo preciso di lavoro. Non è, ricorda lo stesso Ruggeri, “facendo luogo ad improponibili rivendicazioni di un impossibile primato dell’una sull’altra Carta e/o dell’una sull’altra Corte che le questioni stesse possono essere a modo affrontate; di contro, è solo muovendo dalla duplice premessa della parità delle Carte, riconosciute perciò idonee a giocarsi ogni volta la partita nello sforzo da ciascuna di esse prodotto di offrire sul mercato dei diritti la migliore mercanzia, e della necessaria e leale cooperazione degli operatori che si può andare alla ricerca della soluzione più adeguata al caso, che peraltro assai di frequente appare essere non già idonea ad appagare a pieno i diritti e, in genere, gli interessi meritevoli di tutela in campo bensì a far pagare agli stessi il minor costo possibile, specie nella presente congiuntura segnata da plurime e gravi emergenze (da quella economica a quella terroristica, da quella rappresentata dal fenomeno delle migrazioni di massa a quella ambientale, ecc.) che obbligano i diritti e i beni della vita in genere a forte contrazione del loro formidabile potenziale espressivo. del giudice”.
[12] Su quanto riferito nel testo e sulla legge n.219/2017 ci si permette di rinviare ad un volume di imminente pubblicazione, R. Conti, Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana? Relazione di cura, DAT e “congedo dalla vita” dopo la l. 219/2017, in corso di stampa con i tipi di Aracne Editore.
[13] V., da ultimo, sul ruolo del giudice tutela nell’ambito dell’amministrazione di sostegno, S. Celentano, L’amministrazione di sostegno tra personalismo, solidarismo e sussidiarietà ed il ruolo del Giudice della Persona, in Questionegiustiziaonline, fascicolo n.3/2018.
[14] Di questo e del Protocollo n.16 annesso alla CEDU abbiamo discusso in R. Conti, I Protocollo di dialogo fra Alte Corti italiane, CSM e Corte edu a confronto con il Protocollo n.16 annesso alla CEDU. Due prospettive forse inscindibili, in corso di pubblicazione su Questionegiustiziaonline.
[15] Sulla vicenda è sufficiente rinvia al report predisposto dal gruppo di attuazione del Protocollo d’intesa stilato fra Corte di Cassazione e Corte edu, di recente inserito nel bollettino n.2 Cassazione CEDU, consultabile sul sito istituzionale della Cassazione-www.cortedicassazione.it-, partendo dal link Attività internazionali.
[16] V., volendo, R. Conti, I giudici e il biodiritto. Un esame concreto dei casi difficili e del ruolo del giudice di merito, della Cassazione delle Corti europee, Roma 2015, 2^, 269 ss.
[17] S. Ragone, La comparazione come tecnica strumentale all’interpretazione e all’applicazione dei principi: il caso del rifiuto dei trattamenti medici vitali, in Il diritto alla fine della vita, in www.biodiritto.org.
[18] Di questo torniamo a discutere in R. Conti, Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana? Relazione di cura, DAT e “congedo dalla vita” dopo la l. 219/2017, cit.
[19] V., sulla centralità del dialogo per il giudice federale americano, ma in una prospettiva che non è molto diversa da quella del giudice di ultima istanza nazionale, G. Calabresi, Il mestiere di giudice. Pensieri di un accademico americano, Bologna 2014, 66 e ss. Anche l’ordinanza n.207/2018 della Corte costituzionale, appena pubblicata, sulla vicenda “Cappato” è sintomatica di quanto le Corti superiori tendano quasi naturalmente a favorire soluzioni che presuppongono un dialogo/confronto con il legislatore o le altre Corti. Dialogo cercato addirittura forzando prassi secolari ed attingendo ad esperienze oltreoceaniche pur se proprie di sistemi giuridici che la tradizione giuridica colloca in ambiti diversi da quelli nostrani.
[20] V., ancora, sul tema, volendo R. Conti, Alla ricerca del ruolo dell’ art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel pianeta famiglia, in Minoriefamiglia. Intervento svolto alla tavola rotonda organizzata all’interno del convegno nazionale dall’Associazione nazionale magistrati per i minorenni e per la famiglia svoltasi a Roma il 23 novembre 2012 sul tema “Tutela delle persone minori di età e rispetto delle relazioni familiari",
[21] V.A. Ruggeri, Le dichiarazioni di fine vita tra rigore e pietas costituzionale, in Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti,, XIII, Torino, 2009, 522.
[22] G. Calabresi, Il mestiere del giudice. Pensieri di un accademico americano, cit., 85.
[23] U. Adamo, Costituzione e fine vita, Padova 2018, 226 ss., a proposito delle integrazioni alla legge n.219/2017 in tema di eutanasia.
[24] Ciò che dimostra, ancora una volta, quanto straordinaria - ed onerosa - sia l'opera del giudiziario e quanto vere fossero le parole che Piero Calamandrei andava scrivendo in un suo vecchio, ma sempre straordinariamente attuale saggio, intitolato Giustizia e politica: sentenza e sentimento. "La verità, diceva Calamandrei, è che il giudice non è un meccanismo: non è una macchina calcolatrice. E' un uomo vivo: e quella funzione di specificare la legge e di applicarla nel caso concreto, che in vitro si può rappresentare come un sillogismo, è in realtà un'operazione di sintesi, che si compie a caldo, misteriosamente, nel crogiuolo sigillato dello spirito, ove la mediazione e la saldatura tra la legge astratta e il fatto concreto ha bisogno, per compiersi, della intuizione e del sentimento acceso in una coscienza operosa...ridurre la funzione del giudice ad un puro sillogismo vuol dire impoverirla…, inaridirla…, disseccarla…. La giustizia è qualcosa di meglio: è creazione che sgorga da una coscienza viva, sensibile, vigilante, umana”.
[25] G. Palombella, La <
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