ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
IL SOTTOSISTEMA DEI REATI DEI P.U. CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE di Giorgio Spangher
una microriforma di sistema in relazione a reati ricondotti ad omogeneità, sanzionatoria, processuale, esecutiva, pur nella loro differenziazione qualitativa (in termini di pericolosità) e quantitativa (in termini di pena) che evidenzia la propensione per un sistema sanzionatorio a trazione retributiva. Si accentua il ricorso alle pene accessorie, intese come una sorta di misura di sicurezza ovvero come una specie di “daspo”, comunque – al di là di una effettiva efficacia – sicuramente socialmente stigmatizzanti. Si conferma così il trend di bilanciamento al ribasso delle garanzie processuali e della tutela dei diritti fondamentali.
Sommario: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Le modifiche di carattere sostanziale. - 3. Le modifiche di carattere processuale. - 4. Le modifiche in materia esecutiva e penitenziaria. - 5. Conclusioni.
1.Considerazioni introduttive.
Reale o solo percepita, la Corruzione è stata considerata un fenomeno che aveva bisogno di un intervento riformatore.
Lo imponevano soprattutto le organizzazioni internazionali che pur evidenziando indici di miglioramento nel nostro Paese, sottolineavano, tuttavia, come rispetto agli impegni internazionali sottoscritti dall’Italia, il nostro Paese fosse ancora inadempiente. Sintomatica, sotto questo profilo, si prospetta la previsione con la quale non si rinnovano le riserve alla Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo (27.11.1999, ratificata dall’Italia con la l. n. 110 del 2016).
In un mondo connotato da una economia globalizzata, il tasso di corruzione di uno Stato diventa, fra gli altri, un elemento di valutazione delle prospettive di investimento, con ricadute sulla crescita e sullo sviluppo di una società. Sul terreno più strettamente politico si evidenziava, altresì, come in un contesto di prolungata crisi economica, il fenomeno della corruzione fosse diventato un tema suscettibile di incidere sulla coesione sociale e a lungo andare anche sulla tenuta democratica del paese.
Non casualmente la l. n. 3 del 2019 è completata con una articolata disciplina in materia di trasparenza e controllo dei partiti e movimenti politici.
La conseguente consapevolezza che ci si trovava di fronte ad un fenomeno di criminalità ancorché già preceduto da altri interventi in materia suggeriva una nuova risposta “forte” capace di arginare la stagione della c.d. criminalità da profitto. L’ulteriore riconoscimento della connessione tra i fenomeni corruttivi e la criminalità organizzata prospettava la possibilità di mutuare degli strumenti operanti per quest’ultima quello che poteva svolgere un’efficace azione repressiva anche a quella economica.
L’ampiezza e la diffusività del fenomeno e la conseguente necessità della lotta e del contrasto suggeriva il ricorso all’armamentario tipico dell’azione di politica criminale: inasprimenti sanzionatori; penetrante strumentario accertativo; rigido sistema esecutivo.
Si può così affermare che si è delineato un sottosistema, quello dei reati dei pubblici ufficiali nei confronti della pubblica amministrazione.
2.Le modifiche di carattere sostanziale.
Con preciso riferimento alle modifiche introdotte nel codice penale (art. 1, comma 1, lett. a) va innanzitutto evidenziato come il legislatore abbia individuato una serie di reati che costituiscono il riferimento in tutto o in larga parte di molte previsioni novellate: il riferimento è in particolare agli artt. 314, 316 bis, 316 ter, 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319 quater, 320, 321, 322, 322 bis, 346 bis c.p.
Inevitabilmente, come anticipato, si procede a un innalzamento delle pene (art. 316 ter, comma 1, secondo periodo, c.p.; art. 318, comma 1, c.p.; art. 646, comma 1, c.p.) e alla ridefinizione di alcune fattispecie (abrogazione dell’art. 346 c.p. e riformulazione contestuale dell’art. 346 bis c.p.; riscrittura della fattispecie di cui all’art. 322 bis c.p. e interpolazione dell’art. 642 bis c.p.).
Si consolida – sempre per i citati delitti riconducibili ad attività corruttive – l’obbligo della riparazione pecuniaria, secondo i contenuti fissati dall’art. 322 quater c.p. e quello della confiscabilità dei beni, sempre in relazione ai citati delitti riconducibili ad attività corruttive, ai sensi dell’art. 322 ter c.p. (in relazione ai quali il nuovo articolo 322 ter c.p. - articolo 1, comma 1, lett. p) – prevede il possibile affidamento in custodia giudiziale alla p.g.); si modifica altresì l’articolo 578 bis, comma 1, c.p.p. (comma 1, lett. f), relativamente all’applicabilità della confisca ex art. 322 ter c.p. nel giudizio di appello, conclusosi con l’estinzione del reato a fronte di precedente condanna: a seguito della contestuale modifica della prescrizione potrebbe trattarsi di una previsione “precaria”.
Si completano, in tal modo, le misure ablative dei beni già previste per la confisca diretta e per quella allargata ex art. 240 bis c.p.
La previsione sconterà, tuttavia, i limiti connessi alla nuova disciplina della prescrizione nel giudizio d’appello.
Nel contesto delle riforme “penalistiche”, infatti, va da subito segnalato – per le sue molte implicazioni – l’ulteriore riforma della prescrizione.
Già interessata dalla c.d. ex Cirielli e dalla l. n. 103 del 2017, la l. n. 3 del 2019 interviene nuovamente in materia, ancorché differendone gli effetti al 1° gennaio 2020. Si prevede al riguardo, modificando l’art. 158, primo comma, c.p., che il tempo della prescrizione decorre dal giorno in cui è cessata la continuazione e riformando l’art. 159, secondo comma, c.p., che il decorso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o dal decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna.
Non sono mancate, al riguardo, numerose critiche e non si è mancato di sottolineare una certa irragionevolezza delle scelte legislative, soprattutto con riferimento all’apertura costituzionale che sui tempi del processo dovrebbe essere assicurata dalla durata ragionevole del processo.
La sovrapposizione dei tempi delle riforme – la l. n. 103 del 2017 opererà solo per i reati commessi successivamente alla sua entrata in vigore – pone non pochi problemi, come non pochi interrogativi si prospetteranno in relazione agli sviluppi procedimentali, connessi allo sviluppo processuale legato alle apposizioni di decreti penali ed alle decisioni di annullamento.
Il vero fulcro della riforma in materia di contrasto alla corruzione è costituito dalla profondamente novellata disciplina delle pene accessorie: l’incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione (art. 32 quater c.p.) e l’interdizione dai pubblici uffici (art. 32 bis c.p.).
La logica sottesa alla previsione è quella d’una misura perpetua (art. 317 bis c.p.) con alcune varianti, peraltro, comunque fortemente penalizzanti.
Nell’eventualità in cui dovesse essere inflitta una reclusione non superiore a due anni ovvero dovesse ricorrere la circostanza attenuante di cui all’art. 323 bis, primo comma, c.p., la condanna alla pena accessoria sarà determinata per una durata non inferiore a cinque anni e non superiore a sette anni; nel caso della circostanza attenuante prevista al cpv. dell’art. 323 bis c.p., la durata delle pene accessorie non potrà essere inferiore a un anno, né superiore a cinque.
Un ulteriore elemento della riforma è costituito dalla scissione tra il tempo della reclusione e quello della pena accessoria. Il dato trova riscontro nella disciplina della riabilitazione che non produce effetti sulla pena accessoria perpetua, salvo che, trascorsi almeno i successivi sette anni, il soggetto non abbia dato prova effettiva e costante di buona condotta (art. 179, comma 7, c.p. e art. 683, comma 1, c.p.p.); in quella dalla sospensione condizionale (comunque condizionata al pagamento della somma determinata a titolo di riparazione pecuniaria ai sensi dell’art. 322 quater c.p.) (art. 165, comma 4, c.p.), in relazione alla quale il giudice può disporre che il provvedimento non estenda i suoi effetti alle pene accessorie (art. 166, comma 1, c.p.) e, come si dirà, in relazione all’esito positivo dell’affidamento in prova che non estende i suoi effetti alle pene accessorie (art. 47, comma 12, primo periodo, l. n. 354/1975).
E’ stata prevista (art. 1, comma 1, lett. z) anche una forma di “immediato e spontaneo” pentimento che determina una speciale causa di non punibilità per chi entro quattro mesi dalla commissione del fatto, fornisce una fattiva collaborazione alle indagini mettendo a disposizione quanto percepito ovvero l’equivalente in danaro (art. 323 ter c.p.).
Può non essere inutile ricordare – pur collocandosi su di un diverso piano – come con la l. n. 190 del 2012, l. n. 144 del 2014 e l. n. 179 del 2017 sia stata introdotta e rafforzata la disciplina del cosiddetto whisteblower, ai sensi della quale si tutela il dipendente pubblico che denuncia all’autorità giudiziaria, all’Anac, ovvero alla Corte dei conti ovvero a un superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro.
A rafforzare la normativa alla lotta alla corruzione vanno altresì richiamate le disposizioni per le quali per alcuni delitti che sono indicati nell’art. 1, comma 1, lett. a e lett. b della presente legge, in relazione agli artt. 9 e 10 c.p., non è più necessaria la richiesta del Ministro della Giustizia o l’istanza o la querela della persona offesa.
In questo contesto si inserisce anche l’abrogazione degli artt. 2635, comma 5, e 2635 bis, comma 3, c.c., in materia di società, consorzi ed enti privati per effetto della quale sono diventati procedibili d’ufficio i delitti di corruzione tra privati e di istigazione alla corruzione (art. 4).
Vanno, infine, sottolineate le modifiche introdotte al D. lgs. n. 231 del 2011 in materia di responsabilità amministrativa degli enti con le quali, attraverso l’inserimento dell’art. 346 bis c.p. tra quelli per i quali è consentito sanzionare le società, è aumentata la durata della sanzione interdittiva per i reati già previsti contro la pubblica amministrazione, ed è determinata una minore durata delle misure interdittive sempre per questi reati in caso di condotta collaborativa prima della sentenza di primo grado.
3. Le modifiche di carattere processuale.
Per quanto attiene al processo penale (art. 3, comma 1, lett. a e g), oltre alla previsione della nuova misura interdittiva del divieto temporaneo di contrarre con la pubblica amministrazione (art. 289 bis c.p.), in relazione alla pena accessoria corrispondente, si segnala – in linea con la progressiva omologazione del fenomeno della criminalità da profitto a quella organizzata – l’estensione dell’uso del captatore informatico nei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni determinata ai sensi dell’art. 4 c.p.p. anche tra presenti (art. 266, comma 2 bis, c.p.p.), con abrogazione (art. 3) della deroga prevista dalla legge Orlando in relazione ai luoghi di privata dimora (art. 2, comma 2, dell’art. 6 del D. lgs. n. 216 del 2017). Contestualmente è stata estesa ai citati reati la disciplina operante per i reati di cui all’ art. 51, commi 3 bis e 3 quater, in ordine alle modalità di svolgimento delle indagini con il captatore informatico (art. 267, comma 1, terzo periodo, c.p.p.).
L’attività investigativa è potenziata attraverso il possibile ricorso ad azioni sotto copertura. Estendendo l’ambito di operatività dell’art. 9, comma 1, l. n. 146 del 2006, lett. a), si prevede che in relazione ai citati reati riconducibili ad attività corruttive, i soggetti ivi indicati, nei limiti delle rispettive competenze, nel corso di specifiche operazioni di polizia, possono svolgere attività, espressamente e articolatamente indicate dalla legge, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai citati delitti.
Le previsioni in tema di pene accessorie trovano un preciso coordinamento nella riforma della disciplina dell’applicazione della pena su richiesta delle parti.
Si prevede (art. 1, comma 1, lett. d ed e), al riguardo, che la richiesta di patteggiamento per i già citati delitti di corruzione di cui all’art. 317 bis c.p. possa essere condizionata all’esenzione delle pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici e dell’incapacità di contrarre la pubblica amministrazione nonché all’estensione degli effetti della sospensione condizionale anche a tali pene (con potere del giudice di rigettare la richiesta) (art. 444, comma 3 bis, c.p.p.); si stabilisce che nell’ipotesi di patteggiamento di cui all’art. 445 c.p.p., cioè, con pena non superiore a due anni. Possano essere applicate le riferite pene accessorie (art. 445, comma 1 bis, c.p.p.); si precisa che le riferite previsioni operano anche per le decisioni pronunciate dopo la chiusura del dibattimento (art. 445, comma 1, terzo periodo, c.p.p.).
4. Le modifiche in materia esecutiva e penitenziaria.
Molto significative si prospettano le implicazioni della riforma della disciplina esecutiva e penitenziaria.
L’elemento cardine è costituito dall’inserimento delle riferite previsioni incriminatrici nel contesto del comma 1 dell’art. 4 bis ord. penit., cioè, all’interno della disposizione che esclude l’accesso ai benefici, fatta salva l’ipotesi della speciale causa di non punibilità di cui al già citata art. 323 ter c.p.
Il dato potrebbe avere significative conseguenze sulle condotte in corso di esecuzione. Va altresì sottolineato che per i reati di cui all’art. 4 bis ord. penit. l’art. 656, comma 5, in relazione al comma 9, lett. a, il p.m. non sospende l’esecuzione della pena detentiva. Quest’ultimo elemento sta prospettando non pochi interrogativi sull’operatività della previsione in relazione alle condanne, anche a pena patteggiata, sia definitive, sia destinate a diventarlo.
L’impostazione restrittiva trova ulteriore conferma nella previsione – già citata – per la quale l’esito positivo dell’affidamento in prova non estingue le pene accessorie perpetue (art. 47, comma 12, primo periodo, l. n. 354/1975).
5. Conclusioni.
Tentando una sintesi, la ricostruzione in primo luogo consolida l’idea – avanzata in premessa – che sia stata effettuata una microriforma di sistema in relazione a reati ricondotti ad omogeneità, sanzionatoria, processuale, esecutiva, pur nella loro differenziazione qualitativa (in termini di pericolosità) e quantitativa (in termini di pena).
In secondo luogo, la riforma della prescrizione – seppur nuovamente differita – evidenzia la propensione per un sistema sanzionatorio a trazione retributiva, come è ulteriormente confermato dai limiti all’accesso ai riti premiali.
Inoltre, va segnalata l’accentuazione del ricorso alle pene accessorie, intese come una sorta di misura di sicurezza ovvero come una specie di “daspo”, comunque – al di là di una effettiva efficacia – sicuramente socialmente stigmatizzanti.
Infine, in termini generali, si conferma l’attrazione che il percorso della criminalità organizzata con il suo armamentario (ordinamentale, investigativo, cautelare, premiale, probatoria, esecutiva, penitenziaria, collaborativa) esercita, inevitabilmente, sui fenomeni che creano allarme e disagio sociale, naturalmente, bilanciando – al ribasso – le garanzie processuali e la tutela dei diritti fondamentali.
LA FRAGILITÀ DEL “GIUDICATO” E L’INCERTEZZA DELLA PENA
di Stefano Tocci
Alla luce dei percorsi interpretativi della Corte europea e della Corte costituzionale l’autore osserva come sia stato eroso il principio del cd. mito del giudicato, che resiste per l’accertamento del fatto ma è sgretolato in punto di pena. Se pertanto per l’accertamento del fatto il “giudicato” costituisce un mito, in relazione alla pena è ormai diventato leggenda.
Sommario: 1. Il “mito” del giudicato. - 2. Superamento del giudicato in sede processuale: revisione e ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p. - 2.2. Dilatazione dell’operatività dell’ art. 625 bis c.p.p.; 3.- La “flessibilità” del giudicato in punto di pena. 4. - Casi di “illegalità della pena”
1. Il “mito” del giudicato
Il principio secondo il quale nessuno può essere giudicato più volte per uno stesso fatto che abbia già costituito oggetto di accertamento processuale soddisfa, com'è intuitivo, una esigenza fondamentale di giustizia sostanziale. Al diritto del singolo, inoltre, si affianca una primaria esigenza di salvaguardia del sistema nel suo complesso, che passa anche, ma non solo, attraverso la certezza e la vincolatività delle decisioni giudiziarie definitive. In dottrina si sottolinea che il postulato dell’intangibilità del giudicato ha un fondamento politico, non logico, rappresentato dall’esigenza di certezza giuridica nel caso concreto, e già negli anni ‘50 un’autorevole voce aveva invocato l’esigenza di “depurare” l’immutabilità della cosa giudicata “da tutti quegli elementi parossistici e irrazionali, che hanno trasformato questo che doveva essere un istituto di salvaguardia della sicurezza giuridica in una specie di castello turrito, tetragono ad ogni aspirazione di giustizia” .
Dalla irrevocabilità della sentenza derivino due conseguenze immediate: la prima positiva, perché la decisione acquista una forza esecutiva e secondo le regole dettate dagli artt. 651-654 c.p.p. si impone nei successivi giudizi civili amministrativi e disciplinari; la seconda negativa, in quanto viene impedita la celebrazione di un secondo giudizio per lo stesso fatto quando una persona è già stata condannata o prosciolta in relazione ad esso.
Oggi si parla sempre più di erosione del principio del giudicato.
2. Superamento del giudicato in sede processuale: revisione e ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p.
Va in primis evidenziato che già l’ordinamento processuale conosce, per casi tassativi, la possibilità che il giudicato venga travolto. Mi riferisco all’istituto della revisione disciplinato dall’art. 630 e ss. c.p.p., che costituisce un mezzo di impugnazione straordinaria esperibile senza limiti di tempo. Senza entrare troppo approfonditamente nel tema, collaterale a quello dell’intervento, ritengo sia utile ricordare che l’art. 630 c.p.p. prevede che la revisione possa essere richiesta:
- se vi è la non conciliabilità dei fatti posti a fondamento della sentenza di condanna o del decreto penale di condanna con quelli di un’altra sentenza penale irrevocabile;
- se interviene la revoca di una sentenza civile o amministrativa di carattere pregiudiziale che è stata posta a fondamento della sentenza di condanna o del decreto penale di condanna;
- se sopravvengono nuove prove che da sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto;
- se viene dimostrato che la condanna è stata pronunciata a seguito di falsità in atti o in giudizio o di un altro fatto che la legge prevede come reato.
A pena di inammissibilità della domanda, l’art. 631 c.p.p. sancisce che gli elementi in base ai quali la revisione va richiesta siano tali da dimostrare, se accertati, che il condannato debba essere prosciolto con sentenza di assoluzione (art. 530 c.p.p.), di non doversi procedere (art. 529 c.p.p.) o di non doversi procedere per estinzione del reato (art. 531 c.p.p.).
E’ evidente che la latitudine dell’intervento rescindente è determinata, direi inevitabilmente, anche dalla forza ermeneutica della sensibilità demolitrice dell’interprete. Secondo un criterio di proporzionalità inversa, minore diventa l’esigenza di invarianza del decisum, tanto più si allargano i margini di ammissibilità della istanza di revisione.
Quanto alle prove nuove, ad esempio, la Suprema Corte (Cass. Sez. 5 - , Sentenza n. 53236 del 20/09/2018 Cc. -dep. 27/11/2018- Rv. 274185 – 01) ha affermato che è ammissibile l'istanza di revisione conseguente ad una nuova prova che mette in discussione l'attendibilità di una chiamata di correo, quando si contesta la reale esistenza di un fatto storico che ha rappresentato il riscontro esterno alle dichiarazioni del chiamante (fattispecie in cui il chiamante aveva ammesso di aver ucciso, in concorso anche con l'istante, un minore, mediante colpi di bastone e di roncola, e successivamente di aver fatto a pezzi e bruciato il cadavere, circostanze in realtà non compatibili con il successivo ritrovamento, a distanza di anni, del corpo integro della vittima, che non presentava lesioni scheletriche tipiche di chi ha subito bastonate e fendenti). In tal caso non è quindi una prova nuova di per sé idonea a sovvertire l’esito del giudizio ad essere presa in considerazione, bensì l’emergere di un nuovo elemento di fatto ritenuto, in fase rescindente, idoneo a mettere in crisi la credibilità del chiamante in correità la cui deposizione ha costituito prova nei modi e nei termini di cui all’art. 192 c.p.p.. Ma vi è di più: la Suprema Corte (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 17170 del 31/01/2017 Ud. -dep. 05/04/2017- Rv. 269826 – 01) ha anche affermato che in tema di revisione, rientra nella nozione di "prova nuova" la rilevazione della mancanza della condizione di procedibilità del reato per cui è stata emessa sentenza di condanna, in quanto, ai sensi e per gli effetti dell'art. 630, comma primo, lett. c), cod. proc. pen, devono considerarsi tali sia le prove preesistenti, non acquisite nel precedente giudizio, sia quelle già acquisite, ma non valutate neanche implicitamente, purché non si tratti di prove dichiarate inammissibili o ritenute superflue dal giudice. Pertanto, il rilevamento postumo della insussistenza di una condizione di procedibilità costituisce “prova nuova”. A tal fine appare opportuno evidenziare che l’art. 187 del codice di procedura penale, stabilisce che sono oggetto di prova i fatti che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza ma sono anche oggetto di prova, i fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali.
Tra gli strumenti atti a sgretolare il giudicato, contemplati dal codice di rito, va menzionato il ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p., a mente del quale è ammessa, a favore del condannato, la richiesta per la correzione dell'errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla corte di cassazione. Già la lettera della norma evidenzia come non si tratta di uno strumento atto semplicemente a risolvere qualche problema di refuso di stampa, e la valutazione, quando si discetti di errore di fatto, può effettivamente comportare uno stravolgimento del decisum in realtà divenuto irrevocabile a seguito della pronuncia della Suprema Corte conclusiva del processo.
La giurisprudenza, nell’applicazione di tale istituto, ha posto dei paletti interpretativi ben precisi: l'errore di fatto verificatosi nel giudizio di legittimità e oggetto del rimedio previsto dall'art. 625 bis cod. proc. pen., introdotto dall’art. 6 comma 6 L.n. 128/2001, consiste in un errore percettivo causato da una svista o da un equivoco in cui la Corte di cassazione sia incorsa nella lettura degli atti interni al giudizio stesso e connotato dall'influenza esercitata sul processo formativo della volontà, viziato dall'inesatta percezione delle risultanze processuali che abbia condotto a una decisione diversa da quella che sarebbe stata adottata senza di esso (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 47316 del 01/06/2017 Cc. -dep. 13/10/2017- Rv. 271145 – 01); Il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto avverso i provvedimenti della Corte di Cassazione può avere ad oggetto l'omessa considerazione di una prova esistente, ma non il travisamento della stessa (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 29450 del 08/05/2018 Cc. -dep. 27/06/2018- Rv. 273060 – 01); ai sensi dell’art. 625 bis c.p.p. non possono trovare ingresso questioni di diritto nonché questioni che presuppongono un percorso valutativo (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 21939 del 17/04/2018 Cc. -dep. 17/05/2018- Rv. 273062 – 01).
Tant’è vero, consequenzialmente, che è stato ritenuto inammissibile il ricorso straordinario per errore di fatto proposto al fine di ottenere la revoca della condanna inflitta per fatti di concorso esterno in associazione mafiosa commessi antecedentemente al 1994, rientranti nell'orientamento espresso dalla sentenza Corte EDU, 14 aprile 2015, Contrada c. Italia (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 43886 del 06/07/2016 Cc. -dep. 17/10/2016- Rv. 268563 – 01).
Va ricordato però che la stessa Suprema Corte, col caso “Drassich”, è incorsa nella necessità di abbattere i suddetti paletti.
2.2. Dilatazione dell’operatività dell’art. 625 bis c.p.p.
La Corte di Strasburgo (decisione 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia) aveva ritenuto iniqua la decisione della Corte di Cassazione che aveva ex officio riqualificato il fatto contestato in termini più gravi per il ricorrente, incorrendo nell’inosservanza dell’art. 3 lett. a) CEDU che riconosce all’imputato il diritto di essere informato non solo del motivo dell’accusa ma anche, e in maniera dettagliata, della qualificazione giuridica data a tali fatti, in funzione di predisporre ed esercitare le prerogative difensive di cui alla lett. b) del paragrafo 3 del medesimo articolo.
La Suprema Corte (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 45807 del 12/11/2008 Ud. - dep. 11/12/2008 - Rv. 241754 – 01) in primis ha affermato che in tema di correlazione tra sentenza ed accusa contestata, la regola di sistema espressa dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia), secondo cui la garanzia del contraddittorio deve essere assicurata all'imputato anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto operata dal giudice ex officio, è conforme al principio statuito dall'art. 111, secondo comma Cost., che investe non soltanto la formazione della prova, ma anche ogni questione che attiene la valutazione giuridica del fatto commesso. Ne consegue che si impone al giudice una interpretazione dell'art. 521 comma primo cod. proc. pen. adeguata al "decisum" del giudice europeo e ai principi costituzionali sopra richiamati. Quindi può farsi ricorso alla procedura straordinaria di cui all'art. 625 bis cod. proc. pen. per dare esecuzione ad una sentenza della Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo che ha rilevato una violazione del diritto di difesa occorsa nel giudizio di legittimità e che abbia resa iniqua la sentenza della Corte di cassazione, indicando nella riapertura del procedimento, su richiesta dell'interessato, la misura interna per porre rimedio alla violazione contestata. Più precisamente, quanto alle modalità di intervento sul caso concreto, la Corte europea ha rilevato che, in mancanza di richiesta di equo soddisfacimento "l'avvio di un nuovo procedimento o la riapertura del procedimento su richiesta dell'interessato rappresenta in linea di massima un modo adeguato di porre rimedio alla violazione contestata". La Suprema Corte spiega in sentenza perché non è la revisione ex art. 630 c.p.p. lo strumento tecnico da adoperare per rimediare, e quindi seguendo una lettura interpretativa analogica suggerita dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale è pervenuta all’affermazione che si può applicare all'ipotesi de qua uno strumento giuridico modellato sull'istituto introdotto dall'art. 625 bis c.p.p,. chiamato a rimediare, oltre che a veri e propri errori di fatto, a violazioni del diritto di difesa occorse nell'ambito del giudizio di legittimità e nelle sue concrete e fondamentali manifestazioni che rendono invalida per iniquità la sentenza della Corte della Cassazione. La forzatura mi sembra evidente, apparendo tale lettura ermeneutica un po’ in collisione col principio di tassatività delle impugnazioni e credo che il senso della forzatura era ben presente alla Corte, che ha tenuto a sottolineare, in motivazione, che: << nel caso specifico, si è in presenza di violazione affermata dalla Corte europea; violazione che trova la sua immediata tutela nell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e nel citato art. 111 Cost., comma 2. In conclusione, vi è una parziale "rimozione" del giudicato, nella parte in cui esso si è formato nel giudizio di legittimità mediante un vulnus al diritto di difesa, che si è tradotto in una "iniquità" della sentenza, "iniquità" che non è scaturita da preclusioni processuali addebitabili al ricorrente, bensì dal "governo" del processo da parte del giudice. Mette conto - a completamento dell'area degli argomenti giuridici - che nel bilanciamento di valori costituzionali, da un lato, quello della funzione costituzionale del giudicato e, dall'altro, quello del diritto a un processo "equo" e a una decisione resa nel rispetto di principi fondamentali e costituzionali posti a presidio del diritto a interloquire sull'accusa, non può che prevalere quest'ultimo; e proprio la prevalenza di quest'ultimo valore ha determinato il legislatore a introdurre il ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p. contro le sentenze della Corte di cassazione>>. Come dire: il principio del giudicato deve comunque cedere innanzi ai diritti fondamentali dell’imputato e lo strumento più idoneo contemplato dall’ordinamento è il ricorso straordinario ai sensi dell’art. 625 bis c..p.. La dilatazione esegetica del ricorso straordinario ha trovato poi applicazione anche allorquando la CEDU, con decisione 17.09.2009, caso Scoppola c. Italia, ha rilevato l’iniquità del trattamento sanzionatorio subito dall’istante che si era visto applicare la pena dell’ergastolo all’esito di giudizio con rito abbreviato sebbene nel momento in cui era stato ammesso al rito alternativo la pena massima erogabile era trent’anni di reclusione. La Suprema Corte, prendendo atto della rilevata violazione degli artt. 6 e 7 CEDU ha ritenuto nuovamente che la strada maestra per rimuovere l’iniquità fosse il meccanismo di cui all’art. 625 bis c.p.p., confermano così la duttilità dello strumento atto a rimuovere violazione accertate dalla Corte Europea, e confermando così l’impossibilità di tenere in vita il giudicato reso in violazione di diritti fondamentali dell’individuo, anche in punto di sanzione penale.
3.- La “flessibilità” del giudicato in punto di pena
La flessibilità del giudicato in riferimento della pena ha conosciuto però una evoluzione interpretativa che è andata oltre alla necessità di provvedere, caso per caso, ad eventuali iniquità rilevate dalla Corte Europea. Va premesso che anche per la pena esistono disposizioni normative espressamente dirette ad incidere sulla cosa giudicata: ad esempio la possibilità di rideterminazione della pena in fase esecutiva in caso di riconoscimento della continuazione o del concorso formale tra reati (art. 671 c.p.p.), ovvero si guardi alla sempre più ampia differenziazione tra pena irrogata nella fase di cognizione, “cristallizzata” dall’irrevocabilità della sentenza, e pena effettivamente eseguita nella fase di esecuzione, con l’applicazione delle misure alternative alla detenzione (al di là del differente regime esecutivo che comporta, si pensi alla liberazione anticipata ai sensi dell’art. 54 OP che determina una riduzione del quantum da espiare in ragione dell’adesione del condannato all’opera di rieducazione, ossia al programma trattamentale di risocializzazione) ha condotto la dottrina a riscontrare anche in riferimento alla pena la “cedevolezza del giudicato”, per cui sembra emergere una duplice dimensione del giudicato penale: una dimensione relativa all’accertamento del fatto, realmente intangibile, non essendo consentita, al di fuori delle speciali ipotesi rescissorie di cui si è detto, una rivalutazione del fatto oggetto del giudizio, e tendenzialmente posta a garanzia del reo (presunzione di innocenza e divieto di bis in idem) però cedevole solo a fronte di violazione dei diritti fondamentali e costituzionali dell’imputato, ed una differente dimensione relativa alla determinazione della pena, che, sprovvista di reale copertura costituzionale (o convenzionale), appare maggiormente permeabile alle “sollecitazioni” provenienti ab extra rispetto alla res iudicata.
Come detto, col caso “Scoppola” la Suprema Corte aveva rinvenuto un rimedio processuale all’iniquità della pena attraverso il ricorso straordinario di cui all’art. 625 bis c.p.p., ma successivamente due arresti delle Sezioni Unite hanno stabilito dei punti fermi a cui la giurisprudenza successiva porta tributo: premesso che la questione atteneva alla possibilità che violazioni identiche a quella di cui al caso “Scoppola” fossero rimediabili anche in assenza di pronunciamento specifico dei giudici di Strasburgo, con l’ordinanza “Ercolano” (SS.UU. n. 34472/2012) le Sezioni Unite hanno ribadito che “è l’esigenza imprescindibile di porre fine agli effetti negativi dell’esecuzione di una pena contra legem a prevalere sulla tenuta del giudicato, che deve cedere, anche in executivis, alla << più alta valenza fondativa dello statuto della pena>>”; con la sentenza Ercolano (Cass. SS.UU. 18821/2013) si afferma che nel caso considerato non si tratta di procedere ad una riapertura del processo funzionale ad un nuovo giudizio di cognizione bensì di rideterminare il trattamento sanzionatorio rivelatosi ex post costituzionalmente illegittimo, per cui lo strumento adatto diventa la procedura ex art. 670 c.p.p. di competenza del Giudice dell’esecuzione, di cui si amplia anche in tal caso, come precedentemente per l’art. 625 bis c.p.p., l’ambito operativo, facendovi rientrare le questione relative non solo alla mancanza o alla non esecutività del titolo ma anche quelle che attengono alla eseguibilità e alla concreta attuazione del medesimo. Le SS.UU. sul caso “Ercolano” quindi aprono la strada allo sgretolamento del giudicato in punto di pena in caso di violazione di norma convenzionale, ormai risolvibile in sede esecutiva, e direi completano l’opera con la sentenza n. 42858/2014 sul caso “Gatto” in cui espressamente si afferma che il diritto fondamentale della libertà personale deve prevalere sul valore dell’intangibilità del giudicato, di cui si ripudia la concezione assolutistica come norma del caso concreto, insensibile alle evenienze giuridiche successive all’irrevocabilità della sentenza, demolendo così il limite di espansione della retroattività delle pronunce della Corte Costituzionale. Con la sentenza “Gatto” si ribadisce l’utilizzabilità dello strumento dell’incidente di esecuzione, ai sensi dell’art. 666 c.p.p., come rimedio.
4- Casi di “illegalità della pena”
Il caso più eclatante di “illegalità della pena” sopravvenuta, fronteggiato negli ultimi tempi dai Giudici dell’esecuzione, è sicuramente quello conseguente alla pronuncia della Consulta in materia di stupefacenti, ossia la sentenza n. 32 del 2014, che ha condotto le SS.UU. ad affermare che la pena applicata, anche con sentenza di patteggiamento, avente ad oggetto uno o più delitti previsti dall'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 relativi alle droghe c.d. leggere, divenuta irrevocabile prima della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, deve essere rideterminata in sede di esecuzione in quanto pena illegale, e ciò anche nel caso in cui la pena concretamente applicata sia compresa entro i limiti edittali previsti dall'originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità (SS.UU. Sentenza n. 37107 del 26/02/2015 Cc. -dep. 15/09/2015- Rv. 264857 – 01). Il giudice dell'esecuzione - richiesto di adeguare il trattamento sanzionatorio in precedenza determinato per l'illecita detenzione di "droghe leggere" sulla base dei limiti edittali di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, come modificato dalla legge n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con sentenza n. 32 del 2014 - deve procedere alla rideterminazione della pena sulla base dei criteri previsti dall'art. 133 cod. pen., sia nel caso di pena illegale in quanto superiore ai limiti edittali previsti dalla normativa oggetto di reviviscenza, sia nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali appena indicati (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 36357 del 19/05/2015 Cc. -dep. 09/09/2015- Rv. 264880 – 01). La Sez. 3 infatti chiarisce che al Giudice dell’esecuzione è inibita qualsiasi operazione di riduzione meramente automatica o aritmetico proporzionale, dovendo invece fare necessariamente uso dei poteri discrezionali ed adeguare in tal modo la pena, con congrua motivazione, al disvalore penale del fatto, come accertato dal giudice della cognizione, attraverso un procedimento di determinazione del trattamento sanzionatorio autonomo che tenga conto dei limiti edittali minimi e massimi previsti dalla fattispecie ripristinata a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale di quella espunta ex tunc dall'ordinamento.
Rileva, ai fini in esame, anche l’intervento della Corte costituzionale, sentenza 23 marzo 2016, n. 56 che ha dichiarato "l'illegittimità costituzionale dell'art. 181, comma 1-bis, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), nella parte in cui prevede «: a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142 ed»".
A seguito dell'intervento del Giudice delle leggi, dunque, ai fini dell'integrazione dell'ipotesi delittuosa di cui all'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004, non è più sufficiente che la condotta ricada su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori o su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142, essendo anche necessario che le opere realizzate siano di notevole impatto volumetrico e che superino, dunque, i limiti quantitativi previsti dalla lettera b) dell'art. 181, comma 1-bis. Infatti, la declaratoria di parziale incostituzionalità, per irragionevolezza sanzionatoria, del comma 1-bis dell'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004, ha circoscritto il precetto del delitto paesaggistico ai soli interventi volumetrici di particolare consistenza, trasferendo una porzione del fatto tipico nell'ambito di operatività del precetto contravvenzionale.
Da ciò deriva l'illegalità sopravvenuta, per sproporzione, della pena in precedenza inflitta ed anche la necessità che il tempo necessario a prescrivere venga parametrato non più sul delitto ma sulla contravvenzione. Trattandosi quindi di pena illegale è consequenziale che, se il giudizio non è ancora definito, la sanzione finale sarà quella tipica delle contravvenzioni, mentre in sede di legittimità il trattamento sanzionatorio sarà oggetto di pronuncia di annullamento parziale e comunque si dovrà fare i conti con il minor termine prescrizionale; in caso di sentenza irrevocabile il giudicato dovrà cedere ricorrendo una ipotesi di pena illegale, ed il Giudice dell’esecuzione sarà investito dei poteri di valutazione discrezionale che competevano al Giudice della cognizione. Ed invero la Suprema Corte ha affermato che il giudice dell'esecuzione, richiesto di revoca della sentenza per sopravvenuta "abolitio criminis", ai sensi dell'art. 673 cod. proc. pen., pur non potendo ricostruire la vicenda per cui vi è stata condanna in termini diversi da quelli definiti con la sentenza irrevocabile, né valutare i fatti in modo difforme da quanto ritenuto dal giudice della cognizione, deve accertare se il reato per il quale è stata pronunciata condanna sia considerato ancora tale dalla legge e, a tal fine, può effettuare una sostanziale ricognizione del quadro probatorio già acquisito ed utilizzare elementi che, irrilevanti al momento della sentenza, siano divenuti determinanti, alla luce del diritto sopravvenuto, per la decisione sull'imputazione contestata (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5248 del 25/10/2016 Cc. -dep. 03/02/2017- Rv. 269011 – 01). Cristallizzato quindi il fatto per come accertato, il Giudice dell’esecuzione, nella materia qui esaminata, dovrà valutare se lo stesso sia ancora sussumibile sotto la fattispecie delittuosa dichiarata incostituzionale ovvero ricada nell’ipotesi contravvenzionale: in tal caso, perseverando l’illiceità penale del fatto per cui è condanna, è la parte sanzionatoria a presentare carattere di illegalità, risultando il fatto, accertato in sentenza, ancora previsto dalla legge come reato ma sanzionato con pena di specie diversa dal modello legale.
Alla luce dei percorsi interpretativi seguiti deve quindi ritenersi ampiamente eroso il principio del cd. mito del giudicato, apparendo ancora resistente quello in riferimento all’accertamento del fatto ma sgretolato in punto di pena.
Se pertanto in riferimento all’accertamento del fatto il “giudicato” costituisce un mito, in relazione alla pena è ormai diventato leggenda.
*Relazione per l’incontro di studio “Il giudicato penale: limiti di tenuta ed ipotesi di superamento” presso la S.S.M. 30 gennaio – 1 febbraio 2019, sul tema “ Le decisioni della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo: la pena diventa illegale?”
"Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924)
di Andrea Apollonio
"Il delitto Matteotti", pellicola del 1973 diretta dal poco noto Florestano Vancini, è anzitutto un film fedelmente ricostruttivo: oggi, verrebbe definito un docu-film. Si apre con le esatte parole pronunciate da Matteotti in Parlamento nel maggio 1924, ripercorre con precisione cronachistica le fasi del rapimento, quelle successive delle campagne di stampa, delle mobilitazioni popolari stroncate a colpi di manganelli, delle contro-mosse del nascente regime fascista. I personaggi, poi, riproducono con cura le fattezze delle corrispondenti figure storiche: ritroviamo allora non solo un Franco Nero clamorosamente simile a Matteotti, tanto che per assomigliarvi il più possibile furono imposti all'attore ritocchi plastici del viso, ma anche un Turati, un Gramsci, un Mussolini, pressocché identici - ed è stato detto che questo è il miglior Duce cinematografico di sempre. L'unico personaggio del "delitto Matteotti" per cui non ci si è preoccupati troppo di raggiungere la rassomiglianza col modello reale è Mauro Del Giudice, il magistrato che inizialmente istruì il processo: è probabile che nessuno, oggi come allora, se ne sia accorto, essendo egli rimasto una personalità secondaria e ben poco conosciuta, di quel cruciale momento della storia italiana.
Ma al di là della raffigurazione filmica, Florestano Vancini restituisce per intero al giudice istruttore la dirittura morale e la dignità storica che gli pertiene, anzitutto facendolo interpretare da uno straordinario Vittorio De Sica - straordinario nel farsi carico degli scrupoli, dei pensieri preoccupati ma fermi di un anziano giudice: una vera e propria compenetrazione di piani, tra vicenda storica, recitazione e vita dell'attore: quella del "delitto" è una delle sue ultime apparizioni, De Sica morirà due anni dopo - e poi, il regista lo fa avendo semplicemente riportato su pellicola - con metodo quasi storiografico - il modo in cui Del Giudice condusse le indagini, fino a che poté.
Una condotta indissolubilmente legata all'indipendenza di giudizio, che è poi garanzia di imparzialità, mantenuta idealmente fino all'ultimo. Una storia, la sua, che oggi apparirebbe ordinaria o addirittura scontata, se non fosse che siamo nel 1924: per le strade imperversano le squadracce fasciste, che pestano a sangue, uccidono, inquinano e condizionano fortemente i meccanismi di una democrazia liberale che sta via via spegnendosi. Nel film, per contro, il De Sica - Del Giudice istruisce il "delitto" con rigore e arriva ai responsabili; non si lascia influenzare dagli "avvertimenti" istituzionali; non si lascia intimidire, neppure dalle manifestazioni fasciste organizzate fuori la sua abitazione: e in quegli anni, il rischio di finire accoppati era elevatissimo, e tanto valeva anche per un anziano giudice quasi settantenne.
Egli avrebbe confidato, a chi in quei momenti gli stava attorno: "le carte dell'inchiesta passeranno, ma dovrà rimanere integra l'onorabilità e l'indipendenza della magistratura romana". Queste le fonti. Certo è che sapeva bene come quella partita l'avrebbe persa (Del Giudice sarà subito rimosso dal suo ufficio con una "promozione" pilotata, mentre le carte del delitto Matteotti finiranno, impantanate, a Chieti), e proprio per questo la conduceva non per sé, ma per l'intero corpo dei magistrati: per assicurarne lo strumento primo ed imprescindibile dell'indipendenza, nonostante tutto; per assicurarlo pro futuro, almeno.
Eppure, a dispetto del secolo trascorso da quei fatti, e nonostante Giacomo Matteotti sia (doverosamente) entrato fin da subito - fin dal 26 luglio 1943 - nel Pantheon della Nazione prima, della Repubblica poi, non si è voluto incidere nella memoria collettiva il profilo di quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924), che col suo essere fedele ai principi "naturali" - nel senso di principi di diritto naturale - di indipendenza e imparzialità del magistrato, e di pervicace opposizione alle ingerenze del potere politico, ha indicato una via: percorsa senza indugio né deviazioni venti anni dopo, dai Padri costituenti.
Perchè è vero, come disse Calamandrei, che se si vuole andare in pellegrinaggio nei luoghi in cui è nata la Costituzione, occorre salire sulle montagne dove i partigiani persero la vita, ma non bisogna neppure dimenticare che l'elaborazione di molti dei principi della Carta sgorga, zampilla anche dall'esempio fornito da tutti coloro - ciascuno nel proprio ruolo - che seppero tenere dritta la schiena durante il ventennio, senza scendere a compromessi con aberrazioni politiche e legislative: tra questi, ed è un dato storicamente accertato, la gran parte dei magistrati ordinari che con ogni mezzo difesero il perimetro della propria indipendenza (il primato, quindi, del diritto "naturale", avverso il diritto "innaturale" di stampo fascista), quasi sempre, infine, soccombendo.
Al pari dei partigiani, Padri della Costituzione sono anche loro: lo è anche Mauro Del Giudice, a cui però è stata concessa, in quasi cento anni, giusto una fulgida interpretazione di De Sica e l'intitolazione di una scuola a Rodi Garganico, suo paese d'origine.
Il ruolo del Pubblico Ministero nell'emersione tempestiva dell’insolvenza, tra legge fallimentare e nuovo codice della crisi di impresa e dell’insolvenza di Giorgio Orano
A diciotto mesi dalla entrata in vigore del nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, la prevista introduzione degli strumenti di allerta, al dichiarato scopo di contribuire alla tempestiva emersione della crisi di impresa, impone una riflessione sul ruolo che il P.M. e la magistratura nel suo complesso, avrebbero dovuto svolgere secondo l’impianto della legge fallimentare - tuttora vigente - e sui compiti e le prerogative che la riforma attribuisce agli Uffici di Procura quali garanti della legalità del sistema economico nel suo complesso.
Sommario: 1. Domani accadrà, e il domani è fra diciotto mesi. – 2. I sistemi di allarme ante litteram presenti nella Legge Fallimentare del 1942. – 3 Il ruolo del Pubblico Ministero nel nuovo codice della crisi e dell’insolvenza. – 4. Le procedure di allerta e il Pubblico Ministero.
1. Domani accadrà, e il domani è fra diciotto mesi.
Tanto ci separa dall’entrata in vigore del nuovo codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (prossima la pubblicazione in gazzetta); evidentemente il legislatore è convinto che le nuove regole avranno effetti significativi, se non dirompenti, sulla nostra realtà socio economica e dunque ha concesso a tutti i soggetti coinvolti, fra cui gli operatori del diritto, molto tempo per riflettere, e per organizzarsi.
Può sembrare molto, forse troppo tempo, per noi penalisti, dal momento che in fondo il diritto penale fallimentare, al netto di qualche modifica terminologica, esce dalla riforma sostanzialmente immutato, risultando di fatto trascritto, nel nuovo codice, nel titolo IX del nuovo codice (artt. 322 – 347) rubricato “Disposizioni Penali”.
Tuttavia, anche se la riforma non contiene alcuna modifica degli strumenti di contrasto al crimine economico è evidente che il nuovo codice presenti una novità molto importante, destinata ragionevolmente a cambiare, forse da subito, le strategie illecite dell’imprenditore disonesto e dunque il concreto atteggiarsi dei futuri delitti di bancarotta.
Il legislatore ha preso infatti le mosse dalla constatazione del diffuso e gravissimo ritardo con cui le imprese, in questi anni, hanno avuto accesso alle procedure concorsuali.
E’ fatto dolorosamente notorio che oggi i fallimenti siano procedure per lo più inutili, costose e di frequente chiuse per mancanza di attivo da ripartire. Quanto ai concordati, spesso i piani proposti dall’impresa prevedono percentuali di soddisfacimento dei creditori minime, se non irrisorie o si basano, nel caso della cosiddetta “continuità”, su irrealistiche previsioni di futuri flussi reddituali che, in assenza di assets prontamente liquidabili, dovrebbero consentire il pagamento dei debiti pregressi.
In sede penale, il ritardo nella dichiarazione di fallimento, o nell’accesso delle imprese al concordato, fa sì che le indagini sui reati fallimentari si svolgano a distanza di mesi, se non di anni, dalla commissione dei fatti di bancarotta oggetto di accertamento.
Ecco perché il nuovo codice ha messo in primo piano, fra i doveri del debitore di cui all’art. 3 del codice, quello della “tempestiva rilevazione dello stato crisi”, necessaria affinchè l’imprenditore assuma “senza indugio le iniziative necessarie a farvi fronte” anche attraverso l’adozione di un idoneo assetto organizzativo ai sensi del novellato art. 2086 del codice civile.
Ecco perchè l’obiettivo di una tempestiva emersione dell’insolvenza e della crisi, è perseguito nel codice attraverso il complesso sistema (Titolo II del Codice) delle “Procedure di allerta e di composizione assistita della crisi” che, come detto, rappresentano l’aspetto veramente innovativo della riforma.
La composizione (il tentativo di soluzione concordata) della crisi è affidata ad un organismo istituito presso le Camera di Commercio cui pervengono le segnalazioni della crisi di impresa o da parte del debitore, a ciò incentivato anche con importanti misure premiali, o da parte dei creditori pubblici qualificati (Agenzia delle Entrate, I.N.P.S. e agente della riscossione) al superamento di prestabilite soglie di esposizione debitoria, o da parte degli organi di controllo societari, del revisore contabile e delle società di revisione.
L’attenzione degli interpreti è ovviamente concentrata sui tanti aspetti problematici della nuova disciplina, sia pure nella concreta speranza che la stessa vada a incidere in maniera virtuosa sui comportamenti e sulle scelte degli imprenditori, indirizzandoli verso un tempestivo e “leale” utilizzo degli strumenti di composizione della crisi d’impresa.
Personalmente ritengo invece importante volgere ancora per un attimo lo sguardo indietro, per chiedersi: il tema della tempestiva emersione dell’insolvenza era stato ignorato o sottovalutato nell’impianto dell’attuale legge fallimentare? In altri termini: le misure di allerta riempiono un vuoto legislativo o vanno a sostituire strumenti che già esistevano ma che, per qualche motivo, non hanno funzionato?
E se è così, cosa esattamente non ha funzionato?
2. I sistemi di allarme ante litteram presenti nella Legge Fallimentare del 1942
Si può partire da un dato. L’art. 217 L. F. (che vivrà nell’art. 323 del nuovo codice) punisce a titolo di bancarotta semplice l’imprenditore che ha aggravato il proprio dissesto “astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento”. Se pensiamo al fatto che solo la dichiarazione di fallimento interrompe il decorso degli interessi legali o convenzionali (art. 55 LF), si può dire che quasi sempre a un ritardo nella dichiarazione di fallimento consegue un aggravamento della situazione debitoria.
Dunque il legislatore aveva già nel 1942 ben presente l’importanza di una tempestiva rilevazione dell’insolvenza in primis da parte dello stesso debitore, solo che all’epoca decise di usare nei confronti dello stesso solo “il bastone”, criminalizzando la sua inerzia, mentre nel nuovo codice è contemplata anche “la carota” sotto forma di variegate misure premiali per l’imprenditore che accede senza ritardo agli strumenti di composizione della crisi.
Il legislatore del 1942, saggiamente, non ha fatto esclusivo affidamento sulla spontanea adesione da parte degli imprenditori al suddetto precetto, sia pure penalmente sanzionato, né ha lasciato che l’emersione della crisi d’impresa fosse rimessa alla decisione dei creditori di promuovere, a seconda del loro interesse particolare, istanza di fallimento piuttosto che di proseguire le azioni esecutive individuali nei confronti del patrimonio del debitore.
Ha invece attribuito il potere di iniziativa fallimentare anche ad un soggetto pubblico, privo di interessi patrimoniali propri da tutelare, ossia il Pubblico Ministero, onerandolo (art. 7 della Legge Fallimentare) di promuovere istanza di fallimento ogni qual volta l’insolvenza dell’imprenditore risultasse nel corso di un procedimento penale.
Nel medesimo articolo di legge ha previsto che il Pubblico Ministero attivasse il suo potere di iniziativa fallimentare anche sulla base di segnalazioni provenienti dal Giudice Civile, con ciò affidando anche a quest’ultimo il compito di “sentinella dell’insolvenza”.
Dunque nel piano del legislatore del 1942 l’insolvenza dell’impresa avrebbe dovuto, nella normalità dei casi, emergere con tempestività: o per ammissione dello stesso imprenditore, o per l’iniziativa dei creditori o nel corso di cause civili e procedimenti penali, conseguenza indefettibile di ogni crisi imprenditoriale.
Ed allora, posto che il sistema di allarme c’è anche nella vigente legge fallimentare, l’approccio ai nuovi strumenti di allerta non può prescindere, a mio parere, da una riflessione tesa a capire perché quel piano non abbia funzionato, ossia il motivo per cui la magistratura si sia dimenticata di svolgere il ruolo che la legge fallimentare le aveva assegnato.
La risposta più immediata è che l’analisi dei presupposti per la segnalazione della insolvenza (da parte del giudice civile) o per l’istanza di fallimento (da parte del Pubblico Ministero) costituisce, soprattutto in assenza di specializzazione, di apposite dotazioni informatiche e di facile accesso alle banche dati, un appesantimento significativo del lavoro quotidiano, percepito come insostenibile in realtà giudiziarie già impegnate in via ordinaria di un soverchiante numero di affari.
Credo tuttavia di non sbagliare se dico che in ben pochi Tribunali e Procure d’Italia, anche quelli meno gravati, il problema del ruolo dei magistrati nella emersione dell’insolvenza sia stato oggetto di una qualche attenzione e soprattutto abbia ispirato modifiche all’organizzazione interna, circolari, protocolli eccetera.
E allora forse la vera spiegazione è un’altra, ed è di natura culturale: di fronte ad una impresa in difficoltà, il magistrato vive l’iniziativa fallimentare pubblica come una sorta di accanimento, istintivamente assume un atteggiamento conservativo nei confronti di una realtà aziendale che percepisce composta, almeno in parte, di persone incolpevoli che lavorano e la cui sopravvivenza dipende, almeno nell’immediato, dalla prosecuzione della attività commerciale.
Peccato che fissare lo sguardo sulla vicenda particolare, in questo caso, sfochi la vista sul quadro generale.
Andrebbe infatti tenuto sempre presente che in assenza di una tempestiva instaurazione di procedure concorsuali, l’impresa in crisi assume solitamente decisioni lesive per la garanzia dei creditori; quasi sempre ai danni dell’insuccesso imprenditoriale si sommano pertanto quelli derivanti dalle illecite condotte dell’imprenditore, e questi danni tendono poi a colpire i soggetti più deboli e meno garantiti, a volte messi in ginocchio dal mancato recupero delle proprie spettanze e costretti a loro volta al fallimento.
E purtroppo non è tutto qui: gli imprenditori più furbi e disonesti hanno imparato a programmare e utilizzare ai propri fini, spesso all’interno di logiche di gruppo, le crisi di impresa e le procedure concorsuali, accumulando debiti – soprattutto verso l’Erario e gli Enti Previdenziali – per autofinanziarsi e alterare i meccanismi della concorrenza.
Lasciare sul mercato una impresa che ha perduto il suo patrimonio per perdite (magari abilmente occultate con un bilancio falso) o addirittura un’impresa cd “criminale” – ossia un soggetto economico sta sul mercato da sempre in maniera slealmente competitiva, violando le normative civilistiche, fiscali e contributive – costituisce una grave mancanza di responsabilità posto che pregiudica la possibilità di sopravvivenza sul mercato delle imprese sane e rispettose delle regole.
Insomma, questa sorta di “sindrome da plotone di esecuzione” che sembra affliggere i magistrati, impedisce loro di vedere che a morire, in questi anni, è stato il sistema economico nel suo complesso, ostaggio e vittima di condotte imprenditoriali illecite che si sono a tal punto diffuse da divenire “sistema” e regola distorta di fatto imposta a tutti.
Ecco perché a prescindere da quello che sarà l’impatto delle procedure di allerta, è fondamentale che giudici e pubblici ministeri prendano consapevolezza del loro ruolo e delle loro responsabilità, comprendendone a pieno l’importanza proprio a salvaguardia della tenuta complessiva di un tessuto socio economico che, a parole, tutti vorremmo vitale e pronto a premiare quella competitività sana (basata sul rispetto delle regole) che è peraltro il principale interesse del consumatore.
3. Il ruolo del Pubblico Ministero nel nuovo codice della crisi e dell’insolvenza
Un cosa a questo punto va detta chiaramente: le nuove disposizioni del Titolo II del Codice sulle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi – basate come accennato sulla imposizione di obblighi di segnalazione a carico di soggetti qualificati - non sono pensate come sostitutive del compito assegnato alla Autorità Giudiziaria in tema di tempestiva emersione dell’insolvenza, ma vanno piuttosto ad aggiungere un nuovo canale di emersione pronto, in ogni momento, a cedere il passo all’intervento pubblico. Il comma 9 dell’articolo 12 del nuovo codice prevede espressamente, infatti che: “la pendenza di una delle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza disciplinate dal presente codice fa cessare gli obblighi di segnalazione di cui agli artt. 14 e 15 e, se sopravvenuta, comporta la chiusura del procedimento di allerta e di composizione assistita della crisi.”
Peraltro l’art. 12 comma 4 e 5 del nuovo codice prevede una cospicua lista di esclusioni soggettive dall’applicazione degli strumenti di allerta, non applicabili ad esempio alle grandi imprese, ai gruppi di imprese di grandi dimensioni e alle società quotate.
In maniera del tutto coerente a questo disegno, il nuovo codice amplia notevolmente il potere di iniziativa del Pubblico Ministero in relazione al ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale prevedendo, al primo comma dell’art. 38, che il suddetto possa presentarlo “in ogni caso in cui ha notizia della esistenza di uno stato di insolvenza” dunque anche senza quello specifico collegamento, formale o sostanziale, con il procedimento penale richiesto dall’attuale art. 7 L.F..
Allo stesso modo, il secondo comma dell’art. 38, prevede che “l’autorità giudiziaria che rileva l‘insolvenza nel corso di un procedimento lo segnala al Pubblico Ministero". Colpisce anche in questo caso come il legislatore abbia utilizzato i termini più generici e onnicomprensivi che aveva a disposizione (ci si riferisce ad “autorità giudiziaria” e “procedimento”) allo scopo di coinvolgere l’intero sistema giustizia nel perseguimento dell’obbiettivo.
Nella relazione illustrativa del nuovo codice si legge, con riferimento al richiamato art. 38, che la disposizione “restituisce centralità al ruolo del p.m, coerentemente con il ruolo attribuito a tale organo nelle procedure di allerta”; tale passaggio veicola il messaggio consolatorio che qualcuno o qualcosa abbia voluto spogliare il p.m. del proprio ruolo, mentre è di tutta evidenza che l’art. 7 della legge fallimentare, in vigore da più di settant’anni, sia caduto nel dimenticatoio per le ragioni che prima ho cercato di delineare.
4.Le procedure di allerta e il Pubblico Ministero.
Quando il nuovo codice entrerà in vigore il Pubblico Ministero sarà ai sensi dell’art. 22 il destinatario, e non potrebbe essere altrimenti, delle segnalazioni di stato di insolvenza provenienti dall’Organismo di composizione della crisi di impresa (OCRI) e più precisamente dai collegi designati dal medesimo alla trattazione delle singole vicende imprenditoriali. In buona sostanza, tale segnalazione dovrebbe essere la conseguenza necessaria dell’eventuale fallimento dei tentativi di pervenire ad una soluzione concordata (con i creditori) della crisi d’impresa qualora, ciò nonostante, l’imprenditore non si determini a presentare domanda di accesso ad una procedura concorsuale.
Va rilevato che tale segnalazione segna il primo momento di coinvolgimento della autorità giudiziaria nella concreta vicenda imprenditoriale posto che, in precedenza, il Pubblico Ministero rimane all’oscuro finanche dell’esistenza della procedura di composizione della crisi presso l’OCRI, e che tale procedure è caratterizzata, nei limiti del possibile, da accorgimenti volti a garantirne la riservatezza e la confidenzialità.
Ai sensi del secondo comma dell’art. 22 “Il Pubblico Ministero, quando ritiene fondata la notizia di insolvenza, esercita tempestivamente, e comunque entro sessanta giorni dalla sua ricezione, l’iniziativa di cui all’art. 38 comma 1”
Di tale disposizione vanno a mio parere sottolineati due aspetti.
Il primo è che la norma fa esplicito riferimento ad un potere di valutazione da parte del Pubblico Ministero della “notizia di insolvenza”, non esplicitato nella norma a carattere più generale di cui all’art. 38 del nuovo codice, così come non lo era nell’art. 7 della legge fallimentare.
In altri termini l’art. 22 sembra concedere spazio logico giuridico ad una sorta di “archiviazione per infondatezza” della segnalazione di cui la norma generale non parla, ad esempio, con riferimento alle segnalazioni del giudice civile o per quelle che nel nuovo regime arriveranno al P.M. da qualsiasi autorità giudiziaria. Il che peraltro appare anche incongruo rispetto al fatto che le segnalazioni di cui all’art. 22 proverranno da un organo qualificato che ha avuto modo di conoscere in maniera particolarmente penetrante le ragioni e le dinamiche della crisi d’impresa oggetto del suo intervento.
Il secondo aspetto da rilevare, strettamente connesso al primo, è che la norma invita il P.M. ad esercitare i suoi poteri tempestivamente ed addirittura gli assegna un tempo massimo di 60 giorni per presentare la sua richiesta di apertura della liquidazione giudiziale.
Con tutta probabilità l’attribuzione anche al P.M. di un termine ultimativo è figlia della preoccupazione, da parte del legislatore, che le procedure di composizione della crisi si traducano in uno strumento dilatorio, utilizzato dalla imprese per prendere tempo piuttosto che per trovare concrete soluzioni alla crisi.
Questa novella legislativa, tuttavia, porta a riflettere ancora sulla doverosità e sui tempi dell’esercizio da parte del P.M. del suo potere generale di iniziativa fallimentare (ancora per diciotto mesi, possiamo usare questo termine), che come si è visto, a differenza di quello derivante dalla segnalazione di insolvenza dei collegi OCRI, non trova nel nuovo codice alcuna ulteriore disciplina.
Ritengo, per parte mia, che l’art. 22 citato contenga principi validi in ogni caso di segnalazione di insolvenza: il Pubblico Ministero è libero di valutarla e di decidere autonomamente sulla sussistenza dei presupposti della insolvenza, ma è poi obbligato a richiedere il fallimento senza indugio laddove tali presupposti siano da lui riscontrati (si pensi all’evidenza di una società con grave squilibrio fra attivo e passivo che sia già in liquidazione o che comunque abbia di fatto interrotto l’attività di impresa).
Di certo, una volta entrato in vigore l’art. 22, il Pubblico Ministero sarà tenuto, entro 60 giorni, onde evitare concreti profili di responsabilità, a depositare ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale o ad emettere un provvedimento motivato nel quale spieghi adeguatamente per quale motivo ritiene non sussistenti i presupposti dell’insolvenza.
Non è escluso che proprio quest’ultima previsione legislativa, in definitiva, sia in grado di stimolare negli uffici di Procura quel rinnovamento culturale, e l’adozione di quelle misure organizzative, che consentano ai singoli magistrati del Pubblico Ministero l’esercizio corretto e tempestivo delle loro prerogative in tema di controllo di legalità sulle dinamiche del sistema economico, favorendo ad un tempo il ripristino di reali meccanismi di concorrenza sul mercato, l’efficacia della attività investigativa sul crimine economico ed il recupero di dignità ed efficienza delle procedure concorsuali.
Osservazioni sullo stato della fase dibattimentale di primo grado dei Tribunali Ordinari
di Massimo Terzi
SOMMARIO: 1. Introduzione; 2. Analisi dei flussi quantitativi; 3. L’ urgenza di intervenire; 4. Prime evidenze; 5. Verifica della natura dei flussi; 6. Le cause del dissesto; 7. Le proposte; 8. Conclusione.
1. Introduzione
Scopo del presente elaborato è di svolgere una breve analisi statistica sulla situazione del settore dibattimentale dei Tribunali Ordinari del primo grado, che rappresenta in qualche modo il core business dello sviluppo del processo penale. Analisi che, lungi dall’essere una rappresentazione burocratica o meramente efficientista della giustizia penale, da una parte rappresenta il punto di partenza per verificarne in concreto lo stato di salute, dall’altra il mezzo per individuare i possibili rimedi.
Invero la rappresentazione statistica numerica, come cercherò di evidenziare, consente anche una verifica della correttezza dei meccanismi normativi e una riflessione – come è ovvio che sia quando si parla di applicazione del diritto – del terreno culturale che di fatto ne genera l’applicazione materiale concreta.
Su queste premesse la prima istintiva riflessione, ufficializzata dallo stesso Ministero di Giustizia sul sito internet, è la assoluta inadeguatezza dei sistemi di rilevamento statistico nel settore penale, sia da un punto vista tecnico che qualitativo.
Inadeguatezza particolarmente grave in presenza di un nuovo processo organizzativo quale è, da un punto di vista strutturale aziendalistico, un nuovo codice di procedura il cui andamento avrebbe dovuto, quantomeno con l’avvento della informatica, essere monitorato costantemente al meglio onde prevenire in tempo utile la degenerazione.
Inadeguatezza che ci fa interrogare anche da un punto vista “storico”, a fronte dello sviluppo informatico e di gestione del dato nel settore civile.
2. Analisi dei flussi quantitativi
In occasione dell’inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2019 presso la Corte di Appello di Torino ho rappresentato i dati assoluti dello storico delle pendenze sul dibattimento in primo grado sul territorio nazionale negli ultimi dieci anni (dati ufficiali pubblici sul sito Ministero di Giustizia), sulla base dei quali ho concluso icasticamente che – anche basandoci su questi soli dati del dibattimento del primo grado – lo “spread” del processo penale va prezzato oltre 1000 rispetto ad un processo “nomale” con outlook negativo, e che una ipotetica agenzia di rating non potrebbe che qualificare i titoli rappresentativi della giustizia penale quali “titoli spazzatura”.
Tali dati evidenziano, già di per sé, la insostenibilità del sistema atteso il costante trend di crescita che porterebbe in 15 anni a circa 1.000.000 di pendenze nei procedimenti monocratici ed a circa 50.000 procedimenti collegiali.
Suddivisione dei procedimenti penali pendenti di Tribunale per tipo di rito. Dato nazionale. Anni 2008 - I semestre 2018 | ||
Anno | Trib. in composizione monocratica | Trib. in composizione collegiale |
2008 | 375.469 | 21.130 |
2009 | 395.842 | 22.215 |
2010 | 425.725 | 22.200 |
2011 | 450.613 | 22.024 |
2012 | 492.629 | 22.470 |
2013 | 521.874 | 23.021 |
2014 | 548.557 | 24.175 |
2015 | 567.602 | 25.523 |
2016 | 534.005 | 26.610 |
2017 | 578.758 | 27.459 |
I semestre 2018* | 592.902 | 27.749 |
3. L’ urgenza di intervenire
La situazione rappresentata evidenzia l’assoluta urgenza di intervenire. L’urgenza pone una precondizione di inammissibilità di qualsiasi intervento che non sia in grado di incidere non solo efficacemente, ma anche rapidamente sull’efficienza del processo penale. Il che non esclude, ovviamente, un piano strategico di miglioramento più generale; ma esclude che ci siano le condizioni per sviluppare interventi a medio lungo termine senza un previo intervento sulle cause strutturali endemiche di tale disastrosa situazione.
In tal senso, l’urgenza ed il gap tra sopravvenienze e definizioni annue portano ad escludere che al trend possa porsi rimedio con soluzioni meramente aziendalistiche incidenti sulla produttività selle singole risorse e/o sulla quantità delle risorse (id est, magistrati addetti al dibattimento).
Ed invero non sono ipotizzabili, da un punto di vista generale, ad ordinamento invariato, aumenti di produttività dei Giudici sia per la assoluta inesigibilità da un punto di vista “lavoristico”, sia per non incorrere in una deprecabile diminuzione di qualità della giurisdizione.
Parimenti è da escludersi che la soluzione possa rinvenirsi in un mero aumento di Giudici addetti al dibattimento di primo grado, atteso che, solo per stabilizzare il trend, dovrebbero essere assunti tra i 300 ed i 500 magistrati (a fronte degli attuali 1500 circa); con parallela necessità di adeguate strutture di personale e logistiche. Con l’attuale situazione di grave difficoltà soltanto a mantenere strutture giudiziarie accettabili giusta la cronica difficoltà finanziaria dello Stato, la soluzione, oltre che utopica, avrebbe comunque tempi non compatibili con l’urgenza della problematica. In ogni caso, tale soluzione non risolverebbe il problema strutturale creato dai flussi passati senza ulteriori ancor più fantasiose immissioni di risorse finanziarie.
4. Prime evidenze
I dati certificano semplicemente il fallimento del sistema a trent’anni anni dall’entrata in vigore del nuovo codice, e non sono altro che il riscontro statistico di quello che da anni viene indicato – giustamente – come uno dei problemi centrali della giustizia penale; e cioè la irragionevole durata del processo (e di rimando la prescrizione) tema di rilevanza costituzionale.
Se vi sono troppi processi da celebrare i tempi di durata non possono che allungarsi e, da un punto divista matematico, possiamo anche ufficializzare corsie preferenziali, come già è stato fatto; possiamo accantonare, come di fatto già si fa ma il monte dei processi da lavorare comunque continua inesorabilmente a crescere. Stiamo parlando pertanto del fulcro, dell’essenza della macchina e dobbiamo evitare more solito di allargare ora il discorso sulla necessità – che condivido pienamente – di una analisi e ristrutturazione dell’intero sistema penale. Oggi dobbiamo essere umili e pragmatici ed individuare le cause strutturali di tale fallimento e porre in essere in primo luogo rimedi che rimuovano tali cause.
La causa immediata ci sembra indiscutibile: vi è un flusso di procedimenti assolutamente non gestibile, punto. Appare dunque doveroso verificare se tali flussi siano fisiologici ovvero patologici; cioè se siano funzionali o meno allo scopo del processo penale.
5. Verifica della natura dei flussi
In mancanza di dati nazionali, la proiezione – probabilmente sottostimata – dei dati raccolti su alcuni circondari ci rappresenta un esito dei processi celebrati con rito ordinario sul primo grado del 50% di assoluzioni (nel merito) per il rito monocratico e del 35% nel rito collegiale. Tali dati non comprendono ovviamente le direttissime ed escludono anche i processi che si concludono a dibattimento per prescrizione o per altre cause di non doversi procedere ovvero definiti con riti alternativi.
Altro dato di rilevo è che, nei processi celebrati con rito ordinario, quelli definiti con riti alternativi che irrogano una pena (cioè, le applicazioni delle pene per patteggiamento ed i giudizi abbreviati con esiti di condanna) sono circa il 10%.
Senza uscire al momento dalla mera analisi statistica è del tutto evidente che, ove solo il 50% dei processi con esito assolutorio non fossero pervenuti a dibattimento, non si sarebbe posta una problematica di aumento di pendenze sul dibattimento a rito ordinario.
Il che non vuol dire che tutti i problemi sarebbero risolti, ma certamente vuol dire che – per recuperare la metafora che ho utilizzato in precedenza – lo “spread del processo penale” sarebbe molto, ma molto più basso e l’outlook sarebbe quantomeno stabile. Tradotto in termini di valori processali e costituzionali, la durata dei processi sarebbe stata molto più bassa e conseguentemente la problematica della prescrizione sarebbe stata assai meno rilevante.
Voglio dire, in buona sostanza, che se non fossero pervenuti a dibattimento il 50% di quei procedimenti esitati con assoluzione (nel merito) dal 2008 a oggi avremmo 450.000 procedimenti pendenti anziché 600.000 e cioè il 25% in meno. Posso suppore che, andando ulteriormente a ritroso dal 1989 matematicamente avremmo ad oggi una ulteriore progressiva riduzione delle pendenze del tutto fisiologica. La riduzione ipotizzata significherebbe comunque accettare come “normale” una percentuale del 20%/25% di assoluzioni nel merito; percentuale che non mi pare possa ritenersi eccessivamente restrittiva.
Credo, invece, che nessuna persona ragionevole possa ritenere che il numero di assoluzioni in primo grado possa ritenersi ad oggi fisiologico, solo che si ponga a mente che non è compatibile con un ordinamento democratico che subiscano un processo penale – che è una poena sine iudicio – milioni di persone che poi vengono assolte.
Credo inoltre che nessuno possa contestare gli esiti assolutori da un punto di vista generale numerico, atteso che in uno Stato di diritto l’esito è quello che decide il Giudice; a maggior ragione laddove l’ordinamento prevede altri due gradi di giurisdizione; ed a maggior ragione laddove all’esito delle impugnazioni le percentuali di assoluzioni complessive aumentano e non diminuiscono.
In tal senso la domanda che ho posto sopra, se cioè tali flussi da un punto di vista quantitativo e qualitativo siano funzionali allo scopo del processo penale, mi pare assolutamente retorica non potendosi che rispondere in senso negativo.
6. Le cause del dissesto
E’ evidente che, in presenza di un dissesto di un nuovo processo organizzativo, solo due, non necessariamente alternative, anzi spesso concorrenti, possono essere le cause a monte; e cioè, nel nostro caso, le ragioni che stanno dietro al numero irragionevolmente alto di procedimenti che giunge a dibattimento e che esita in assoluzioni di merito.
La prima è che il processo organizzativo è stato strutturato in modo erroneo; la seconda è che il processo organizzativo è stato applicato in modo erroneo.
Poiché non stiamo parlando di un normale processo organizzativo, ma di un processo organizzativo che è strutturato sulla base di norme e applicato espletando funzioni giurisdizionali, a mio avviso, specie in situazione emergenziale la questione è speciosa.
Dopo trent’anni (non tre giorni, tre mesi o tre anni) di applicazione di un sistema processuale, le regole di applicazione debbono assumersi come quelle applicate secondo la interpretazione che ne è stata data.
Ipotizzare, pertanto, un intervento – specie se urgente – che possa “recuperare il sistema”, anche con validissimi argomenti, con nuovi orientamenti interpretativi, cioè applicativi, a norme invariate ha certamente un senso, anche nobile, da un punto di vista culturale astratto; ma non ha un senso da un punto di vista pragmatico. E, aggiungo, al di là della nobiltà degli intenti, sarebbe di fatto una palese violazione dell’obbligo di adeguarsi all’art 111 secondo comma della Costituzione che non consente di aspettare i lunghi e faticosi tempi di incerti rinnovamenti culturali.
Dobbiamo tenere a mente partiti nell’analisi da freddi numeri, ma tramite quei numeri siamo arrivati ad un valore assoluto costituzionale: quello della ragionevole durata del processo.
L’ordinamento giuridico ha sempre avuto come “clausola di salvaguardia”, rispetto all’applicazione delle norme in senso contrario alla loro ratio, la possibilità di intervenire. Ed ove sono in gioco valori costituzionali, questa possibilità diventa un dovere per qualunque Governo e Parlamento di qualsiasi colore.
7. Le proposte
Le mie proposte si fondano sull’analisi numerica, ma anche sulla valutazione di quel che voleva essere il nuovo codice di procedura penale e quel che non è stato.
Tutti gli operatori sanno che la “scommessa” su cui si è impiantato il nuovo processo ed il passaggio dal rito inquisitorio a quello accusatorio si fondava, in un sistema ad azione penale obbligatoria, sul funzionamento dell’udienza preliminare e dei riti alternativi. La prima si è rilevata un fallimento genetico con una curva di progressione di insolvenza schizzata a livelli quasi inimmaginabili. L’udienza preliminare era stata pensata in primo luogo nella consapevolezza che il dibattimento non avrebbe potuto reggere l’indiscriminato arrivo dei processi rilevanti e, pertanto, era stata istituita allo scopo di esercitare un filtro penetrante e gestire anticipatamente i riti alternativi.
La funzione di filtro si è di fatto azzerata. La gestione anticipata dei riti abbreviati, salvo rare eccezioni, ha comportato un accesso minimale rispetto agli auspici. A ciò si aggiunga che questa sorta di quarta fase del processo (la prima cronologicamente rispetto alle successive avanti a Tribunale dibattimentale, Appello e Cassazione) ha ovviamente una durata (mediamente un anno) il cui costo – in termini di dispendio di energie dell’ufficio – aveva un senso solo se avesse assolto allo suo scopo originario, senza trasformarsi – come si è trasformata di fatto – in un ulteriore allungamento dei tempi processuali.
Il legislatore ci ha messo del suo, aumentando, inconsapevolmente ed assai poco diligentemente, il catalogo dei reati che passano per udienza preliminare con aumenti del massimo delle pene. Ma anche il generale accesso ai riti alternativi in sede di udienza preliminare è stato catastrofico rispetto alle previsioni.
E’ indiscutibile che tutto ciò riporta al tema di fondo delle presenti osservazioni; vale dire la questione dei criteri di esercizio dell’azione penale e, specularmente, il simmetrico vaglio giurisdizionale da parte del Giudice che deve convalidare il non esercizio. A questo livello di patologia (rectius di stato comatoso vegetativo) del processo non posso che insistere su due interventi da me già proposti:
- abolizione tout court dell’udienza preliminare (con recupero immediato senza oneri per lo Stato di Giudici-almeno 300- personale ed aule nella fase processuale ordinaria);
- previsione quale giudizio ordinario del rito abbreviato con inevitabile e conseguenziale, anche da un punto di vista sistematico, adeguamento del criterio di esercizio dell’azione penale alla sussistenza di elementi di prova certi per la condanna (con il rito abbreviato cioè sulla base degli atti); ovviamente, senza alcuna limitazione per l’imputato nel diritto di chiedere il vaglio dibattimentale.
8. Conclusione
Ritengo che le proposte da me avanzate dovrebbero essere sostenute sia dalla Magistratura, ed in primis dalle Procure, che dalla classe forense. Ed invero, per la Magistratura, ne sono convinto, è anche storicamente l’ultima occasione per preservarne l’unità riacquisendo normativamente, sistematicamente e quindi effettivamente, una comunanza di cultura giurisdizionale. Sono perfettamente consapevole che quanto sostengo può essere (per me è) una soluzione per la fase del giudizio , ma non risolve il problema delle capacità delle Procure di approfondire le indagini su tutte le notizie di reato, ma riverberare questa problematica sul processo non è una soluzione, ma un evidente tragico scaricamento del problema su tutta la giustizia penale. La soluzione pertanto non può che essere ricercata all’interno delle Procure senza “spostarla” nella fase del giudizio; e quanto propongo è un mezzo con cui questa soluzione può quantomeno essere grandemente agevolata.
Per l’Avvocatura, che svolge il delicato, essenziale e costituzionale ruolo della difesa delle persone, le mie proposte costituiscono l’occasione storica di affermazione della professionalità del proprio ruolo nel settore penale. E’ evidente che in un sistema che ha ingenerato nelle persone l’idea che, a fronte di una qualsiasi imputazione, tra assoluzioni e prescrizioni vi è il 70% di probabilità di non essere condannati, il ruolo di difensore è (giustamente) condizionato in modo determinante.
Ma non solo. Se dall’ottica dei professionisti ci si sposta alla prospettiva del comune cittadino, non si può non notare che, soltanto a partire da una riforma reale del codice di procedura penale, la comunità dei consociati potrebbe ricominciare ad avere fiducia nella Giustizia.
Chiederei pertanto a tutti di gettare il cuore oltre all’ostacolo, essendo certo che quanto propongo muterebbe completamente il quadro catastrofico e lo reincanalerebbe anche abbastanza rapidamente verso la normalità, curando in radice patologie devastanti, a cominciare dalla ragionevole durata del processo. Il tutto senza una lesione dei diritti sia dell’accusa che della difesa.
Chiederei comunque a chiunque voglia portare avanti altre proposte di confrontarsi con la realtà da me rappresentata e, se spinto da vera passione per l’interesse generale, verificarne, prima di proporle i concreti effetti sul quadro da me rappresentato in termini di efficacia, di tempi e di sostenibilità dei costi. Io l’ho fatto e sono pronto a confrontarmi analiticamente con chiunque ne fosse interessato.
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