ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Nota a Cass. pen., Sez. III, 3 agosto 2019, n. 1854 di Giuseppe Tropea
Sommario: 1. Premesse. – 2. I principali snodi argomentativi della sentenza. – 3. Cenni sul fatto e sul tema dell’errore scusabile. – 4. La rilevata non fondatezza della q.l.c. alla luce della sent. Corte cost. n. 63/2016. – 5. Alcuni profili di criticità ancora aperti.
1. Premesse
La sentenza della Cassazione penale che qui si annota tocca profili molto delicati non solo per il penalista, ma anche per il cultore del diritto pubblico tout court. Non è un caso che uno degli elaborati di diritto amministrativo (non estratto) al penultimo concorso in magistratura vertesse proprio su tali tematiche.
La questione verrà brevemente trattata da chi scrive cercando proprio di evocare tali più ampie prospettive.
In questo senso essa sembra connessa a uno scenario più generale in cui nel riparto di competenze Stato/Regioni ex art. 117 Cost. si gioca una partita decisiva con riferimento al modo di inquadrare le politiche pubbliche in materia di immigrazione e sicurezza. Ciò in quanto, come vedremo, la questione esaminata dal giudice penale sottende strettamente il complesso scenario dell’integrazione, sociale culturale e religiosa, che si vive quotidianamente nelle nostre metropoli (e non solo), specie se entrano in gioco questioni legate alla pratica della religione islamica.
Si pensi al tema della cd. sicurezza urbana. Qui la Consulta ha giocato un ruolo decisivo nell’ammettere l’intervento statale, di fatto sdoganando un discutibile concetto di sicurezza urbana come “sicurezza pubblica minore” (Corte cost., n. 196/2009) e finendo per esautorare molte competenze regionali in materia (dal governo del territorio alla lotta al disagio sociale)[1].
D’altra parte si sono verificati anche fenomeni eguali e contrari. Si pensi a certe leggi regionali (della Lombardia, del Veneto, della Liguria) che hanno cercato di territorializzare questioni legate al tema della legittima difesa, prevedendo fondi per garantire le spese di patrocinio legale di coloro che sono accusati di eccesso colposo di legittima difesa. Qui la Corte ha invece escluso la competenza regionale, poiché tali normative intervengono sulla disciplina del patrocinio penale e del diritto di difesa, incidendo di conseguenza su di un ambito materiale riservato dall’art. 117, co. 2, lett. l) Cost. alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (Corte cost., n. 81/2017).
Venendo al tema oggetto della presente nota, la questione è da declinare partendo da un assunto: negli ultimi anni la “leva urbanistica” ha avuto il compito di gestire la pianificazione sul territorio dell’edilizia di culto[2]. Anche in dottrina si ritiene che l’edilizia di culto, connessa alla tutela del diritto costituzionale alla disponibilità di un edificio come luogo di preghiera e aggregazione sociale, costituisca una dimensione ulteriore del governo del territorio[3].
Emblematica proprio la legge regionale lombarda n. 12 del 2005, in quanto il fatto per il quale vi è stata condanna (mutamento di destinazione d’uso con opere edilizie per la creazione di un luogo di culto senza permesso di costruire, in locali originariamente destinati a magazzino) è avvenuto a Milano, nei locali della Bangladesh Cultural and Welfare Association. In questa legge si poneva una radicale separazione tra confessioni, stabilendosi il principio secondo cui le disposizioni del capo III si applicavano sì alle confessioni religiose diverse dalla Chiesa Cattolica, a condizione tuttavia che queste possedessero il triplice presupposto dell’essere qualificate come tali in base a criteri desumibili dall’ordinamento, caratterizzate da una presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito comunale e dotate di statuti che ne esprimano le finalità religiose (art. 70, co. 2). Con la successiva legge regionale n. 2 del 2015 si assiste a un nuovo, più sostanzioso, corpo di modifiche caratterizzato dalla volontà di estendere ulteriormente le potenzialità della scelta del legislatore del 2005 di ricorrere alla leva urbanistica per gestire il fenomeno della edilizia di culto.
Su tale modifica è intervenuta la Corte cost., con sentenza n. 63/2016, contenente per un verso importanti principi sul piano della libertà religiosa, per altro verso non intaccando in modo radicale l’assetto della legislazione regionale, in nome probabilmente di una recente volontà di individuare precisi limiti alla libertà religiose (v. anche Corte cost. n. 52/2016, su cui si tornerà infra), ascrivibile al clima terroristico che stiamo vivendo.
Da qui bisogna partire per inquadrare la questione che ha impegnato i giudici penali, che non a caso richiamano proprio Corte cost. n. 63/2016, e dalla consapevolezza che in dottrina è piuttosto pacifica l’idea del diritto costituzionale ad un bene immobile come presupposto fisico del diritto costituzionale di libertà religiosa (art. 19 Cost.). In questo quadro, peraltro, la stessa Corte Edu ha accertato la violazione dell’art. 9 Cedu nella condanna a pena detentiva e nella sanzione della chiusura di un locale, inflitte per l’utilizzazione come luogo di culto, in assenza di una autorizzazione ministeriale (Corte Edu, Sez. I, 29 settembre 1996, Manoussakis e altri c. Grecia).
Nella nostra vicenda, come si dirà subito appresso, entra pure in gioco soprattutto quest’ultimo aspetto, che ha portato alla sentenza della Corte Edu: il “corno” edilizio della questione, insomma, che evoca il problema dei mutamenti di destinazione d’uso.
Sotto questo punto di vista la legge regionale n. 12 del 2005, art. 52, comma 3-bis, ha previsto che i mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche senza opere, finalizzati alla creazione di luoghi di culto, sono assoggettati a permesso di costruire.
Inquadrata la vicenda in questo scenario più ampio, siamo in grado a questo punto di scendere all’esame più specifico della pronuncia annotata.
2. I principali snodi argomentativi della sentenza
La sentenza n. 1854/2019 della Cassazione si dipana attraverso i seguenti passaggi argomentativi: i) il sig. P. ha effettuato un mutamento di destinazione d’uso al fine della creazione di un luogo di culto; esso da un lato è stato adibito ad una funzione diversa, come si evince dalla presenza di 400 persone al momento di un sopralluogo, dall’altro è stato anche oggetto di esecuzione di opere, consistenti nel dividere gli spazi per riservarne una parte alle donne, nella costruzione di nuovi servizi igienici, nella zona di abluzione dei piedi; ii) questa valutazione “in fatto” viene ripresa nella parte relativa alla valutazione della particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p., esclusa proprio perché vi sarebbe stato un aggravio del carico urbanistico a causa dei lavori fatti; iii) viene esclusa poi la sussistenza dell’errore incolpevole sulla base del seguente argomento, ricorrente nella giurisprudenza penale: la difficoltà nel determinare il significato univoco della disposizione normativa, anche a causa di dissidi giurisprudenziali, avrebbe dovuto spingere l’imputato a non agire piuttosto che ad eseguire comunque i lavori; iv) viene quindi ritenuta infondata la q.l.c. della legge regionale lombarda sulla scorta di richiami alla giurisprudenza costituzionale (sentt. nn. 52 e 63 del 2016) e (nonostante) Corte Edu sul punto; v) sotto questo aspetto un ruolo centrale, nell’interpretazione adeguatrice della normativa regionale, assume il test di proporzionalità e il “rinvio” al giudice amministrativo dell’opera di bilanciamento di interessi (libertà religiosa vs ordine e sicurezza pubblica, ordinato assetto del territorio, etc.).
Ragionare sugli ultimi aspetti è evidentemente molto importante. E qui, forse, il cultore del diritto amministrativo può dare un, seppur minimo, contributo anche al penalista.
La via estemporanea del mutamento ex post di destinazione d’uso, infatti, quale improprio strumento di attuazione del diritto costituzionale ad un edificio di culto, appare angusta e incerta, essendo a monte impedita o limitata da scelte legislative e di piano. In quest’ottica il bisogno insito nel diritto costituzionale a un edificio di culto finisce per trovare sfogo nella fattualità di luoghi occasionali (capannoni industriali, garage, scantinati, etc.) in assenza di titolo e di legittimazione per il mutamento[4], ed è quotidianamente esposto a poteri amministrativi sanzionatori o – come è avvenuto nel nostro caso – ad incorrere nella fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 44, co. 1, T.U. edilizia.
In questo senso non appare un fuor d’opera mantenere qualche dubbio sulla legislazione regionale che si colloca a monte della sua appendice penalistica, nonostante le sentenze della Consulta del 2016.
3. Cenni sul fatto e sul tema dell’errore scusabile
Per le ragioni appena indicate vorrei soffermarmi, da amministrativista, soprattutto sui punti iv) e iv).
Non che i precedenti punti siano privi di rilievo. Solo che riguardano essenzialmente accertamenti di fatto sui quali ho poco da aggiungere. Anche la giurisprudenza amministrativa richiamata appare piuttosto piana, nella parte in cui ritiene che di “uso incompatibile” possa parlarsi nel caso in cui l’accesso per la libera attività di preghiera non sia riservato ai soli membri dell’associazione, ma “indiscriminato”. In tal senso esso dovrebbe alterare, anche senza opere, la funzione originaria dell’immobile, al fine di adibirlo, in via permanente, ad una funzione diversa. Tanto si è ritenuto accadere nella nostra vicenda, con valutazione di merito resa dalla Corte d’appello ritenuta non passibile di alcuna censura.
Piuttosto, colpisce la sensibilità del cultore del diritto amministrativo l’idea di ritenere ostativi rispetto alla configurabilità di un errore incolpevole eventuali contrasti giurisprudenziali. In effetti tale assunto è ricorrente nella giurisprudenza penale, ad esempio è stato ribadito in materia di illegale coltivazione di marijuana[5]. Peraltro, proprio in tema di reati edilizi, la giurisprudenza penale è piuttosto rigida nel ritenere non ricorrente la buona fede, idonea ad integrare la condizione soggettiva d'ignoranza inevitabile della legge penale[6], quando l'imputato abbia eseguito un intervento edilizio in assenza del necessario permesso di costruire in conseguenza di un'erronea interpretazione di una pur chiara disposizione di legge ed omettendo di consultare il competente ufficio, formando il suo convincimento personale sull'insussistenza dell'obbligo di munirsi di apposito titolo abilitativo sulla base di un provvedimento della p.a. riguardante un diverso manufatto rispetto a quello abusivamente realizzato[7]. Senza parlare, perché qui non direttamente rilevante, del tradizionale rigore (teoricamente poco giustificato)[8] della giurisprudenza penale in tema di disapplicazione in malam partem ai fini della configurabilità del reato di costruzione senza permesso di costruire.
E tuttavia lascia stupiti questa attenuazione della portata della fondamentale sentenza della Consulta del 1988, peraltro in una temperie storico-culturale propensa ad accrescere, per esigenze di certezza del diritto, il peso nomofilattico delle Corti Supreme, non soltanto civile (art. 374 c.p.c.) amministrativa (art. 99 c.p.a.) e contabile (art. 11 d.lgs. n. 174/2016), ma ora anche penale (art. 618 c.p.p., dopo la legge n. 103/2017)[9].
Insomma negli ultimi anni la rilevanza penale di alcune fattispecie ha fatto sì che alcune garanzie di quel settore fossero estese anche al procedimento e al processo amministrativo. Si pensi alla materia sanzionatoria, ed alla rilevanza in tal senso della giurisprudenza della Corte Edu sulla nozione di sanzione “sostanzialmente” penale[10]. Qui invece assistiamo ad una situazione inversa, nella quale la rilevanza dell’errore scusabile è maggiore nel settore amministrativistico rispetto a quello penalistico. Faccio solo due esempi: la rilevanza dell’errore scusabile quanto al termine per la proposizione del ricorso (anche ai sensi dell’art. 37 c.p.a.)[11] ovvero per escludere la responsabilità della p.a., appunto ove il provvedimento sia stato adottato in una situazione di contrasto giurisprudenziale, di quadro normativo incerto, di situazione di fatto complessa[12].
Il particolare rilievo dell’interesse pubblico (che per il giudice penale diviene “il bene” protetto) dall’art. 9 Cost. non può giustificare indebite sostituzioni nei confronti dell’amministrazione e forzature del principio di legalità/tipicità di cui all’art. 25 Cost., né interpretazioni restrittive, in tema di elemento soggettivo del reato, della sentenza n. 364/1988[13]. La quale, come noto, qualificava l’ignoranza inevitabile della legge penale ricorrendo anche al criterio oggettivo del grave contrasto interpretativo giurisprudenziale.
Ma, ripeto, tale discorso ci porterebbe da tutt’altra parte, nella rivalutazione dell’approccio del giudice penale sulla pubblica amministrativo e sul provvedimento amministrativo.
Non è questa la sede per compiere tale impegnativa, ma sicuramente affascinante e sempre più urgente, operazione ricostruttiva[14].
4. La rilevata non fondatezza della q.l.c. alla luce della sentenza Corte cost. n. 63/2016
Veniamo quindi ai profili sui quali vorrei con più attenzione soffermarmi.
Come accennato in precedenza, la Cassazione si pone il problema se sollevare q.l.c. della normativa lombarda rilevante nel caso di specie.
Prima di arrivare a escludere ciò premette che il libero esercizio del culto costituisce un aspetto essenziale della libertà di religione, da riconoscersi a tutte le confessioni religiose a prescindere dalla stipulazione di un’intesa con lo Stato. L’intesa, infatti, non può rappresentare un fattore di discriminazione nell’applicazione della disciplina volta ad agevolare l’esercizio di un diritto di libertà dei cittadini costituzionalmente garantito[15].
Viene pure richiamato Association de solidarité avec les temoins de jehovah e altri c. Turchia, recente caso in cui una legge nazionale sulla pianificazione urbana vietava l’apertura di luoghi di culto in spazi non destinati a tale scopo, prevedendo particolari condizioni per la costruzione di edifici di culto. Anche in questo caso la Corte di Strasburgo ha ritenuto che, sebbene gli Stati dispongano sul punto di un ampio margine di apprezzamento, i tribunali nazionali non avevano adeguatamente valutato la proporzionalità dell’inferenza sulla libertà religiosa, così violando l’art. 9 Cost.
D’altra parte sul punto la sent. del 2016 della Corte costituzionale non costituisce un inedito assoluto. Anzi. Proprio in tema di edilizia di culto la Corte ha ritenuto in passato illegittime leggi regionali tese a privilegiare i bisogni religiosi di spazi urbani della maggioranza o di confessioni fortemente radicate o a fortiori il cui peso sia provato dalla stipulazione di un’intesa ex art. 8, co. 3, Cost.[16]
Nulla questio, in tal senso, sul richiamo adesivo che Cass. pen. fa alla sent. n. 63/2016 della Consulta nella parte in cui essa rileva che: «il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale della libertà di religione ed è pertanto riconosciuto a tutti e a tutte le confessioni a prescindere dalla stipulazione di una intesa, 2) il legislatore non può operare discriminazioni tra confessione in base alla sola circostanza che esse abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato ex art. 8, comma 3, 3) l’apertura di luoghi di culto ricade nella tutela garantita dall’art. 19 Cost., 4) la condizione di minoranza di alcune confessioni non può giustificare un minor livello di protezione della loro libertà religiosa (anche se ciò non vuol dire che a tutte le confessioni debba assicurarsi un’eguale porzione dei contributi o degli spazi disponibili)».
Sulla base di queste premesse la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di alcune disposizioni, come ad esempio la scelta del legislatore lombardo di prevedere un regime diverso per la Chiesa cattolica e le confessioni religiose con intesa, da una parte, e le confessioni religiose senza intesa, dall’altra, dove per le seconde erano richiesti ulteriori e specifici requisiti; la richiesta di un vaglio consultivo di una apposita consulta regionale, da nominarsi da parte della Giunta regionale e non ancora nominata dopo più di un anno dall’entrata in vigore della legge; la previsione secondo cui nel procedimento teso alla approvazione del piano per le attrezzature religiose fosse eseguita specifica istruttoria sui possibili problemi di ordine pubblico. In questi casi ha ritenuto violato il principio di eguaglianza nella libertà religiosa e di culto, ovvero ha ritenuto invasa la competenza statale in materia di ordine e sicurezza pubblica (art. 117, co. 2, lett. h).
D’altra parte la Corte ha poi emanato due decisioni interpretative di rigetto dichiarando la questione non fondata “nei sensi di cui in motivazione”: la convenzione prevista dall’art. 70, comma 2-ter, con possibilità di revoca, non è infatti incostituzionale a patto che nello svolgimento dell’azione amministrativa essa rimanga ispirata alla finalità di assicurare lo sviluppo equilibrato e armonico dei centri abitati e la revoca sia prevista come rimedio estremo da attuarsi in assenza di alternative meno severe e meno pregiudizievoli per la libertà di culto (rinviando poi al contenzioso amministrativo nei casi di cattiva ponderazione nell’uso di questo potere); così come non è incostituzionale il riferimento alla “congruità architettonica e dimensionale degli edifici di culto previsti con le caratteristiche generali e peculiari del paesaggio lombardo” di cui all’art. 72, comma 7, lett. g), se letto, assieme alla
restante parte della disposizione, come una norma che esige che “nel valutare la conformità paesaggistica degli edifici di culto, si debba avere riguardo, non a considerazioni estetiche soggettive, occasionali ed estemporanee, come tali suscettibili di applicazioni arbitrarie e discriminatorie, bensì
alle indicazioni predeterminate dalle pertinenti previsioni del piano territoriale regionale” (rinviando anche qui eventualmente al sindacato sul cattivo uso della discrezionalità dinanzi al giudice amministrativo).
5. Alcuni profili di criticità ancora aperti
Per concludere vorrei segnalare alcuni profili di potenziale criticità di tale pronuncia della Consulta del 2016[17]. Come detto, infatti, il giudice penale, al netto della ricostruzione del fatto e delle affermazioni sull’errore scusabile, si è trovato ad esaminare il “corno” edilizio della vicenda: l’appendice fattuale, lo sfogo occasionale, di una questione più problematica che si colloca a monte, e che merita tre rilievi conclusivi.
i) i distinguo fatti dalla Consulta nel 2016, con la sentenza n. 63, fanno emergere una particolare attenzione sui limiti della libertà religiosa, a fronte del difficile contesto terroristico che viviamo. Si pensi alla dichiarazione di incostituzionalità delle disposizioni della legge regionale lombarda relative alla sicurezza e all’ordine pubblico: in esse non si esclude che tali interventi possano essere legittimi se presi dallo Stato che ha competenza esclusiva in materia, anzi tra gli interessi costituzionali che possono essere invocati per modulare (in stretta proporzionalità) la libertà religiosa vengono invocati proprio ordine pubblico e sicurezza, nozioni alquanto lasche e vaghe, molto delicate da maneggiare a fronte delle libertà tutelate in Costituzione, anche di quella religiosa.
Non è un caso che la coeva sentenza n. 52/2016, nell’ammettere la natura politica dell’atto volto a negare l’avvio delle trattative del Governo con l’Unione degli Atei Agnostici Razionalisti, al netto del ribaltamento della precedente giurisprudenza sul punto del giudice amministrativo, delle Sezioni Unite e della stessa Consulta[18], da alcuni sia stata letta come un atto di “politica giurisprudenziale” per prevenire avvii di intese ben più delicate per il Governo, come quella con la chiesa sunnita[19].
ii) è inoltre previsto un temperamento delle esigenze egualitarie, nella parte in cui si fa notare che le risorse sono finite (siano essi contributi economici siano parti di suolo). Orbene il punto è che a fronte di minoranze l’art. 3, co. 2, Cost. implica proprio trattamenti di favore finalizzati a rimuovere ostacoli di tipo economico e sociale e la condizione delle minoranze religiose in relazione all’edilizia di culto secondo molti integrerebbe una di quelle situazioni di svantaggio da rimuovere.
iii) si nota una certa tendenza a rinviare alle scelte amministrative e alla giurisdizione amministrativa – con l’utilizzo della sentenza interpretativa di rigetto – la concretizzazione di disposizioni che possono essere foriere di discriminazioni confidando in sviluppi positivi in quelle sedi. Ora, se sul piano della teoria generale delle situazioni giuridiche soggettive è forse corretto parlare del diritto costituzionale ad un bene immobile destinato al culto come interesse legittimo costituzionale plurisoggettivo, nel senso che l’esercizio discrezionale del potere pianificatorio non viene meno dinanzi all’art. 19 Cost., pur dovendo essere conforme al suo contenuto minimo essenziale[20], il problema è più complesso quando entra in gioco quella che dovrebbe essere l’extrema ratio rappresentata dal diritto penale.
La vicenda qui commentata conferma che la logica della proporzionalità, se può andar bene nei rapporti fra legislazione regionale – amministrazione – giudice amministrativo, appare forse inadeguata quando una legislazione troppo spesso ideologicamente connotata costringe il bisogno insito nel diritto costituzionale a un edificio di culto a trovare sfogo nella fattualità di luoghi occasionali (capannoni industriali, garage, scantinati, etc.) in assenza di titolo e di legittimazione. Il reato è integrato, ma il problema che lo determina a monte, che si dipana lungo l’asse legislazione-giudice costituzionale e amministrazione-giudice amministrativo, rimane. Ed è piuttosto delicato, impattando direttamente sulla libertà religiosa nelle nostre società multiculturali.
[1] Sul tema sia consentito il rinvio a G. Tropea, Sicurezza e sussidiarietà, Napoli, 2010.
[2] L. Spallino, Edifici di culto: la disciplina urbanistica lombarda dopo l’intervento della Corte costituzionale, Urb. app., 2016, 770.
[3] N. Pignatelli, La dimensione fisica della libertà religiosa: il diritto costituzionale ad un edificio di culto, in Federalismi.it, n. 24/2015, 16.
[4] N. Pignatelli, La dimensione fisica della libertà religiosa: il diritto costituzionale ad un edificio di culto, cit., 39.
[5] Cass. pen., Sez. IV, n. 33176/2012.
[6] Corte Cost. n. 364/1988.
[7] Cass. pen., Sez. III, n. 10797/2018.
[8] Per tutti v. R. Villata, Un problema non ancora (o, forse meglio, erroneamente) risolto dalla giurisprudenza della Cassazione penale, Dir. proc. amm., 2015, 1152 ss., che sottolinea il “tradimento” dei principi espressi dalle S.U. Borgia da parte dell’orientamento “di moda” fra i giudici penali.
[9] Sia consentito il rinvio, anche per più approfondite indicazioni bibliografiche, a G. Tropea, Diritto alla sicurezza giuridica nel dialogo ‘interno’ ed ‘esterno’ tra corti, Dir. proc. amm., 2018, 1244 ss.
[10] Cfr. M. Allena, Art. 6 CEDU. Procedimento e processo amministrativo, Napoli, 2012; F. Goisis, La full jurisdiction nel contesto della giustizia amministrativa: concetto, funzione e nodi irrisolti, Dir. proc. amm., 2015, 546 ss.
[11] Cfr. ad es. TAR Lazio, Roma, 9 gennaio 2019, n. 297.
[12] Cfr. ad es. TAR Sardegna, Sez. II, 24 luglio 2019, n. 668.
[13] Cfr. da ultimo M. Luciani, L’errore di diritto e l’interpretazione della norma giuridica, in Atti del Convegno di Modanella (Siena), 24-25 maggio 2019, Omessa pronuncia ed errore di diritto nel processo amministrativo, a cura di F. Francario e M.A. Sandulli, Napoli, 2019, 34, il quale arriva a chiedersi se, viste le condizioni penose in cui versano vasti settori dell’ordinamento, non sia da superare l’opinione di Puchta che escludeva la scusabilità dell’errore “per i giurisperiti”.
[14] Si v. da ultimo G.D. Comporti, La difficile convivenza tra azione penale e funzione amministrativa, Riv. trim. dir. pubbl., 2019, 128 ss.
[15] V. Corte cost. n. 52/2016.
[16] Sentt. nn. 195/1993; 346/2002.
[17] Sul punto v. amplius M. Croce, L’edilizia di culto dopo la sentenza n. 63/2016: esigenze di libertà, ragionevoli limitazioni e riparto di competenze fra Stato e Regioni, Formucostituzionale.it, 3 maggio 2016.
[18] Sent. n. 81/2012.
[19] Sia consentito il rinvio a G. Tropea, Aree di non sindacabilità e principio di giustiziabilità dell’azione amministrativa, Dir. cost., 2018, 129 ss., spec. 148.
[20] Seguendo la convince ricostruzione di N. Pignatelli, La dimensione fisica della libertà religiosa: il diritto costituzionale ad un edificio di culto, cit., 10 e passim.
Il caso Mennesson, vent’anni dopo. divieto di maternità surrogata e interesse del minore.
Nota a Arrêt n°648 du 4 octobre 2019 (10-19.053) -Cour de Cassation - Assemblée plénière.
di Rita Russo
1.- Il caso Mennesson giunge ad una conclusione dopo quasi vent’anni di battaglie legali. La Corte di Cassazione francese, con la sentenza del 4 ottobre 2019, ha sostanzialmente riconosciuto la maternità legale della signora Mennesson, madre intenzionale di due gemelle (oggi diciannovenni), nate in California tramite procreazione medicalmente assistita (in acronimo PMA) e gestazione per conto d’altri (in acronimo GPA), o maternità surrogata, pratica attuativa di un accordo in virtù del quale una donna consente -gratuitamente o dietro pagamento- all’impianto su di sé di un ovulo fecondato, e altresì a portare a termine la gestazione e partorire un bambino che ha il corredo genetico di altri e che ella consegnerà, dopo il parto, alle controparti dell’accordo, senza instaurare alcun legame giuridico con il nato. La legge francese utilizza il termine “gestazione per altri” e vieta decisamente questo genere di accordi: “Toute convention portant sur la procréation ou la gestation pour le compte d’autrui est nulle”. In Italia la legge 19.2.2004 n. 40 sulla procreazione medicalmente assistita utilizza il termine “surrogazione di maternità” (art. 12 comma 6), e la considera un delitto, equiparandola, quoad poenam, alla commercializzazione di gameti e di embrioni. [1]
La pratica nondimeno è legale in diversi paesi, come l’Ucraina, il Canada, l’India, l’Australia, la Russia, alcuni stati degli USA; in taluni paesi è consentita solo se gratuita e con finalità altruistiche, in altri è invece consentita anche la pratica commerciale.
I coniugi Mennesson sono due cittadini francesi, coniugati, che hanno fatto ricorso, in California, dove la pratica è legale, alla gestazione per conto terzi; per l’esattezza, i coniugi hanno fatto ricorso ad una tecnica che ha consentito la formazione di embrioni in vitro con metà del patrimonio genetico del marito e l'altra metà proveniente da una donna ovo-donatrice. Gli embrioni così generati sono stati poi impiantati nell'utero di una terza donna che ha portato a termine la gravidanza e partorito la coppia gemellare.
Si ha quindi un indubitabile legame biologico con il partner maschile della coppia coniugale e la scissione completa tra la maternità biologica e la “maternità intenzionale”. Nell’ordinamento francese, così come in quello italiano, la madre è colei che partorisce il neonato e non colei che, ricorrendo alla scienza medica, ha messo in moto il meccanismo che ha portato alla nascita: per questa ragione, si utilizza il termine “madre intenzionale”[2]. Secondo il documento diffuso dal Parlamento Europeo, il termine “madre intenzionale” indica il soggetto che ha intenzione di crescere il minore,[3] ma questa dichiarazione di volontà e preventiva assunzione di responsabilità nei confronti del nascituro non garantisce di per sé il conseguimento dello status né il suo riconoscimento in tutti gli ordinamenti.
Per lo Stato della California, il rapporto legale di filiazione si costituisce tra il minore e il soggetto che, stipulando in qualità di committente il contratto di gestazione per conto terzi, si è reso responsabile della sua nascita, anche se non ha trasmesso al nascituro il proprio patrimonio biologico. Dopo la nascita delle gemelle, quindi, le autorità californiane adottano un provvedimento nel quale è attribuito a entrambi i coniugi Mennesson lo status di genitori delle neonate; così, il 14 luglio 2000, si formano in California i certificati di nascita delle bambine, indicate come figlie dei coniugi Mennesson. Questi certificati di nascita sono trascritti dal consolato generale di Francia a Los Angeles. Tuttavia il P.M. del luogo di residenza, in Francia, propone un ricorso per l’annullamento della trascrizione in quanto contrastante con l’ordine pubblico. Dopo alterne vicende, nel 2010, la Corte d’appello di Parigi, a seguito di rinvio dalla cassazione, annulla la trascrizione.
I coniugi Mennesson propongono ricorso alla CEDU, che con la nota sentenza del 26 giugno 2014 condanna la Francia per violazione dell’art. 8 (diritto alla vita privata e familiare).[4] La Corte EDU, premesso che in tema di gestazione per conto d’altri bisogna riconoscere un ampio margine di apprezzamento agli Stati membri, e che sul punto manca un consensus normativo tra i diversi Stati europei, osserva che, in un ordinamento quale quello francese, i bambini nati all'estero facendo ricorso a questa pratica si trovano in una situazione di incertezza giuridica. Gli effetti del mancato riconoscimento nell'ordinamento francese del rapporto di parentela tra i bambini così nati e la coppia che ha fatto ricorso all'estero alla gestazione per altri, non sono confinati alla sfera giuridica dei genitori - che sono i soli ai quali può essere imputata la scelta di ricorrere a una tecnica di procreazione vietata in Francia- ma si estendono anche alla sfera giuridica dei minori, incidendo sul loro diritto al rispetto della vita privata, che implica la possibilità da parte di ciascuno di definire i contenuti essenziali della propria identità, compresi i rapporti di parentela.
La sentenza della Corte EDU ha riaperto il caso. L’ordinamento francese, infatti, si è di recente dotato di una procedura per la revisione di una pronuncia resa in violazione della CEDU. I coniugi Mennesson hanno così chiesto il riesame della decisione con la quale era stata annullata la trascrizione dell’atto di nascita estero.
L’assemblea plenaria della Cour de cassation ha quindi ritenuto di avvalersi del Protocollo addizionale n. 16 alla Convenzione, di recente ratificato in Francia ed ha sottoposto ai giudici di Strasburgo una questione con molteplici interrogativi: se lo Stato ecceda il proprio margine di apprezzamento rifiutando di registrare l’atto di nascita estero nella parte in cui attribuisce la maternità alla madre intenzionale; se la circostanza che il figlio sia stato concepito o meno con i gameti della stessa, ma gestito e partorito da altra donna, modifichi i termini della questione; se il riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore intenzionale debba considerarsi un obbligo imposto dalla Convenzione, e se può essere assolto tramite l’adozione del figlio biologico del marito in alternativa alla trascrizione dell’atto formato all’estero.
La Grande Camera della CEDU risponde in data 10 aprile 2019 con un Advisory Opinion e osserva che il diritto del minore al rispetto della vita privata pretende che gli ordinamenti nazionali ne riconoscano il rapporto con la madre d’intenzione, anche ove mancasse un legame genetico, e a maggior ragione, se vi è un legame genetico, quale la donazione di gameti; tuttavia, il diritto al rispetto della vita privata del minore, ai sensi dell’articolo 8 CEDU, non richiede necessariamente che il riconoscimento della relazione con la madre intenzionale avvenga attraverso la trascrizione del certificato di nascita estero nei registri dello stato civile, in quanto la costituzione del rapporto filiale può risultare conforme alla Convenzione anche con il ricorso ad altri istituti, quali l’adozione, a condizione che le modalità previste dal diritto interno garantiscano la rapidità e l’effettività dell’attuazione del diritto del minore, conformemente al suo superiore interesse.
Sulla base di questo parere, aperto a soluzioni che non interferiscano con il diritto dello Stato membro di vietare la gestazione per altri, la Corte di cassazione francese adotta comunque una soluzione tranciante e, rigettata definitivamente la domanda di annullamento della trascrizione dell’atto di nascita della due gemelle, prende atto della suddetta trascrizione.
Muovendo dal principio che il divieto di gestazione per altri non può interferire in modo sproporzionato con la vita privata dello stesso minore, la Cour de cassation osserva che la filiazione può essere stabilita in diversi modi (certificato di nascita, riconoscimento dell’adozione, giudizialmente) e nel caso della maternità surrogata avvenuta all’estero, il rapporto con la madre legale deve essere stabilito privilegiando un metodo di riconoscimento che consenta al giudice di esaminare le circostanze particolari in cui si trovi il minore. La Corte ritiene non satisfattiva la possibilità di rinviare le parti a una procedura di adozione, che avrebbe conseguenze pregiudizievoli, in considerazione del tempo trascorso da quando è si è stabilito il legame tra le figlie e la madre d'intenti, sulla base di uno status che è stato comunque riconosciuto in un certificato, anche se non trascritto, perché ciò violerebbe in modo sproporzionato il diritto alla vita privata e familiare della parti. La soluzione sembra quindi essere dettata dall’esigenza di non alterare una situazione che si è consolidata nel tempo, e, poiché la durata del caso Mennesson può considerarsi eccezionale data dalla sua natura di leading case, non è detto che in analoghi casi, ma di più veloce definizione, la soluzione sarebbe la stessa.
Per i coniugi Mennesson si tratta di una vittoria tardiva ma piena: il caso si chiude vent’anni dopo, con il riconoscimento dello status, in base alla trascrizione dell’atto di nascita di cui le autorità nazionali prendono atto.
2.- Per definire il caso Mennesson la Corte francese, per la prima volta, ha fatto ricorso alla procedura introdotta dal Protocollo n. 16 alla Convenzione EDU con la quale è data la possibilità ai tribunali nazionali, nella pendenza del giudizio, di chiedere alla Corte EDU un parere su questioni connesse all’interpretazione dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla Convenzione, emerse nell’ambito di una causa pendente dinanzi ad essi. La procedura ha alcune analogie, ma anche significative differenze, con la procedura del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia di cui all’art. 267 TFUE. L’elemento comune è dato dalla possibilità di un dialogo tra la Corte nazionale e quella sovranazionale prima della decisione; d’altro canto, le decisioni della CGUE sono vincolanti, mentre l’opinion, seppure motivata, non è vincolante nè per la giurisdizione richiedente nè per la stessa Corte EDU.
Si producono però alcuni effetti per gli Stati membri che hanno ratificato il protocollo: se l’interpretazione espressa nella opinion è osservata dal giudice interno, un eventuale successivo ricorso sugli stessi punti affrontati nel parere dovrebbe essere dichiarato inammissibile e di contro, laddove il tribunale nazionale si discosti dal parere è probabile che la Corte di Strasburgo, nel decidere il caso in sede contenziosa, confermi l’orientamento previamente adottato nell’ambito della giurisdizione consultiva.[5]
La importanza della opinion sembra potersi individuare nella funzione nomofilattica preventiva che corregge quella posizione di asimmetria tra il giudice nazionale e la Corte EDU, data dal meccanismo operativo che individua un ruolo di istanza ultima della Corte di Strasburgo; la possibilità di ottenere il parere preventivo aiuta da un lato a sviluppare il ruolo del giudice di Strasburgo, dall’altro valorizza l’autonomia del giudice nazionale che diviene così l’artefice primo di eventuali modifiche di orientamenti, prima ancora che queste modifiche siano imposte da una sentenza di condanna della Corte EDU e dalla necessità di adeguarsi[6]. Adeguandosi preventivamente all’autorevole opinion, espressa sempre dalla Grande Camera, si dovrebbe ridurre il numero dei ricorsi alla Corte EDU dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne. In questo modo il giudice domestico ha maggiore possibilità di svolgere il proprio ruolo di interprete del diritto interno e di quello di matrice convenzionale.
Lo Stato italiano non ha ancora ratificato il protocollo 16, tuttavia il parere emesso su richiesta di altri Stati contraenti, come è nel caso del parere ottenuto dalla Francia, ha rilievo interpretativo indiretto anche nei confronti dell’Italia, fornendo un indirizzo ermeneutico sulla questione.
Degli argomenti utilizzati nella opinion si riscontra infatti traccia anche nella sentenza a sezioni unite resa dalla Corte di Cassazione il 8 maggio 2019, n. 12193, sulla questione della trascrivibilità dell’atto di nascita del bambino nato all’estero grazie a una pratica di gestazione per conto terzi. [7]
La questione è analoga al caso Mennesson, sebbene nel caso francese si tratti di coppia eterosessuale, coniugata, e nel caso italiano di coppia omossessuale, formata da due uomini, coniugati all’estero, uno dei quali ha un legame genetico con il bambino perché ha fornito i gameti, mentre l’altro è “genitore intenzionale”. La presenza di un legame genetico con uno dei partner fa la differenza con l’altro caso italiano di gestazione per conto terzi approdato alla CEDU (Paradiso e Campanelli v. Italia), molto noto ma assai peculiare perché nel caso Campanelli il bambino nato dall’estero tramite GPA non aveva alcun legame genetico né con l’uno né con l’altro dei coniugi committenti: il marito aveva invero donato i gameti, ma a causa di un errore degli operatori della clinica russa cui la coppia si era rivolta, l’ovulo (donato da donna anonima) era stato fecondato con il seme di altri. Questo ha messo il bambino in una posizione precaria, perché non poteva essere riconosciuto neppure il legame con il padre; il Tribunale per i minorenni di Campobasso ha quindi disposto l’allontanamento del bambino, la sua collocazione in una struttura, il successivo affidamento a una famiglia e infine, l’adozione.[8]
Nel caso Mennesson invece, così come nel caso esaminato dalle sezioni unite della Corte di cassazione italiana, non è in discussione l’inserimento dei bambini nella famiglia e il riconoscimento del rapporto di filiazione tra il minore e quello dei due partner della coppia che ha donato il seme. Il punto è se, fermo restando il divieto di maternità surrogata e le eventuali sanzioni conseguenti, la nascita di un bambino che non ha legame giuridico con chi l’ha partorito all’estero, determini l’esigenza di riconoscere lo status, e di trascrivere l’atto di nascita formato all’estero, valutando prevalente l’interesse del minore ad avere due genitori, peraltro nella dichiarata disponibilità del genitore intenzionale a prendersi cura di lui.
Inoltre vi è la questione, destinata ad acquistare sempre maggiore importanza, della rilevanza dell’elemento volontaristico nella costituzione dello status filiationis. Nella filiazione biologica, la assunzione di responsabilità genitoriali non è legata alla manifestazione del consenso. Al fine di vincolare entrambi i genitori alle loro responsabilità, salvo il caso eccezionale del parto in anonimato dove rileva il dissenso, è irrilevante che il figlio sia stato “voluto” o meno. Anche nella pratica dell’adozione speciale dei minori il costituirsi della relazione giuridica tra gli adulti e i minori non dipende dalla manifestazione di volontà degli adottanti (che in realtà è una dichiarazione di disponibilità) bensì dal provvedimento giudiziale che assegna al minore privo di genitori idonei altri genitori, secondo le procedure previste dalla legge n. 184 del 4.5.1983 e in attuazione del disposto dell’art. 30 Cost. Soltanto con la legge n. 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita l’elemento volontaristico e il consenso prestato alla nascita del bambino acquistano rilevanza giuridica. Ancor prima che la Corte Costituzionale, nel 2014, dichiarasse illegittimo il divieto di PMA eterologa, l’art. 9 della legge n. 40/2004 prevedeva (come tutt’ora prevede) che in questi casi chi ha prestato il consenso alla nascita di un bambino tramite PMA eterologa deve assumersene le responsabilità: il padre “intenzionale” che ha acconsentito alla PMA eterologa non può disconoscere il figlio, né impugnare il riconoscimento e la madre non può partorire in anonimato. [9] Esistono però dei limiti alla legittima aspirazione ad instaurare legami familiari: la Corte Costituzionale ha precisato, (in quella stessa sentenza che dichiara illegittimo il divieto di PMA eterologa) che il dato della provenienza genetica non costituisce un requisito imprescindibile della famiglia, ma la libertà e la volontarietà dell'atto che consente di diventare genitori e di formare una famiglia non implica che questa libertà possa esplicarsi senza limiti. Questo limite è dato appunto dalla compatibilità con l’ordine pubblico delle pratiche cui si ricorre per costituire la relazione familiare.
La questione rilevante, nella vicenda della trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero dopo il ricorso alla GPA, non è pertanto la genitorialità delle coppie omosessuali, ma, come nel caso francese, quella della possibilità di dare ingresso nell’ordinamento ad un atto che si basa su una pratica contraria all’ordine pubblico. Le sezioni unite della Corte di cassazione italiana rimarcano questo passaggio, richiamando dei precedenti in cui è stato ritenuto conforme all’ordine pubblico il riconoscimento nel nostro ordinamento di un atto straniero che attribuiva la genitorialità a una coppia dello stesso sesso, trattandosi di nascita a seguito di PMA eterologa e non di maternità surrogata. Si tratta in sostanza dei casi dei figli di due madri, laddove il ricorso alla maternità surrogata non si rende necessario, se almeno una delle due è in grado di sostenere la gravidanza e il parto. Nel precedente costituito da Cass. n. 19599/2016, entrambe le parti della coppia avevano contribuito alla nascita, l'una fornendo i gameti, l'altra sostenendo la gravidanza e il parto. La donna che partorisce è la madre legale, ma d’altro canto il legame genetico con l’altra madre non può essere ignorato; ogni diversa soluzione avrebbe rappresentato un trattamento discriminatorio fondato sull’orientamento sessuale. Al medesimo risultato si è comunque pervenuti nel caso affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza n.14878/2017, in cui si è riconosciuto il rapporto filiale non solo con la donna che ha partorito, ma anche con l’altra donna, coniugata all'estero con la prima, che non aveva alcun rapporto genetico con il nato.
Le sezioni unite chiariscono la ragione della differenza di trattamento, fondata su un concetto di ordine pubblico internazionale che si richiama al precedente arresto in tema di danni puntivi[10]. La compatibilità con l’ordine pubblico, ai sensi dell’art. 64, comma 1, lett. g), l. n. 218 del 1995, deve essere valutata non solo alla stregua dei princìpi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui detti princìpi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti e dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria; in particolare rilevano quelle leggi “che inverano l'ordinamento costituzionale”. Si osserva dunque che la legge n. 40/2004 è “costituzionalmente necessaria” in quanto è la prima legislazione organica relativa ad un settore che coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali, i quali, nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un livello minimo di tutela legislativa. Non tutti i divieti in essa contenuti però sono considerati di ordine pubblico; in particolare non è ritenuto di ordine pubblico il divieto di accesso alla PMA eterologa da parte di coppie omosessuali e per questa ragione, nei precedenti citati, la Corte ha ritenuto trascrivibile l’atto di nascita formato all’estero dei figli di due madri. Diverso è invece il caso della maternità surrogata che, come già ritenuto dalla Corte costituzionale, è da ritenersi pratica che contrasta con la dignità umana[11].
La conclusione della nostra Corte di cassazione è che il riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata e il genitore d’intenzione munito della cittadinanza italiana, trova ostacolo nel divieto di surrogazione di maternità, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità della gestante e l’istituto dell’adozione; la tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull’interesse del minore, nell’ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, non esclude peraltro la possibilità di conferire comunque rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione.
In sostanza, l’operare del limite dell’ordine pubblico non si traduce necessariamente nella cancellazione dell'interesse del minore, ma nel suo affievolimento e il divieto di maternità surrogata, quale “anello necessario di congiunzione tra la disciplina della procreazione medicalmente assistita e quella generale della filiazione,” segna il limite oltre il quale cessa di agire il principio di autoresponsabilità fondato sul consenso e torna a operare il favor veritatis, che giustifica la prevalenza dell’identità genetica e biologica. La tutela dell’interesse del minore è quindi rimessa allo strumento dell’adozione in casi particolari, istituto la cui applicabilità al caso di coppia eterosessuale coniugata è esplicitamente stabilito dalla legge (art. 44 comma 1 della legge n. 184/1983, lett. b) e, nel caso di coppia non coniugata (come le coppie omossessuali), è comunque ammesso – come da giurisprudenza ormai consolidata- ai sensi del disposto della lett. d) dell’art. 44 cit.[12]
Questa soluzione coincide con la opinion fornita dalla CEDU nel Caso Mennesson, anche se lascia aperti diversi interrogativi: primo fra tutti quale tutela accordare alla persona che, dopo avere subito per volontà dei genitori (intenzionali) la scissione tra identità genetica e identità legale, voglia andare alla ricerca delle propri origini.
[1] Per un approfondimento v. STEFANELLI: Procreazione e diritti fondamentali, in Trattato di diritto civile, Milano 2018, 134; CASABURI, Maternità surrogata, Treccani, libro dell’anno 2016; L. D’AVACK, La maternità surrogata: un divieto “inefficace”, in Diritto di famiglia e delle persone, 2017, I, 139
[2] Fintanto che la scienza non ha reso possibile la scissione tra concepimento e parto, il “legame di sangue” è sempre stato individuato, per il padre, nella condivisione con il figlio del patrimonio genetico, per la madre invece nel partorire il bambino, il che però presupponeva necessariamente anche la condivisione del patrimonio genetico. Resa possibile questa scissione, è da vedere se l’art. 269 comma 3 c.p.c. e analoghe norme di altri ordinamenti definiscano il concetto di maternità, ovvero se servano soltanto a fornire la prova, o meglio la presunzione iuris tantum, della maternità. Sul punto v. SESTA, Manuale di diritto di famiglia, VIII ed., Padova, 2019, 387.
[3] Direzione generale delle politiche interne. Unità tematica C, Diritti dei cittadini e affari costituzionali, Il regime di maternità surrogata negli Stati Membri dell’Ue, sintesi 2013 in http://www.europarl.europa.eu
[4] Cfr. Corte EDU, 26.6.2014, Mennesson c. Francia, in NGCC, 2014, I, 1122, Corte EDU, 26.6.2014, Labassee c. Francia, in www.hudoc.echr.- coe.int.
[5] GRASSO, Maternità surrogata e riconoscimento del rapporto con la madre intenzionale in NGCC, 2019, 4, 758
[6] CONTI La richiesta di “parere consultivo” alla Corte europea delle Alte Corti introdotto dal Protocollo n. 16 annesso alla CEDU e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE. Prove d’orchestra per una nomofilachia europea , in Consulta on line A. M. LECIS, Prima applicazione della procedura consultiva prevista dal Protocollo n. 16 CEDU: Dalla Corte EDU chiarimenti in chiaroscuro sull’obbligo di trascrizione dei figli nati da GPA, in www.diritticomparati.it, 9 maggio 2019, BUFFA Gestation pour autrui: la prima richiesta di parere consultivo alla CEDU, in Questione Giustizia, ottobre 2018
[7] La sentenza è pubblicata in Fam. e dir., 2019, 653 ss., con note di DOGLIOTTI e FERRANDO; in Familia, 2019, 369 con nota di M. BIANCA; in NGCC 2019, 737, con nota di Salanitro; in Corriere giuridico 10/2019, 1198 con nota di GIUNCHEDI. Si v. anche ACIERNO - CELENTANO, La genitorialità e la gestazione per altri. L’intervento delle Sezioni unite, in Questionegiustizia.it, 14 maggio 2019;
[8] Corte EDU Paradiso e Campanelli c. Italia, 27.1.2015 e sullo stesso caso Corte EDU Grande Camera, 24.1. 2017 entrambe in hudoc.echr.coe.int. Nel 2015, la seconda sezione della Corte europea aveva ravvisato una violazione dell’art. 8 CEDU, ritenendo che le autorità italiane, allontanando il bambino dalla famiglia, non avessero garantito un corretto equilibrio tra i diversi interessi in gioco: la relazione tra i coniugi Campanelli ed il bambino, pur in assenza di consanguineità e formalizzazione giuridica del rapporto era stata ritenuta una relazione familiare de facto, consolidatasi nei primi sei mesi di vita. Successivamente la Grande Camera, adita dal Governo italiano, ha ribaltato questo giudizio. La Grande Camera ha precisato che l’art. 8 non garantisce il diritto di adottare, né tantomeno tutela il desiderio di creare una famiglia. La norma tutela però l’esistenza di una situazione di fatto in cui siano riconoscibili concreti legami di tipo familiare, la presenza di un vincolo giuridicamente formalizzato o persino l’aspirazione a stabilire una famiglia, purché si accompagni ad una chiara base giuridica o ad un legame di consanguineità. Inoltre la Corte riconosce che può essere tutelata anche la vita familiare di fatto tra uno o due adulti ed un minore, pur in assenza di un legame biologico o di un chiaro fondamento normativo, purché sussistano però legami personali genuini, concludendo, nel caso di specie, che sei mesi non sono sufficienti ad instaurarli.
[9]Corte cost., 10.6. 2014, n. 162, in www.cortecostituzionale.it;
[10] Cass. Sez. Un. 5.7.2017 n. 16601 in Guida al diritto 2018, 5, 24
[11] Corte Cost. 18.12.2017 n. 272 in www.cortecostituzionale.it
[12] Cass. 22.6.2016 n. 12962 in Diritto di Famiglia e delle Persone (Il) 2016, 4, 1013
di Daniela Galazzi
Una premessa. Il mio scritto riguarda la figura del presidente di una sezione civile: si tratta di funzioni che svolgo da alcuni anni, prima come f.f. in un grande Tribunale, il quinto d’Italia, poi come presidente effettivo in un Tribunale di medie dimensioni. Le mie parole risentono fortemente della mia esperienza professionale, sino ad ora molto positiva, e non ho certo la presunzione di essere esaustiva. Come direbbe Manzoni, chiedo anticipatamene venia ai miei venticinque lettori se non ameranno questo scritto.
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Agitano noi magistrati tanti dibattiti: uno di essi è quello incentrato sulla figura del presidente di sezione. C’è infatti chi lo vorrebbe “tabellare” ossia scelto all’interno dell’Ufficio dal Presidente del Tribunale e non più individuato dal CSM dopo un apposito concorso per titoli. Non mi voglio addentrare nella disamina dei pro e dei contro di una siffatta proposta – che, invero, per me è profondamente errata -, per concentrarmi su ciò che sta sostanzialmente alla base di essa: l’idea della inutilità o comunque della sostanziale superfluità della figura del presidente di sezione, che viene visto come un collega che non ha più tanta voglia di lavorare, che vuole vivere tranquillo delegando ai “suoi” giudici di sezione le cause più rognose, che sta più a casa che in ufficio, insomma una sorta di fannullone che utilizza il “titolo” raggiunto per assecondare le sue inclinazioni di nullafacente. Se scelto tra i colleghi, invece, secondo un sillogismo tutto da dimostrare, sarebbe più attento, più fattivo, migliore, insomma.
Non nascondiamoci dietro un dito: nel passato, diciamo almeno fino ad una quindicina di anni fa, di personaggi così ve n’erano molti e tutti noi diversamente giovani potremmo raccontarvi per giornate intere gustosi aneddoti su consiglieri dirigenti, presidenti di sezioni, aggiunti bravissimi a scansare ogni fatica, ogni problema, ogni pensiero.
Oggi però, ed in verità da qualche anno ormai, non è più così.
La velocità che caratterizza la nostra epoca, evidente nei mutamenti socio–economici che un tempo impiegavano decenni a realizzarsi ed ora pochi anni, non poteva non avere una conseguenza sulla organizzazione del nostro lavoro, che, tra l’altro, è divenuto molto più gravoso rispetto a 20/30 anni fa, soprattutto dal punto di vista dei “numeri” delle cause da trattare.
Oggi un magistrato completo non deve soltanto avere consapevolezza della complessità estrema del ragionamento giuridico e della sua applicazione al caso concreto (che involge molteplici fattori, dal rapporto tra diritto naturale e diritto positivo al ruolo dell’interpretazione della legge), ma deve anche sapersi organizzare, perché è (finalmente!) stata raggiunta da parte di tutti la consapevolezza che una buona decisione è una decisione che arriva in tempi ragionevoli, che la giurisdizione, per essere veramente efficace, va esercitata con grande attenzione e preparazione, ma “senza perdere tempo”.
L’organizzazione che deve stare alla base del lavoro di ognuno di noi deve poi essere complessiva, non atomizzata, non può riguardare il singolo giudice o il singolo collegio, ma tutta la Sezione, tutto il Tribunale, tutta la Procura.
A questa organizzazione è deputato, in primis, il ruolo del presidente di sezione e non è certo un compito da poco, soprattutto quando il Tribunale è un tribunale medio-piccolo, di “Provincia” per così dire.
In questi Uffici, infatti, solitamente non vi è specializzazione: un’unica sezione, più o meno grande, di solito con una o due (quando va bene) o più (come avviene di solito) scoperture, nell’ambito della quale occorre possedere molti e diversi saperi: si spazia infatti dalla famiglia ai contratti, dalle esecuzioni al tutelare, dal fallimentare alla volontaria giurisdizione.
Con le risorse disponibili, spesso modeste, vanno organizzati tutti questi diversi ruoli tenendo ben presenti non soltanto le eventuali incompatibilità, ma anche, se possibile, le singole, specifiche attitudini e sensibilità.
Non bisogna mai dimenticare che una sezione, affinché funzioni a dovere, deve essere gestita come un unico corpo le cui parti devono essere messe il più possibile a loro agio. E’ chiaro che, se si rimane in pochi, pochissimi, tutti coloro che ne fanno parte dovranno sacrificarsi ed occuparsi anche di materie che non amano, ma quando è possibile, assecondare le singole attitudini aumenta molto la resa sul lavoro.
E qui interviene l’imprescindibile fattore umano: il presidente di sezione migliore non deve essere soltanto capace e preparato, ma deve anche essere empatico. Il che non significa fare da madre/padre ai colleghi (che, peraltro, nei tribunali medio piccoli hanno a volte un’età tale da poter esserci figli..), ma certo significa ascoltarli, discutere con loro, se vi è necessità pure litigare; significa assumere le proprie decisioni, anche non da tutti condivise, in modo motivato. Significa non dimenticare mai di quando si era un componente della sezione e si aveva a che fare con un presidente sempre con la porta chiusa, che non lavorava come te, che non ti ascoltava e che aveva sempre un “preferito” da anteporti.
Oltre che empatico (e se va bene pure simpatico), il presidente di sezione deve guadagnarsi il rispetto dei colleghi con cui lavora e, quindi, ritenersi ed essere né più né meno che uguale a loro.
Alcuni dimenticano che noi magistrati ci diamo tutti del tu (dal Primo Presidente della Suprema Corte – al quale, in verità, magari inizialmente daremmo del Lei… - all’ultimo MOT dell’ultimo concorso) perché siamo tutti pari ordinati e siamo soggetti soltanto alla Legge. E’ un principio costituzionale da cui discendono tutti gli altri che ci riguardano: l’indipendenza, l’autonomia, l’inamovibilità. E non va mai dimenticato, specie quando si arriva a ricoprire un ufficio direttivo e semidirettivo.
Il corollario di questo principio è che un presidente di sezione deve lavorare come i magistrati che compongono l’Ufficio (con la riduzione prevista dalle tabelle di organizzazione, assolutamente dovuta in considerazione ai molteplici incombenti amministrativi di cui accennerò più sotto), senza sottrarsi ai criteri di assegnazione automatici (che presiedono all’altro principio costituzionale del giudice naturale) e, se magari è parecchio più anziano dei giudici con cui lavora (cosa che spesso accade nei nostri “tribunali di provincia”), deve mettere a disposizione dell’intero Ufficio la sua maggiore esperienza professionale (ad esempio, assegnandosi la maggior parte dei procedimenti ultratriennali).
Non vi è dubbio che svolgere con coscienza il ruolo di presidente di sezione significa anche riprendere a studiare quotidianamente ben oltre rispetto a quanto abitualmente si faccia, in considerazione della molteplicità delle materie che si trattano e della mancanza di specializzazione che è una delle caratteristiche di un Tribunale medio piccolo. Così diviene necessario confrontarsi con tematiche mai nemmeno lontanamente praticate – se non per tre giorni al tempo in cui i MOT si chiamavano uditori-.
Il rapporto che si instaura con gli altri colleghi in un Tribunale medio piccolo è invero un rapporto particolare, molto diverso da quello che si instaura in un Tribunale di grandi dimensioni. In quest’ultimo, spesso si hanno rapporti soltanto con i colleghi della propria sezione e magari con quelli del corridoio accanto, si può non vedere il Presidente del Tribunale per mesi; in un Tribunale più piccolo si vive una dimensione molto più familiare, c’è un rapporto quotidiano con il Presidente del Tribunale che fa udienza nella stanza accanto alla tua, si pranza sempre assieme ai colleghi, non c’è mai o quasi mai un momento per sé.
E’ una dimensione assolutamente invidiabile, almeno fino a quando regna la concordia, ma poco gestibile a fronte dell’emersione di problemi: parafrasando Tolstoj “tutti i Tribunali felici si assomigliano fra loro, ogni Tribunale infelice è infelice a suo modo”. E’ il rovescio della medaglia della estrema familiarità che regna solitamente in un Ufficio di medio piccole dimensioni: diviene più complesso assumere decisioni non condivise che rischiano di creare fratture ben più profonde di quelle che si potrebbero creare in una comunità più ampia. Unico rimedio è, come sempre, il rispetto delle regole e la corretta motivazione.
Non è solo il rapporto con i colleghi quello che va curato con attenzione, ma pure quello con le Cancellerie (specie arrivando da un altro Ufficio, più grande, con il rischio di volere importare prassi e modalità di lavoro diverse da quelle esistenti, non necessariamente meno funzionali). Non bisogna mai dimenticare che il personale amministrativo ha una parte fondamentale nel consentirci di lavorare bene e che il cancelliere esperto e disponibile può anche farci evitare terribili figuracce.
Anche con il personale amministrativo il rapporto va costruito nel tempo ed, anzi, è spesso più complesso che con i giudici della sezione: ma anche in questo caso, buon senso e disponibilità, accompagnati da un carattere non duro, ma fermo, di solito pagano.
Un dato senz’altro positivo e che ritengo una conquista oramai raggiunta dalla collettività è l’azzeramento dei pregiudizi del personale e del foro nei confronti dei dirigenti donne. La magistratura è per oltre la metà composta da donne -che finalmente raggiungono i ruoli semidirettivi spesso in numero maggiore rispetto ai colleghi uomini-, sicché anche quella parte del personale amministrativo o dell’avvocatura restia ad ascoltare un presidente donna si è dovuta arrendere all’evidenza. Sono lontani i tempi in cui, giovane Pretore in una piccola sezione distaccata, ero chiamata “signorina” in udienza (anche se oggi, filtrato dal tempo, quell’appellativo mi pare oggettivamene più carino di quello che mi affibbiarono successivamente, ossia “generale”).
Infine, le incombenze amministrative (cui attribuire quell’appellativo proprio del decalogo reso di moda dal Vice Questore Rocco Schiavone ma che non scriverò).
La vita di un presidente di sezione è scandita dai termini per le relazioni: ci sono quelle di valutazione di professionalità dei singoli magistrati togati; quelle per la riconferma dei magistrati onorari ed i Giudici di Pace (per coloro che, come me, sono anche coordinatori di quell’Ufficio); la relazione annuale sull’andamento della giustizia per l’inaugurazione dell’Anno Giudiziario; la relazione annuale per i programmi di gestione ex art. 37 D.L. 98/2001; le relazioni chieste una tantum dal CSM o dal Ministero della Giustizia: sulle buone prassi; sui procedimenti di famiglia in cui vi siano stati affidamenti di minori a persone diverse dai genitori; sui procedimenti in tema di sovraindebitamento; sui procedimenti di esecuzione; sulle ATP per colpa medica; sui consulenti e periti utilizzati dal Tribunale; sui tirocinanti; sull’Ufficio del Processo – c’è, non c’è, perché c’è, perché non c’è -; sugli eventuali ritardi…
Tutte le relazioni richieste – e l’elenco non è esaustivo – passano dall’esame dei dati statistici: quelli che arrivano dal Ministero, già esaminati e ripuliti dall’Ufficio Statistico della Corte d’Appello, ma mai o quasi coincidenti con quelli elaborati dall’Ufficio Statistico del Tribunale.. schiere di magistrati che scelsero giurisprudenza per molte ragioni, tra le quali, non ultima, l’odio per la matematica, hanno così scoperto l’importanza della statistica e sono divenuti gli amici migliori di questi geniacci che compilano per noi - e ce li spiegano pure - questi fogli excel pieni di dati…
Insomma, tante e diverse le incombenze di un presidente di sezione; tante e diverse le capacità che si devono affinare per svolgere questo compito al meglio: certo un incarico complesso, pieno di impegni, di imprevisti, difficile, ma anche molto ricco, in grado di accrescere il nostro bagaglio culturale ed umano.
In conclusione, molto, molto lontano da quella sinecura che qualcuno ancora evoca.
Oscar Magi. Un giudice con la faccia da uomo.
Ho iniziato a lavorare in questo Palazzo di Giustizia di Milano nel luglio del 1978.
Venivo da un anno, o quasi, di lavoro in Banca d’Italia presso la sede di Bergamo.
Avevo passato il concorso mentre lavoravo in banca , studiando per l’orale dalle 5 del pomeriggio fino a notte inoltrata : studio matto e disperatissimo che mi consentì, a fatica, di superare un orale ostico e difficile ; dal 15° posto scivolai al 184° , e dovetti accontentarmi della sede di Milano, che era considerata sede disagevole ( sic !).
Erano gli anni del terrorismo che insanguinava piazze e strade d’Italia con uno o più morti al giorno e nessuno voleva venire a presidiare gli uffici milanesi.
Il mio primo incarico fu alla sesta sezione penale come giudice a latere.
Il mio primo presidente fu Generoso Petrella , grande giurista ed ex deputato del PCI, uomo di immensa cultura ma anche di grande fragilità umana : era un alcoolista e talvolta arrivava in ufficio con lo sguardo alterato di chi ha passato una notte insonne a bere.
Nonostante questo fu un maestro attento e severo : devo a lui l’insegnamento primario sulla scrittura delle sentenze , cosa non semplice per un giovanissimo magistrato alle prime armi, come allora ero.
Strinsi una fraterna amicizia con Massimo Maiello, componente anche lui della sezione , napoletano come me e con un percorso umano molto simile al mio, amicizia che è rimasta ferma negli anni e che dura tutt’ora.
Dopo solo un anno e mezzo di lavoro alla sesta, fui trasferito d’ufficio all’Ufficio Istruzione del Tribunale, che aveva una grande carenza di magistrati: fu una sorta di deportazione di massa ( fummo trasferiti tutti i giovani magistrati arrivati a Milano in quegli anni , io, Maiello, Veronelli, Elena Riva Crugnola, Laura Laera, Renato Bricchetti, e molti altri) che consentì ai “ vecchi” dell’ufficio di occuparsi delle istruttorie più complesse e difficili, tra cui quelle per i reati di terrorismo .
Tra i “ vecchi” o presunti tali c’erano Giuliano Turone, Gherardo Colombo, Bruno Apicella, Matteo Mazziotti, Pizzi, persone tutte che hanno legato il loro nome ad inchieste fondamentali per la vita della Repubblica : la scoperta delle liste della P2 nel “ covo” di Castiglion Fibocchi, il Banco Ambrosiano, la morte di Sindona,il finto suicidio di Calvi, i processi contro le BR ed i vari gruppi armati che popolavano lo spazio dell’allora extrasinistra.
Tra tutti, spiccava Guido Galli, che era stato mio giudice affidatario nell’uditorato e che fu ucciso nel maggio del 1980 mentre si recava nell’aula dell’Università Statale dove avrebbe dovuto tenere la sua lezione di diritto.
L’uccisione di Guido Galli fu uno spartiacque umano e politico di grande rilevanza, per me come per molti altri : Guido era un uomo gentile e riservato, dedito al lavoro in modo indefesso, ma nello stesso tempo pieno di umanità e di disponibilità assolute ; era un giudice “ progressista” e democratico , attento alle garanzie come pochi, e venne ucciso proprio per questo.
Era necessario, per l’ideologia distorta e criminosa di chi lo fece, uccidere proprio chi era un simbolo di democrazia e di progresso , per dimostrare che “ lo Stato borghese si abbatte e non si cambia”.
Follie estremiste , nutrite di ideologia barbara e fanatica, che costrinsero molti tra noi ( ed io tra questi) a guardarsi allo specchio ed a fare una scelta di campo netta ed inequivocabile, contro la violenza cieca che non aveva e non poteva avere alcuna giustificazione di alcun genere, anche se proveniva da un terreno ideologico nutrito di comuni radici di sinistra.
Ero e sono rimasto un “ giudice a sinistra”, aderente fin dal primo momento a Magistratura Democratica , senza se e senza ma, come si dice, ma non ho mai dato, nemmeno lontanamente, alcuna giustificazione alle torsioni barbariche di violenza e sopraffazione che , in quel periodo, aleggiavano sottotraccia in molti della cosiddetta sinistra extraparlamentare.
Ho sempre creduto molto fermamente nella “ politicità” della giurisdizione, e nella necessità di coltivare quel “ garantismo dinamico” che consentì, in quei difficili anni, di interpretare le norme in modo aderente alla nostra Costituzione e, in particolare, ai principi e valori nella stessa codificati , ma non ho mai coltivato nessuna posizione politica preconcetta ( o addirittura partitica) al fine di torcere in modo improprio il significato del mio lavoro di giudice.
Ho coltivato, questo sì, l’equilibrio e l’attenzione spasmodica alla vita delle persone che ho dovuto giudicare , cercando di rispettare il loro vissuto e cercando di giudicarli con equità e umanità: non so se ci sono riuscito, ma spero di sì.
In ogni caso il lavoro presso l’Ufficio Istruzione di Milano, che si protrasse fino al 1989, inizi 90, fu un lavoro meraviglioso ed interessante : il giudice istruttore era una figura, ormai scomparsa dalla giurisdizione a far tempo dall’introduzione del nuovo codice di procedura penale nel 1989, che racchiudeva dentro di sé la capacità di investigare e quella di decidere , cose , a mio parere, non del tutto confliggenti; ci arrivava il fascicolo processuale dopo 40 giorni di istruttoria sommaria del PM, con un capo di imputazione e delle richieste istruttorie , ma poi eravamo noi a decidere cosa fare, quando farlo, come farlo , per cercare di arrivare ad una prima definizione di una verità processuale che sarebbe poi stata consacrata in dibattimento. Dopo l’ordinanza di rinvio a giudizio.
Consentitemi di spendere un ricordo commosso nei confronti di quella figura processuale, che sarebbe poi stata sostituita (a mio parere del tutto insufficientemente) da quella del GIP/GUP.
Ho visto, nel corso di quegli anni, cose che voi umani nemmeno immaginate (perdonate la citazione cinematografica): la scoperta, nella villa di Castiglion Fibocchi, delle liste Gelliane della P2, le indagini sul fallimento del Banco Ambrosiano dopo l’uccisione di Ambrosoli, le indagini sul finto suicidio di Calvi a Londra , e molte altre che fanno ormai parte dei libri di storia non solo giudiziaria; indagini che dubito fortemente si sarebbero svolte senza la fondamentale partecipazione dei giudici istruttori che se ne sono occupati.
Io, molto più modestamente, mi occupavo di rapine, di omicidi, di infortuni sul lavoro ma svolgevo il mio compito con attenzione ed accuratezza, nei limiti dell’allora possibile.
Dovete considerare che , nei primi anni, non avevo nemmeno una macchina da scrivere elettrica , e che la mia segretaria di allora batteva a macchina i documenti inserendo la carta copiativa tra i fogli , per poter avere un numero sufficiente di copie da poter utilizzare nel fascicolo per le parti.
Non solo l’utilizzo del computer era molto al di là da venire, ma anche le fotocopiatrici arrivarono tardi e, all’inizio, non è che funzionassero con la dovuta precisione.
Insomma si lavorava alacremente, con i modesti mezzi che l’allora amministrazione ci concedeva.
Legai il mio nome, insieme a quello di Massimo Maiello, ad una inchiesta molto particolare che venne svolta nel corso degli anni 86/88 da una formidabile ispettrice della Questura di Milano, Stefania De Bellis, incanalata giuridicamente dal PM Corrado Carnevali, e portata a compimento da noi giudici istruttori: parlo del procedimento penale per il reato di riduzione in schiavitù ( l’ex art. 600 del CP) , rubricato nel dopoguerra da noi per la prima volta nei confronti di alcuni componenti di famiglie ROM che avevano preso la criminosa abitudine di rapire o farsi consegnare ragazzi e ragazze minori nelle loro terre d’origine e di portarli in Italia , costringendoli poi, con l’uso costante di violenze e minacce, a rubare ; ovviamente il risultato di quelle ruberie finiva in tasca degli adulti che così si garantivano introiti mensili anche milionari .
I ragazzi schiavizzati venivano soprannominato “ argati” che, in lingua italiana significa “ bambino rapito e costretto al furto” , ma che trae la propria origine lessicale da una parola slava che vuol dire “bambino servo “ in aderenza alla parola “ gasda” che vuol dire padrone .
Gli episodi di sfruttamento minorile che riuscimmo a contrastare ed identificare furono numerosissimi, tanti da far pensare ad una vera a propria “ tratta” di minori dalla ex jugoslavia in Italia : il tutto, come ho detto e ripeto, per la bravura e la pazienza dell’ispettrice De Bellis che riuscì, per la prima volta in Italia, a conquistare la fiducia dei piccoli “ argati” facendosi narrare le terribili condizioni di vita a cui erano sottoposti ed a far fare loro i nomi degli sfruttatori, che furono tutti arrestati e poi condannati dalla Corte d’Assise di Milano ( giudice estensore di una sentenza molto bella fu Giuliano Turone).
Fu una bella pagina di lavoro giudiziario che ci portò, per la prima volta, agli onori delle cronache : ricordo con piacere, tra l’altro, una lunga intervista in lingua inglese da me fatta ad una bellissima giornalista americana di cui non ricordo il nome, che fu proiettata su un canale televisivo degli USA e di cui conservo una vecchia cassetta VHS ( che non riesco più a leggere per la vetustà della mia attrezzatura tecnica!).
Non che finire in televisione fosse il mio scopo primario, tutt’altro; ma devo ammettere che mi fece piacere l’interesse internazionale per il mio lavoro e comunque la sua ricaduta mediatica.
Sul rapporto tra mass media e giustizia ci sarebbe da scrivere molte pagine , sicuramente più approfondite di questa mia piccola ricostruzione di memoria : dico solo che, talvolta, la ricaduta mediatica del lavoro del giudice è inevitabile e bisogna farci il callo; non cavalcarla, ma nemmeno evitarla come la peste , perché fa parte di quel più vasto concetto di pubblicità del lavoro del giudice e quindi di controllo democratico sul suo lavoro.
Il giudice non deve in nessun modo utilizzare il suo lavoro per farsi pubblicità o comunque per solleticare il suo narcisismo personale e professionale, ma, nel momento in cui il suo lavoro interseca situazioni mediaticamente “ sensibili” non deve nemmeno essere restio ad affrontarle in modo corretto e funzionale , spiegando, se del caso, il suo percorso giuridico ed accettando le sue ricadute mediatiche.
Perlomeno così io la penso e così l’ho sempre pensata: il lavoro di un giudice deve poter essere conosciuto e giudicato da parte del vasto pubblico che popola la scena contemporanea , vuoi la stampa, vuoi il cd. popolo ; ed il giudice deve saper accettare anche le critiche sul suo lavoro, sempre che, naturalmente, esse siano sviluppate in modo corretto ed appropriato.
Ma di questo parleremo poi, in modo più approfondito.(vedi nota finale n.1).
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Agli inizi degli anni 90 sono diventato GIP: in realtà tutti ( o quasi) i componenti dell’ufficio istruzione furono tramutati, ope legis, in GIP; la figura del giudice istruttore si spense lentamente , in quanto solo alcuni colleghi furono prorogati al fine di esaurire le istruttorie ancora in corso , ma la funzione di Istruttore si esaurì con l’avvio del nuovo codice di procedura penale.
All’inizio, devo dire con franchezza, il nuovo lavoro non mi piaceva per nulla : il GIP era una sorta di giudice a gettone , nel senso che prendeva contezza del fascicolo del PM solo quando il PM stesso decideva di chiedere una misura cautelare , ovvero una proroga delle indagini, ovvero ancora un decreto di intercettazione telefonica ; ma il “ core business” del fatto e della relativa indagine apparteneva del tutto al PM, che la gestiva nel modo in cui voleva , senza alcun intervento da parte del giudice.
Poi, piano piano, le funzioni del GIP/GUP si sono un po’ allargate , ma , a mio parere, non hanno mai veramente avuto la puntualità e la precisione di quelle del vecchio giudice istruttore.
In ogni caso me ne feci ( ce ne facemmo ) presto una ragione: il nuovo lavoro era quello e bisognava svolgerlo con la necessaria attenzione e competenza.
Erano gli anni di “ Mani Pulite” , la famosa inchiesta del pool della procura di Milano che sconvolse, per molto tempo, la vita giudiziaria e politica del paese , alterando (secondo alcuni) l’equilibrio tra giudiziario e politico , consentendo, ( secondo altri) una sorta di piccola rivoluzione italiana che spazzò via , perlomeno per un po’, la corruzione dalla vita del paese.
Sono stato per più di un anno il GIP referente del pool “ Mani pulite” e, naturalmente nel mio piccolo, so di cosa si parla : ho emesso decine di misure cautelari nei confronti di amministratori, di politici, di imprenditori, misure che ( credo) di aver ben motivato e che trovavano una ragione nella gravità dei fatti contestati e nella loro diffusa pervasività sociale.
Ho personalmente interrogato tutte le persone che facevo arrestare e nei confronti di nessuna ho preteso che confessassero i fatti contestati al fine di ottenere una scarcerazione; se lo facevano ( e cioè confessare i fatti e, magari chiamare in correità altre persone ) ne prendevo atto e, se del caso, le scarceravo, a fronte della sopravvenuta inesistenza di esigenze cautelari.
Non posso dire, naturalmente, che tutti i colleghi, in tutta Italia, facessero così : ci sono probabilmente state delle forzature e, naturalmente, degli errori ; i giudici sono uomini e, come tutti gli uomini, possono sbagliare.
Ci sono, nel processo italiano, molti modi di evitare gli errori o comunque di porvi rimedio : ricorso al Tribunale del Riesame, processo di primo grado, appello, Cassazione .
Siamo, giudiziariamente parlando, un paese democratico in cui le garanzie difensive vengono prese sul serio, e, talvolta, sono perfino sovrabbondanti .
Il periodo storico che va dal 1992 al 1998 ( più o meno ) è stato una prova difficile , sia in termini giuridici che in termini più latamente umani o politici : un sistema basato sulla ( neanche tanto) sotterranea corruzione del mondo politico ed imprenditoriale è stato rivoluzionato per la prima volta in Italia , con effetti molto significativi sulla vita di tutti.
Non posso dire, con il senno di poi, che questo sia stato soltanto un bene : nessun fenomeno sociale di tipo criminoso può essere combattuto e battuto solo con lo strumento dei processi , pure necessari; al giorno d’oggi la corruzione ha trovato altri modi di essere ed altri canali di attraversamento della società ed è ben lungi dall’essere battuta; e tuttavia , ripeto, dinanzi ad un fenomeno sociale così pervasivo ed esteso ( in Italia la corruzione, secondo gli standard di controllo di molti enti sovranazionali, raggiunge livelli da paesi del terzo o quarto mondo !) credo che il processo penale abbia una funzione decisiva e, nello stesso tempo, simbolica . Ovviamente nel rispetto di tutti i parametri legislativi che impongono la necessaria rilevanza della difesa delle persone imputate ed il loro diritto ad essere giudicate in tempi ragionevoli.
Sui “ tempi ragionevoli” e sulla durata dei processi penali si potrebbero e dovrebbero spendere molte e ragionate parole , anch’esse incompatibili con questa mia breve ricostruzione della mia vita professionale : dico solo che la cronica carenza di mezzi e di risorse per la giustizia , facendo da sponda al sistema delle prescrizioni , ha impedito ed impedisce tuttora un rispetto sostanziale della pur necessaria ragionevolezza della durata degli stessi; dopo 42 anni di lavoro andrò in pensione senza che questo obiettivo sia stato, finora, realizzato.
Speriamo nel futuro, ma, consentitemi di dire che non sono particolarmente ottimista: siamo un paese in cui è, ormai, normato qualsiasi comportamento che abbia una seppur minima rilevanza penale , dalla guida in stato di ebbrezza all’omicidio , un paese di mafie, piccole e grandi, di corruzioni, piccole e grandi, di evasioni fiscali, piccole e grandi, di oltre duecentomila avvocati, e qualche migliaio di giudici fanno e faranno sempre fatica a gestirne l’impatto giudiziario in tempi “ragionevoli”.
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Nel 1996, su mia domanda, fui trasferito alla sesta sezione penale del Tribunale , ove ritrovai il mio amico Massimo Maiello, più altri valorosi colleghi ( Gaetano La Rocca, Daniela Guarnieri ed altri).
Il mio Presidente fu, per un lungo periodo Edoardo D’Avossa , di origini salernitane, ma ormai trapiantato a Milano da molti anni : un giudice infaticabile ed esperto ( non solo di diritto, era stato campione italiano di bridge) , sotto la cui guida ho imparato tantissimo ; in particolare ho imparato a gestire il dibattimento penale che, con il nuovo codice, richiedeva nuove e diverse abilità professionali rispetto al precedente.
Nel “ nuovo” dibattimento penale in udienza si arrivava con un decreto del GUP riportante il capo di imputazione ed una sommaria ( molto sommaria) motivazione che, sostanzialmente, riportava le emergenze probatorie a carico dell’imputato; il fascicolo era completato dal certificato penale dell’imputato e da pochissimo altro (decreti di sequestro, ove presenti): la situazione era sostanzialmente molto diversa da quanto accadeva con il codice precedente , ove la ordinanza di rinvio a giudizio del giudice istruttore era , in qualche modo, già una sorta di sentenza di condanna .
“La prova si forma in dibattimento”, era la frase che ci sentimmo ripetere fino allo sfinimento nelle sessioni di studio del nuovo codice: l’esame dei testi , dei periti, dei consulenti, degli imputati e delle parti lese, avveniva con lo strumento processuale della “ cross examination”, formula mutuata dal diritto anglosassone, che, in ultima analisi, consentiva alle parti di poter esaminare e controesaminare gli attori dell’istruttoria dibattimentale , al fine di poter ottenere una verità processuale più adeguata.
Buona o meno che fosse o che sia stata questa innovazione, tutto questo comportava che il Presidente in primis, ed in secundis tutti gli altri giudici a latere, tenessero una attenzione spasmodica allo svolgersi del contraddittorio, garantendo la legittimità delle domande e la correttezza delle risposte; in breve, come disse mirabilmente il mio amico Massimo, si passò dall’attenzione allo studio preliminare delle carte processuali a casa ,all’”attenti in classe” del nuovo codice.
Intendiamoci, non che lo studio delle carte non fosse importante , ma quello che “accadeva” in dibattimento lo era di più e non consentiva deroghe di attenzione.
Questo, naturalmente, volle dire dibattimenti molto, ma molto, più lunghi di quelli di una volta , e processi che, in certi casi, duravano anche anni.
Con Edoardo D’Avossa alla sesta penale ( e con Gaetano La Rocca, Daniela Guarnieri, Massimo Maiello), ho affrontato ( e talvolta scritto) sentenze memorabili: giova qui ricordare la “ prima “ sentenza Berlusconi per la vicenda dell’acquisto della società Medusa , conclusa con la condanna in primo grado ( e l’assoluzione in appello) ad un anno ed otto mesi di reclusione ( pena interamente condonata) , condanna che mi costò, per la motivazione, l’intero periodo delle vacanze natalizie , con grande gioia dei miei familiari; o anche la sentenza di assoluzione per una vicenda che vedeva coinvolti un padre, fotografo famoso, una madre, modella famosa, ed una figlia di otto anni : il padre era accusato di abusi sessuali nei confronti della figlia , ma l’istruttoria dibattimentale dimostrò, senza ombra di dubbio, la sua innocenza; anche per questo caso scrissi una lunga ed attenta motivazione che ebbe gli onori delle cronache , in virtù, certamente, della notorietà delle parti in causa, ma soprattutto di una sorta di “ decalogo” probatorio che avevo elencato nella sentenza per evidenziare i “ paletti” che l’accusa avrebbe dovuto seguire e che, nel caso, non erano stati seguiti.
Ricordo, anche oggi con un certo stupore, che il PM che aveva istruito il caso non mi parlò per vari mesi , a motivo di ciò che era scritto nella sentenza.
Per fortuna con il collega poi ci chiarimmo e tornammo ad essere amici come prima.
Last, but not least, con il collegio D’Avossa , seguimmo il caso ( e pronunciammo una ciclopica sentenza) di Florio Fiorini e del fallimento della SASEA Holding, società capofila di una miriade di altre , che era fallita trascinando con sé una rilevante quantità di risparmiatori e di creditori : il caso SASEA ci tenne impegnati per mesi e costò al Presidente D’Avossa una motivazione di oltre 600 pagine ed a me ed al terzo a latere Gaetano La Rocca, una specie di crisi depressiva multipla.
Insomma, fu un periodo molto bello di lavoro duro e continuo, periodo in cui iniziai a dirigere il dibattimento come presidente e non più solo come giudice a latere.
Ho fatto il presidente del collegio penale in primo grado per più di venti anni, prima di passare a dirigere una corte d’appello, e quindi, come dire, sono esperto in materia.
Dirigere un dibattimento penale è un lavoro difficile : tanto per usare una metafora teatrale , sei non solo uno dei primi attori, ma anche il regista dello spettacolo .
Niente assomiglia più al teatro che il processo penale, e non soltanto perché i suoi protagonisti si chiamano “ parti” , parola che in gergo teatrale ha un significato ben preciso ( “ che parte fai nello spettacolo?, ah, una buona parte!”), ma per la funzione che il processo ( e, in particolare il dibattimento) ha , funzione ripetitiva e ricostruttiva dei fatti reali , accaduti, magari, molti anni prima, e “raccontati” nel processo da quelli che ne sono stati gli “ attori”.
Certo, il processo penale ha una struttura rigida , richiede un rispetto delle forme che il teatro possiede fino ad un certo punto, ma dentro quella struttura “ accadono” vicende di vario e multiforme genere, che costituiscono, molto spesso, dei veri e propri “ plot” teatrali.
Tanto per fare un piccolo esempio, ricordo, una volta, mentre ero di turno per il giudizio di convalida degli arresti e direttissime , che mi portarono davanti un piccolo ometto piuttosto “ male in arnese” che era accusato di quello che in gergo giornalistico si chiama “stalking” , e che, in diritto, viene contemplato dall’art. 612 bis del codice penale , e cioè atti persecutori; reato grave, bene inteso, ma che, nel caso era stato esercitato nei confronti di una attempata prostituta di origine pugliese di cui non ricordo il nome . In particolare il signore in questione, essendo, a suo dire, innamorato follemente della signora , la seguiva ogni sera in auto sul, diciamo, suo posto di lavoro e si manteneva fermo davanti a lei per evitare che la stessa potesse essere abbordata da altri signori di passaggio e potesse così effettuare il suo servizio lavorativo ; cosa che, a lungo andare, aveva causato la palese irritazione della suddetta , e la conseguente denuncia.
Già, fin qui, la storia, come si può vedere, ha i caratteri assoluti della pochade, e meriterebbe di essere raccontata; ma la cosa più bella di tutte accadde quando il signore imputato , a domanda del suo giudice ( e cioè io), disse il suo nome: “ dottore mi chiamo Libertino Tenace, Libertino di nome, Tenace di cognome “!!
Non sto a raccontare l’ondata di risate che pervase, per qualche minuto buono, l’aula delle direttissime , ma vi assicuro che fu memorabile e mi costrinse, anche facendo forza su me stesso, a richiamare l’ordine in aula, che, per una volta, non vide solo lacrime e grida di dolore.
Insomma la storia di Libertino Tenace fece il giro di Palazzo di Giustizia e, come potete ben immaginare, divenne uno dei tanti aneddoti che costellano ed hanno costellato la vita giudiziaria del Tribunale di Milano.
Ma, tornando a noi, come dicevo la direzione del collegio penale , oltre ad essere un buon esercizio del mestiere di regista ( mestiere che ho anche esercitato nella vita residua) , ha costituito un grande banco di prova per la mia professione e per la mia vita in genere.
Dirigere un dibattimento penale richiede polso fermo, attenzione esasperata, capacità di dialogo , buona cultura giuridica, intelligenza delle situazioni e molto altro: il presidente del collegio deve essere un punto di riferimento e di garanzia per tutte le parti processuali e deve essere capace di gestire con duttilità e rigore anche ( e soprattutto) i rapporti con gli altri membri del collegio .
Quante volte capita di non essere d’accordo su valutazioni importanti, che decidono, nel bene e nel male, la vita delle persone imputate ed anche quella delle parti lese; quante volte occorre la capacità di mediare tra posizioni differenti, al fine di riuscire a trovare un “decisum” comune che sia il più aderente possibile alla verità processuale.
Sembra, nell’esporlo sulla carta, una cosa semplice, ma non è così: ci sono giudici innamorati della loro cultura ( presunta) e delle loro convinzioni , che non riescono a mettere in dubbio quanto già da loro ritenuto , giudici con cui bisogna avere pazienza e tenacia per riuscire a scalfire la roccaforte dietro cui si nascondono, e ci sono altri giudici che non riescono a prendere una posizione precisa, che sono incapaci di decidere con nettezza e convinzione , giudici che vanno aiutati a scavare dentro di sé ed a capire quello che c’è da capire.
E ci sono le proprie convinzioni i propri pregiudizi, le proprie simpatie ed antipatie , che vanno ,tutti e tutte, combattute senza pietà, in nome del rispetto di quella verità processuale che si dispiega davanti a noi durante un processo.
Giudicare è un esercizio difficile , di pazienza, di attenzione, di intelligenza, di compassione , in cui non bisogna mai dimenticare la propria ed altrui umanità, pur nel rispetto del necessario rigore della legge.
Molte volte mi sono chiesto ( ed ancora mi chiedo) se sono stato un giudice degno di questo nome, e, sebbene le risposte che mi dò siano abbastanza rassicuranti, non ne ho mai avuto l’assoluta certezza.
Questo che sto scrivendo non è un trattato di diritto penale o di procedura, è una narrazione molto personale di un’esperienza lavorativa lunga e difficile , che ha avuto momenti alti e meno alti, ma che si è sempre nutrita del dolore e della fatica del decidere: ad altri il compito di analizzare storicamente gli eventi che, in controluce, descrivo , o di giudicare il mio lavoro di giudice ; io mi limito a raccontare quello che mi è successo in questi anni, le ripercussioni emotive che tutto questo ha comportato, le mie personalissime sensazioni.
E comunque, continuando la narrazione della mia esperienza presidenziale, prima alla sesta sezione penale, poi alla quarta, devo innanzitutto ricordare la conduzione ( e poi la scrittura della motivazione) del processo cd. “Africa” e cioè “ Aiuto + 81”, iniziato nel lontano settembre del 1999 e finito ( dopo 129 udienze) l’11 dicembre del 2001 con la lettura del chilometrico dispositivo.
Un “ maxi procedimento” come si diceva ed ancora si dice, relativo al traffico internazionale di stupefacenti condotto da numerose organizzazioni criminali ( la mafia turca, quella albanese, quella egiziana, e, last but not least, la Ndrangheta calabrese nostrana), tutto tenuto presso una delle aule “ bunker” del Tribunale, insieme alle mie a latere di allora, Daniela Guarnieri e Anna Maria Gerli, con la presenza del PM Laura Barbaini.
Comminammo pene severe per alcuni secoli di carcere , all’esito di un dibattimento lunghissimo e ferocissimo, combattuto ( è il caso di dirlo) senza esclusioni di colpi tra il PM e le difese degli imputati.
La scrittura delle motivazioni ( tre volumi rilegati per un complessivo di 1295 pagine ) costò a me ed alle mie colleghe a latere tra mesi di lavoro durissimo, che ancora ricordo con un misto di stupore e di nostalgia.
Quando sento dire da qualcuno che i giudici non lavorano abbastanza per meritare il loro “lauto” stipendio , mi viene uno sbocco di rabbia e vorrei avere con me i tre volumi di quella sentenza per poterli tirare addosso al malcapitato ( ovviamente si fa per dire ).
Naturalmente non è sempre così , ci sono sentenze di patteggiamento che durano poco più di una paginetta e che richiedono, come è ovvio, un lavoro molto limitato: ma , è bene ricordarlo, i giudici in Italia lavorano tanto , ormai più sulla quantità che sulla qualità ( ma questo è un altro discorso) , producendo una mole impressionante di sentenze, ordinanze, decreti che, per legge ( ed anche questo è bene ricordarlo ) devono essere tutti e tutte motivate.
Questo, come si è già detto, non esclude errori o omissioni, ma esclude, senza dubbio, la pigrizia e la fannullagine .
E comunque alla quarta sezione del Tribunale di Milano ( ma anche prima, alla sesta) si lavorava molto sotto la attenta direzione del Presidente D’Avossa prima, poi della mia.
I processi da me gestiti come Presidente ( molti anche motivati con la sentenza), sono stati innumerevoli e non sto qui ad elencarli tutti. Ci vorrebbero decine di pagine, molto poco attraenti dal punto di vista del lettore: mi limito a ricordare il cd. processo “Sirchia”, dal nome del primo e più famoso imputato , ex ministro della salute; ed il processo “ Guarischi” relativo a corruzioni nel settore sanitario , processo che ha poi aperto la strada agli altri procedimenti contro Formigoni , ex governatore della Lombardia .
A proposito di corruzioni, concussioni, abusi d’ufficio et similia , va ricordato che la quarta sezione penale, da me diretta per quasi un decennio, si occupava preferenzialmente di questo tipo di reati contro la P.A. , e che, quindi, ho avuto modo di verificare con mano il livello di corruzione che albergava ( e che purtroppo ancora alberga) nel settore pubblico, in particolare quello della sanità : ho già detto cosa penso al riguardo; voglio solo aggiungere che la corruzione non è soltanto nei vertici del potere pubblico , ma che alligna con assoluta pervicacia anche nelle persone cc.dd. “ normali”, la “ gente” del dibattito mediatico , che poco quindi ha da scandalizzarsi nei confronti della presunta “ casta” , casta che riflette , e magari amplifica, un sentire comune della popolazione italiana.
E quindi il pesce, come si dice in gergo, non puzza solo dalla testa, ma da tutto il corpo: l’Italia è un paese profondamente e radicalmente corrotto , forse per ragioni storico/sociologiche che affondano le proprie radici nel “ familismo amorale” di cui tanti hanno parlato, o nella secolare sfiducia nella meritocrazia che ci affligge da molto tempo a questa parte.
Non so, non sono uno storico e nemmeno un sociologo, e quindi non ho risposte da dare in merito; posso solo dire che dal mio punto di osservazione ( certamente privilegiato) ho verificato che di corrotti, corruttori ed abusanti del proprio ufficio ce ne sono tanti e non tutti vestono la casacca del potere.
***
Vale la pena, ora, di raccontare la storia dei tre processi da me gestiti come giudice monocratico mentre ero alla quarta sezione penale del Tribunale , dal giugno del 2007 al dicembre del 2012: e cioè il processo per il rapimento di Abu Omar ( procedimento a carico di Adler Monica + 32); quello a carico del direttivo italiano di Google (procedimento a carico di Drummond David + altri), quello relativo alla vicenda dei “ derivati” ( procedimento a carico di Arosio Carlo + 16).
Tre processi che , per la loro rilevanza ( anche mediatica, ma non solo) e per la loro difficoltà hanno segnato in modo indelebile la mia attività di giudice , costituendo un “improvement” professionale ed umano molto significativo.
Come ho detto più volte , un giudice non dovrebbe mai trattare un processo ( ed un imputato) in modo più o meno approfondito a seconda della importanza che quel processo può avere a livello mediatico ; l’ho detto e lo ripeto; ma ci sono casi e circostanze che , in qualche modo, impongono al giudice che procede un livello di attenzione e di concentrazione più elevato del normale : questo non vuol dire che, in altri casi meno significativi, il livello di attenzione sia stato basso o superficiale , ma solo che, alcune volte, si è chiamati ad un compito più difficile del solito, e che questo compito va assolto con il massimo di professionalità possibile, attese anche le ricadute mediatiche del proprio lavoro.
Un giudice, in Italia, non vive in una sorta di torre d’avorio fatta solo delle illuminanti deduzioni o abduzioni proprie del diritto , ma vive in un tessuto sociale e culturale che impone un confronto continuo con la società tutta e quindi con una necessaria interlocuzione con ogni attore sociale.
Ovviamente questo non vuol dire che un giudicante debba piegarsi alle necessità economiche o sociali del paese, ma che però egli ne debba tener conto in modo attento , spiegando, con le proprie sentenze il proprio lavoro ed accettando anche le critiche che , inevitabilmente, gli vengono mosse.
In ogni caso il Processo per il rapimento di Abu Omar ( e cioè per la cd. “Rendition” dello stesso operata inequivocabilmente da agenti della C.I.A. in Italia) ha costituito una tappa fondamentale della mia vita professionale, ma non solo di quella : per molti mesi, oltre due anni dal giugno del 2007 al dicembre del 2009,ho vissuto una esperienza davvero irripetibile , sottoposto, tra l’altro, anche ad una sorta di tutela attenuata da parte della Prefettura di Milano , tutela che dava conto del livello di importanza del mio lavoro e, in un certo senso, anche della sua potenziale pericolosità.
Ricordo con nettezza la preoccupazione dei miei familiari quando la mattina andavo in ufficio in moto e quando dall’ufficio tornavo.
Ma, in fondo, questo non è stato l’elemento più significativo del tutto.
La verità è che per oltre due anni ho dovuto tener testa a richieste e pretese di uffici importanti ( la stessa Procura di Milano impersonata da due magistrati formidabili come Armando Spataro ed Enrico Pomarici), di avvocati egregi, di imputati “pesanti” ( il capo dei servizi segreti Italiani del periodo Nicolò Pollari,ed il suo vice Marco Mancini), di personaggi politici rilevanti ( l’allora capo del governo Silvio Berlusconi) , di ogni altro potere reale o presunto che avevano un interesse diretto o indiretto all’esito del procedimento.
Non è stato facile gestire e condurre a termine un processo di questa portata, gravato da vari conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato ( solo nei miei confronti ne sono stati sollevati due ) , conflitti solo in parte risolti dalla famosa sentenza della Corte Costituzionale n.106 dell’11 marzo del 2009.
Non starò qui a raccontare lo snodarsi della vicenda processuale e nemmeno il suo esito; chi è interessato potrà leggere le motivazioni della sentenza che contano circa 400 paginette molto fitte e molto piene di interessanti considerazioni e valutazioni.
Dico solo che il processo Abu Omar è stato ( a mia conoscenza) l’unico processo penale al mondo in cui sono state accertate responsabilità di agenti della CIA ( con inevitabili ricadute internazionali), per un’azione di “rendition” che l’allora governo USA utilizzava a man bassa nei confronti di veri o presunti terroristi, con significativo spregio delle regole giuridiche internazionali.
Il processo non potè ( come si sa) accertare eventuali responsabilità da parte di componenti dei servizi segreti italiani , pure chiamati a giudizio, a motivo dell’apposizione del segreto di Stato sui loro comportamenti da parte dei governi di allora ( Prodi, Berlusconi): non sta a me giudicare della effettiva sussistenza di quel segreto , in quanto la sentenza della Corte Costituzionale già richiamata impose una sorta di “ sipario nero” che non è stato possibile sollevare.
Dico solo che fu veramente strano, ed anche un po’ irreale, che un giudice italiano si sia potuto pronunciare sulla colpevolezza di comportamenti da parte di agenti di servizi segreti stranieri in Italia, e non di agenti italiani per la stessa vicenda materiale e processuale, ma, come dire, così è andata e non c’è modo di cambiare il finale di questa terribile vicenda.
In ogni caso devo sottolineare la bravura e la competenza dei pubblici ministeri di allora, Armando Spataro ed Enrico Pomarici, quest’ultimo mio giudice affidatario nel periodo di tirocinio, che è poi andato in pensione poco dopo l’esito di questa vicenda: per loro un saluto affettuoso ed un grande ringraziamento per aver vissuto con me questa avventura giudiziaria.
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Non era ancora finito il processo ai rapitori di Abu Omar che mi arrivò, tra capo e collo, il processo al direttivo italiano di Google , processo iniziato in seguito ad una denuncia dell’Associazione Vividown, e relativo ad una vicenda di “ bullismo” materiale e mediatico subito da un ragazzo down in una scuola di Torino .
I ragazzi di una classe di quella scuola avevano pesantemente insultato e sottoposto ad angherie orribili un loro compagno e poi, non contenti, avevano “ postato” il video con cui si erano ripresi sulla piattaforma You Tube , posseduta da Google .
Il video ( classificato tra i video “ divertenti”) era rimasto diverse settimane visibile al mondo mediatico ed aveva raggiunto un numero elevatissimo di visualizzazioni, tanto da raggiungere il primo posto nella sua sezione.
Dopo varie segnalazioni Google aveva cancellato il video , ma, evidentemente, non tanto presto da evitare un pesante danno morale al ragazzo ripreso e sbeffeggiato che, insieme all’associazione Vividown, si era costituito parte civile nel processo.
Processo che, in termini di capi di imputazione, prevedeva una ipotizzata responsabilità dei direttivi di Google Italy per il concorso omissivo nel reato di diffamazione a mezzo stampa e di violazione della privacy.
Come si vede, una vicenda molto complessa e molto particolare: anche questa volta mi toccò trattare quello che in gergo giudiziar/giornalistico si chiama un “ leading case” , e cioè una vicenda mai tratta prima di allora nelle aule giudiziarie: perché, stavolta, non si trattava solo di giudicare ( cosa già avvenuta a Torino) i materiali autori del video che lo avevano poi caricato su internet, ma i “ providers” e cioè i padroni della rete che avevano permesso non tanto il caricamento del video stesso, ma la sua permanenza in rete per diverse settimane ed il suo utilizzo per il profitto degli stessi.
Forse, infatti, non tutti sanno ( o perlomeno sapevano ) che i video di You tube sono, per così dire, “ sponsorizzati” e cioè nel momento in cui cominciano ad avere numerose visualizzazioni, vengono “conditi” con i banner pubblicitari da cui Google ( o chi altro possieda il provider) deriva i suoi profitti ( non banali, si parlava di miliardi di dollari).
Una volta iniziato ( 3 febbraio2009), il processo non durò tanto a lungo come quello per Abu Omar, venendo poi trattato con il rito cd., abbreviato: ebbe il suo esito nel febbraio2010 con una sentenza che dichiarò colpevoli gli imputati ( tutti americani) per il solo reato di violazione della legge sulla privacy.
Inutile dire che anche questa sentenza ebbe delle ricadute internazionali molto rilevanti , tra cui una formale protesta fatta dagli USA per bocca della signora Clinton , allora ministro degli esteri.
Ma non solo: fui additato da una buona parte della stampa internazionale e nazionale come il carnefice della libertà di comunicazione in Internet , l’assassino ignorante della libertà di stampa , il prefetto che voleva mettere la mordacchia ai liberi pensatori della rete.
Ricevetti, sul mio account Facebook, migliaia di messaggi di protesta ( e, per la verità, anche alcuni di sostegno, ma pochi) a cui risposi personalmente cercando di spiegare il mio punto di vista: che cioè il mondo di internet non può essere una sorta di far west libero e selvaggio, senza norme che limitino la possibilità di nuocere e di commettere reati soprattutto ai danni di chi è più debole.
Per la verità la sentenza ebbe vita breve: le mie condanne furono, presto ed in fretta, cancellate in appello , cancellazione poi confermata dalla Cassazione.
Alcuni anni dopo venni a sapere che la Corte di Giustizia Europea aveva accolto il mio messaggio ritenendo la possibile responsabilità dei providers per quanto pubblicato sui siti a loro riferibili.
In ogni caso anche questa fu una esperienza molto significativa per la mia vita professionale : della sentenza “ Vividown” si parlò molto in corsi e seminari didattici e di studio e fui chiamato anche dal CSM a parlarne in un bellissimo incontro alla Scuola della Magistratura.
Tirando le somme si può dire che la comunicazione via Internet , con particolare riferimento alle esigenze di rispetto della privacy, ha avuto un prima ed un poi, con la mia sentenza a fare da spartiacque: credo sia legittimo sentirsene orgogliosi.(vedi nota n. 2)
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Last, but not least, rimane da parlare della sentenza cd dei “ derivati” e cioè della vicenda relativa ad una ipotizzata truffa contrattuale subita dal Comune di Milano da parte di quattro tra le banche più famose del mondo ( Deutsche Bank, UBS, JP Morgan, Depfa) in relazione ad un evento di ristrutturazione di un debito del Comune stesso ed un conseguente contratto di Swap tra le parti.
Vicenda veramente complessa ed ad alta specializzazione, iniziata , come udienze, il 6 maggio del 2010 ed esaurita con la mia sentenza del 19 dicembre del 2012.
Il PM di Milano che gestì la vicenda, con encomiabile coraggio e determinazione, era il mio vecchio amico Alfredo Robledo, a cui anche dedico un pensiero affettuoso e non dimentico (nonostante le sue vicissitudini successive).
La vicenda, come ho detto, era di una complessità inizialmente disarmante: riuscire a comprendere le ragioni sottese di matematica finanziaria al fatto contrattuale avvenuto non fu cosa di poco momento; passai due anni di lavoro e di vita, ogni mercoledì che il buon Dio mandava sulla terra, a cercare di dipanare i fili che reggevano la tela del fatto , e ci riuscii solo dopo aver nominato perito d’ufficio il prof. Francesco Corielli, esperto di matematica finanziaria alla Bocconi di Milano, che, con una magistrale perizia riuscì a pervenire ad una efficace spiegazione della vicenda.
Vicenda per la causazione della quale finii per condannare tutti ( o quasi) gli imputati persone fisiche, ma, soprattutto, le persone giuridiche delle Banche, per le quali stabilii delle confische poderose in termini monetari.
C’è da dire che, prima della condanna, e cioè a processo ancora in corso, le parti stabilirono una transazione finanziaria sulla base della quale le banche “risarcivano” la parte lesa Comune di Milano per centinaia di milioni: in questo senso, nonostante poi la successiva assoluzione in appello dei presunti responsabili, si può dire che il processo ebbe una sua soluzione complessivamente positiva, perlomeno in termini di giustizia retributiva.
Come si sa, poi, in appello la sentenza cadde e, devo dire, io non ho ancora capito il perché, nonostante la lettura delle 500 pagine della relativa motivazione: ma, tant’è! anche qui, forse, un “ leading case” troppo complesso e troppo delicato da sostenere sulle mie deboli spalle di giudice monocratico.
In ogni caso anche qui una esperienza professionale ed umana molto particolare e significativa.
***
Sono giunto alla fine di questo mio piccolo racconto della mia esperienza da giudice a Milano.
Come ho detto, non era e non è mia intenzione scrivere un trattato di diritto o raccontare con pretese storiche vicende che hanno avuto il loro svolgimento e compimento nel corso di questi ultimi 40 anni.
Il mio intendimento era e rimane quello di riepilogare fatti e sensazioni che hanno avuto un impatto speciale per la mia vita di giudice e per la mia vita in generale, per evitare che la memoria , con il passare degli anni, si perda.
Ho intitolato questo racconto “ un giudice con la faccia da uomo”, ma non perché io mi ritenga un giudice particolare o speciale: devo questa mia definizione al mio amico Nazzareno Mazzini che, ogni volta che mi vede, mi abbraccia e mi chiama così , in memoria di un formidabile verso di una formidabile canzone di Fabrizio De Andrè, contenuta nel vecchio LP “ Non al denaro, non all’amore, né al cielo”.
Per quanto mi riguarda , voglio chiudere con una frase latina di Terenzio che è sempre stata la mia guida in questi 42 lunghi anni : “Homo sum, Humani nihil a me alienum puto”.
Oscar Magi
riporto qui in nota lo scambio di lettere che ebbi con “ Libero” prima e con “ Il corriere della sera” poi, a proposito di alcuni commenti che erano stati pubblicati sui due quotidiani, il primo con riferimento al cd. “ Processo Ruby” approdato alla mia sezione, ma non fatto dal mio collegio, il secondo in merito al processo per rivelazione di segreto d’ufficio fatto e concluso nei confronti dei fratelli Berlusconi.
“ Al Direttore di “LIBERO”
Maurizio Belpietro
Gentile direttore,
Ho letto, qualche giorno fa, sul giornale da lei diretto un articolo, in prima e terza pagina, intitolato “Gioco sporco, il giudice che processa Silvio scese in piazza contro di lui”.
Prescindiamo, per un attimo,dal fatto che, a quanto mi risulta, il procedimento attualmente incardinato presso il Tribunale di Milano riguardante presunta concussione e induzione alla prostituzione minorile nei confronti del Presidente del Consiglio on. Silvio Berlusconi dovrà passare il vaglio dell’ufficio GIP di Milano , e che, quindi, allo stato ,la sezione IV penale da me diretta non ha ancora in carico alcunché ( prima notizia non vera, io non sto processando nessuno) .
Prescindiamo ancora dal fatto che le sezioni penali del Tribunale di Milano che si occupano dei reati contro la P.A. ( tra cui quello di concussione) sono due, ognuna con due collegi e che, quindi, l’eventuale assegnazione del processo “ del secolo” come suggerito nell’articolo , verrà decisa soltanto dall’assegnazione automatica che, in tali casi, determina la competenza interna delle sezioni del Tribunale ( altra non verità è quindi quella che il Presidente Livia Pomodoro mi avrebbe allertato per la trasmissione del fascicolo).
Resta il fatto che l’articolo in questione ( scritto dal giornalista Franco Bechis, che non ho il piacere di conoscere) tratteggia la mia persona ( e, in particolare la mia attività giudiziaria ) in modo francamente non accettabile , traendo delle conclusioni sul mio equilibrio e sulla mia autonomia di giudice che non possono passare sotto silenzio, soprattutto in un momento come questo.
In particolare , prendendo le mosse dal titolo dell’articolo , vorrei precisare che mai nella mia vita sono “ sceso in piazza” contro qualcuno , men che meno contro Silvio Berlusconi: le mie partecipazioni ( da quando sono maggiorenne) alla festa della Liberazione del 25 aprile ( che non nego, ma che anzi rivendico con orgoglio) sono dovute ad un genuino senso di appartenenza nazionale ed al dovuto rispetto che ognuno di noi dovrebbe a quella ricorrenza, per tutto quello che storicamente significa.
Tra l’altro non sono mai stato a braccetto con Ilda Boccassini e Nicoletta ( non Valeria) Gandus , che sono colleghe di Milano che conosco da tempo e che stimo , ma con cui non sono andato a passeggiare da nessuna parte.
Le mie uniche compagne di feste ,di liberazione e non, sono le mie tre figlie e mia moglie, con cui, invece, vado spesso a passeggiare insieme.
E’ vera la circostanza che sono , da ormai più di trenta anni, aderente alla corrente di Magistratura Democratica ed è vero che ho spesso partecipato alla vita associativa della magistratura : non credo che questo sia un delitto o una cosa di cui vergognarsi.
Posso dire con orgoglio che mai le mie idee, personali e politiche, hanno condizionato il mio lavoro di giudice, se non nel senso di costringermi ad una attenta aderenza alle prescrizioni della Carta Costituzionale : anche questo, credo, non sia cosa di cui vergognarsi.
Per il resto, cosa dire? L’articolista affastella, uno sull’altro, molti miei “precedenti giudiziari” ( Mani Pulite, Ariosto, Abu Omar, Google) di cui vado fiero e che costituiscono solo la prova del mio lavoro indefesso, della mia autonomia, e della mia attività da trent’anni a questa parte.
Che tutto questo sia prova del mio squilibrio professionale e della mia non disponibilità nei confronti del premier è affermazione diffamatoria ed illogica che trae (questa volta si) origine da un cumulo di pregiudizi e di illazioni gratuite che non mi sembra di aver meritato.
Sono giudice da 32 anni, mio padre era giudice, mio fratello è giudice, mio nonno era un alto ufficiale dell’esercito: credo di aver dimostrato in tutto questo tempo la mia assoluta lealtà istituzionale e la mia completa imparzialità.
Lei comprenderà che dire, o anche soltanto suggerire, che un giudice non sia imparziale e non sia equilibrato , è offesa grave alla reputazione e, vorrei dire, all’onore dello stesso , e che, pertanto, ne trarrò le dovute conseguenze.
Le sarei grato se volesse pubblicare questa mia, anche ai sensi della legge sulla stampa.
Dr Oscar Magi
PS: mi consenta di non parlare della suoneria del mio cellulare, mi vergognerei davvero di dover discutere di cose simili."
“ Al Direttore del Corriere della sera
Dr Ferruccio De Bortoli
Gentile direttore,
sabato 8 giugno il quotidiano da Lei diretto pubblicava un articolo scritto da Piero Ostellino, titolato, in prima pagina, “ Quel giudizio espresso in tribunale che diventa un’accusa ideologica”.
Nel corpo dell’articolo, scritto da una delle firme più prestigiose del Corriere, Ostellino esprime dei giudizi molto particolari nei confronti della sentenza cd “Unipol”, emessa dalla IV sezione del Tribunale di Milano , da me diretta , sentenza del 7 marzo u.s., la cui motivazione è stata depositata in data 4 giugno scorso.
In particolare Ostellino parla di una “ sentenza surreale” (“con la surreale sentenza, che piaccia o no, è nato così un nuovo tipo d’accusa, tutto ideologico ..”) , dell’invenzione di un’accusa ideologica ( “d’altra parte, che pur di condannare Berlusconi si sia arrivati ad inventarsi un’accusa ideologica…”), accusa di cui chiede, ironicamente ma non troppo, conto e ragione a Magistratura Democratica, come se la sentenza stessa sia stata scritta e dettata in obbligo non solo ad una ideologia accusatrice ad ogni costo, ma addirittura in obbligo ad una appartenenza correntizia (come si sa Magistratura Democratica è una delle correnti in cui si dividono i magistrati italiani ).
Sorge il dubbio che Ostellino non solo non abbia letto la sentenza ( o ne abbia letto solo le parti che gli facevano comodo) , ma che abbia fatto un uso, per la verità molto spregiudicato, di alcuni pezzetti della motivazione per inventarsi lui un’accusa ideologica e surreale nei confronti dei giudici che l’hanno scritta .
Basti pensare che l’imputazione nei confronti di Paolo e Silvio Berlusconi di cui si è discusso nelle udienze dibattimentali, non è quella di diffamazione, ma ( e non è differenza da poco), rivelazione di segreto d’ufficio , e che, quindi, tutto l’impianto della sentenza ( discutibile e criticabile quanto si vuole) non ruota intorno al contenuto della frase “ rivelata” dal quotidiano Il Giornale, ma all’attività criminosa di chi ( Berlusconi Silvio e Paolo , ma non solo), ha permesso tale rivelazione .
Giova precisare che l’imputazione sarebbe stata la stessa anche se priva di qualsiasi significato potenzialmente diffamatorio nei confronti di chiunque , giacchè il reato contestato e ritenuto commesso in sentenza consiste in una attività di appropriazione e divulgazione di notizie che devono restare segrete per giudizio della magistratura procedente , notizie la cui portata offensiva o meno che sia nei confronti di chicchessia non rileva ai fini penalistici .
Per cui la contestazione rivolta ( in maniera ironica ma molto suggestionante) ai magistrati che hanno avuto l’obbligo di svolgere il processo non per loro scelta ma per conformità alle norme che regolano la competenza dei procedimenti penali, di aver formulato “un’accusa ideologica” nei confronti degli imputati , accusa supportata da una motivazione surreale , non solo è falsa , ma è priva di qualsiasi logica , giuridica o umana che dir si voglia.
Infine , la richiesta di spiegazioni a Magistratura Democratica è , questa sì,non solo surreale , ma anche diffamatoria , perché lascia intendere a chi legge che la sentenza sia stata scritta in ossequio ad una appartenenza ideologica e correntizia, e non nel rispetto delle norme di legge, sostanziali e procedurali, che regolano la materia .
Chiedo perciò, che questa mia sia pubblicata sul quotidiano da Lei diretto come smentita all’articolo indicato, con la stessa evidenza giornalistica dello stesso.
Con i migliori saluti
Dr Oscar Magi, presidente IV sezione Tribunale di Milano”
Qui di sotto riporto un articolo che scrissi per “ Il Foglio”, su sollecitazione del direttore e che venne pubblicato nella data indicata:
“ Mi è stato richiesto un breve intervento in merito alla vicenda “ sentenza Google”, alla libertà di Internet ed all’uso che se ne fa, nonché una risposta alle seguenti domande:
Premetto che non sono abituato a commentare le mie sentenze e che un giudice dovrebbe parlare al pubblico solo attraverso le stesse: nel caso in questione ho scritto 111 pagine di motivazione a cui rimando chiunque abbia voglia e tempo di misurarsi con la complessità del problema .
Mi sembra tuttavia possibile , data la rilevanza mediatica del tema, intervenire brevemente sulle questioni generali che la vicenda richiama e che costituiscono lo “sfondo sociale e culturale “ dei fatti di causa ( su cui non ritorno, trattandosi, come è ovvio , di vicende ancora non definitive da un punto di vista processuale).
In sintesi :
Milano 16 aprile 2010 “
Sommario: 1. Il tempo del giudizio - 2. La lettura del giudizio: le sentenze della Corte Costituzionale - 3.Ordinanze e participi.
1.Il tempo del giudizio
Sono trascorsi oltre dieci anni da quando la legge 18 giugno 2009, n. 69, a partire dal 4 luglio 2009, sostituì l’art. 132, II c., n. 4, c.p.c. eliminando tra i requisiti di forma-contenuto delle sentenze civili la concisa esposizione dello “svolgimento del processo” e così limitando il requisito propriamente motivazionale alla esposizione, comunque concisa, “delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”.
Tale novella è stata per lo più interpretata come una mera semplificazione in senso riduttivo – una sorta di dimagrimento - della struttura della sentenza civile, così trascurandone, invero, l’impatto sulle modalità stesse di formulazione della motivazione.
E’ infatti da evidenziare il rilievo assegnato alla essenziale connotazione della sentenza in termini di giudizio (“le ragioni”) piuttosto che di narrazione/rievocazione di fatti, con conseguente emarginazione dei contenuti storici della vicenda sostanziale e processuale.
Nell’orbita propria del giudizio i fatti non sono certamente da trascurare ma sono piuttosto da rappresentare esclusivamente nella loro dimensione di ragioni di fatto, vale a dire nella sola consistenza funzionale alle considerazioni in diritto che se ne traggono, in quanto proprio da tale rappresentazione dei fatti derivano le consuete operazioni inerenti alla sussunzione nella fattispecie astratta e, soprattutto, all’individuazione degli effetti che si spiegano nel caso concreto.
Gli eventi sono, in tal senso, nuovamente rappresentati affinchè sia disposto alcunchè in ordine alla loro ideale prosecuzione nella concreta vicenda sostanziale o processuale: così all’accertamento di un fatto illecito consegue la sanzione restauratrice del corso degli eventi, in forma specifica o per equivalente; alla dichiarazione di nullità dell’atto processuale le conseguenti rinnovazioni ex art. 162 c.p.c..
Si dovrebbe, pertanto, adottare nei verbi un tempo adeguato a rappresentare gli eventi nel loro svolgersi per cogliere la continuità tra tali accadimenti e gli effetti che ne derivano all’attualità e che si protendono nel tempo successivo, in quel divenire tra passato, presente e futuro che contrassegna propriamente l’esercizio della giurisdizione.
Di qui l’incongruità dell’uso dei tempi passati, i quali emarginano il fatto in un contesto già esaurito e segnano una netta cesura rispetto all’attualità della narrazione; è piuttosto da apprezzare l’uso del tempo presente con riguardo non solo alle considerazioni in diritto ma anche a quelle propriamente in fatto, pur se gli accadimenti risalgono a molti anni indietro rispetto all’epoca della decisione: Tizio stipula il contratto nel 1985, si avvale nel 1996 della clausola risolutiva, chiede oggi la condanna ecc..
La formulazione dei fatti al tempo presente (c.d. presente storico) determina indubbiamente un apparente appiattimento degli eventi pur succedutisi a notevole distanza temporale: si tratta, tuttavia, di un livellamento connaturale alla giurisdizione, laddove gli eventi rilevano solo come elementi di fattispecie tutti da rappresentare contestualmente ai fini della formulazione della regola finale del caso concreto.
Il giudice è, infatti, chiamato ad una operazione essenzialmente logica utilizzando le risultanze processuali ed parametri normativi ed è, quindi, affatto congruo che i fatti - sub specie di ragioni di fatto - siano tutti esposti nel medesimo tempo pur nella diversa – ed eventualmente precisata – collocazione diacronica.
L’effetto drammatico – rievocativo resta, invero, integro - così come avviene con il tradizionale uso dell’imperfetto : Tizio stipulava ….non corrispondeva ecc. - in quanto l’autore continua a porre se stesso ed il suo ideale lettore sullo stesso piano degli eventi narrati, colti nel momento in cui accadono; ma è, altresì, evidenziato, con il tempo presente, che gli eventi rilevano all’attualità come elementi di un giudizio e non nella loro dimensione propriamente storica.
In tal senso il tempo proprio della sentenza diventa il tempo presente quale tempo del giudizio, vale a dire del momento di formulazione delle ragioni di fatto e di diritto in cui si articola la motivazione.
2.La lettura del giudizio: le sentenze della Corte Costituzionale
Ogni motivazione è destinata ad essere ovviamente letta: non rileva cioè nella sua mera obiettività, come compiuta e tecnicamente esatta esposizione delle ragioni, ma anche nella idoneità ad essere congruamente percepita.
In tal senso si può riscontrare che l’uso del tempo presente agevoli senz’altro non solo l’esposizione ma anche la comprensione dei fatti rappresentati.
Tuttavia l’attenzione al destinatario della motivazione – che non è solo il difensore o la parte ma potenzialmente l’intera comunità – deve indurre ad una più profonda semplificazione della formulazione del giudizio, quanto meno nel senso di attenuare, per quanto possibile, lo sforzo richiesto per la sua percezione.
Potrebbe così essere giustificata una minore compiutezza o precisione nel richiamo ad un fatto – magari già in precedenza circostanziato - allorchè si tratta formulare propriamente solo un giudizio sullo stesso.
Al riguardo è forse utile aprire il sipario anche sulle sentenze della Corte Costituzionale - nella sua veste di giudice delle leggi - le quali appaiono, invero, conformate ad un modello formale tutto imperniato sulla compiutezza della esposizione piuttosto che sulla leggibilità e, quindi, sulla fruizione della motivazione.
Sono, infatti, strutturate in una prima parte, recante l’epigrafe “Ritenuto in fatto”, la quale corrisponde in realtà allo svolgimento del processo, ed in una seconda parte propriamente motiva, con l’epigrafe “Considerato in diritto”, nella quale vengono esposte le ragioni della decisione.
Tuttavia è da riscontrare che le considerazioni “in diritto” sono nuovamente precedute dalla compiuta riformulazione delle stesse questioni già esposte in precedenza “in fatto”, così sostanzialmente integrando autonomamente il requisito della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto proprie della sentenza civile ex art.132, II c., n. 4, c.p.c..; al punto che il lettore ben potrebbe limitarsi a tali “Considerazioni in diritto” per comprendere il contenuto della sentenza.
Il parametro normativo specifico per le sentenze della Consulta, l’art. 18, legge 11 marzo 1953, n. 87, si limita a disporre che siano indicati i “motivi di fatto e di diritto”, con formulazione che ben può leggersi come simmetrica, in via sistematica, con quella dettata per la sentenza civile, nel senso cioè che i “motivi” corrispondono alle “ragioni” ex art. 132 c.p.c..
E’ vero, poi, che avanti alla Corte Costituzionale i “fatti” di cui si controverte sono in realtà “le leggi”, tuttavia anche le leggi potrebbero essere richiamate solo in quanto funzionali ad un “giudizio” destinato ad essere essenzialmente “letto”; di qui la preferenza che dovrebbe essere accordata alla continuità della esposizione delle “ragioni” piuttosto che alla completezza degli elementi meramente descrittivi delle leggi.
In concreto è, ad esempio, da evitare che le leggi siano reiteratamente citate mediante l’indicazione dei rispettivi “titoli”, i quali aprono parentesi quasi sempre non utili alla formulazione delle “ragioni” e costringono continuamente il lettore ad operare mentalmente dei “salti” per non pregiudicare la continuità della percezione dell’argomentazione.
Analoghi rilievi potrebbero essere svolti quanto alla citazione delle reiterate modificazioni intervenute “medio tempore” rispetto alla formulazione originaria della disposizione di legge (“l’art. X della legge Y così come modificata dall’art. A della legge B ecc.”); tali citazioni possono, infatti, essere effettuate una sola volta nel corpo della motivazione ed eventualmente sostituite dal mero richiamo alla vigenza della disposizione in un dato contesto temporale (“l’art. X nella formulazione vigente alla data del….”).
Si tratta di rilievi apparentemente banali ma che proprio nella legislazione contemporanea finiscono per assumere rilievo in quanto fioriscono leggi dal contenuto disomogeneo, con titoli intenzionalmente ipertrofici, le quali si sovrappongono diacronicamente con intensa frequenza: di qui la opportunità di una citazione delle disposizioni di legge semplificata, per quanto possibile, per assicurare l’agevole leggibilità della motivazione, vale a dire la sua funzionalità oltre che la compiutezza strutturale.
3.Ordinanze e participi
A fronte della semplificazione operata nel 2009 nella struttura della sentenza è da rivedere anche l’originario assunto secondo cui l’ordinanza abbia un contenuto essenzialmente minore quanto alla motivazione: in effetti il parametro normativo non implica alcuna apprezzabile differenza in quanto l’ordinanza è “succintamente motivata” ex art. 134, I c., c.p.c. e la sentenza comprende, analogamente, “la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto” ex art.132, II c., n.4 c.p.c..
La tradizionale articolazione delle ordinanza in capoversi preceduti da participi (“Rilevato che”, “Ritenuto che” ecc.) non sembra, poi, corrispondere ad alcuna effettiva semplificazione in quanto un dato può essere rilevato od un giudizio può essere espresso anche senza la reiterazione di un participio passato come premessa: si può così argomentare che il cielo è azzurro anche senza preavvisare il lettore che si è “considerato che”.
Con ciò non si vuole affatto sminuire l’utilità di una articolazione della motivazione, in sentenza come in una ordinanza, per punti e paragrafi, segnalati anche da opportuni simboli numerici o grafici; tuttavia l’incipit reiterato con i participi passati sembra, oltre che inutile, il retaggio di un esercizio della giurisdizione, dall’alto di una sovrana intelligenza, certamente non più consona alla attuale dialettica processuale imperniata sulla parità delle parti.
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