ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
TUTTI SALVI(NI) CON LA PENA DI MORTE?
Glauco Giostra
(da “L’Avvenire” del 30.7.2019)
Doveva accadere. Era questione di tempo, ma nell’attuale stagione politica non poteva non accadere. Era anche scritto che dovesse succedere per opera del Ministro che fin dall’inizio ha indossato la felpa law and order, elettoralmente lucrosissima. Matteo Salvini ha colto l’occasione dello sconvolgente omicidio di un servitore dello Stato per evocare la pena di morte applicata negli Usa e non in Italia. E pur con un’esplicita accortezza,
Ma nella nostra Costituzione è scritto: «Non è ammessa la pena di morte». I costituenti, che pur avevano subito orribili torture e che pur avevano avuto congiunti e amici assassinati per aver preteso il ripristino della democrazia, non hanno voluto uno Stato vendicatore che uccide chi ha ucciso, ma uno Stato che risponde con il rigore di un diritto severo, ma civile; uno Stato non disposto a macchiarsi del crimine di uccidere un innocente, come è avvenuto nel 4,1% delle esecuzioni capitali negli invidiati USA, secondo una rigorosa indagine della University of Michigan School Law (decine e decine sono, poi , dal 1990 gli innocenti condannati a morte salvati in extremis dalla prova del Dna); uno Stato che non vorrebbe mai ricordare i barbari allestimenti con cui, sempre negli invidiati USA, i parenti delle vittime assistono all’esecuzione del condannato per vederlo sfrigolare sulla sedia elettrica o scuotersi dopo una iniezione letale.
Il nostro Ministro dell’Interno, con non dissimulato disappunto, dice di accontentarsi che il condannato possa uscire soltanto cadavere dalla prigione. Dovrebbe sapere e dovrebbe correttamente far sapere che la Corte europea dei diritti dell’uomo poco più di un mese fa ha condannato l’Italia (caso Viola) appunto perché il nostro ordinamento prevede che per alcuni reati l’espiazione carceraria duri per l’intera vita, rimanendo indifferente al percorso del condannato durante l’esecuzione della pena. Adeguarsi al dictum della Corte di Strasburgo non vorrebbe dire –è bene precisarlo a fronte di tante affermazioni di tal segno, non si sa se dovute ad ignoranza o a calcolo - abolire le pene perpetue nel nostro sistema: continuerebbero ad esserci e ad essere eseguite fino all’ultimo giorno, a meno che -dopo circa venticinque anni di carcere, suggerisce la giurisprudenza della Corte- un’osservazione attenta e prolungata non attesti che il condannato abbia dato prova di autentica riabilitazione.
Si potrebbe anche pensare che il Ministro dell’Interno, essendo garante della sicurezza pubblica, intenda ricorrere alla forza intimidatrice della pena comminata per dissuadere dai più gravi comportamenti delittuosi. Ma il Ministro sa o dovrebbe sapere che la minaccia della sanzione è inefficace, talvolta controproducente. Negli invidiati Usa si registrano 5,3 omicidi ogni 100.000 abitanti, in Italia 0,8. Non solo: negli Stati dell’Unione che non ammettono la pena di morte si conta un minor numero di omicidi rispetto a quelli che la prevedono.
Ciononostante, il presidente Trump, che sta affilando le sue armi elettorali, ha pensato di ripristinare l’esecuzione delle condanne a morte inflitte dai tribunali federali, interrompendo una moratoria che durava dal 2003: iniziativa che già gli avrebbe procurato maggiori consensi. Non si riporta il dato perché particolarmente interessati al Trump-pensiero (si perdoni l’ossimoro), ma per far capire a che serve e a chi giova invocare la pena capitale.
Si chiude un semestre assai difficile per la democrazia e la magistratura italiane.
Le donne e gli uomini della Rivista hanno cercato di affrontarlo Insieme con passione ed impegno, sicuri che all’incultura ed all’imbarbarimento del sistema debba rispondersi con contributi capaci non di dispensare certezze e verità, ma unicamente riflessioni critiche, accessibili, chiare e comprensibili.
È questo il nostro modo di vivere Insieme la giurisdizione e di stare accanto agli operatori di giustizia.
Grazie a chi ha apprezzato questo tentativo e ci aiuterà a proseguire questo percorso.
A Settembre!
La redazione di Giustizia Insieme
Premessa.
In riferimento al Capo I, artt. 1-10, della proposta di riforma «per l’efficienza del processo civile», occorre innanzi tutto premettere che, a prescindere dall’ovvia difficoltà di esaminare con la dovuta attenzione, e in così breve tempo, un testo alquanto complesso, non ci sembra condivisibile l’idea di nuovi interventi sulla disciplina del processo di cognizione in primo e in secondo grado, al fine di accelerare i tempi della giustizia civile.
Costituisce un assunto ormai generalmente condiviso che la ragione dell’eccessiva durata del processo civile risiede non tanto nelle norme che lo regolano, quanto in fattori di carattere organizzativo, e in particolare nel rapporto assolutamente inadeguato tra il volume complessivo del contenzioso civile ed il numero dei magistrati, togati e non, sui quali esso grava. Né si dimentichi il problema dell’organizzazione degli uffici e della formazione dei dirigenti. Solo per fare un esempio, la Corte d’appello di Venezia – unicamente con misure organizzative (tra cui la ciclica applicazione semestrale dei giudici dei vari Tribunali del distretto) – è riuscita a passare dalla fissazione di udienza di precisazione delle conclusioni a 7 anni (alla fine della prima decade del 2000) a sezioni che oggi rinviano di 4-6 mesi, o fanno addirittura precisare le conclusioni in prima udienza (con una media di rinvio per precisazione delle conclusioni inferiore ai due anni), attingendo a tassi di velocità migliori della – pur notoria sotto questo profilo – Corte d’appello di Trento. E questo senza cambiare le norme del codice, senza abusare del filtro ex artt. 348 bis e ter c.p.c. e solo grazie all’iniziativa dei dirigenti.
Dall’ultimo rapporto CEPEJ disponibile, che si riferisce al 2016 e si fonda su dati forniti dal Ministero della giustizia, si evince che, sui 38 Paesi presi in considerazione, l’Italia è al trentesimo posto per numero di magistrati togati (al netto di quelli addetti alle Procure) e addirittura al terzultimo per numeri di magistrati non togati. Messi insieme i due dati, nessun altro Paese sta peggio del nostro. Per intenderci con qualche esempio, la Germania ha 24 togati (x 100 mila abitanti) contro i nostri 11, e 112 non togati contro i nostri 6; la Francia ha un togato in meno rispetto a noi (10 contro 11), ma ha 27 non togati contro i nostri 6; la Spagna ha un togato in più (12) e quasi il triplo dei nostri non togati (17).
A ciò si aggiunga che i dati testé richiamati sono dati aggregati, che non distinguono tra magistrati (giudicanti) addetti al civile e al penale. Sicché, poiché nel nostro Paese il processo penale assorbe notoriamente risorse ben maggiori rispetto a quello civile, è lecito pensare che la situazione della giustizia civile sia, per tale profilo, finanche peggiore di quanto già non risulti dal confronto che precede.
Le ragioni dell’ormai più che quarantennale crisi della giustizia civile (acclarata quanto meno a partire dalla metà degli anni ‘80 del secolo scorso) sono dunque di ordine prevalentemente strutturale; e di questo è da tempo convinta non soltanto la generalità degli studiosi, ma anche la stragrande maggioranza degli avvocati italiani. Ed invece tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi decenni, senza alcuna eccezione, sono intervenuti principalmente sul rito, al dichiarato fine di realizzare gli obiettivi della “semplificazione” e dell’“efficienza” del processo, ma in realtà comprimendo sempre più le garanzie e i poteri difensivi delle parti. I risultanti deludenti sono sotto gli occhi di tutti; ché, se un modestissimo miglioramento si è registrato negli ultimi anni relativamente al rapporto tra cause sopravvenute e cause definite (e conseguentemente alla mole dell’arretrato), ciò è dipeso esclusivamente da un considerevole calo delle sopravvenienze (a sua volta verosimilmente dovuto alla crisi economica e al notevolissimo incremento dei costi della giustizia), che attualmente – stando ancora ai dati CEPEJ – appare perfettamente in linea con la media europea.
Fatta questa premessa, l’idea che l’efficienza del processo civile possa incrementarsi (e la sua durata ridursi) con l’eliminazione di una o più memorie o di una o più udienze appare fatalmente destinata all’insuccesso: è la stessa idea che spinse il legislatore del 1990, ad es., ad eliminare l’udienza di discussione davanti al collegio, che negli anni ‘80 veniva talora fissata, in alcuni uffici giudiziari, a due o tre anni di distanza dall’udienza di precisazione delle conclusioni. Ma l’unico risultato è stato – com’è noto – un’analoga dilatazione del tempo intercorrente tra la conclusione della fase istruttoria e l’udienza di precisazione delle conclusioni. Il problema insuperabile è infatti rappresentato dal famigerato “collo di bottiglia”, per cui ciascun magistrato non può decidere più di un certo numero di cause in un dato periodo. E la conferma è offerta – ove mai ve ne fosse bisogno – proprio dall’abnorme durata media dei processi di appello (che si esauriscono di regola in due sole udienze, una delle quali non sarebbe neppure necessaria de iure) e di cassazione (che oggi neppure prevede più la fissazione di una pubblica udienza). È noto, inoltre, che vi sono taluni uffici giudiziari (quelli, ovviamente, con un più favorevole rapporto tra mole del contenzioso e dotazione organica) in cui la durata dei processi civili è molto più contenuta ed accettabile rispetto alla media nazionale; il che rappresenta ulteriore conferma del fatto che il problema non attiene al rito, bensì alle risorse, in primis (ma non soltanto) umane, disponibili.
Così stando le cose, se questo Governo volesse realmente distinguersi – in questo importante settore – da quelli che l’hanno preceduto, dovrebbe anzitutto accantonare l’idea di una riforma della giustizia “a costo zero” – che purtroppo ha rappresentato, negli ultimi decenni – l’immancabile premessa di ogni intervento legislativo in subjecta materia, e poi dovrebbe domandarsi in quale modo sia possibile incrementare la produttività degli uffici giudiziari, senza nel contempo (ulteriormente) ridurre l’attendibilità delle decisioni (e dunque, per intenderci, senza prospettare soluzioni deleterie e palesemente incostituzionali quali, ad es., quella della motivazione “a richiesta”, che era stata propugnata alcuni anni fa).
Un primo passo meritorio in questa direzione potrebbe essere quello di rivedere e migliorare l’unico intervento strutturale operato negli ultimi anni, ossia la riforma della magistratura onoraria di cui al d.lgs. n. 116/2017. Nella sua attuale formulazione, tale riforma desta non poche perplessità, legate soprattutto all’enorme aumento della competenza del giudice di pace nonché al misero trattamento economico previsto per i magistrati onorari; ma con opportune modifiche – nonché con la previsione di un’adeguata pianta organica – l’entrata in vigore delle nuove norme sulla competenza (prevista per l’autunno del 2021) e la concreta attuazione dell’“ufficio per il processo”, cui saranno addetti tutti i magistrati onorari di prima nomina, potrebbero realmente incidere in misura apprezzabile sulla produttività dei magistrati togati, sul carico di lavoro dei tribunali, e conseguentemente sulla durata media dei processi civili.
Sempre sul piano dei possibili interventi da realizzare, si segnala l’opportunità di riprendere la revisione delle circoscrizioni giudiziarie ed avviare quella delle piante organiche degli uffici giudiziari (personale della magistratura e personale amministrativo).
Inoltre, appare necessaria un’opera di “pulizia” complessiva della disciplina del processo, per eliminare le contraddizioni e le “incrostazioni”, originate, per lo più, dalla sovrapposizione degli interventi legislativi succedutisi nel corso del tempo, e aventi spesso carattere settoriale, ma con ricadute anche su istituti non direttamente interessati dalle modifiche legislative.
Tanto premesso in linea generale, in merito alle singole disposizioni dello schema di legge delega sembra possibile osservare quanto segue.
Sull’art. 2
In generale, i risultati della mediazione e nella negoziazione assistita obbligatorie sono stati – com’era stato ampiamente previsto – alquanto modesti. Tuttavia vi sono settori ove si sono avute esperienze confortanti, come ad es., in qualche distretto, quello della responsabilità degli esercenti la professione sanitaria.
Al riguardo, va segnalata l’opportunità di prevedere una fungibilità trasversale e totale tra l’utilizzo dell’uno o dell’altro strumento di ADR: una volta che sia stato attivato l’uno, si deve considerare integrata l’eventuale condizione di procedibilità prevista in relazione all’altro. Pertanto, se in una causa rientrante nell’elenco dell’art. 5, co. 1 bis, d.lgs. n. 28/2010, si è fatto ricorso alla negoziazione assistita, e questa è fallita, la condizione di procedibilità deve considerarsi oramai integrata (senza costringere le parti a perseverare in istanze conciliative che si sono già dimostrate inutili); lo stesso se, per una causa di valore fino a cinquantamila euro, si sia fatto ricorso alla mediazione pur non obbligatoria. Ciò consentirebbe anche di meglio coordinare l’intervento con quanto previsto dall’art. 8, co. 2, l. 24/17, nel senso di un ricorso esclusivo all’accertamento tecnico preventivo ex art. 696 bis c.p.c. (anziché alla mediazione) quale condizione di proponibilità della domanda giudiziale.
sulla lettera g): la possibilità di dar corso, nell’ambito della procedura di negoziazione assistita, ad un subprocedimento (sostanzialmente) di istruzione preventiva affidata esclusivamente agli avvocati sarebbe sicuramente fonte di complicazioni ed abusi, rendendo oltretutto spesso necessario l’intervento del giudice, vuoi quando i terzi si rifiutino di rendere le dichiarazioni loro richieste, vuoi, successivamente, in sede di (eventuale) rinnovazione della prova. Inoltre, la prevista utilizzabilità nel successivo, eventuale processo delle prove assunte in via preventiva (lett. g, num. 3) rischia di indebolire, anziché rendere più efficace, la negoziazione assistita quale strumento alternativo di risoluzione delle controversie (tanto è vero che, in ordine alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite in sede stragiudiziale vige di norma l’obbligo di riservatezza e la prescrizione di non utilizzabilità nel successivo, eventuale, giudizio, quale guarentigia per l’efficienza dello strumento stesso: art. 9, d.l. 132/2014 e art. 10 d.lgs. 28/2010).
Si propone, infine, di valutare l’opportunità di inserire, quali strumenti di risoluzione alternativa delle controversie, figure di risoluzione eteronoma affidati ad organi terzi ed imparziali rispetto alle parti e dotati di specifica competenza nella materia (quali modelli di riferimento, si pensi all’ABF, all’ACF e ai sistemi di risoluzione in via amministrativa delle controversie). Ciò, eventualmente, anche prevedendo che il ricorso agli stessi sia obbligatorio e costituisca condizione di procedibilità della domanda in sede giurisdizionale. All’esito del procedimento, da svolgersi in contraddittorio, dovrebbe essere emessa una decisione, a fronte della quale dovrebbe essere garantita, a ciascuna delle parti, la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria in un giudizio di piena giurisdizione. Un tale sistema, se assistito dalle opportune garanzie, appare in grado di deflazionare il contenzioso, nel rispetto dei principi costituzionali e sovranazionali sul diritto di agire in giudizio (art. 24 Cost, art. 6 CEDU, art. 47 Carta dei diritti fondamentali UE), come chiarito sia dalla Corte costituzionale, sia dalla Corte EDU, sia dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Sull’art. 3 In generale
Il fatto che il legislatore riservi alcune controversie alla decisione del tribunale in composizione collegiale, in ragione della loro particolare delicatezza, non implica affatto che le cause attribuite al giudice monocratico siano necessariamente più semplici e dunque si prestino ad essere senz’altro trattate con un rito “semplificato”. Per tale ragione non sembra affatto irragionevole la scelta del legislatore del 2009 di prevedere nell’ambito di tali controversie la possibilità di scelta tra un rito “ordinario” e un rito “sommario”, anche se quest’ultimo meriterebbe una disciplina più puntuale su alcuni profili di notevole rilievo pratico, quali il momento di operatività delle preclusioni istruttorie e le concrete modalità di articolazione del contraddittorio.
La scelta dello schema di legge delega va invece in un’opposta direzione, ossia quella di prevedere un unico rito “semplificato”, caratterizzato da un rigido sistema di preclusioni, per tutte le cause attribuite al giudice monocratico. Come già osservato, peraltro, l’idea che il processo si acceleri irrigidendo il regime delle preclusioni non ha riguardo per i diritti delle parti. Invero, costituisce una diffusa opinione che un processo a preclusioni come l’attuale, specie per quanto attiene alle ferree preclusioni in appello che non consentono alcun “recupero” rispetto ad eventuali lacune difensive in primo grado, rischia di allontanare l’esito giudiziale da quello che dovrebbe essere il suo obiettivo naturale, cioè la maggiore possibile approssimazione alla verità materiale. Rendere ancora più stringente il sistema di preclusioni – a tutto discapito delle parti, fermi i tempi incontrollabili dell’attività del giudice e dei suoi ausiliari – finisce con l’estraniare il risultato finale del processo dall’obiettivo di una giusta definizione della contesa tra le parti.
E non è una notazione secondaria quella per cui la giurisprudenza, che opera nel quotidiano dell’amministrazione della giustizia, tende a recuperare, ove possibile, spazi al diritto di difesa delle parti sottraendoli all’ambito delle preclusioni (si rammentino gli oramai ultraventennali interventi sulla rilevabilità d’ufficio delle eccezioni e le aperture a ritenere che ad essa si accompagni anche la possibilità di sorreggere l’eccezione con prove nuove, financo in appello).
Al riguardo, ribadite le perplessità di ordine generale circa la possibilità di perseguire obiettivi di semplificazione e accelerazione del processo mediante interventi sul rito, sembra possibile osservare quanto segue:
sull’art. 3, co. 1, lettera b), nn. 1-2 (e sull’art. 4, co. 1, lettera b).
L’unico (teorico e modesto) vantaggio dell’adozione del ricorso, in luogo della citazione oggi prevista per il rito ordinario, dovrebbe consistere nel consentire al giudice una migliore programmazione del proprio lavoro, attraverso una razionale distribuzione delle nuove cause tra le diverse udienze. In realtà, però, ove si consideri che il margine entro cui il giudice può spaziare ammonterebbe – de iure – a meno di quaranta giorni (dovendo egli fissare l’udienza a non più di quattro mesi, ma in modo tale da consentire il rispetto del termine di comparizione di ottanta giorni), il risultato sarebbe addirittura peggiore di quello consentito nell’attuale rito ordinario dall’art. 168 bis, 5° co., c.p.c. che consente al giudice di differire la prima udienza fino ad un massimo di quarantacinque giorni rispetto alla data fissata dall’attore nell’atto di citazione.
L’esperienza, inoltre, ha dimostrato che il sistema del ricorso, applicato in situazioni di eccessivo carico di lavoro, porta alla sistematica (e spesso clamorosa) violazione dei termini (ordinatori) entro cui il giudice dovrebbe fissare la prima udienza, che ben difficilmente potrebbe trovare argine adeguato sul piano disciplinare. In talune sezioni lavoro dei tribunali e delle corti, ad es., la prima udienza viene fissata, specie in appello, perfino ad un paio di anni dal deposito del ricorso introduttivo.
Del resto, la riforma finisce paradossalmente per condurre ad un possibile allungamento dei tempi di fissazione della prima udienza. Oggi il legale dell’attore fissa la prima udienza a novanta giorni liberi di distanza dalla notifica della citazione. Là dove sia possibile il ricorso alla notifica via PEC (convenuto persona giuridica o professionista, opposizione a decreto ingiuntivo), e non vi sia da tenere in conto i possibili giorni di compiuta giacenza, si può davvero avere l’udienza il novantunesimo giorno successivo a quello della notifica. Con la riforma questi tempi si allungano, senza nessuna garanzia di essere rispettati. Se l’udienza di prima comparizione delle parti viene fissata in un termine non superiore a quattro mesi, è chiaro che passiamo da novantuno a centoventi giorni. Né si trascuri che, nel nuovo sistema, troppo spesso si renderà necessaria la fissazione di una nuova prima udienza di comparizione: se il convenuto deve avere a disposizione ottanta giorni, e deve costituirsi trenta giorni prima dell’udienza fissata a centoventi giorni, risultando con ciò “occupati” centodieci giorni dei centoventi previsti, è evidente che in dieci giorni sarà necessario che il presidente riceva dalle iscrizioni a ruolo il fascicolo telematico, che lo trasferisca al giudice istruttore, che questi fissi l’udienza con apposito decreto, e che il plico postale – non trattandosi di persona giuridica o professionista od opposto nelle opposizioni monitorie – arrivi a destinazione; ciò rende evidente che assai spesso risulterà inevitabile un rinvio della prima udienza, così che – lungi dall’avere la prima udienza di comparizione a novanta giorni – essa sarà fissata a duecentoquaranta giorni, con buona pace della ragionevole durata del processo.
Non v’è dunque alcuna seria ragione per estendere al rito ordinario il sistema del ricorso. Ove dovesse essere confermata la scelta in questa direzione, occorrerebbe peraltro prevedere che gli effetti sostanziali e processuali della domanda si realizzino già con il deposito del ricorso, nonché introdurre adeguati sistemi di sanatoria di eventuali vizi processuali che operino, per quanto possibile, con efficacia retroattiva.
sull’art. 3, co. 1, lettera b), nn. 3-4: tra le decadenze ricollegate dal n. 3) alla costituzione tempestiva del convenuto (almeno trenta giorni prima dell’udienza) non sono menzionate in alcun modo le eccezioni, di talché non è dato sapere se anche le eccezioni in senso stretto restino proponibili nel prosieguo del giudizio di primo grado (mentre per quelle rilevabili anche d’ufficio non dovrebbero esservi dubbi, dal momento che non si prevede alcuna modifica dell’attuale art. 345, co. 2°, c.p.c.). Nel contempo, peraltro, il n. 4) fa onere all’attore di proporre non oltre dieci giorni prima dell’udienza “le domande, le istanze di chiamata in causa e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale e delle eccezioni delle altre parti e replicare alle loro difese”. Quid iuris, allora, se il convenuto, non avendo intenzione di proporre riconvenzionali o di chiamare in causa terzi, si costituisce al di là del suddetto termine (o magari direttamente all’udienza), proponendo solo delle eccezioni (magari rilevabili d’ufficio) oppure delle mere difese (che certamente non sono soggette al alcuna specifica preclusione)?
sull’art. 3, co.1, lettera b), n. 5: non sembra condivisibile la previsione che limita la possibilità di precisazione e modificazione di domande eccezioni e conclusioni a quanto necessario in conseguenza delle domande ed eccezioni proposte dalla altre parti. Invero, una così rigida esclusione dello ius variandi (che si pone in vistosa controtendenza con le soluzioni messe a punto anche di recente dalla giurisprudenza di legittimità) realizza un vantaggio soltanto apparente in termini di semplificazione (e dunque accelerazione) del processo, poiché conduce inevitabilmente a limitare la portata preclusiva del giudicato e, correlativamente, a consentire la proposizione di nuove domande sulla base dei fatti non dedotti (né deducibili) nel primo processo, con evidenti riflessi negativi sul piano dell’economia “extra-processuale”.
Viene così infatti svilito il valore della concentrazione processuale, che non è fine a sé stesso, ma consente l’apertura del processo verso la possibile recezione al proprio interno non soltanto di un singolo diritto soggettivo, ma – nei limiti della diligenza delle parti – dell’intera vicenda sostanziale: il tutto con evidenti finalità di economia processuale, poiché in questo modo si evita la reiterazione dell’esperienza processuale con riguardo al medesimo “fatto della vita” e si concentrano in un unico processo, affidati ad un singolo giudice, tutte le plurime pretese che da quella vicenda sostanziale traggono linfa, evitando un ulteriore aggravio dei ruoli degli uffici giudiziari.
Sull’art. 3, co. 1, lettera c), n. 1 (e sull’art. 4. co. 1, lettera d): la fase decisoria risulterebbe oggi imperniata su un’udienza finale di discussione, e questa innovazione davvero risulta scarsamente comprensibile, per chi abbia memoria dei tempi passati.
È noto infatti, e lo si e ricordato anche sopra, che con la l. 353/1990 fu soppressa l’udienza di discussione (all’epoca “l’ultimo” incombente del processo, spesso fissato ad anni di distanza dall’udienza di precisazione delle conclusioni), nella speranza (rivelatasi poi vana) che in tal modo si sarebbero accorciati i processi in misura pari a tutto il tempo intercorrente tra l’udienza di precisazione delle conclusioni e l’udienza di discussione. Il risultato? L’udienza di precisazione delle conclusioni è divenuta “l’ultimo incombente” e ha iniziato ad essere fissata a distanza siderale dal momento di chiusura delle attività istruttorie.
Indomiti, alcuni hanno pensato di sopprimere anche l’udienza di precisazione delle conclusioni. È però evidente a tutti che, in tal caso, si addiverrebbe comunque ad un risultato per cui, tra la fine effettiva dell’attività istruttoria e la presa d’atto che l’attività istruttoria è conclusa e la causa è pronta per la decisione, verrebbe ad intercorrere quello spatium temporis che oggi viene impiegato nell’attesa dell’udienza di precisazione delle conclusioni.
Perché il problema, ovviamente, non è quello della esistenza di un’udienza finale, ma quello del “collo di bottiglia”, in connessione con il quale il giudice – quando è terminata l’attività istruttoria per una determinata causa – la avvia bensì in decisione, ma senza poter derogare al fatto che vi sono molte altre cause, per le quali già la fase istruttoria è terminata, che attendono di essere decise. Il punto è dunque quello del rapporto tra numero delle cause da decidere con sentenza ed il numero dei “decisori” (come del resto ha intuito il legislatore allorché, ferma la non sempre elevata qualità dei risultati, ha introdotto la figura dei consiglieri ausiliari di corte d’appello).
Ed allora come si può immaginare di rinverdire il modello ante 1990 di un’udienza di discussione preceduta da conclusionali e repliche? Non finirà anche questa volta, dopo l’invito a precisare le conclusioni, con la fissazione dell’udienza di discussione a chissà quanta distanza dall’ultimo incombente istruttorio e dalla precisazione delle conclusioni, in ragione della necessità per il giudice di adattarsi al “collo di bottiglia” del suo ruolo? Tra l’altro con l’ulteriore “esternalità negativa” rappresentata dalla significativa distanza tra il referente cronologico del giudicato (appunto, la precisazione delle conclusioni) ed il momento del passaggio in giudicato formale.
Né si dica: tanto l’udienza di discussione e conclusionali e repliche vengono fissate solo su istanza di parte. Non vi sarà (pressoché) mai un avvocato che non chiederà la discussione, non solo per dimostrare al cliente di aver fatto tutto il possibile per la difesa, ma anche per la struttura dei parametri forensi che (a differenza, ad es., di quanto accade in Germania, dove l’80% dei compensi viene guadagnato già nella fase introduttiva, successivamente alla quale viene meno l’interesse anche del legale a continuare la causa anziché transigerla) “caricano” molto le difese conclusionali rispetto alle fasi dello “studio controversia” e della “redazione atto introduttivo”.
Quando pure dovesse – eccezionalmente – concretizzarsi l’ipotesi della mancata richiesta di conclusionali e repliche ad opera dei legali, cui dovrebbe conseguire l’immediato invito delle parti a discutere con pronuncia di sentenza, è agevole immaginare che i giudici ricorrerebbero a facili giustificazioni (troppe udienze quella mattina, gente in coda, testi fuori dalla porta che attendono di essere sentiti) per sottrarsi all’obbligo di provocare l’immediata discussione delle parti con lettura del dispositivo.
Non solo: in questo modo si toglierebbe vitalità anche al modello decisorio dell’art. 281-sexies c.p.c., che appunto oggi consente talora al giudice di derogare al “collo di bottiglia” ed all’ordine cronologico di introito della causa in decisione, ed un domani invece – generalizzato il modello – si ritroverebbe a fornire un simulacro della (non certo rimpianta) udienza di discussione collegiale.
Sull’art. 4:
Suscita perplessità, anche in ragione della sua genericità, la previsione volta a ridurre i casi di decisione collegiale del tribunale (ferma restando l’esigenza di una razionalizzazione delle ipotesi attualmente previste dall’art. 50 bis c.p.c.). Non pare dunque possibile convenire sulla loro sostanziale cancellazione al di fuori delle cause di competenza delle sezioni specializzate. In alcune ipotesi la collegialità “supplisce” alla soppressione dell’appello (opposizioni allo stato passivo); l’omologa del concordato spersonalizza la decisione rispetto a quello che altrimenti sarebbe un “imperio” del giudice delegato; la dichiarazione di fallimento richiede una collegialità rispetto ad una decisione dall’impatto pesantissimo, e lo stesso valga per la le cause di impugnazione dei testamenti e di riduzione per lesione di legittima e per le cause sulla responsabilità dei magistrati. La parziale “razionalizzazione/ottimizzazione” dei carichi di lavoro è valore recessivo rispetto a quelli sottesi alla previsione delle ipotesi di collegialità.
In ogni caso, non si avverte la necessità di un intervento sul rito applicabile davanti al giudice collegiale, specie se realizzato nella direzione di un appiattimento del procedimento davanti al tribunale collegiale (in thesi riservato alle causa più complesse) su quello davanti al tribunale monocratico.
La proposta dovrebbe, poi, essere coordinata con la disciplina prevista per le sezioni specializzate in materia di impresa, di immigrazione, nonché con il modello processuale previsto per la tutela collettiva: con tutte quelle ipotesi, cioè, nelle quali, indipendentemente dall’art. 50 bis c.p.c., è prevista la trattazione collegiale.
Sull’art. 6:
Appare condivisibile, stante il sostanziale fallimento dell’istituto nella prassi applicativa, la soppressione del filtro in appello. Sul piano della tecnica redazionale, si segnala peraltro che, nella lett. d), l’abrogazione andrebbe estesa all’art. 348 ter c.p.c.; sarebbe necessario altresì sopprimere l’art. 436 bis c.p.c.
Solo chi non abbia esperienza del rito del lavoro può però davvero osare immaginare un appello che si promuova con ricorso. È noto a tutti che il precetto dell’art. 435 c.p.c., che pur prevedrebbe l’udienza fissata a sessanta giorni, viene smentito quotidianamente con udienze che vengono calendarizzate per non prima di un anno e mezzo/due dal deposito del ricorso (e conseguente inopinato slittare del termine per la proposizione dell’appello incidentale tardivo fino a semi-lustri di distanza dal deposito della sentenza di primo grado!).
Non si ritiene poi in nessun modo accettabile la parificazione dell’attività di riproposizione ex art. 346 c.p.c. a quella di interposizione di impugnazione incidentale ex art. 343 c.p.c. Il problema non è certo quello che in tal modo si smentirebbe un recente, ragionato intervento delle Sezioni unite (sent. n. 7940/2019), quanto il fatto di parificare attività che sono del tutto eterogenee, comportando la seconda la formulazione di una censura contro la sentenza, la prima un mero atto d’impulso rispetto a materiale che già fa parte della causa e rispetto al quale non vi è stata alcuna pronuncia (v. anche Cass., sez. un., sentenze n. 7700/2016 e n. 11799/2017).
Appare in ogni caso opportuno dettare regole per la disciplina dei nova, sia per quanto concerne la loro ammissibilità (in specie, in ordine all’allegazione e alla contestazione dei fatti), sia per quanto concerne i termini per l’esercizio delle nuove attività.
Sugli artt. 7 e 8:
La disciplina del processo telematico e delle notificazioni dovrebbe essere armonizzata e inserita in un unico corpus normativo, con la necessità di disciplinare puntualmente le cause di nullità degli atti e predisporre la generalizzata sanabilità dei vizi con efficacia retroattiva.
Con particolare riguardo al deposito dei documenti, si fa presente che l’estensione dell’obbligo di deposito con modalità telematiche a tutti gli atti e documenti, mentre non presenta particolari controindicazioni per gli atti di parte, appare eccessivo ed inopportuno per i documenti, il cui deposito telematico (che ovviamente ne presuppone la scansione, ogniqualvolta si tratti di documenti in formato cartaceo) potrebbe risultare talora pressoché impossibile, vuoi per il loro numero eccessivo, vuoi per la natura dei documenti stessi (si pensi, ad es., ai registri contabili, di cui occorrerebbe scansionare singolarmente ciascuna facciata). Pertanto, allorché non si voglia fare a tal proposito un passo indietro, limitando l’obbligo di deposito telematico ai soli atti di parte, sarebbe indispensabile lasciare quanto meno al giudice della causa la possibilità di autorizzare di volta in volta, in presenza di giustificati motivi, il deposito cartaceo dei documenti.
Sugli artt. 9 e 10:
Si tratta di interventi che, di per sé, non presentano particolari profili di criticità. Più specificamente, quanto all’art. 10, l’introduzione della possibilità che il debitore sia autorizzato a procedere direttamente alla vendita del bene pignorato appare da condividere, potendo determinare una sensibile riduzione dei costi della procedura. Sono opportunamente previste cautele atte a evitare abusi di tale facoltà per scopi dilatori.
La proposta dovrebbe poi essere coordinata con quanto previsto dall’art. 52, commi 2 bis ss., d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, nell’ambito del procedimento per la riscossione coattiva.
Sulle ulteriori osservazioni contenute nel documento che accompagna il disegno di legge delega:
a)La riduzione degli incidenti di cognizione endo-esecutivi non sembra possa promettere risultati significativi.
Le opposizioni ex art. 615 c.p.c. deducono l’inesistenza del titolo o del diritto, per cui non si vede come sia possibile sopprimerle; oggi poi l’opposizione in discorso non può più proporsi dopo che è stata disposta la vendita o l’assegnazione, salvo che sia fondata su fatti sopravvenuti (art. 615, co. 2): al limite si potrebbe prevedere espressamente la “non recuperabilità” di tale opposizione anche in fase distributiva.
Le opposizioni ex art. 617 c.p.c. s’incentrano su irregolarità formali del processo esecutivo ovvero sulla (in)opportunità di certi atti. Quanto alla irregolarità, la giurisprudenza di Cassazione ne ha ridotto il possibile impatto pretendendo che si dimostri il pregiudizio che al diritto di difesa è conseguito dalla irregolarità denunciata (e così lo stesso vizio di notifica o la mancanza della formula – Cass. n. 3967/2019 – non rilevano, se non si dimostra il concreto pregiudizio subito dalla parte). Quanto alla convenienza, in tal caso l’opposizione agli atti (in unico grado) rappresenta l’unico strumento per entrambe le parti del processo esecutivo per aprire spazi di contraddittorio rispetto al provvedimento del giudice dell’esecuzione, e pertanto non può essere soppressa se non si vuol sopprimere lo stesso contraddittorio.
b)Sui ritardi nel compimento di atti bisogna prevedere una sanzione disciplinare specifica e soprattutto non aggirabile invocando i carichi di lavoro, la disastrosa condizione dell’ufficio, ecc.; non ha senso contemplare un’ipotesi di responsabilità civile, soprattutto perché la quantificazione del danno (in caso di mero ritardo) sarebbe del tutto aleatoria ed affidata a valutazioni equitative; a ciò si potrebbe affiancare la proposta che il C.T.U. non possa chiedere proroghe se non con il consenso (o il non dissenso) di tutte le parti, e che lo stesso venga sospeso per due anni dagli albi qualora per due volte in un periodo biennale non rispetti il termine assegnato dal giudice (al di là della revoca dell’incarico e del diniego di compenso).
c)Non si reputano opportune ulteriori modifiche del giudizio di cassazione, già reso sufficientemente complesso dalla recentissima riforma del 2016. Quanto alla formazione dei ruoli, la Corte, a quanto risulta, si sta impegnando al massimo delle proprie forze; sarebbe, piuttosto, utile intervenire sul contenzioso tributario, che, ormai, costituisce quasi il 60% dei ricorsi.
d) La modifica dell’art. 369 c.p.c. non ha alcuna urgenza, dopo i due interventi delle Sez. un. (sentenze n. 8312/2019 e n. 22438/2018).
e) La proposta di modifica del processo esecutivo od abrogazione del G.E. pare contraddittoria con le premesse di semplificazione. Il giudice della cognizione verrebbe caricato di ulteriore lavoro, e l’utilizzo dei G.O.T. quali G.E. verrebbe meno con perdita grave di professionalità e competenze. Tra l’altro ciò aprirebbe il problema di un utilizzo ancor più generalizzato dei G.O.T. anche per la fase di cognizione, in deroga ai limiti imposti in qualche tribunale. La previsione di un avvio automatico dell’esecuzione dopo il deposito della sentenza pretermette la considerazione, rispondente alla comune esperienza, che il momento immediatamente successivo a tale deposito può essere utilizzato dalle parti per trattative anche suscettibili di portare alla composizione della lite, evitando i giudizi d’impugnazione e “sgravando” pertanto gli stessi. Parrebbe forse più utile considerare l’introduzione dell’istituto francese per il quale – salvi casi particolari connessi alla situazione personale della parte – la facoltà di proporre impugnazione è sospesa ove non si dimostri di aver dato esecuzione alla sentenza impugnanda: si otterrebbero così non indifferenti effetti deflattivi, specie per il grado d’appello.
Giampiero Balena, Salvatore Boccagna,
Giorgio Costantino, Marco De Cristofaro, Sergio Menchini
OSSERVAZIONI SULLE PROPOSTE DI RIFORMA DEL PROCESSO CIVILE
Giampiero Balena, Salvatore Boccagna, Giorgio Costantino, Marco De Cristofaro, Sergio Menchini
Premessa.
In riferimento al Capo I, artt. 1-10, della proposta di riforma «per l’efficienza del processo civile», occorre innanzi tutto premettere che, a prescindere dall’ovvia difficoltà di esaminare con la dovuta attenzione, e in così breve tempo, un testo alquanto complesso, non ci sembra condivisibile l’idea di nuovi interventi sulla disciplina del processo di cognizione in primo e in secondo grado, al fine di accelerare i tempi della giustizia civile.
Costituisce un assunto ormai generalmente condiviso che la ragione dell’eccessiva durata del processo civile risiede non tanto nelle norme che lo regolano, quanto in fattori di carattere organizzativo, e in particolare nel rapporto assolutamente inadeguato tra il volume complessivo del contenzioso civile ed il numero dei magistrati, togati e non, sui quali esso grava. Né si dimentichi il problema dell’organizzazione degli uffici e della formazione dei dirigenti. Solo per fare un esempio, la Corte d’appello di Venezia – unicamente con misure organizzative (tra cui la ciclica applicazione semestrale dei giudici dei vari Tribunali del distretto) – è riuscita a passare dalla fissazione di udienza di precisazione delle conclusioni a 7 anni (alla fine della prima decade del 2000) a sezioni che oggi rinviano di 4-6 mesi, o fanno addirittura precisare le conclusioni in prima udienza (con una media di rinvio per precisazione delle conclusioni inferiore ai due anni), attingendo a tassi di velocità migliori della – pur notoria sotto questo profilo – Corte d’appello di Trento. E questo senza cambiare le norme del codice, senza abusare del filtro ex artt. 348 bis e ter c.p.c. e solo grazie all’iniziativa dei dirigenti.
Dall’ultimo rapporto CEPEJ disponibile, che si riferisce al 2016 e si fonda su dati forniti dal Ministero della giustizia, si evince che, sui 38 Paesi presi in considerazione, l’Italia è al trentesimo posto per numero di magistrati togati (al netto di quelli addetti alle Procure) e addirittura al terzultimo per numeri di magistrati non togati. Messi insieme i due dati, nessun altro Paese sta peggio del nostro. Per intenderci con qualche esempio, la Germania ha 24 togati (x 100 mila abitanti) contro i nostri 11, e 112 non togati contro i nostri 6; la Francia ha un togato in meno rispetto a noi (10 contro 11), ma ha 27 non togati contro i nostri 6; la Spagna ha un togato in più (12) e quasi il triplo dei nostri non togati (17).
A ciò si aggiunga che i dati testé richiamati sono dati aggregati, che non distinguono tra magistrati (giudicanti) addetti al civile e al penale. Sicché, poiché nel nostro Paese il processo penale assorbe notoriamente risorse ben maggiori rispetto a quello civile, è lecito pensare che la situazione della giustizia civile sia, per tale profilo, finanche peggiore di quanto già non risulti dal confronto che precede.
Le ragioni dell’ormai più che quarantennale crisi della giustizia civile (acclarata quanto meno a partire dalla metà degli anni ‘80 del secolo scorso) sono dunque di ordine prevalentemente strutturale; e di questo è da tempo convinta non soltanto la generalità degli studiosi, ma anche la stragrande maggioranza degli avvocati italiani. Ed invece tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi decenni, senza alcuna eccezione, sono intervenuti principalmente sul rito, al dichiarato fine di realizzare gli obiettivi della “semplificazione” e dell’“efficienza” del processo, ma in realtà comprimendo sempre più le garanzie e i poteri difensivi delle parti. I risultanti deludenti sono sotto gli occhi di tutti; ché, se un modestissimo miglioramento si è registrato negli ultimi anni relativamente al rapporto tra cause sopravvenute e cause definite (e conseguentemente alla mole dell’arretrato), ciò è dipeso esclusivamente da un considerevole calo delle sopravvenienze (a sua volta verosimilmente dovuto alla crisi economica e al notevolissimo incremento dei costi della giustizia), che attualmente – stando ancora ai dati CEPEJ – appare perfettamente in linea con la media europea.
Fatta questa premessa, l’idea che l’efficienza del processo civile possa incrementarsi (e la sua durata ridursi) con l’eliminazione di una o più memorie o di una o più udienze appare fatalmente destinata all’insuccesso: è la stessa idea che spinse il legislatore del 1990, ad es., ad eliminare l’udienza di discussione davanti al collegio, che negli anni ‘80 veniva talora fissata, in alcuni uffici giudiziari, a due o tre anni di distanza dall’udienza di precisazione delle conclusioni. Ma l’unico risultato è stato – com’è noto – un’analoga dilatazione del tempo intercorrente tra la conclusione della fase istruttoria e l’udienza di precisazione delle conclusioni. Il problema insuperabile è infatti rappresentato dal famigerato “collo di bottiglia”, per cui ciascun magistrato non può decidere più di un certo numero di cause in un dato periodo. E la conferma è offerta – ove mai ve ne fosse bisogno – proprio dall’abnorme durata media dei processi di appello (che si esauriscono di regola in due sole udienze, una delle quali non sarebbe neppure necessaria de iure) e di cassazione (che oggi neppure prevede più la fissazione di una pubblica udienza). È noto, inoltre, che vi sono taluni uffici giudiziari (quelli, ovviamente, con un più favorevole rapporto tra mole del contenzioso e dotazione organica) in cui la durata dei processi civili è molto più contenuta ed accettabile rispetto alla media nazionale; il che rappresenta ulteriore conferma del fatto che il problema non attiene al rito, bensì alle risorse, in primis (ma non soltanto) umane, disponibili.
Così stando le cose, se questo Governo volesse realmente distinguersi – in questo importante settore – da quelli che l’hanno preceduto, dovrebbe anzitutto accantonare l’idea di una riforma della giustizia “a costo zero” – che purtroppo ha rappresentato, negli ultimi decenni – l’immancabile premessa di ogni intervento legislativo in subjecta materia, e poi dovrebbe domandarsi in quale modo sia possibile incrementare la produttività degli uffici giudiziari, senza nel contempo (ulteriormente) ridurre l’attendibilità delle decisioni (e dunque, per intenderci, senza prospettare soluzioni deleterie e palesemente incostituzionali quali, ad es., quella della motivazione “a richiesta”, che era stata propugnata alcuni anni fa).
Un primo passo meritorio in questa direzione potrebbe essere quello di rivedere e migliorare l’unico intervento strutturale operato negli ultimi anni, ossia la riforma della magistratura onoraria di cui al d.lgs. n. 116/2017. Nella sua attuale formulazione, tale riforma desta non poche perplessità, legate soprattutto all’enorme aumento della competenza del giudice di pace nonché al misero trattamento economico previsto per i magistrati onorari; ma con opportune modifiche – nonché con la previsione di un’adeguata pianta organica – l’entrata in vigore delle nuove norme sulla competenza (prevista per l’autunno del 2021) e la concreta attuazione dell’“ufficio per il processo”, cui saranno addetti tutti i magistrati onorari di prima nomina, potrebbero realmente incidere in misura apprezzabile sulla produttività dei magistrati togati, sul carico di lavoro dei tribunali, e conseguentemente sulla durata media dei processi civili.
Sempre sul piano dei possibili interventi da realizzare, si segnala l’opportunità di riprendere la revisione delle circoscrizioni giudiziarie ed avviare quella delle piante organiche degli uffici giudiziari (personale della magistratura e personale amministrativo).
Inoltre, appare necessaria un’opera di “pulizia” complessiva della disciplina del processo, per eliminare le contraddizioni e le “incrostazioni”, originate, per lo più, dalla sovrapposizione degli interventi legislativi succedutisi nel corso del tempo, e aventi spesso carattere settoriale, ma con ricadute anche su istituti non direttamente interessati dalle modifiche legislative.
Tanto premesso in linea generale, in merito alle singole disposizioni dello schema di legge delega sembra possibile osservare quanto segue.
Sull’art. 2
In generale, i risultati della mediazione e nella negoziazione assistita obbligatorie sono stati – com’era stato ampiamente previsto – alquanto modesti. Tuttavia vi sono settori ove si sono avute esperienze confortanti, come ad es., in qualche distretto, quello della responsabilità degli esercenti la professione sanitaria.
Al riguardo, va segnalata l’opportunità di prevedere una fungibilità trasversale e totale tra l’utilizzo dell’uno o dell’altro strumento di ADR: una volta che sia stato attivato l’uno, si deve considerare integrata l’eventuale condizione di procedibilità prevista in relazione all’altro. Pertanto, se in una causa rientrante nell’elenco dell’art. 5, co. 1 bis, d.lgs. n. 28/2010, si è fatto ricorso alla negoziazione assistita, e questa è fallita, la condizione di procedibilità deve considerarsi oramai integrata (senza costringere le parti a perseverare in istanze conciliative che si sono già dimostrate inutili); lo stesso se, per una causa di valore fino a cinquantamila euro, si sia fatto ricorso alla mediazione pur non obbligatoria. Ciò consentirebbe anche di meglio coordinare l’intervento con quanto previsto dall’art. 8, co. 2, l. 24/17, nel senso di un ricorso esclusivo all’accertamento tecnico preventivo ex art. 696 bis c.p.c. (anziché alla mediazione) quale condizione di proponibilità della domanda giudiziale.
sulla lettera g): la possibilità di dar corso, nell’ambito della procedura di negoziazione assistita, ad un subprocedimento (sostanzialmente) di istruzione preventiva affidata esclusivamente agli avvocati sarebbe sicuramente fonte di complicazioni ed abusi, rendendo oltretutto spesso necessario l’intervento del giudice, vuoi quando i terzi si rifiutino di rendere le dichiarazioni loro richieste, vuoi, successivamente, in sede di (eventuale) rinnovazione della prova. Inoltre, la prevista utilizzabilità nel successivo, eventuale processo delle prove assunte in via preventiva (lett. g, num. 3) rischia di indebolire, anziché rendere più efficace, la negoziazione assistita quale strumento alternativo di risoluzione delle controversie (tanto è vero che, in ordine alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite in sede stragiudiziale vige di norma l’obbligo di riservatezza e la prescrizione di non utilizzabilità nel successivo, eventuale, giudizio, quale guarentigia per l’efficienza dello strumento stesso: art. 9, d.l. 132/2014 e art. 10 d.lgs. 28/2010).
Si propone, infine, di valutare l’opportunità di inserire, quali strumenti di risoluzione alternativa delle controversie, figure di risoluzione eteronoma affidati ad organi terzi ed imparziali rispetto alle parti e dotati di specifica competenza nella materia (quali modelli di riferimento, si pensi all’ABF, all’ACF e ai sistemi di risoluzione in via amministrativa delle controversie). Ciò, eventualmente, anche prevedendo che il ricorso agli stessi sia obbligatorio e costituisca condizione di procedibilità della domanda in sede giurisdizionale. All’esito del procedimento, da svolgersi in contraddittorio, dovrebbe essere emessa una decisione, a fronte della quale dovrebbe essere garantita, a ciascuna delle parti, la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria in un giudizio di piena giurisdizione. Un tale sistema, se assistito dalle opportune garanzie, appare in grado di deflazionare il contenzioso, nel rispetto dei principi costituzionali e sovranazionali sul diritto di agire in giudizio (art. 24 Cost, art. 6 CEDU, art. 47 Carta dei diritti fondamentali UE), come chiarito sia dalla Corte costituzionale, sia dalla Corte EDU, sia dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Sull’art. 3 In generale
Il fatto che il legislatore riservi alcune controversie alla decisione del tribunale in composizione collegiale, in ragione della loro particolare delicatezza, non implica affatto che le cause attribuite al giudice monocratico siano necessariamente più semplici e dunque si prestino ad essere senz’altro trattate con un rito “semplificato”. Per tale ragione non sembra affatto irragionevole la scelta del legislatore del 2009 di prevedere nell’ambito di tali controversie la possibilità di scelta tra un rito “ordinario” e un rito “sommario”, anche se quest’ultimo meriterebbe una disciplina più puntuale su alcuni profili di notevole rilievo pratico, quali il momento di operatività delle preclusioni istruttorie e le concrete modalità di articolazione del contraddittorio.
La scelta dello schema di legge delega va invece in un’opposta direzione, ossia quella di prevedere un unico rito “semplificato”, caratterizzato da un rigido sistema di preclusioni, per tutte le cause attribuite al giudice monocratico. Come già osservato, peraltro, l’idea che il processo si acceleri irrigidendo il regime delle preclusioni non ha riguardo per i diritti delle parti. Invero, costituisce una diffusa opinione che un processo a preclusioni come l’attuale, specie per quanto attiene alle ferree preclusioni in appello che non consentono alcun “recupero” rispetto ad eventuali lacune difensive in primo grado, rischia di allontanare l’esito giudiziale da quello che dovrebbe essere il suo obiettivo naturale, cioè la maggiore possibile approssimazione alla verità materiale. Rendere ancora più stringente il sistema di preclusioni – a tutto discapito delle parti, fermi i tempi incontrollabili dell’attività del giudice e dei suoi ausiliari – finisce con l’estraniare il risultato finale del processo dall’obiettivo di una giusta definizione della contesa tra le parti.
E non è una notazione secondaria quella per cui la giurisprudenza, che opera nel quotidiano dell’amministrazione della giustizia, tende a recuperare, ove possibile, spazi al diritto di difesa delle parti sottraendoli all’ambito delle preclusioni (si rammentino gli oramai ultraventennali interventi sulla rilevabilità d’ufficio delle eccezioni e le aperture a ritenere che ad essa si accompagni anche la possibilità di sorreggere l’eccezione con prove nuove, financo in appello).
Al riguardo, ribadite le perplessità di ordine generale circa la possibilità di perseguire obiettivi di semplificazione e accelerazione del processo mediante interventi sul rito, sembra possibile osservare quanto segue:
sull’art. 3, co. 1, lettera b), nn. 1-2 (e sull’art. 4, co. 1, lettera b) l’unico (teorico e modesto) vantaggio dell’adozione del ricorso, in luogo della citazione oggi prevista per il rito ordinario, dovrebbe consistere nel consentire al giudice una migliore programmazione del proprio lavoro, attraverso una razionale distribuzione delle nuove cause tra le diverse udienze. In realtà, però, ove si consideri che il margine entro cui il giudice può spaziare ammonterebbe – de iure – a meno di quaranta giorni (dovendo egli fissare l’udienza a non più di quattro mesi, ma in modo tale da consentire il rispetto del termine di comparizione di ottanta giorni), il risultato sarebbe addirittura peggiore di quello consentito nell’attuale rito ordinario dall’art. 168 bis, 5° co., c.p.c. che consente al giudice di differire la prima udienza fino ad un massimo di quarantacinque giorni rispetto alla data fissata dall’attore nell’atto di citazione.
L’esperienza, inoltre, ha dimostrato che il sistema del ricorso, applicato in situazioni di eccessivo carico di lavoro, porta alla sistematica (e spesso clamorosa) violazione dei termini (ordinatori) entro cui il giudice dovrebbe fissare la prima udienza, che ben difficilmente potrebbe trovare argine adeguato sul piano disciplinare. In talune sezioni lavoro dei tribunali e delle corti, ad es., la prima udienza viene fissata, specie in appello, perfino ad un paio di anni dal deposito del ricorso introduttivo.
Del resto, la riforma finisce paradossalmente per condurre ad un possibile allungamento dei tempi di fissazione della prima udienza. Oggi il legale dell’attore fissa la prima udienza a novanta giorni liberi di distanza dalla notifica della citazione. Là dove sia possibile il ricorso alla notifica via PEC (convenuto persona giuridica o professionista, opposizione a decreto ingiuntivo), e non vi sia da tenere in conto i possibili giorni di compiuta giacenza, si può davvero avere l’udienza il novantunesimo giorno successivo a quello della notifica. Con la riforma questi tempi si allungano, senza nessuna garanzia di essere rispettati. Se l’udienza di prima comparizione delle parti viene fissata in un termine non superiore a quattro mesi, è chiaro che passiamo da novantuno a centoventi giorni. Né si trascuri che, nel nuovo sistema, troppo spesso si renderà necessaria la fissazione di una nuova prima udienza di comparizione: se il convenuto deve avere a disposizione ottanta giorni, e deve costituirsi trenta giorni prima dell’udienza fissata a centoventi giorni, risultando con ciò “occupati” centodieci giorni dei centoventi previsti, è evidente che in dieci giorni sarà necessario che il presidente riceva dalle iscrizioni a ruolo il fascicolo telematico, che lo trasferisca al giudice istruttore, che questi fissi l’udienza con apposito decreto, e che il plico postale – non trattandosi di persona giuridica o professionista od opposto nelle opposizioni monitorie – arrivi a destinazione; ciò rende evidente che assai spesso risulterà inevitabile un rinvio della prima udienza, così che – lungi dall’avere la prima udienza di comparizione a novanta giorni – essa sarà fissata a duecentoquaranta giorni, con buona pace della ragionevole durata del processo.
Non v’è dunque alcuna seria ragione per estendere al rito ordinario il sistema del ricorso. Ove dovesse essere confermata la scelta in questa direzione, occorrerebbe peraltro prevedere che gli effetti sostanziali e processuali della domanda si realizzino già con il deposito del ricorso, nonché introdurre adeguati sistemi di sanatoria di eventuali vizi processuali che operino, per quanto possibile, con efficacia retroattiva.
Sull’art. 3, co. 1, lettera b), nn. 3-4: tra le decadenze ricollegate dal n. 3) alla costituzione tempestiva del convenuto (almeno trenta giorni prima dell’udienza) non sono menzionate in alcun modo le eccezioni, di talché non è dato sapere se anche le eccezioni in senso stretto restino proponibili nel prosieguo del giudizio di primo grado (mentre per quelle rilevabili anche d’ufficio non dovrebbero esservi dubbi, dal momento che non si prevede alcuna modifica dell’attuale art. 345, co. 2°, c.p.c.). Nel contempo, peraltro, il n. 4) fa onere all’attore di proporre non oltre dieci giorni prima dell’udienza “le domande, le istanze di chiamata in causa e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale e delle eccezioni delle altre parti e replicare alle loro difese”. Quid iuris, allora, se il convenuto, non avendo intenzione di proporre riconvenzionali o di chiamare in causa terzi, si costituisce al di là del suddetto termine (o magari direttamente all’udienza), proponendo solo delle eccezioni (magari rilevabili d’ufficio) oppure delle mere difese (che certamente non sono soggette al alcuna specifica preclusione)?
Sull’art. 3, co.1, lettera b), n. 5: non sembra condivisibile la previsione che limita la possibilità di precisazione e modificazione di domande eccezioni e conclusioni a quanto necessario in conseguenza delle domande ed eccezioni proposte dalla altre parti. Invero, una così rigida esclusione dello ius variandi (che si pone in vistosa controtendenza con le soluzioni messe a punto anche di recente dalla giurisprudenza di legittimità) realizza un vantaggio soltanto apparente in termini di semplificazione (e dunque accelerazione) del processo, poiché conduce inevitabilmente a limitare la portata preclusiva del giudicato e, correlativamente, a consentire la proposizione di nuove domande sulla base dei fatti non dedotti (né deducibili) nel primo processo, con evidenti riflessi negativi sul piano dell’economia “extra-processuale”.
Viene così infatti svilito il valore della concentrazione processuale, che non è fine a sé stesso, m consente l’apertura del processo verso la possibile recezione al proprio interno non soltanto di un singolo diritto soggettivo, ma – nei limiti della diligenza delle parti – dell’intera vicenda sostanziale: il tutto con evidenti finalità di economia processuale, poiché in questo modo si evita la reiterazione dell’esperienza processuale con riguardo al medesimo “fatto della vita” e si concentrano in un unico processo, affidati ad un singolo giudice, tutte le plurime pretese che da quella vicenda sostanziale traggono linfa, evitando un ulteriore aggravio dei ruoli degli uffici giudiziari.
Sull’art. 3, co. 1, lettera c), n. 1 (e sull’art. 4. co. 1, lettera d): la fase decisoria risulterebbe oggi imperniata su un’udienza finale di discussione, e questa innovazione davvero risulta scarsamente comprensibile, per chi abbia memoria dei tempi passati.
È noto infatti, e lo si e ricordato anche sopra, che con la l. 353/1990 fu soppressa l’udienza di discussione (all’epoca “l’ultimo” incombente del processo, spesso fissato ad anni di distanza dall’udienza di precisazione delle conclusioni), nella speranza (rivelatasi poi vana) che in tal modo si sarebbero accorciati i processi in misura pari a tutto il tempo intercorrente tra l’udienza di precisazione delle conclusioni e l’udienza di discussione. Il risultato? L’udienza di precisazione delle conclusioni è divenuta “l’ultimo incombente” e ha iniziato ad essere fissata a distanza siderale dal momento di chiusura delle attività istruttorie.
Indomiti, alcuni hanno pensato di sopprimere anche l’udienza di precisazione delle conclusioni. È però evidente a tutti che, in tal caso, si addiverrebbe comunque ad un risultato per cui, tra la fine effettiva dell’attività istruttoria e la presa d’atto che l’attività istruttoria è conclusa e la causa è pronta per la decisione, verrebbe ad intercorrere quello spatium temporis che oggi viene impiegato nell’attesa dell’udienza di precisazione delle conclusioni.
Perché il problema, ovviamente, non è quello della esistenza di un’udienza finale, ma quello del “collo di bottiglia”, in connessione con il quale il giudice – quando è terminata l’attività istruttoria per una determinata causa – la avvia bensì in decisione, ma senza poter derogare al fatto che vi sono molte altre cause, per le quali già la fase istruttoria è terminata, che attendono di essere decise. Il punto è dunque quello del rapporto tra numero delle cause da decidere con sentenza ed il numero dei “decisori” (come del resto ha intuito il legislatore allorché, ferma la non sempre elevata qualità dei risultati, ha introdotto la figura dei consiglieri ausiliari di corte d’appello).
Ed allora come si può immaginare di rinverdire il modello ante 1990 di un’udienza di discussione preceduta da conclusionali e repliche? Non finirà anche questa volta, dopo l’invito a precisare le conclusioni, con la fissazione dell’udienza di discussione a chissà quanta distanza dall’ultimo incombente istruttorio e dalla precisazione delle conclusioni, in ragione della necessità per il giudice di adattarsi al “collo di bottiglia” del suo ruolo? Tra l’altro con l’ulteriore “esternalità negativa” rappresentata dalla significativa distanza tra il referente cronologico del giudicato (appunto, la precisazione delle conclusioni) ed il momento del passaggio in giudicato formale.
Né si dica: tanto l’udienza di discussione e conclusionali e repliche vengono fissate solo su istanza di parte. Non vi sarà (pressoché) mai un avvocato che non chiederà la discussione, non solo per dimostrare al cliente di aver fatto tutto il possibile per la difesa, ma anche per la struttura dei parametri forensi che (a differenza, ad es., di quanto accade in Germania, dove l’80% dei compensi viene guadagnato già nella fase introduttiva, successivamente alla quale viene meno l’interesse anche del legale a continuare la causa anziché transigerla) “caricano” molto le difese conclusionali rispetto alle fasi dello “studio controversia” e della “redazione atto introduttivo”.
Quando pure dovesse – eccezionalmente – concretizzarsi l’ipotesi della mancata richiesta di conclusionali e repliche ad opera dei legali, cui dovrebbe conseguire l’immediato invito delle parti a discutere con pronuncia di sentenza, è agevole immaginare che i giudici ricorrerebbero a facili giustificazioni (troppe udienze quella mattina, gente in coda, testi fuori dalla porta che attendono di essere sentiti) per sottrarsi all’obbligo di provocare l’immediata discussione delle parti con lettura del dispositivo.
Non solo: in questo modo si toglierebbe vitalità anche al modello decisorio dell’art. 281-sexies c.p.c., che appunto oggi consente talora al giudice di derogare al “collo di bottiglia” ed all’ordine cronologico di introito della causa in decisione, ed un domani invece – generalizzato il modello – si ritroverebbe a fornire un simulacro della (non certo rimpianta) udienza di discussione collegiale.
Sull’art. 4:
Suscita perplessità, anche in ragione della sua genericità, la previsione volta a ridurre i casi di decisione collegiale del tribunale (ferma restando l’esigenza di una razionalizzazione delle ipotesi attualmente previste dall’art. 50 bis c.p.c.). Non pare dunque possibile convenire sulla loro sostanziale cancellazione al di fuori delle cause di competenza delle sezioni specializzate. In alcune ipotesi la collegialità “supplisce” alla soppressione dell’appello (opposizioni allo stato passivo); l’omologa del concordato spersonalizza la decisione rispetto a quello che altrimenti sarebbe un “imperio” del giudice delegato; la dichiarazione di fallimento richiede una collegialità rispetto ad una decisione dall’impatto pesantissimo, e lo stesso valga per la le cause di impugnazione dei testamenti e di riduzione per lesione di legittima e per le cause sulla responsabilità dei magistrati. La parziale “razionalizzazione/ottimizzazione” dei carichi di lavoro è valore recessivo rispetto a quelli sottesi alla previsione delle ipotesi di collegialità.
In ogni caso, non si avverte la necessità di un intervento sul rito applicabile davanti al giudice collegiale, specie se realizzato nella direzione di un appiattimento del procedimento davanti al tribunale collegiale (in thesi riservato alle causa più complesse) su quello davanti al tribunale monocratico.
La proposta dovrebbe, poi, essere coordinata con la disciplina prevista per le sezioni specializzate in materia di impresa, di immigrazione, nonché con il modello processuale previsto per la tutela collettiva: con tutte quelle ipotesi, cioè, nelle quali, indipendentemente dall’art. 50 bis c.p.c., è prevista la trattazione collegiale.
Sull’art. 6:
Appare condivisibile, stante il sostanziale fallimento dell’istituto nella prassi applicativa, la soppressione del filtro in appello. Sul piano della tecnica redazionale, si segnala peraltro che, nella lett. d), l’abrogazione andrebbe estesa all’art. 348 ter c.p.c.; sarebbe necessario altresì sopprimere l’art. 436 bis c.p.c.
Solo chi non abbia esperienza del rito del lavoro può però davvero osare immaginare un appello che si promuova con ricorso. È noto a tutti che il precetto dell’art. 435 c.p.c., che pur prevedrebbe l’udienza fissata a sessanta giorni, viene smentito quotidianamente con udienze che vengono calendarizzate per non prima di un anno e mezzo/due dal deposito del ricorso (e conseguente inopinato slittare del termine per la proposizione dell’appello incidentale tardivo fino a semi-lustri di distanza dal deposito della sentenza di primo grado!).
Non si ritiene poi in nessun modo accettabile la parificazione dell’attività di riproposizione ex art. 346 c.p.c. a quella di interposizione di impugnazione incidentale ex art. 343 c.p.c. Il problema non è certo quello che in tal modo si smentirebbe un recente, ragionato intervento delle Sezioni unite (sent. n. 7940/2019), quanto il fatto di parificare attività che sono del tutto eterogenee, comportando la seconda la formulazione di una censura contro la sentenza, la prima un mero atto d’impulso rispetto a materiale che già fa parte della causa e rispetto al quale non vi è stata alcuna pronuncia (v. anche Cass., sez. un., sentenze n. 7700/2016 e n. 11799/2017).
Appare in ogni caso opportuno dettare regole per la disciplina dei nova, sia per quanto concerne la loro ammissibilità (in specie, in ordine all’allegazione e alla contestazione dei fatti), sia per quanto concerne i termini per l’esercizio delle nuove attività.
Sugli artt. 7 e 8:
La disciplina del processo telematico e delle notificazioni dovrebbe essere armonizzata e inserita in un unico corpus normativo, con la necessità di disciplinare puntualmente le cause di nullità degli atti e predisporre la generalizzata sanabilità dei vizi con efficacia retroattiva.
Con particolare riguardo al deposito dei documenti, si fa presente che l’estensione dell’obbligo di deposito con modalità telematiche a tutti gli atti e documenti, mentre non presenta particolari controindicazioni per gli atti di parte, appare eccessivo ed inopportuno per i documenti, il cui deposito telematico (che ovviamente ne presuppone la scansione, ogniqualvolta si tratti di documenti in formato cartaceo) potrebbe risultare talora pressoché impossibile, vuoi per il loro numero eccessivo, vuoi per la natura dei documenti stessi (si pensi, ad es., ai registri contabili, di cui occorrerebbe scansionare singolarmente ciascuna facciata). Pertanto, allorché non si voglia fare a tal proposito un passo indietro, limitando l’obbligo di deposito telematico ai soli atti di parte, sarebbe indispensabile lasciare quanto meno al giudice della causa la possibilità di autorizzare di volta in volta, in presenza di giustificati motivi, il deposito cartaceo dei documenti.
Sugli artt. 9 e 10:
Si tratta di interventi che, di per sé, non presentano particolari profili di criticità. Più specificamente, quanto all’art. 10, l’introduzione della possibilità che il debitore sia autorizzato a procedere direttamente alla vendita del bene pignorato appare da condividere, potendo determinare una sensibile riduzione dei costi della procedura. Sono opportunamente previste cautele atte a evitare abusi di tale facoltà per scopi dilatori.
La proposta dovrebbe poi essere coordinata con quanto previsto dall’art. 52, commi 2 bis ss., d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, nell’ambito del procedimento per la riscossione coattiva.
Sulle ulteriori osservazioni contenute nel documento che accompagna il disegno di legge delega:
a) La riduzione degli incidenti di cognizione endo-esecutivi non sembra possa promettere risultati significativi.
Le opposizioni ex art. 615 c.p.c. deducono l’inesistenza del titolo o del diritto, per cui non si vede come sia possibile sopprimerle; oggi poi l’opposizione in discorso non può più proporsi dopo che è stata disposta la vendita o l’assegnazione, salvo che sia fondata su fatti sopravvenuti (art. 615, co. 2): al limite si potrebbe prevedere espressamente la “non recuperabilità” di tale opposizione anche in fase distributiva.
Le opposizioni ex art. 617 c.p.c. s’incentrano su irregolarità formali del processo esecutivo ovvero sulla (in)opportunità di certi atti. Quanto alla irregolarità, la giurisprudenza di Cassazione ne ha ridotto il possibile impatto pretendendo che si dimostri il pregiudizio che al diritto di difesa è conseguito dalla irregolarità denunciata (e così lo stesso vizio di notifica o la mancanza della formula – Cass. n. 3967/2019 – non rilevano, se non si dimostra il concreto pregiudizio subito dalla parte). Quanto alla convenienza, in tal caso l’opposizione agli atti (in unico grado) rappresenta l’unico strumento per entrambe le parti del processo esecutivo per aprire spazi di contraddittorio rispetto al provvedimento del giudice dell’esecuzione, e pertanto non può essere soppressa se non si vuol sopprimere lo stesso contraddittorio.
b) Sui ritardi nel compimento di atti bisogna prevedere una sanzione disciplinare specifica e soprattutto non aggirabile invocando i carichi di lavoro, la disastrosa condizione dell’ufficio, ecc.; non ha senso contemplare un’ipotesi di responsabilità civile, soprattutto perché la quantificazione del danno (in caso di mero ritardo) sarebbe del tutto aleatoria ed affidata a valutazioni equitative; a ciò si potrebbe affiancare la proposta che il C.T.U. non possa chiedere proroghe se non con il consenso (o il non dissenso) di tutte le parti, e che lo stesso venga sospeso per due anni dagli albi qualora per due volte in un periodo biennale non rispetti il termine assegnato dal giudice (al di là della revoca dell’incarico e del diniego di compenso).
c) Non si reputano opportune ulteriori modifiche del giudizio di cassazione, già reso sufficientemente complesso dalla recentissima riforma del 2016. Quanto alla formazione dei ruoli, la Corte, a quanto risulta, si sta impegnando al massimo delle proprie forze; sarebbe, piuttosto, utile intervenire sul contenzioso tributario, che, ormai, costituisce quasi il 60% dei ricorsi.
d) La modifica dell’art. 369 c.p.c. non ha alcuna urgenza, dopo i due interventi delle Sez. un. (sentenze n. 8312/2019 e n. 22438/2018).
e) La proposta di modifica del processo esecutivo od abrogazione del G.E. pare contraddittoria con le premesse di semplificazione. Il giudice della cognizione verrebbe caricato di ulteriore lavoro, e l’utilizzo dei G.O.T. quali G.E. verrebbe meno con perdita grave di professionalità e competenze. Tra l’altro ciò aprirebbe il problema di un utilizzo ancor più generalizzato dei G.O.T. anche per la fase di cognizione, in deroga ai limiti imposti in qualche tribunale. La previsione di un avvio automatico dell’esecuzione dopo il deposito della sentenza pretermette la considerazione, rispondente alla comune esperienza, che il momento immediatamente successivo a tale deposito può essere utilizzato dalle parti per trattative anche suscettibili di portare alla composizione della lite, evitando i giudizi d’impugnazione e “sgravando” pertanto gli stessi. Parrebbe forse più utile considerare l’introduzione dell’istituto francese per il quale – salvi casi particolari connessi alla situazione personale della parte – la facoltà di proporre impugnazione è sospesa ove non si dimostri di aver dato esecuzione alla sentenza impugnanda: si otterrebbero così non indifferenti effetti deflattivi, specie per il grado d’appello.
Il Ministro della Giustizia ha reso noto lo schema di legge delega sulla riforma del processo penale che nei prossimi giorni dovrebbe approdare al Consiglio dei Ministri per iniziare poi l’inter parlamentare.
Com’è noto, la riforma si è resa “politicamente” necessaria in quanto collegata all’introduzione della nuova disciplina della prescrizione che la l. n. 3 del 2019 fissa al 1° gennaio 2020. E’, peraltro, problematico il rispetto di questo termine (politico) in considerazione del fatto che la scadenza della delega è fissata ad un anno dalla sua approvazione e dei “ritardi” che la stessa delega ha già avuto stante le difficoltà sorte tra i partners di Governo.
E’ noto infatti che l’ipotizzata depenalizzazione (ridefinita rimodulazione del sistema sanzionatorio per alcune contravvenzioni) ed il patteggiamento “extra-large” non hanno superato la verifica politica.
L’obiettivo della riforma doveva essere costituito dalla volontà di realizzare un processo di durata ragionevole, secondo le indicazioni della normativa costituzionale e sovranazionale.
Il punto di criticità del sistema, com’è noto, è costituito soprattutto, ma non solo, dalla durata delle indagini preliminari.
Al di là dei più o meno sofisticati meccanismi con i quali le procure dilatano i termini di indagine, la riforma intenderebbe intervenire più che sui tempi delle indagini, sui cd. tempi morti.
A tal fine, conservando in qualche modo l’attuale tempistica legata alla gravità del reato (sei mesi, più sei mesi di possibile proroga; un anno più sei mesi di possibile proroga; diciotto mesi più sei mesi di possibile proroga), si prevede come anticipato la possibilità di una sola proroga (di cui non sono precisati i presupposti ed i percorsi procedurali); tre, cinque e quindici mesi per il deposito ex art. 415 bis cpp; trenta giorni dalla domanda dell’imputato o della persona offesa entro i quali il pm depositi o la richiesta di archiviazione o quella di rinvio a giudizio. La violazione di questi adempimenti è sanzionata con la procedura disciplinare.
Al fine di rendere più trasparente ed uniforme lo svolgimento delle indagini, il pm, sentito il procuratore generale e il presidente del tribunale fisserà dei criteri di priorità nell’attività di investigazione, tenuto conto delle risorse e della criminalità presente nel territorio, da inserire nel modello organizzativo dell’ufficio redatto secondo i principi fissati dal CSM.
Al fine di decongestionare i carichi giudiziari dell’udienza preliminare e del dibattimento, lo schema di delega riforma le regole di giudizio delll’archiviazione, della sentenza di non luogo e del rito abbreviato condizionato.
Superando le logiche prognostiche ci si orienta per valutazioni di natura fattuale.
Si prevede così che il pm non eserciti l’azione penale nei casi in cui gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentano, anche se confermati in giudizio, l’accoglimento della prospettazione accusatoria; in termini omogenei è fissato il criterio al quale il gip/gup dovrà attenersi nell’orientarsi per il rinvio a giudizio. Al fine di assecondare l’ampliata possibilità che siano pronunciate decisioni di non luogo, la sentenza potrà contenere una essenziale motivazione degli elementi di fatto e di diritto.
Quanto al rito abbreviato condizionato la prova di cui si chiede l’assunzione dovrà avere il carattere della rilevanza, novità, specificità, non sovrabbondanza.
Restano marginali le altre modifiche alla disciplina dei riti speciali: la richiesta del pm di decreto penale potrà essere formulata entro un anno (e non più sei mesi) dall’iscrizione nel registro ex art. 335 cpp; a seguito del rigetto di un rito premiale nel giudizio immediato potrà essere formulata la richiesta per l’altro rito premiale (abbreviato e/ patteggiamento).
Le preventivate novità della fase del giudizio si sostanziano nella fissazione di un calendario di udienza in prosecuzione, qualora il dibattimento non si chiuda nella prima e che la consulenza e le perizie siano depositate con congruo anticipo rispetto all’udienza ad esse dedicate.
Al fine di consentire un adeguato filtro al rito monocratico non preceduto dall’udienza preliminare, trova collocazione una inedita udienza predibattimentale che potrà essere definita con una sentenza di non luogo che sarà celebrata da un giudice diverso da quello davanti al quale si terrà il dibattimento; sono tutti da definire i contorni di questa udienza, i rapporti con la fase predibattimentale e l’eventuale inserimento dei riti speciali.
Per quanto attiene al giudizio d’appello la logica della semplificazione è ancorata all’inappellabilità della sentenza di proscioglimento e di non luogo a procedere per i reati puniti con la pena pecuniaria o alternativa, eccettuate le ipotesi di cui agli artt. 590, comma 2 e 3, 590 sexies e 604 bis comma 1 c.p.; e della sentenza di condanna a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità; nonché alla celebrazione di udienze camerali non partecipate che non richiedano la rinnovazione probatoria.
La vera novità è costituita dalla monocraticità in appello delle sentenze emesse dal giudice monocratico, escluse le ipotesi di cui all’art. 550, comma 2 e-bis, f, g, cpp.
Si tratta del sostanziale recepimento di prassi invalse informalmente e di fatto in molte realtà giudiziarie con il reciproco silenzio / assenso dei giudici e delle parti.
5.In rapida sintesi sono altresì previste ulteriori modifiche tese solo alla razionalizzazione della materia: con riferimento al regime della procedibilità si prevede che il disinteresse della persona offesa connesso alla mancata ingiustificata partecipazione all’udienza equivalga a remissione totale della querela; che l’atto di querela contenga l’indicazione e l’elezione di domicilio; che per le lesioni personali stradali sia necessaria la proposizione della querela.
In ossequio a quanto deciso in sede sovranazionale l’atto di perquisizione sarà impugnabile indipendentemente dall’eventuale sequestro.
E’ fissato in € 180 l’importo per la conversione della pena detentiva in pecuniaria.
Un profilo non secondario della ipotizzata riforma riguarda il regime delle notificazioni. Si prevede che dopo la prima notifica effettuata all’imputato non detenuto, le successive siano effettuate al difensore di fiducia al quale l’imputato indicherà anche l’eventuale luogo delle successive notifiche, fermo restando che non è professionalmente inadempimento l’omessa o ritardata comunicazione all’assistito per fatto imputabile a quest’ultimo.
Volendo tentare una prima sommaria riflessione di sintesi si deve riconoscere che – per non scontentare la magistratura e l’avvocatura – la ipotizzata riforma, certamente non dannosa, è inadeguata al fine prefissato.
Ci si affida, ai soliti strumenti di semplificazione e di decongestionamento, senza incidere sui profili strutturali, anche con la previsione di incisivi strumenti di depenalizzazione e premiali.
Non si riesce a cogliere il nesso culturale e sistematico della delega con la disciplina della prescrizione di cui, invece, la riforma doveva costituire il presupposto strutturale e giustificativo.
Manca soprattutto, peraltro, nella l. n. 3 del 2019, a differenza della l. n. 103 del 2017, la individuazione di tempi – ancorchè modulabili – entro i quali celebrare i giudizi di impugnazione che sarebbero, altresì, funzionali ad una generale durata ragionevole del processo.
Santo Di Nuovo
Valutare la personalità all’interno delle prove di selezione dei magistrati è appropriato? E, sul piano pratico, è possibile? I test psicologici possono – secondo quanto richiesto in certi interventi di politici - verificare la stabilità emotiva, l’empatia e il senso di responsabilità, caratteristiche essenziali della professione del magistrato?
Cercherò di rispondere sul piano tecnico, in base alle mie competenze professionali.
I tentativi di quantificazione delle caratteristiche della mente umana risalgono a tempi lontani: nella pragmatica società statunitense del primo novecento i test psicologici venivano usati per valutare i soldati da inviare in guerra e selezionare i migliori, scegliendo quelli da ammettere ai corsi per ufficiali ed evitando di sprecare risorse per addestrare reclute poco intelligenti. Le aziende e le scuole di tutto il mondo si appropriarono di questi strumenti per misurare attitudini e capacità sia cognitive che di adattamento, spesso con usi impropri e piegati ai fini della committenza. I test servirono ad indirizzare «l’uomo giusto al posto giusto» nelle fabbriche, e relegare in «classi differenziali» gli scolari riconosciuti come ipodotati.
Non mancarono reazioni decise: alla fine degli anni ’60 negli Stati Uniti veniva segnalata la pericolosità dei tanti improvvisati ‘scrutatori di cervelli’ (Brainwatchers era il titolo di un volume pubblicato proprio in quel periodo). Cominciò in quel periodo una seria riflessione sul senso di una misurazione che va oltre gli aspetti psicofisici o neurofisiologici – facilmente studiabili in laboratorio – tentando di indagare funzioni complesse della mente umana come l’intelligenza e i tratti di personalità normale e patologica.
I test sono strumenti rigorosamente standardizzati mediante metodi psicometrici, attendibili cioè ripetibili in tempi e luoghi diversi, e validi in quanto rappresentativi di una certa funzione o area della psiche che si vuole indagare; capaci di codificare le risposte del soggetto indipendentemente dalla soggettività dell'esaminatore, e di confrontarle con le ‘norme’ riferite ad un campione rappresentativo della popolazione da cui è tratto il soggetto sottoposto ad esame. I test che rispondono a queste caratteristiche, adeguatamente costruiti e correttamente applicati, sono strumenti con indubbio fondamento scientifico, e vengono usati proficuamente in ambito scolastico, clinico, lavorativo, giudiziario. Ma il loro uso è spesso subordinato ad alcuni presupposti ideologici più che scientifici.
Il primo presupposto è che la psiche sia una realtà misurabile e quantificabile come altri aspetti del mondo fisico, mediante procedure ritenute analoghe al modello delle scienze biologiche. La mente come unità funzionale sarebbe analizzabile alla pari delle sue componenti neurofisiologiche, sicché il test costituirebbe per le funzioni psicologiche un equivalente di ciò che sono l’elettroencefalogramma o la risonanza magnetica per specifiche modalità di funzionamento organico.
Il secondo presupposto è che la psiche nelle sue diverse componenti sia valutabile in base a criteri ‘oggettivi’: ottica che in termini tecnici viene definita nomotetica, cioè basata su regole generali e valide per tutti gli individui. Le diverse misurazioni dovrebbero poi essere ricomposte – in un’ottica idiografica legata alla specifica persona - per ricavare il ‘profilo’ complessivo che la descrive.
Purtroppo quando si valuta la realtà psichica le cose non sono così semplici. La validità della valutazione dipende, oltre che dalla correttezza delle operazioni metodologiche con le quali lo strumento è stato verificato empiricamente, dalla corrispondenza con il costrutto teorico cui si fa riferimento. Mentre sul primo aspetto la psicometria ha fatto notevoli passi avanti, per cui esistono strumenti validi sul piano ‘tecnico’, rilevanti problemi persistono riguardo al riferimento ai costrutti teorici.
In particolare, la ricerca sulla personalità ha oscillato a lungo fra lo studio dei “tratti” come disposizioni stabili che caratterizzano certi individui piuttosto che altri, e l’analisi delle modificazioni prodotte nelle caratteristiche delle persone dalle interazioni che esse hanno con le situazioni e il contesto. Di conseguenza, le modalità di valutazione risentono dei criteri usati per definire la personalità: ad esempio, i questionari, tra cui il tanto citato Minnesota Multiphasic Personality Inventory (ma altri più moderni ne esistono), tentano di “obiettivare” alcuni aspetti della personalità degli individui, inquadrando le persone in categorie diagnostico-predittive presunte “oggettive”. Ma fino a che punto può essere considerata oggettiva la raccolta di dati che - per quanto provengano da risposte a domande standardizzate, valutate in modo altrettanto rigoroso, e si possa controllare in qualche modo la tendenza alla falsificazione - esprimono pur sempre la valutazione che un soggetto dà riguardo ad aspetti della propria vita psichica? Ai fini della comprensione del funzionamento psichico complessivo della persona esaminata, l’inquadramento diagnostico su basi auto-valutate è condizione necessaria ma non sufficiente, e va integrato con criteri diversi di analisi scientifica, miranti a “comprendere” globalmente il funzionamento della persona.
Non va dimenticato inoltre che il test è uno strumento mai asettico (come una radiografia o una risonanza magnetica) ma sempre inserito all’interno del rapporto tra l’operatore e il soggetto, rapporto collocato a sua volta in un preciso contesto sociale di riferimento. Solo per fare un esempio, un aspirante magistrato con profilo di personalità esente da tratti psicopatologici potrebbe poi risultare poco assertivo e molto influenzabile nelle decisioni giudiziarie: aspetti che il test non può valutare e prevedere in astratto.
In conclusione, sul piano tecnico il test offre utili indizi su aspetti cognitivi e di personalità di un futuro professionista, che sarà poi attuato nello specifico contesto in cui il lavoro viene svolto, per cui la capacità predittiva del comportamento è di tipo probabilistico. Per migliorare questa probabilità occorrono valutazioni concorrenti, come la presentazione di situazioni concrete (seppur ipotetiche) di problemi da risolvere connessi alla futura mansione lavorativa: queste potrebbero essere introdotte nella selezione dei magistrati, e non solo… sempre se possono essere ritenute compatibili con le norme generali sulle procedure concorsuali.
A questo proposito, lascio per ultima una domanda cui le mie conoscenze non mi consentono di rispondere: se è legittimo nella selezione del personale valutare - oltre le attitudini e le competenze specifiche in funzione della mansione - anche la personalità, ed escludere chi presenta certi tratti caratteriali che vengono ritenuti (da chi? e in che misura?) inadatti per una certa professione, accettando solo chi risponde ad un ipotetico profilo ottimale per quella professione (ancora una volta, definito da chi?). E se tutto ciò è legittimo, perché applicare questa valutazione solo al magistrato, e non anche alle altre categorie che prendono decisioni importanti per la vita delle persone: al medico, all’avvocato, all’economista, al dirigente d’azienda, al politico…?
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