ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Massima – 2. Il caso oggetto della pronuncia e i principi affermati dalla Cassazione – 3. Il procedimento di modifica del cognome, nel quadro delle nuove regole di attribuzione del cognome ai figli - 4. Cambiamento del cognome del figlio minorenne e contrasto tra i genitori
1. Massima
L'istanza di modifica del cognome di un minore, in caso di disaccordo tra i genitori esercenti la responsabilità genitoriale, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario secondo le disposizioni di cui agli artt. 316, secondo e terzo comma, e 337-ter, terzo comma, c.c. Il giudice è chiamato a valutare l'effettivo interesse del minore e a riconoscere la specifica rappresentanza ad acta ad uno dei genitori per presentare la domanda al Prefetto.
2. Il caso oggetto della pronuncia e i principi affermati dalla Cassazione
Con ricorso ex art. 316, comma 2, e 337-ter, comma 3, c.c., la madre di un minore, affidato in via condivisa a seguito di divorzio, adiva il Tribunale chiedendo l'aggiunta del cognome materno a quello paterno, già attribuito al figlio alla nascita. La ricorrente fondava la propria istanza sulla pronuncia della Corte costituzionale n. 131 del 2022, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’automatismo normativo che prevedeva l’attribuzione esclusiva del cognome paterno al figlio, in difetto di diverso accordo tra i genitori, nonché sul rilevante valore storico-culturale del proprio cognome, discendente da una stirpe citata da Dante nella Divina Commedia.
Il Tribunale aveva in primo gravo rigettato la domanda, ritenendo che, per i figli nati anteriormente alla pronuncia della Consulta, l’attribuzione del doppio cognome non operasse in via automatica. Aveva, inoltre, ritenuto che la domanda dovesse essere indirizzata al Prefetto, ai sensi dell’art. 89 del d.P.R. 396/2000, come sostituito dal d.P.R. 54/2012.
La Corte d’appello, diversamente opinando, accoglieva l’impugnazione, riconoscendo la competenza del giudice ordinario ai sensi dell’art. 316, comma 2, c.c., in caso di disaccordo tra i genitori su decisioni di particolare rilevanza per il figlio e, ritenuto prevalente l’interesse del minore all’aggiunta del cognome materno, disponeva direttamente la modifica dell’atto di nascita.
Il padre proponeva quindi ricorso per cassazione, denunciando il difetto di giurisdizione e la violazione delle norme sulla competenza, sostenendo che la questione avrebbe dovuto essere devoluta alla giurisdizione del Prefetto, e in caso di diniego, eventualmente al giudice amministrativo.
La Corte di Cassazione, con la pronuncia in commento, ha innanzitutto precisato che la domanda formulata nel caso di specie non riguardava l’attribuzione originaria del cognome, ma la successiva modifica dello stesso, per la quale l’art. 89 del d.P.R. n. 396/2000 prevede una procedura amministrativa da promuoversi davanti al Prefetto, risultando dunque incompetente il tribunale adito.
Tuttavia, ha chiarito che tale istanza non possa essere presentata se non sussistendo accordo tra i genitori; di guisa che, in caso di disaccordo sull’opportunità di promuovere tale domanda, è competente il giudice ordinario a decidere ai sensi degli articoli 316, commi 2 e 3, e 337-ter, comma 3, c.c., con riferimento alle scelte di maggiore rilevanza per la vita del minore.
In tale prospettiva, il giudice è chiamato a compiere una valutazione autonoma e sostanziale dell’interesse del minore, tenendo conto del carattere non pretestuoso dell’eventuale dissenso dell’altro genitore, della rilevanza dei motivi sottesi alla richiesta e dell’impatto della modifica sull’identità personale del figlio. Trattasi, in sostanza, di una funzione giurisdizionale distinta rispetto a quella demandata al Prefetto, cui spetterà poi la decisione amministrativa sulla base della domanda eventualmente autorizzata dal giudice.
Ne consegue che l’atto giurisdizionale non può disporre direttamente la modifica del cognome, ma può solo autorizzare il genitore ritenuto più idoneo a presentare, in qualità di rappresentante ad acta, la domanda al Prefetto, ma non certo direttamente disporre la modifica dell’atto di nascita con la modifica del cognome.
Sul piano sostanziale, la Suprema Corte ha comunque confermato la correttezza della valutazione effettuata dal giudice di merito quanto alla prevalenza dell’interesse del minore all’aggiunta del cognome materno, valorizzando elementi quali la storicità del cognome e la mancanza di motivazioni concrete nel rifiuto paterno.
L’analisi della pronuncia della Cassazione, condivisibile nel principio affermato, mette in rilievo la discrasia allo stato esistente tra astratta asserzione del diritto all’identità personale nella sua specifica declinazione di diritto al nome e concreta realizzazione della sua tutela, specie in riferimento all’ipotesi in cui si tratti di un minore e, mancando l’accordo dei genitori, sia necessario – nelle possibili sue differenti declinazioni – l’intervento giudiziale.
In questa prospettiva si tenterà un quadro di sintesi dei differenti profili di intersecazione dell’intervento del giudice ordinario e dell’organo amministrativo, e della partizione delle relative competenze, nel contesto di un quadro di regole e di principi giurisprudenziali non sempre perspicui.
3. Il procedimento di modifica del cognome, nel quadro delle nuove regole di attribuzione del cognome ai figli
È noto che la Corte costituzionale con la sentenza n. 131/2022[1] ha, come da tempo e da più parti auspicato[2], superato il sistema tradizionale di attribuzione del cognome ai figli fondato sulla regola del patronimico, tanto per i figli nati nel matrimonio – in relazione ai quali essa non era espressa, ma desumibile dal sistema[3] – quanto in relazione ai figli nati fuori del matrimonio ove essa era sancita all’art. 262 c.c.
Più volte sollecitata sul punto[4], con la richiamata sentenza la Corte costituzionale, nel concludere per l’illegittimità delle richiamate norme con gli artt. 2, 3 e 29 Cost., ha evidenziato l’intreccio, nella disciplina del cognome, tra il diritto all’identità personale del figlio e il principio di eguaglianza tra genitori, rilevando che la selezione della sola linea parentale paterna “oscura unilateralmente il rapporto genitoriale con la madre”, cosicché l’automatismo imposto dalla richiamata disposizione reca con sé “il sigillo di una diseguaglianza tra i genitori, che si riverbera e si imprime sulla identità del figlio, così determinando la contestuale violazione degli artt. 2 e 3 Cost.” (ibidem)[5].
A seguito dell’intervento della Corte, dunque, il doppio cognome è divenuto la regola, a meno che i genitori non siano concordi nell’attribuire uno solo dei cognomi, consentendo al figlio di vedere emergere mediante il cognome il legame con le famiglie di entrambi i rami genitoriali; il cognome, infatti, collegando l’individuo alla formazione sociale “che lo accoglie tramite lo status filiationis”, deve “radicarsi nell’identità familiare”. In maniera non pienamente condivisibile, nondimeno, tale ultimo diritto risulta cedevole di fronte alla ammissibile scelta concorde dei genitori circa l’attribuzione di uno solo dei cognomi[6].
Se, dunque, e a differenza dell’assetto definito dalla precedente sentenza della corte cost. 286/2016, il contrasto dei genitori trova rimedio non più nell’attribuzione del patronimico, bensì nell’applicazione automatica del doppio cognome; permane però una possibile fonte di conflitto tra i genitori nella determinazione dell’ordine dei cognomi. È la stessa Corte costituzionale n. 131/22 a fare riferimento all’art. 316 c.c., giusta il quale in caso di contrasto “il giudice, sentiti i genitori e disposto l'ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento, tenta di raggiungere una soluzione concordata e, ove questa non sia possibile, adotta la soluzione che ritiene più adeguata all'interesse del figlio”. Adito dai genitori o da uno solo di essi, dunque, il Tribunale interviene entrando nel merito della determinazione del cognome da attribuire al figlio, con una pronuncia che andrà a valere nei confronti dell’ufficiale di stato civile che dovrà attenervisi.
Naturalmente la rimessione al giudice della decisione – inevitabile, almeno finché non intervenga il legislatore a fissare una regola di risoluzione alternativa – si traduce in un ritardo nella formazione dell’atto di nascita del figlio, sia esso matrimoniale o non matrimoniale, “poiché non si vede come l’ufficiale dello stato civile possa darvi corso fino a quando il giudice non si sia pronunciato al riguardo”[7].
Il mutamento delle regole di attribuzione del cognome non è – lo ha espressamente affermato la sentenza 131/22, ma alcun dubbio vi sarebbe in ogni caso potuto esservi – applicabile ai figli nati prima della sua pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Il che, lo si è osservato, può comportare un trattamento differenziato anche tra fratelli (germani), conducendo ad un trattamento, tra l’altro, suscettibile di ledere l’identità personale anche in senso per così dire orizzontale, obliterando cioè l’identificazione dei fratelli come appartenenti al medesimo nucleo familiare mediante la unitaria identificazione data dall’uso dello stesso cognome, superabile solo mediante la richiesta di modifica.
La sentenza in commento - pur pronunciatasi in riferimento ad una richiesta di modifica del cognome del figlio minorenne, motivata non già dalle prefigurate esigenze di uniformizzazione dei cognomi, bensì dall’interesse del figlio di far emergere il legame con la madre – si inserisce nell’anzidescritto imprescindibile quadro di epocali cambiamenti.
Essa, infatti, vi attinge allorché conferma la decisione della corte d’appello resa ex art. 316-337 ter c.c. recante l’autorizzazione all’aggiunta del cognome materno, ritenendola ben motivata e conforme al “diritto vivente”. Si legge infatti: “In proposito, va osservato che la decisione della Corte di appello è chiaramente e diffusamente motivata, mediante il raffronto tra le ragioni esposte dalla madre, le circostanze dedotte come pregiudizievoli o ostative dal padre, raffronto maturato nel concreto ed esclusivo interesse del minore, e si colloca su un versante conforme ai principi elaborati dalla Corte Costituzionale in tema di doppio cognome e agli orientamenti di questa Corte, giacché ha riconosciuto l'apprezzabilità e la fondatezza della richiesta materna a cui ha dato la netta prevalenza, osservando che: i) il rifiuto paterno appariva emulativo (avendo, peraltro, egli prestato il proprio assenso al doppio cognome, prima della nascita del figlio salvo cambiare idea dopo la nascita); ii) non vi erano ragioni oggettive ed esplicitate; iii) il cognome materno, come non contestato, apparteneva alla famiglia dal tempo di Dante, che la aveva citata nel discorso di Cacciaguida, si connotava per rilievo storico e culturale e sarebbe stato destinato, altrimenti, a scomparire (fol. 5, decr. imp.)”.
Sotto diverso profilo, la Corte di cassazione ribadisce la rigida bipartizione tra il sistema di attribuzione del cognome al momento della nascita e i casi invece in cui si chieda la sua modifica. Viene in altri termini confermata la competenza esclusiva del prefetto in relazione alle richieste di mutamento del cognome dei figli successivi alla formazione dell’atto di nascita (e non dipendenti dal mutamento dello status filiationis), di cui al procedimento ex art. 89 d.p.r. 396/2000, che demanda all’organo amministrativo un potere valutativo, id est “un potere di natura discrezionale, che si esercita bilanciando l'interesse dell'istante (da circostanziare esprimendo le "ragioni a fondamento della richiesta"), con l'interesse pubblico alla stabilità degli elementi identificativi della persona, collegato ai profili pubblicistici del cognome stesso come mezzo di identificazione dell'individuo nella comunità sociale", rispetto alla quale "la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che la posizione giuridica del soggetto richiedente il cambio di cognome abbia natura di interesse legittimo, e che la P.A. disponga del potere discrezionale in merito all'accoglimento o meno dell'istanza (cfr. tra le tante, Cons. Stato, Sez. III, 26-09-2019, n. 6462), tenuto conto che - a fronte dell'interesse soggettivo della persona, spesso di carattere "morale" - esiste anche un rilevante interesse pubblico alla sua 'stabile identificazione nel corso del tempo' (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 15 ottobre 2013, n. 5021; Sez. IV, 26 aprile 2006, n. 2320; Sez. IV, 27 aprile 2004, n. 2752)” [8].
Ora, in relazione partitamente all’ipotesi in cui l’istanza (a) si fondi sul diritto all’identità personale/familiare del figlio, (b) provenga dai genitori congiuntamente o dal figlio stesso maggiorenne e (c) sia diretta all’aggiunta del cognome materno/paterno e/o alla sostituzione del cognome del figlio attribuito alla nascita con quello dell’altro genitore, non è prevista alcuna previa valutazione da parte del tribunale ordinario, risultando esclusivamente competente l’autorità amministrativa. Nel merito, poi, dovrebbe essere invero piuttosto remoto – ed anche tenuto conto della minore età dell’interessato – che possa opporsi un motivato diniego alla richiesta, prevalendo di norma invece l’interesse del figlio ad acquisire il cognome di entrambi i genitori[9].
In tal senso, l’intervento dell’autorità governativa opera a ben vedere in maniera complementare rispetto alla pronuncia della Corte cost. n. 131/22, consentendo un facile - sebbene non immediato e tantomeno automatico - adeguamento delle situazioni pregresse alla nuova regola del doppio cognome.
Ma più in generale, in relazione alle richieste di modifica del cognome che abbiano ad oggetto la “mera” aggiunta del cognome – il più delle volte materno – ovvero la sostituzione del cognome paterno con quello materno (così come, eventualmente, l’inverso), il margine di discrezionalità della p.a. risulta piuttosto circoscritto; deve aversi riguardo infatti al cambio di passo dettato dalla sentenza 8422/2023 del Consiglio di Stato, che ha censurato la carenza di motivazione del provvedimento con cui il prefetto – senza addurre specifiche esigenze di interesse pubblico – aveva respinto la richiesta di modifica del cognome avanzata da una figlia che, volendo recidere ogni rapporto formale con un padre da sempre assente e inadempiente ai propri doveri, aveva chiesto di portare il solo cognome della madre. Tale arresto ha in sostanza attuato una sorta di inversione dell’onere della prova, fondata sul rilievo giusta il quale “rispetto al figlio, insomma, i cognomi genitoriali sono a priori dotati di valenza identitaria, e la conservano in potenza. Il che significa che quando l’istanza di modifica resta in quel perimetro (nel senso che al cognome ereditato da un genitore si chiede di aggiungere o sostituire l’altro) non spetta al cittadino convincere l’amministrazione della bontà delle ragioni identitarie allegate alla domanda. È piuttosto l’amministrazione a dover evidenziare ‘‘specifiche ragioni di interesse pubblico ostative all’accoglimento dell’istanza’’ [10]. Trattasi di un principio affermato con riguardo al caso di richiesta effettuata dalla figlia in persona, ma senza dubbio applicabile anche allorché la richiesta provenga dai genitori.
Risultano pertanto sfumati i confini qualificatori tra diritto soggettivo ed interesse legittimo; ulteriormente assottigliati, sul piano pratico, dal riconoscimento anche nella giurisprudenza amministrativa della eccezionalità del diniego a fronte della esigenza di tutelare il diritto identitario del figlio.
4. Cambiamento del cognome del figlio minorenne e contrasto tra i genitori
Se questo è il quadro di riferimento, appare ineccepibile la statuizione della cassazione che ha ribadito come la competenza circa il mutamento del cognome spetti all’autorità amministrativa, anche allorché i genitori esercenti la responsabilità, non concordando in ordine all’istanza, previamente si rivolgano al t.o. per dirimere il conflitto.
In tali fattispecie, piuttosto, il disaccordo dei genitori impone di superare il difetto di legittimazione del genitore in ordine al compimento di un atto civile che richiede, ai sensi dell’art. 320 c.c. l’accordo[11], in mancanza del quale occorre una pronuncia autorizzativa resa ai sensi dell’art. 316-337 ter c.c. Sul piano procedimentale, è da segnalare l’intervenuta modifica dell’art. 316 c.c., cosicché ad oggi, inutilmente esperito il tentativo di conciliazione, il giudice non si limita ad indicare il genitore legittimato ad assumere la decisione, come in passato, bensì egli stesso assume la decisione che ritiene più adeguata nell’interesse del figlio. La norma ha dunque attuato l’uniformazione delle modalità di composizione del contrasto tra i genitori non in crisi indicate dall’art. 337 ter comma 3 c.c. per quelli in crisi, conferendo al giudice un potere di intervento e decisionale senz’altro idoneo ad accelerare e semplificare l’impasse decisionale, ma nel contempo (forse troppo) compressivo dell’autonomia dei genitori[12]. Infatti,
Appuntando l’attenzione, almeno per sommi capi, sul merito della decisione, il t.o. dovrà valutare se l’atto compiendo sia o meno conforme all’interesse del minore, anche ascoltando il minore se ultradodicenne e/o capace di discernimento. In linea di principio, l’identità del minore sarà meglio preservata dal doppio cognome, di guisa che la richiesta di aggiunta del cognome sarà sempre da accordare; parimenti potrà ritenersi tale quella di sostituire il cognome materno a quello paterno, almeno ogniqualvolta prevalga l’esigenza di recidere il legame con un genitore che abbia tenuto comportamenti pregiudizievoli per il figlio. In tale ultimo caso il vaglio dovrà essere particolarmente attento, proprio in considerazione del fatto che la richiesta proviene dall’altro genitore e non direttamente dal figlio. Si coglie in tale profilo tutta la delicatezza della materia, che giustifica dunque l’intervento del giudice (quello ordinario) deputato ad apprezzare funditus l’interesse del minore, nel contraddittorio delle parti e se necessario ascoltando il minore, nonché giudice deputato a riconoscere il genitore la specifica “rappresentanza ad acta”.
Appaiono pertanto in sintesi condividibili i passaggi della sentenza in commento ove si legge: “Va rimarcato, in proposito, il diverso spessore della cognizione del giudice ordinario, sempre tenuto a valutare la rispondenza del mancato consenso del genitore all'interesse del minore e il carattere non pretestuoso del diniego del consenso, nonché la concreta compatibilità di quanto richiesto (nel caso di specie, la modifica del cognome) con l'interesse del minore stesso” Rammenta la pronuncia altresì che “una tale attività di ponderazione postula comunque un'istruttoria condotta nel pieno rispetto dei principi del contraddittorio, di proporzionalità, di non automatismo della decisione; si tratta, quindi di un procedimento e di una valutazione ben diversa da quella che, una volta presentata la domanda a seguito di autorizzazione del giudice ordinario, competerà al Prefetto ai sensi della normativa sullo stato civile”.
Tali considerazioni, peraltro, rievocano alcuni passaggi di una recente sentenza del Consiglio di stato[13], che pronunciandosi in relazione alla modifica del cognome del figlio minore a seguito del secondo riconoscimento non contestuale, ha affermato che la competenza esclusiva in capo al t.m. – a discapito dell’autorità amministrativa – trova radice nella esigenza di attuazione dell'interesse della minore “a vedere accolta la domanda di cambiamento del cognome impone di ritenere che l'istanza debba presentarsi al Tribunale per i minorenni, ai sensi dell'articolo 262 c.c., nel contesto di un procedimento che garantisce la tutela dei precipui e prevalenti interessi della minore”.
Sempre che, ça va sans dire, uno dei genitori non sia decaduto dalla responsabilità genitoriale, o ne sia stato limitato nell’esercizio; in tal caso infatti è ex lege legittimato il solo genitore esercente la responsabilità e non verrà affatto in considerazione la previa valutazione del tribunale ordinario, nell’ambito dell’istanza di autorizzazione, della corrispondenza del mutamento del cognome (così come eventualmente della sua aggiunta) all’interesse del minore, che è tenuto a valutare in via diretta ed esclusiva l’istanza. In tale caso, si ritiene, la valutazione dell’organo amministrativo dovrà dunque essere condotta ponderando attentamente le ragioni addotte a fondamento, in maniera senz’altro più pregnante rispetto al caso in cui tale valutazione sia già stata condotta dal tribunale o, e a fortiori, se l’istanza sia presentata con volontà convergente da entrambi i genitori.
Fermo restando da un lato, dunque, la competenza esclusiva del prefetto in ordine al mutamento del cognome per cause diverse dallo status filiationis, e dall’altro lato la necessità, ogniqualvolta il cambiamento riguardi il minore di accertare compiutamente e in concreto se tale cambiamento corrisponda al suo interesse, non vi è chi non veda come necessariamente allo stato in caso di disaccordo dei genitori non possa superarsi alla bisafisicità della procedura, che rischia però di tradursi in una (irragionevole) duplicazione, se si ammette, come parrebbe inevitabile, che il prefetto non possa fare altro che recepire, appiattendovisi, sulle decisioni del t.o. L’affievolimento della discrezionalità amministrativa di cui si è detto in precedenza in relazione alle ipotesi in cui contrasto non vi sia, si presenta con caratteri più marcati nel caso in cui la valutazione del merito del mutamento, anche con riferimento alla corrispondenza dello stesso all’interesse del minore, sia stata effettuata dal tribunale ordinario.
Il che peraltro appare invero in linea con i tracciati percorsi della giurisprudenza amministrativa, in relazione ai quali un attento studioso ha evidenziato come il diritto al nome e il diritto all’identità personale con riferimento al figlio si estrinsecano in una ben precisa maniera, ovvero come “diritto a portare un cognome che, scelto tra le quattro opzioni possibili secondo la Corte costituzionale (doppio cognome col paterno in testa; doppio cognome col materno in testa; mono-cognome materno o mono-cognome paterno), sia il più rispondente alla rappresentazione identitaria di colui che lo deve portare”, di guisa che “in potenza, ciascuna delle quattro opzioni è lecita; e nessuna cessa di esserlo solo perché è stata scartata alla nascita”.
E se si tratta di un diritto - attuato mediante la scelta incondizionata spettante ai genitori, rappresentanti del minore – esso rimane tale anche dopo la nascita, non potendo degradare ad interesse legittimo, almeno allorché la domanda di modifica rimanga all’interno delle predette quattro opzioni[14].
Vista in questa prospettiva la sentenza della Cassazione in commento, seppur corretta, mette in evidenza un formalismo eccessivo del sistema, impostato su un dualismo di intervento che sarebbe forse tempo di superare, con l’occasione dell’auspicato intervento generale (e non oltre rimandabile) del legislatore in materia.
[1] Corte cost. 31 maggio 2022, n. 131, in Fam. e dir., 2022, 871, con nota di Sesta, Le nuove regole di attribuzione del doppio cognome tra eguaglianza dei genitori e tutela dell’identità del figlio, di Al Mureden, Cognome e identità personale
nella complessità dei rapporti familiari, e di Calvigioni, La nuova disciplina del cognome: il ruolo dell’ufficiale dello stato civile; in Giur. it., 2002, 2335, con nota di Diurni, La competizione tra valori identitari nell’attribuzione del cognome alla nascita, e di Sirgiovanni, Una pronuncia storica: l’attribuzione al figlio del cognome di entrambi i genitori (salvo diverso accordo); in Foro It., 2022, 1, 7-8, 2233; Nuova Giur. Civ., 2022, 5, 958.
[2] Cfr. Corte cost. 11 febbraio 1988, n. 176, in Dir. fam. pers., 1988, 670; Corte cost. 19 maggio 1988, n. 586, in Dir. fam. pers., 1988, 1576; Corte cost. 16 febbraio 2006, n. 61, in Familia, 2006, 931, con nota di Bugetti. In dottrina, ex plurimis, De Cicco, Cognome e principi costituzionali, in Sesta - Cuffaro (a cura di), Persona, famiglia e successioni, Napoli, 2005, 209 ss.; Gatto, Cognome del figlio riconosciuto, in M. Bianca (a cura di), Filiazione, Milano, 2014, 34; Bugetti, Riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio. Dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità, in Comm. Scialoja-Branca-Galgano, a cura di De Nova, Bologna, 2020, 245 ss.
[3] A differenza di quanto accade nell'ambito della filiazione legittima, l'attribuzione del cognome al figlio naturale è espressamente regolata all'art. 262 c.c., il quale dispone che, in caso di contemporaneo riconoscimento da parte di entrambi i genitori, è attribuito il cognome del padre; diversamente, il cognome del genitore che per primo lo riconosce. Il secondo comma della norma richiamata statuisce invece che, se la filiazione nei confronti del padre viene riconosciuta o accertata successivamente, il figlio assume il cognome paterno ovvero lo aggiunge a quello materno. La decisione circa l'aggiunta o la sostituzione del cognome, spetta, se il figlio è infrasedicenne, al giudice, viceversa a quest'ultimo. A seguito dell'intervento della Corte costituzionale (Corte cost. 23 luglio 1996, n. 297, in Giust. civ., 1996, 2475, che ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 262 nella parte in cui non prevede che il figlio naturale, nell'assumere il cognome del genitore che lo ha riconosciuto, possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere, anteponendolo o, a sua scelta, aggiungendolo a questo, il cognome precedentemente attribuitogli con atto formalmente legittimo, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale), anche il figlio che sia stato riconosciuto successivamente, ha il diritto di mantenere il cognome originariamente attribuitogli dall'ufficiale di stato civile, ove questo sia divenuto segno identificativo della persona.
[4] Calviglioni, La nuova disciplina del cognome: il ruolo dell’ufficiale dello stato civile, in Fam. e dir., 2022, p. 891. Con la sentenza n. 286 del 2016, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della normativa che imponeva, in via automatica, l’attribuzione del solo cognome paterno al figlio, anche in presenza di un accordo tra i genitori per l’aggiunta di quello materno. Tale pronuncia si colloca nel solco della giurisprudenza della Corte EDU (Cusan e Fazio c. Italia, 7 gennaio 2014, ric. n. 77/07), che aveva ravvisato la violazione degli artt. 8 e 14 CEDU. La Consulta ha censurato l’art. 262, comma 1, c.c., nella parte in cui non consentiva l’attribuzione anche del cognome materno in caso di riconoscimento contestuale da parte di entrambi i genitori. Tuttavia, l’intervento si è limitato a riconoscere la possibilità di aggiunta solo in presenza di un accordo tra i genitori, lasciando irrisolti i casi di disaccordo, nei quali continuava a operare l’automatismo del patronimico. Inoltre, la sentenza non ha attribuito ai genitori né la facoltà di scegliere l’ordine dei cognomi, né quella di attribuire al figlio il solo cognome materno. Pertanto, pur rappresentando un significativo passo verso l’uguaglianza genitoriale, la decisione non ha superato l’asimmetria strutturale del sistema, che permaneva in assenza di accordo.
[5] Cfr. Sesta, Le nuove regole di attribuzione del doppio cognome tra eguaglianza dei genitori e tutela dell’identità del figlio, cit., 880: “A bene vedere, infatti, in forza della regola enunciata dalla sentenza, i genitori sono riconosciuti arbitri della decisione di imporre al figlio il cognome di entrambi oppure quello dell’uno o dell’altro, senza che - in tale ultima ipotesi - sia previsto alcun tipo di apprezzamento e di sindacato dell’interesse del minore, che passivamente subisce una scelta comportante la perdita del cognome di uno dei rami familiari.”
[6] Sesta, op. cit., 881.
[7] Sesta, op. loc. cit.; Calvigioni, op. cit., 895.
[8] Cfr. Consiglio di Stato, Sezione III, 19 settembre 2023, n. 8422 e i richiami giurisprudenziali ivi operati, anche con riguardo ai precedenti della Corte Costituzionale. Si rimanda alla disamina di Musolino, Il cognome dei figli. Istanze pubbliche, unità familiare ed eguaglianza sostanziale dei coniugi, elementi negoziali nel rapporto fra padre e madre, in Riv. not., 2023, 35 ss.
[9] Già prima della 131/22 cfr. Tar Lazio Roma, 26 novembre 2018, n. 11410, che ha statuito come la richiesta del cambiamento di cognome, in ipotesi di soggetto minorenne, deve necessariamente provenire dai soggetti che ne hanno la rappresentanza legale, quindi, nel caso di specie dagli esercenti la potestà genitoriale. Solo nel caso in cui vi sia accordo tra i medesimi deve senza dubbio essere riconosciuta la possibilità di trasmettere ai figli, e quindi, di aggiungere al cognome paterno, anche il cognome materno.
[10] Olivero, Il Consiglio di Stato e la modifica del cognome tra interesse legittimo e diritto soggettivo, in Giur. it. 2024, 1047.
[11] T.A.R. Emilia-Romagna Parma, 6 maggio 2022, n. 115 che ha stabilito che il Prefetto non ha il potere di modificare il cognome del minore, sull'istanza di uno dei due genitori, in assenza di accordo e, anzi, in presenza del dissenso dell'altro genitore. La richiesta di modifica del cognome del figlio minore, integrando un "atto civile", può essere presentata, allora, dai genitori solo nell'esercizio della rappresentanza legale che trova la sua fonte e disciplina nell'art. 320 c.c., di guisa che deve ritenersi a tal fine imprescindibile il consenso di entrambi i genitori, fatto salvo solo il caso in cui uno di essi sia stato privato della potestà genitoriale. Cfr. anche T.A.R. Friuli-V. Giulia Trieste, 7 marzo 2019, n. 105 che ha ribadito come il Prefetto non ha il potere di modificare il cognome del minore, sull'istanza di uno dei due genitori, in assenza di accordo e, anzi, in presenza del dissenso dell'altro genitore. Infatti, in tal caso il Prefetto deve, preso atto del dissenso, sospendere ogni determinazione in merito, in attesa delle decisioni del giudice ex art. 316 c.c., cui la madre (ma anche il padre) può ricorrere per integrare questo indefettibile presupposto del procedimento amministrativo.
[12] Sesta, La riforma e il diritto di famiglia. la prospettiva paidocentrica dal diritto sostanziale al diritto processuale, in Fam. e dir., 2023, 1054; De Cristofaro, Le modificazioni apportate al codice civile dal decreto legislativo attuativo della “Legge Cartabia” (D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149). Profili problematici delle novità introdotte nella disciplina delle relazioni familiari, in Nuove leggi civ. comm.,
[13] Cons. di stato, 8 luglio 2024, n. 6000.
[14] Olivero, op. cit. 1049: “La discrezionalità dell’amministrazione, dunque, continuerà a operare solo al di fuori di quel perimetro; mentre al suo interno dovrà contenersi entro gli stretti margini di un controllo atto a evitare abusi del diritto, che si traducano, ad esempio, in richieste compulsive di variazioni, indizio di una volontà non assennata o non seria”.
Immagine: Edouard Manet, La famiglia Monet nel giardino di Argenteuil, 1874, olio su tela, cm 61 x 99, MET, New York.
Quando si parla di aggressività ci si riferisce quasi sempre a fantasie o comportamenti violenti verso sé stessi o verso gli altri. La valenza semantica del termine è certamente complessa se è vero che adgredi ha tra i suoi significati anche quello di “andare verso gli altri” in senso positivo.
Dunque l’aggressività potrebbe essere rappresentata come una sorta di Giano bifronte: una faccia distruttiva, l’altra costruttiva.
Quando assistiamo a delitti efferati e alle peggiori spettacolarizzazioni di essi, viene da pensare che forse è davvero presente nell’uomo come sua caratteristica strutturale, come oscura tendenza innata quella crudele aggressività che rivela in lui “una bestia selvaggia alla quale è estraneo il rispetto della propria specie”.
Tutti gli eventi in cui si manifesta la distruttività, lo spirito di Thanatos, sembrano perciò smentire l’idea dell’uomo animale politico di matrice aristotelica o la teoria dei giusnaturalisti i quali discettavano sull’istinto alla benevolenza, l’amore naturale che porterebbe gli uomini a interagire nella collettività anche senza esservi spinti dall’interesse o dalla paura.
In tutta l’opera di Hobbes proprio queste due componenti strutturali dell’essere umano garantiscono la nascita dello stato e delle sue leggi necessariamente restrittive delle libertà individuali. I due aspetti dell’aggressività sono presenti nelle analisi dei filosofi, nella psicologia del profondo, nella psicologia sociale. E se risulta oltremodo difficile la possibilità di conciliare le opposte tendenze, vale comunque la pena di interrogarci un po'.
È possibile come afferma Jung che le reazioni violente nascano per compensazione, ossia mediante l’aggressività la persona reagisce ad un sentimento profondo di inferiorità? Mi è capitato spesso di notare nei giovani forme di ostilità apparentemente inspiegabili.
Un giorno, fuori dal cancello della scuola nella quale insegnavo, ho assistito ad una scena orribile, ho visto negli occhi di quei due ragazzi una rabbia sorda, ho sentito le loro parole, l’esplosione violenta attraverso i pugni della loro aggressività. E quando con l’aiuto di alcuni compagni furono separati e io chiesi il motivo dello scontro, esso era di una banalità e futilità agghiaccianti: si ammazzavano di botte per un telefonino. In realtà erano due personalità deboli che si scontravano per prevalere, ciascuna per farsi riconoscere dall’altra come vincente e perciò come la più forte.
E che dire delle risse in Parlamento quando, esauriti gli strumenti del dialogo razionale, i nostri rappresentanti si esibiscono in turpiloqui e si attaccano pure fisicamente in quello spazio ristretto trasformato in un ring? Provocazioni, parolacce, insulti nel luogo istituzionale per eccellenza. Sui temi più svariati si esercita la guerriglia parlamentare. Si raggiunge spesso l’acme della schermaglia quando si discute della Giustizia che dovrebbe essere trattata come il fondamento dello stato di diritto da uomini pacati veramente al servizio della “Nazione”. Sicuramente con la pulsione distruttiva bisogna fare i conti. Freud parla di ostilità primaria degli uomini tra loro (l’homo homini lupus di hobsiana memoria), perciò la società incivilita è continuamente minacciata di distruzione. La civiltà intanto esiste, in quanto ognuno è in grado di dominare e in gran parte di reprimere i propri istinti. In questo senso la storia dell’uomo è la storia della “sua” repressione. Ovvero della rinuncia a Thanatos in nome di Eros.
La nostra difficoltà, oggi più che mai, è quella di costruire una società che non sia autodistruttiva. Tutto intorno grida, trasuda violenza: il ragazzo in guerra che stringe il suo fucile, il giovane occidentale che rapina il supermercato per comprarsi quello che c’è dentro, la donna-bambina brutalizzata ad ogni latitudine, le leggi massacrate dall’interesse particolare.
C’è chi spiega tutto ciò individuandone le cause nel deficit di valori o comunque nell’inadeguatezza di norme idonee a regolamentare i comportamenti individuali. E chi insiste, specie per quel che riguarda i giovani, nel considerare l’aggressività espressione per eccellenza della trasgressione orientata a contestare le norme vigenti o comunque a rivelarne l’insufficienza. Nel secolo passato, il Novecento breve dalle mille facce, non si contano gli intellettuali che hanno teorizzato il valore morale della violenza e di queste cattive ideologie si sono nutriti per lo più i conservatori in politica e gli opportunisti nell’etica con risultati disastrosi in entrambi gli ambiti.
Ci sono stati grandi uomini, primo fra tutti Gesù Cristo, che hanno sognato di eliminare le cause sociali che producono nell’uomo i comportamenti aggressivi: le disuguaglianze, i soprusi, le ingiustizie.
Ci sono stati e ci sono altri uomini che si impegnano, al contrario, per mantenere lo stato potenziale di belligeranza, per impedire la vittoria di Eros e purtroppo sono potenti non perché abbiano più forza nel cuore, ma perché possiedono in pochi quello che dovrebbe essere diviso fra tutti.
Siamo entrati pienamente nel secolo delle oligarchie chiuse, giustificate, esaltate, addirittura sacralizzate. Quid non mortalia pectora cogis auri sacra fames? (Quintiliano, Istituzione Oratoria, IX, 3)
Riteniamo utile pubblicare il documento approvato ieri dal Consiglio direttivo dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale, sul Pacchetto sicurezza. Già il 3 ottobre 2024 Il diritto penale italiano verso una pericolosa svolta securitaria. l’Associazione si era pronunciata sul disegno di legge n. A.S. 1236 recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”. L’Associazione conferma la critica “al ricorso al diritto penale in chiave simbolica di rafforzamento della sicurezza pubblica”. A detta critica aggiunge quella rivolta al ricorso alla decretazione d’urgenza in assenza dei requisiti costituzionali. «Il decreto-legge viene così impropriamente utilizzato come un disegno di legge ad effetto immediato, creando un precedente che potrebbe alimentare una prassi che svilisce il ruolo del Parlamento», si legge nel documento che richiama alcuni passaggi della sentenza della Corte costituzionale sent. n. 146/2024 e illustra le ragioni per cui il ricorso al decreto-legge, in assenza di requisiti di cui all’art. 77 Cost., incide negativamente sulla democrazia parlamentare ed esclude dal dibattito le minoranze politiche. È stato trasporto nel decreto-legge, recepite i sei rilievi del Presidente della Repubblica con modifiche invero assai marginali, il contenuto del disegno di legge n. A.S. 1236, Sono quattordici in nuovi reati che introducono criminalizzazioni di condotte espressive di marginalità sociale o di forme di manifestazione del dissenso »La politica sembra preferire il diritto penale “a costo zero”, rinunciando a promuovere investimenti che – essi sì nel rispetto dei principi costituzionali! – potrebbero realmente migliorare il benessere sociale, anche sotto il profilo delle condizioni della sicurezza collettiva.» I professori mettono in guardia dalle ricadute sulla efficienza della giustizia penale in termini di aumento dei procedimenti e “possibili effetti negativi sulla durata complessiva dei processi”. Mettono in guardia altresì dal conseguente “aumento della popolazione detenuta”, e ciò a fronte di sovraffollamento carcerario segnato dall’incessante, tragico, numero record dei suicidi in carcere. Il documento si conclude con l’auspicio che «in sede di conversione in legge del decreto, possano essere apportare modifiche volte a ridurre, quanto meno, i più evidenti profili di contrasto con i principi fondamentali del sistema penale» e rassegna la disponibilità immediata a prestare la propria collaborazione nelle sedi istituzionali.
SUL “PACCHETTO SICUREZZA” VARATO CON DECRETO-LEGGE
Il Consiglio direttivo dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale, nel richiamare il proprio documento del 3 ottobre 2024 sul disegno di legge n. A.S. 1236 (“Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”), ribadisce la seria e oggi concreta preoccupazione per un così vasto intervento espressione di un ricorso al diritto penale in chiave simbolica di rafforzamento della sicurezza pubblica, per di più realizzato con lo strumento della decretazione d’urgenza. Le opportune modifiche rispetto alla versione originaria del “pacchetto sicurezza”, tese a diminuire la torsione repressiva dell’intervento, appaiono nel complesso marginali e non ne modificano l’impianto complessivo. Vengono infatti introdotti, con decreto-legge, almeno quattordici nuove fattispecie incriminatrici e inasprite le pene di almeno altri nove reati. Le condotte oggetto di criminalizzazione appaiono, nella quasi totalità dei casi, espressive di marginalità sociale o di forme di manifestazione del dissenso, con interventi che – come già illustrato nel precedente comunicato della nostra Associazione – risultano per diversi profili di dubbia compatibilità con svariati principi costituzionali, compresi quelli di necessaria offensività, sussidiarietà e proporzione. Emblematica in tal senso è la pena per l’occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui (da due a sette anni di reclusione), coincidente con quella comminata dall’art. 589, co. 2, c.p. per l’omicidio con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. Con altrettanta preoccupazione registriamo oggi l’anomalo ricorso alla decretazione d’urgenza in materia penale per trasferire in un decreto-legge un intero disegno di legge presentato oltre un anno fa e al cui esame sono state dedicate un centinaio di sedute tra Camera e Senato, con l’audizione di numerosi professori ed esperti. Il decreto-legge viene così impropriamente utilizzato come un disegno di legge ad effetto immediato, creando un precedente che potrebbe alimentare una prassi che svilisce il ruolo del Parlamento. Con le parole usate in una recente sentenza dalla Corte costituzionale (sent. n. 146/2024, Pres. Barbera, Rel. Pitruzzella), ricordiamo che – anche al di fuori della materia penale – il ricorso alla decretazione d’urgenza è soggetto a limiti «fissati allo scopo di non vanificare la funzione legislativa del Parlamento». Non si può in alcun modo giustificare «lo svuotamento del ruolo politico e legislativo del Parlamento, che resta la sede della rappresentanza della Nazione (art. 67 Cost.), in cui le minoranze politiche possono esprimere e promuovere le loro posizioni in un dibattito trasparente (art. 64, secondo comma, Cost.), sotto il controllo dell’opinione pubblica». È sempre la Corte costituzionale a ricordare, da ultimo, nella sua recente sentenza che «l’ampia autonomia politica del Governo nel ricorrere al decreto-legge non equivale, tuttavia, all’assenza di limiti costituzionali. L’adozione del decreto-legge è prevista “come ipotesi eccezionale, subordinata al rispetto di condizioni precise” principi normativi e di regole giuridiche indisponibili da parte della maggioranza, a garanzia della opzione costituzionale per la democrazia parlamentare e della tutela delle minoranze politiche». Nel caso di specie, considerato che il pacchetto sicurezza è stato presentato oltre un anno fa con un disegno di legge di iniziativa governativa – e non già come decreto-legge – appare quanto meno dubitabile che siano sopravvenute effettive ragioni di necessità e urgenza in relazione a tutte le eterogenee disposizioni contenute nella quarantina di articoli del provvedimento. Ciò apre la strada a possibili questioni di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 77 Cost. Non possiamo poi fare a meno di rammentare che, nello specifico della materia penale, la riserva di legge sancita dall’art. 25, co. 2 Cost. impone un ricorso ancora più limitato alla decretazione d’urgenza. Le disposizioni penali introdotte (mai così numerose, a nostra memoria, in un solo decreto-legge) entrano immediatamente in vigore, senza un periodo di vacatio che ne consenta la previa conoscibilità, come imposto dal principio di colpevolezza (art. 27, co. 1 e 3, Cost.). Inoltre, prima ancora della conversione in legge, tali disposizioni possono produrre effetti irreversibili sulla libertà personale: si pensi, ad esempio, all’arresto eseguito in forza di una disposizione del decreto sicurezza che, in sede di conversione, dovesse essere abrogata o modificata in senso tale da non consentire più l’arresto. Pensare di garantire la sicurezza dei cittadini facendo esclusivo affidamento sul diritto penale è, d’altra parte, illusorio. Come confermano studi scientifici condotti a livello nazionale e internazionale, la creazione di nuovi reati o l’inasprimento delle pene non può garantire di per sé migliori livelli di sicurezza per i cittadini, né risolvere le cause – economiche, sociali, culturali – alla base delle forme di criminalità che si intendono contrastare. È rimasta purtroppo inascoltata, ancora una volta, la lezione di Cesare Beccaria, che così scriveva 260 anni fa nel suo “Dei delitti e delle pene”: «il proibire una moltitudine di azioni…non è prevenire i delitti che ne possono nascere, ma…è un crearne di nuovi… e il più sicuro ma il più difficil mezzo di prevenire i delitti è il perfezionare l’educazione». Più che nuovi reati, Beccaria, padre dell’illuminismo italiano ed europeo, indicava come «mezzi efficaci» per assicurare la «tranquillità pubblica» e prevenire i delitti «la notte illuminata a pubbliche spese [e] le guardie distribuite ne’ differenti quartieri della città». Gli investimenti per la sicurezza pubblica, pur non assenti nel “pacchetto sicurezza”, hanno purtroppo un peso marginale nel contesto del decreto-legge. Ancora una volta la politica sembra preferire il diritto penale “a costo zero”, rinunciando a promuovere investimenti che – essi sì nel rispetto dei principi costituzionali! – potrebbero realmente migliorare il benessere sociale, anche sotto il profilo delle condizioni della sicurezza collettiva. Viceversa, in assenza di interventi strutturali, la suggestiva quanto vaga nozione di “sicurezza pubblica”, rischia di rimanere una formula vuota e priva di riscontri concreti, come già reso palese da precedenti esperienze legislative e, proprio, da altri “decreti sicurezza”. Sono, altresì, facilmente intuibili le ricadute sulla efficienza della giustizia penale. Introdurre nuovi reati e inasprire le pene per quelli esistenti comporterà un aumento dei procedimenti, con possibili effetti negativi sulla durata complessiva dei processi. A ciò si aggiunga un probabile aumento della popolazione detenuta, senza che il provvedimento d’urgenza – che interessa anche la materia penitenziaria – introduca misure per fronteggiare le (reali) emergenze del sovraffollamento carcerario e dell’incessante, tragico, numero record dei suicidi in carcere, già denunciato dalla nostra Associazione con un comunicato alla fine dell’anno scorso. Il carcere, inoltre, rischia di aprire con maggiore frequenza le sue porte alle donne incinte o madri di figli di età inferiore a tre anni, anche in ragione del limitato numero degli ICAM - Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri (attualmente solo quattro in tutta Italia), dei quali non si prevede l’incremento.
***
Nel sottolineare e ribadire le ragioni della propria preoccupazione, l’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale auspica che, in sede di conversione in legge del decreto, possano essere apportare modifiche volte a ridurre, quanto meno, i più evidenti profili di contrasto con i principi fondamentali del sistema penale. A tal fine, l’Associazione, rappresentativa di oltre duecento professori di diritto penale, si rende disponibile sin d’ora a prestare la propria collaborazione nelle sedi istituzionali.
9 aprile 2025
Il Consiglio Direttivo
Prof. Gian Luigi Gatta (Presidente)
Prof. Vincenzo Mongillo (Vice Presidente)
Prof. Gian Paolo Demuro
Prof. Stefano Fiore
Prof. Dèsirèe Fondaroli
Prof. Carlo Longobardo
Prof. Domenico Notaro
Sommario: 1. Premessa. La “mossa del cavallo” dell’Esecutivo. – 2. Le progettate misure normative del nuovo Decreto-legge. – 3. L’illusione securitaria fra “overcriminalization” e “panpenalismo”. – 4. Sulla distorta prassi dell’impiego della decretazione d’urgenza in materia penale. Dal D.d.l. al D.l. “Sicurezza”. Prove tecniche di autoritarismo punitivo
1. Premessa. La “mossa del cavallo” dell’Esecutivo
Proprio mentre si trovava “in stato di relazione” fino al 27 marzo 2025, il D.d.l. A.C. 1660 recante «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario» (d’ora in avanti Disegno di legge)[1], e in discussione al Senato (A.S. 1236)[2], ha conosciuto un destino diverso: quello di essere trasposto in un Decreto-legge governativo.
Difatti, in data 4 aprile scorso, il Consiglio dei Ministri[3] ha approvato un Decreto-legge “Sicurezza”, che contiene diverse misure legislative, tutte aventi, quale comune denominatore, la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica/statuale.
Il testo del D.l. “Sicurezza” (di qui in avanti Decreto-legge) riprende quasi del tutto i connotati sostanziali del D.d.l. “Sicurezza”[4].
In quest’ultimo caso, si trattava – come noto – di un Disegno di legge, e come tale era stato trasmesso al Parlamento per una sua discussione, priva di termini perentori e con ampie possibilità di revisione.
Dopo oltre un anno e mezzo dalla sua formale presentazione in Parlamento[5], e considerando l’ipotesi molto concreta di ulteriori dilazioni, l’Esecutivo ha tuttavia operato una mossa decisamente “irrituale”: ha, di fatto, sottratto quel provvedimento al processo parlamentare e lo ha riscritto motu proprio, apportando alcune lievi, ma significative, modifiche.
Una decisione che non può spiegarsi se non per una ragione fondamentale: il Disegno di legge aveva infatti suscitato forti dissidi all’interno degli stessi partiti di maggioranza, e si è quindi optato per garantire “tempi certi” nell’adozione dei provvedimenti securitari, già ampiamente discussi in Parlamento, evitando così le “lungaggini” procedimentali che, come noto, contraddistinguono l’iter di approvazione di un disegno di legge[6].
Ora che il Consiglio dei Ministri lo ha approvato, il provvedimento tornerà nuovamente alle Camere. Tuttavia, essendo stato trasformato in un Decreto-legge, dovrà come è noto essere approvato – come vuole il dettato costituzionale all’art. 77, co. 2 – entro sessanta giorni per essere convertito in legge, e potrà essere oggetto di modifica solo su aspetti marginali.
Quanto all’oggetto, si tratta dell’ennesimo provvedimento inserito in una programmazione legislativa finalisticamente orientata alla tutela della sicurezza, latu sensu intesa[7], e rispetto al quale si erano già levate svariate voci critiche, sin dalla presentazione dell’ormai “defunto” Disegno di legge[8].
Non sembra inappropriato qualificare il provvedimento normativo in esame – che riprende la composita e frammentaria trama del Disegno di legge – come una sorta di “zibaldone”, in ragione della sua composita e magmatica stratificazione tematica, contenendo al proprio interno disposizioni eterogenee, anche di natura penale. Cercando comunque di raggruppare il contenuto del Decreto-legge in taluni nuclei problematici, è possibile individuare nel testo significative novità in materia di contrasto al terrorismo e alla criminalità organizzata, di amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, di sicurezza urbana, di tutela del personale appartenente al comparto “sicurezza”, di sostegno a vittime dell’usura, nonché di gestione dei detenuti e delle attività lavorative sia all’interno che all’esterno degli istituti penitenziari.
2. Le progettate misure normative del nuovo Decreto-legge
Si può procedere adesso a una ricognizione degli innesti legislativi – articolati in trentotto articoli – che l’Esecutivo ha inteso realizzare in diversi ambiti dell’ordinamento giuridico[9], a partire dagli inserimenti di cui al Capo I del Decreto-legge[10].
In apertura dell’articolato normativo, si interviene, anzitutto, in materia di prevenzione e contrasto del terrorismo internazionale e dei reati contro l’incolumità pubblica (art. 1)[11].
In questo senso, si estende il già lungo novero dei delitti di terrorismo del Codice penale, introducendo una nuova disposizione in base alla quale è punito, con la reclusione da due a sei anni, chiunque – al di fuori dei casi di cui agli artt. 270-bis e 270-quinquies – consapevolmente si procura o detiene materiale contenente istruzioni sulla preparazione o sull’uso di congegni bellici micidiali di cui all’art. 1, co. 1, L. 18 aprile 1975, n. 110, di armi da fuoco o di altre armi o di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonché su ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale.
Vengono inoltre criminalizzate, con la reclusione da sei mesi a quattro anni, le condotte di chi, con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga, diffonde o pubblicizza materiale contenente istruzioni sulla preparazione o sull’uso delle materie o sostanze indicate al medesimo comma, o su qualunque altra tecnica o metodo per il compimento di taluno dei delitti non colposi contro la personalità dello Stato di cui al Titolo I, Libro II, c.p. puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.
Nello stesso filone “anti-terroristico” rientra l’introduzione di una contravvenzione con previsione dell’arresto fino a tre mesi o dell’ammenda fino a 206 euro a carico degli esercenti dell’attività di noleggio di veicoli senza conducenti, in caso di omessa comunicazione dei dati identificativi del cliente e del veicolo (quali targa e numero di telaio), nonché gli intervenuti mutamenti della proprietà e gli eventuali contratti di subnoleggio, per il successivo raffronto effettuato dal CED, estendendo la finalità di prevenzione del terrorismo anche ai reati di criminalità organizzata, di traffico di stupefacenti, di immigrazione e contraffazione (art. 2).
Altre disposizioni del Decreto-legge mirano a rafforzare gli strumenti di prevenzione e contrasto della criminalità organizzata (artt. 3-7).
In particolare, si estendono le verifiche antimafia anche alle imprese che aderiscono al “contratto di rete”, includendole tra i soggetti sottoposti ai controlli previsti dal Codice antimafia.
Viene inoltre ridefinito il potere attribuito al Prefetto di limitare gli effetti dell’informazione antimafia, qualora l’interessato e i suoi familiari si trovino privi di mezzi di sostentamento. Si esclude, in tal senso, la possibilità di un intervento d’ufficio da parte dell’Autorità prefettizia: la limitazione potrà essere disposta esclusivamente su documentata istanza del titolare dell’impresa individuale e previo accertamento istruttorio da parte del gruppo interforze.
In attuazione della recente sentenza della Corte costituzionale n. 122 del 4 luglio 2024[12], i benefici previsti per i superstiti delle vittime della criminalità organizzata vengono estesi anche al coniuge, al convivente, ai parenti o affini entro il quarto grado del soggetto destinatario di una misura di prevenzione prevista dal Codice antimafia, ovvero sottoposto a procedimento penale per uno dei reati di cui all’art. 51, co. 3-bis, c.p.p. Tali benefici saranno tuttavia riconosciuti soltanto a condizione che, al momento dell’evento, il richiedente avesse già interrotto in modo definitivo ogni rapporto personale e patrimoniale con il soggetto coinvolto.
Infine, si amplia la disciplina relativa ai collaboratori di giustizia e ai loro familiari, prevedendo la possibilità di utilizzare documenti e identità fiscali di copertura, nonché di costituire società fittizie per lo svolgimento di attività che richiedano un elevato livello di riservatezza.
In materia di amministrazione di beni sequestrati e confiscati, si prevede l’immediato coinvolgimento degli enti locali e la competenza del giudice che, con il provvedimento di confisca, ordina la demolizione in danno.
Inoltre, si introducono disposizioni volte: a) alla semplificazione della procedura relativa alla cancellazione delle aziende inattive; b) al divieto di prestare attività lavorativa alle dipendenze di un’azienda, dopo la confisca definitiva, da parte di soggetti contigui al destinatario della confisca stessa o di coloro che siano stati condannati, anche in primo grado, per il delitto di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.); c) all’iscrizione gratuita nel registro delle imprese, da parte del Tribunale o dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, delle modifiche riguardanti le imprese sequestrate e confiscate; d) al soddisfacimento dei creditori prededucibili delle aziende mediante il prelievo delle somme disponibili nel patrimonio aziendale.
Si estende anche il termine per l’impugnazione delle misure di prevenzione personali adottate dall’Autorità giudiziaria, che passa da dieci a trenta giorni; inoltre, è stata introdotta la possibilità di utilizzare i contributi economici destinati agli enti locali per la messa in sicurezza e l’efficientamento energetico degli edifici scolastici anche per interventi su beni confiscati assegnati all’ente locale.
Oltre a recepire la nuova definizione di “articolo pirotecnico” contenuta nella normativa euro-unitaria – modificandosi contestualmente il diritto domestico in materia (art. 8) –, il Decreto-legge interviene anche in materia di revoca della cittadinanza italiana: si estende difatti da tre a dieci anni il periodo in cui può essere esercitata nei confronti dello straniero, a decorrere dalla sentenza di condanna definitiva per i gravi reati di terrorismo ed eversione, a condizione che possieda o possa acquisire un’altra cittadinanza (art. 9).
Numerose sono pure le modifiche, di cui al Capo II, «in materia di sicurezza urbana» – si potrebbe dire – latamente intesa.
Al riguardo, si introduce una nuova fattispecie di reato, con previsione della reclusione da due a sette anni, volta a sanzionare la condotta di chi, mediante violenza o minaccia, occupa o detiene senza titolo un immobile destinato a domicilio altrui o sue pertinenze, ovvero impedisce il rientro nel medesimo immobile del proprietario o di colui che lo detiene legittimamente, è punito con la reclusione da due a sette anni. Alla stessa pena soggiace peraltro chiunque si appropria di un immobile destinato a domicilio altrui o di sue pertinenze con artifizi o raggiri ovvero cede ad altri l’immobile occupato. In più, fuori dei casi di concorso nel reato, chiunque si intromette o coopera nell’occupazione dell’immobile, ovvero riceve o corrisponde denaro o altra utilità per l’occupazione medesima, soggiace alla pena prevista dal primo comma. E si precisa, infine, che non è punibile l’occupante che collabori all’accertamento dei fatti e ottemperi volontariamente all’ordine di rilascio dell’immobile[13]. È prevista poi la procedibilità d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di persona incapace, per età o per infermità, o si tratta di edifici pubblici o destinati ad uso pubblico[14].
In ambito processuale, fra le altre cose, viene inoltre puntigliosamente disciplinata una procedura volta ad accelerare la reintegrazione nel possesso dell’immobile occupato, o di sue pertinenze, a opera della polizia giudiziaria, previa richiesta del pubblico ministero e successiva convalida da parte del giudice con decreto motivato, qualora detto immobile risulti essere l’unica abitazione effettiva del denunciante (art. 10)[15].
Si inaspriscono poi le pene per i reati commessi in ambito urbano.
Viene prevista una nuova circostanza aggravante comune nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità pubblica e individuale, contro la libertà personale e contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio: quella di avere commesso il fatto all’interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie e delle metropolitane o all’interno dei convogli adibiti al trasporto di passeggeri[16].
Vengono in aggiunta rafforzati gli strumenti di deterrenza e di repressione delle truffe agli anziani, mediante l’introduzione di una specifica ipotesi di truffa aggravata, punita con la reclusione da due a sei anni e la multa da 700 a 3.000 euro, per la quale è previsto, ai sensi dell’art. 380, co. 2 c.p.p., anche l’arresto in flagranza (art. 11)[17].
Si aggrava, ai sensi dell’art. 635, co. 4, c.p., anche la pena per il reato di danneggiamento in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico qualora il fatto sia commesso con violenza alla persona o minaccia (art. 12)[18].
Il Decreto-legge reca disposizioni finalizzate a estendere l’ambito di applicazione della misura di prevenzione del divieto di accesso alle aree urbane (DACUR, c.d. Daspo urbano). Viene introdotta, a tal fine, l’osservanza del divieto di accesso nei confronti di coloro che risultino denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, nel corso dei cinque anni precedenti, per alcuno dei delitti contro la persona o contro il patrimonio. Intervenendo sull’art. 165 c.p., si stabilisce adesso che nei casi di condanna per i reati menzionati commessi nelle aree delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e nelle relative pertinenze, la concessione della sospensione condizionale della pena è comunque subordinata all’osservanza del divieto, imposto dal giudice, di accedere a luoghi o aree specificamente individuati[19].
Si estende poi l’arresto in flagranza differita, secondo l’art. 380 c.p.p., al reato di cui all’art. 583-quater c.p., in tema di lesioni personali gravi o gravissime a un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico, commesso in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico (art. 13).
Si prevede, ancora, che sia punito a titolo di illecito penale – in luogo dell’illecito amministrativo, attualmente previsto – il blocco stradale o ferroviario attuato mediante ostruzione fatta col proprio corpo (reclusione fino a un mese e la multa fino a 300 euro). La pena è aumentata (da sei mesi a due anni) se il fatto è commesso da più persone riunite (art. 14).
In materia di esecuzione della pena, si novellano profondamente gli artt. 146 e 147 c.p.[20], rendendo facoltativo, e non più obbligatorio, il rinvio dell’esecuzione della pena per le condannate incinte o madri di prole di età inferiore a un anno, e disponendo che le medesime scontino la pena, qualora non venga disposto il differimento, presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri. Inoltre è previsto che l’esecuzione della pena non può essere differita se dal differimento stesso derivi una situazione di pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti.
Particolarmente ampi risultano, per di più, i ritocchi al codice del rito penale, con l’inserimento, da parte del Decreto-legge, del nuovo art. 276-bis c.p.p.[21], nonché con la modifica di ulteriori disposizioni preesistenti[22].
Sempre per contrastare i delitti urbani considerati più molesti, il Decreto-legge interviene sull’art. 600-octies c.p. in più aspetti.
Oltre alla modifica della rubrica del reato[23], aumenta la pena del comma 1 (da uno a cinque anni, anziché fino a tre anni) per il reato di impiego di minori all’accattonaggio sino a 16 anni (non più sino a 14) e, al comma 2, criminalizza, sotto la sanzione della reclusione da due a sei anni, la condotta di chi induce un terzo all’accattonaggio, organizzi l’altrui accattonaggio, se ne avvalga o comunque lo favorisca a fini di profitto. La pena è aumentata da un terzo alla metà se il fatto è commesso con violenza o minaccia o nei confronti di persona minore degli anni sedici o comunque non imputabile (art. 16).
Sotto altro versante, si estende anche ai comuni capoluogo di città metropolitana della Regione siciliana in procedura di riequilibrio finanziario pluriennale (c.d. pre-dissesto), e che hanno sottoscritto l’accordo per il ripiano del disavanzo e il rilancio degli investimenti, l’autorizzazione ad assumere cento vigili urbani, già prevista da altra normativa interna per le città metropolitane siciliane che hanno terminato il periodo di risanamento (art. 17).
Chiudono il Capo II le numerose novelle alle «disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa» (Cannabis sativa L.) di cui alla L. 2 dicembre 2016, n. 242, che detta misure normative al fine di evitare che l’assunzione di prodotti costituiti da infiorescenze di canapa o contenenti tali infiorescenze possa favorire, attraverso alterazioni dello stato psicofisico del soggetto assuntore, comportamenti che espongano a rischio la sicurezza o l’incolumità pubblica ovvero la sicurezza stradale.
Fra le numerose modifiche introdotte vi è, in particolare, il divieto di importazione, cessione, lavorazione, distribuzione, commercio, trasporto, invio, spedizione e consegna delle infiorescenze della canapa, anche in forma semilavorata, essiccata o triturata, nonché di prodotti contenenti tali infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli olii da esse derivati. Si prevede che, in tali ipotesi, si applicano le sanzioni previste al Titolo VIII del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, «in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza».
Infine, nell’ambito della liceità della coltivazione, è stata prevista la produzione agricola di semi destinati agli usi consentiti dalla Legge entro i limiti di contaminazione stabiliti dal decreto del Ministro della Salute (art. 18).
Corposo risulta il pacchetto di norme destinate alla tutela del «personale delle forze di polizia, delle forze armate e del corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché degli organismi di cui alla legge 3 agosto 2007, n. 124» di cui al Capo III.
In primo luogo, il nuovo provvedimento normativo reca modifiche gli artt. 336, 337 e 339 c.p.[24], introducendo una circostanza aggravante dei delitti di violenza o minaccia e di resistenza a pubblico ufficiale, qualora il fatto sia commesso nei confronti di un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza. In tal caso, la pena è aumentata fino alla metà.
Inedita appare anche l’ulteriore aggravante che opera nel caso di atti violenti commessi al fine di impedire la realizzazione di infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici (art. 19).
Debutta, inoltre, sotto il tenore dell’art. 583-quater, co. 1, c.p., la nuova fattispecie di lesioni personali cagionate a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni. In questi casi, si applica la reclusione da due a cinque anni. In caso di lesioni gravi o gravissime, la pena è, rispettivamente, della reclusione da quattro a dieci anni e da otto a sedici anni. Si modifica contestualmente anche la rubrica dell’articolo di legge (art. 20)[25].
Sotto il vigore del nuovo Decreto-legge, le forze di polizia potranno indossare bodycam sulle divise, ossia dispositivi di videosorveglianza idonei a registrare l’attività operativa nei servizi di mantenimento dell’ordine pubblico, di controllo del territorio, di vigilanza di siti sensibili, nonché in ambito ferroviario e a bordo treno. La stessa facoltà è prevista nei luoghi e negli ambienti in cui vengono trattenute persone sottoposte a restrizione della libertà personale (art. 21).
In materia di tutela legale, agli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria appartenenti alle Forze di polizia a ordinamento civile o militare e al Corpo nazionale dei vigili del fuoco, indagati o imputati per fatti inerenti al servizio, nonché al coniuge, al convivente di fatto, e ai figli superstiti degli ufficiali o agenti deceduti, che intendono avvalersi di un libero professionista di fiducia, può essere corrisposta, anche in modo frazionato, su richiesta dell’interessato e compatibilmente con le disponibilità di bilancio dell’amministrazione di appartenenza, una somma, complessivamente non superiore a 10.000 euro per ciascuna fase del procedimento, destinata alla copertura delle spese legali, salva la rivalsa se al termine del procedimento è accertata la responsabilità dell’ufficiale o dell’agente a titolo di dolo (art. 22).
La medesima tutela legale è estesa agli appartenenti delle Forze armate (art. 23).
Mediante una modifica ai commi 2 e 3 dell’art. 639 c.p., in materia di «Deturpamento e imbrattamento di cose altrui», si rafforza la tutela dei beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche con la previsione, in caso di deturpamento e imbrattamento degli stessi con la finalità di ledere l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione cui il bene appartiene, della pena della reclusione da sei mesi a un anno e sei mesi (anziché da uno a sei mesi) e la multa da 1.000 a 3.000 euro (anziché da 300 a 1.000 euro), con aumento della pena detentiva (da sei mesi a tre anni, anziché da tre mesi a due anni) e della multa (fino a 12.000 euro, anziché fino a 10.000 euro), in caso di recidiva (art. 24).
Nel Decreto-legge può rinvenirsi poi anche l’inasprimento delle sanzioni del «Codice della strada»[26] per violazione delle prescrizioni e degli obblighi impartiti dal personale della polizia stradale, con la sanzione accessoria della sospensione della patente di guida da quindici a trenta giorni in caso di recidiva nel biennio per le violazioni previste. L’inasprimento opera, specificamente, con particolare riguardo ai casi di inosservanza dell’obbligo di fermarsi intimato dal personale che svolge servizi di polizia stradale, nonché delle altre prescrizioni impartite dal personale medesimo e dettagliatamente tipizzate nell’art. 192, D.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (art. 25).
Notevoli sono le misure riguardanti la sicurezza all’interno degli istituti penitenziari.
Lungo questa linea di intervento, l’Esecutivo si prefigge di introdurre nel corpo del reato di «Istigazione a disobbedire alle leggi» un’aggravante apposita che ricorre se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario ovvero a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute.
Del tutto inedita è invece l’art. 415-bis c.p., in cui si codifica il reato di «Rivolta all’interno di un istituto penitenziario». In forza di tale nuova previsione, la reclusione da uno a cinque anni opera, al comma 1, nei confronti di chi, all’interno di un istituto penitenziario, partecipa a una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, commessi da tre o più persone riunite[27].
La disposizione reprime poi al comma 2, con la reclusione da due a otto anni, la condotta di coloro che promuovono, organizzano o dirigono la rivolta.
Ancora, si precisa, a seguire, che: se il fatto è commesso con l’uso di armi, la pena è della reclusione da due a sei anni nei casi previsti dal comma 1 e da tre a dieci anni nei casi previsti dal comma 2; se dal fatto deriva, quale conseguenza non voluta, una lesione personale grave o gravissima, la pena è della reclusione da due a sei anni nei casi previsti dal comma 1 e da quattro a dodici anni nei casi previsti dal comma 2; se, quale conseguenza non voluta, ne deriva la morte, la pena è della reclusione da sette a quindici anni nei casi previsti dal comma 1 e da dieci a diciotto anni nei casi previsti dal comma 2.
Infine, nel caso di lesioni gravi o gravissime o morte di più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, aumentata fino al triplo, ma la pena della reclusione non può superare gli anni venti (art. 26).
Una fattispecie di reato strutturalmente analoga alla rivolta in istituto penitenziario è introdotta, peraltro, per reprimere gli episodi di proteste violente da parte di gruppi di stranieri irregolari trattenuti nei centri di trattenimento e accoglienza (art. 27)[28].
In materia di licenza, porto e detenzione di armi per gli agenti di pubblica sicurezza, si autorizzano gli agenti di pubblica sicurezza a portare senza licenza alcune tipologie di armi quando non sono in servizio (art. 28).
Con riferimento alla tutela delle funzioni istituzionali svolte in mare dal Corpo della Guardia di finanza, il Decreto-legge estende l’applicabilità delle pene previste dagli artt. 1099 e 1100 del Codice della navigazione anche ai capitani di navi, italiane o straniere, che non ottemperino all’intimazione di fermo da parte delle unità navali della Guardia di finanza, ovvero che pongano in essere atti di resistenza nei loro confronti.
È altresì prevista la pena della reclusione fino a due anni per il comandante di una nave straniera che non ottemperi all’ordine impartito da una nave da guerra nazionale nei casi consentiti dalle norme internazionali in materia di diritto di visita e ispezione dei documenti di bordo. È invece punito con la reclusione da tre a dieci anni il comandante o l’ufficiale della nave straniera che compia atti ostili nei confronti di una nave da guerra nazionale impegnata, in conformità al diritto internazionale, nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali (art. 29).
Per la tutela del personale delle Forze armate che partecipa a missioni internazionali, si prescrive adesso la non punibilità per i soggetti che, nel corso delle missioni internazionali, in conformità alle direttive, alle regole di ingaggio ovvero agli ordini legittimamente impartiti, fa uso ovvero ordina di fare uso delle armi, della forza o di altro mezzo di coazione fisica, per le necessità delle operazioni militari. A tali fattispecie, viene aggiunto l’uso di dispositivi e programmi informatici o altri mezzi idonei a commettere delitti contro l’inviolabilità del domicilio, anche informatico, e dei segreti, ai sensi del Codice penale. Le norme penali in questione riguardano la violazione, anche mediante condotte offensive cibernetiche, del domicilio, della corrispondenza e delle comunicazioni, le illegittime interferenze nella vita privata, nonché la violazione dei segreti (art. 30).
Il Decreto-legge ritocca anche l’articolata disciplina delle garanzie funzionali per il personale dei Servizi di informazione per la sicurezza della Repubblica impegnato nelle attività di istituto di tutela della sicurezza nazionale[29].
È bene rammentare che il Decreto-legge, anzitutto, rende permanenti talune disposizioni per il potenziamento dell’attività dei Servizi di informazione, introdotte, in via temporanea, dall’art. 8, D.l. 18 febbraio 2015, n. 7[30] e dall’art. 4, co. 2-bis, D.l. 27 luglio 2005, n. 144[31] e poi successivamente prorogate fino al 30 giugno 2025.
Le disposizioni destinate a diventare permanenti interessano, peraltro, diversi settori dell’ordinamento e non poche sono le previsioni innovative nei contenuti.
In primo luogo, si amplia il novero di condotte di reato scriminabili che gli operatori dei Servizi di informazione possono compiere su autorizzazione del Presidente del Consiglio dei Ministri. In particolare, oltre a quelle già “giustificate” dal D.l. 18 febbraio 2015, n. 7, “accedono” alla previsione di liceità anche l’organizzazione e la direzione di associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico, nonché le nuove ipotesi di detenzione di materiale con finalità di terrorismo e di fabbricazione o detenzione di materie esplodenti[32]. A tal fine, si novella l’art. 17, co. 4, L. 3 agosto 2007, n. 124 – ampliandone il perimetro operativo –, che disciplina minuziosamente la “speciale” causa di giustificazione per gli agenti dei Servizi citati[33].
Si prevede poi l’attribuzione della qualifica di agente di pubblica sicurezza, con funzioni di polizia di prevenzione, al personale militare impiegato nella tutela delle strutture e del personale del Dipartimento per le informazioni per la sicurezza (DIS) o dell’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (AISE) e dell’Agenzia informazioni e sicurezza interna (AISI) (si introduce, in proposito, un apposito comma 1-bis nell’art. 8, D.l. 18 febbraio 2015, n. 7).
Si stabilizza, inoltre, la tutela processuale in favore degli operatori dei Servizi di informazione, attraverso l’utilizzo di identità di copertura negli atti dei procedimenti penali avviati per le condotte-reato degli operatori medesimi realizzate nell’ambito delle attività istituzionali, previa comunicazione, con modalità riservate, all’Autorità giudiziaria procedente contestualmente all’opposizione della “speciale” causa di giustificazione (art. 19, L. 3 agosto 2007, n. 124; anche tale nuova previsione è affidata a un nuovo comma 1-ter dell’art. 8, D.l. 18 febbraio 2015, n. 7).
Ancora, in base al nuovo comma 1-quater dell’art. 8, D.l. 18 febbraio 2015, n. 7, viene messa a regime la misura che consente all’Autorità giudiziaria, su richiesta del direttore generale del DIS, dell’AISE e dell’AISI, di autorizzare gli addetti dei Servizi di informazione a deporre in ogni stato e grado del procedimento con identità di copertura, ove sia necessario mantenere segrete le loro vere generalità nell’interesse della sicurezza della Repubblica o per tutelarne l’incolumità.
In aggiunta, si introduce in modo permanente la possibilità che i direttori dell’AISE e dell’AISI, o altro personale espressamente delegato, siano autorizzati dal Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, previa richiesta del Presidente del Consiglio dei Ministri, a condurre colloqui investigativi con detenuti e internati, per finalità di acquisizione informativa per la prevenzione di delitti con finalità terroristica di matrice internazionale. Si interviene, in questo caso, nell’ambito dell’art. 4, co. 2-bis, D.l. 27 luglio 2005, n. 144.
Infine, si prevede la possibilità per l’AISE e l’AISI di richiedere alle Autorità nazionali competenti di cui all’art. 5, D.lgs. 8 novembre 2021, n. 186, secondo modalità definite d’intesa, le informazioni e le analisi finanziarie connesse al terrorismo (nuovo comma 1-bis inserito nell’art. 14, D.lgs. 8 novembre 2021, n. 186[34]). Ciò, al fine di prevenire ogni forma di aggressione terroristica di matrice internazionale. Viene così integrata la previsione secondo cui le Forze di polizia devono condividere tempestivamente, secondo modalità definite d’intesa, le informazioni finanziarie e le analisi finanziarie (art. 31).
In forza di talune disposizioni di settore in materia di forniture di servizi di telefonia mobile si conclude il novero di norme che compongono il Capo III.
I ritocchi normativi interessano, in tal caso, il «Codice delle comunicazioni elettroniche»[35], prevedendosi la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio o dell’attività
da cinque a trenta giorni per i casi nei quali le imprese autorizzate a vendere schede SIM non
osservino gli obblighi di identificazione dei clienti indicati nell’art. 98-undetricies del citato Codice. Questo articolo, al contempo, viene novellato sotto due distinti profili: 1) con riferimento alla conclusione di contratti il cui oggetto sia un servizio per la telefonia mobile (contratti pre-pagati o in abbonamento), viene previsto che al cliente, che sia cittadino di Paese fuori dall’Unione europea, sia richiesto anche il documento che attesti il regolare soggiorno in Italia. Per il caso in cui il cliente lo abbia smarrito o gli sia stato sottratto, è necessario fornire copia della denuncia di smarrimento o furto; 2) ai condannati per il reato di sostituzione di persona (art. 494 c.p.), commesso con la finalità di sottoscrivere un contratto per la fornitura di telefonia mobile, si applica altresì la pena accessoria dell’incapacità di contrattare con gli operatori per un periodo da sei mesi a due anni (art. 32).
L’unica disposizione che compone il Capo IV reca «disposizioni in materia di vittime dell’usura».
Le progettate misure normative di sostegno agli operatori economici vittime dell’usura investono la L. 7 marzo 1996, n. 108, recante apposite «disposizioni in materia di usura».
L’art. 14-bis, da innestare nella citata Legge, introduce una figura professionale di supporto alle vittime del reato di usura che beneficiano dei mutui previsti dalla normativa vigente. L’obiettivo è di garantire il rilancio mediante un efficiente utilizzo delle risorse economiche assegnate e il reinserimento nel circuito economico legale. A tal fine, sin dal momento della concessione del mutuo, la vittima di usura viene affiancata da un esperto consulente[36], scelto da un apposito albo istituito dall’Ufficio del Commissario straordinario per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura.
L’incarico dell’esperto è conferito dal Prefetto territorialmente competente, ha durata quinquennale e comporta compiti di assistenza nella gestione del mutuo, nella presentazione dei progetti e nel monitoraggio dell’andamento economico dell’impresa.
Le risorse economiche erogate alla vittima, una volta nominato l’esperto, costituiscono un patrimonio separato e vincolato alla ripresa dell’attività. In caso di utilizzo scorretto delle risorse o mancato raggiungimento degli obiettivi di reinserimento economico, anche su segnalazione dell’esperto, è prevista la revoca del beneficio e la restituzione delle somme (art. 33).
Il Capo V detta «norme sull’ordinamento penitenziario».
La prima disposizione che lo compone, ritoccando la L. 26 luglio 1975, n. 354[37], mira a: ricomprendere l’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi e il delitto di rivolta all’interno di un istituto penitenziario nel catalogo dei reati per i quali la concessione di benefici penitenziari è subordinata alla mancanza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva; istituire un termine di sessanta giorni entro cui l’amministrazione penitenziaria deve esprimersi nel merito sulle proposte di convenzione relative allo svolgimento di attività lavorative da parte di detenuti ricevute (art. 34).
Il Decreto-legge poi: estende i benefici previsti dalla L. 22 giugno 2000, n. 193[38] per le aziende pubbliche o private che impieghino detenuti anche all’esterno degli istituti penitenziari (art. 35); amplia la possibilità di assumere in apprendistato professionalizzante anche i condannati e gli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e i detenuti assegnati al lavoro all’esterno (art. 36)[39]; autorizza il Governo ad apportare modifiche al regolamento di cui al d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230[40], in materia di organizzazione del lavoro dei soggetti sottoposti al trattamento penitenziario, sulla base dei criteri in esso indicati (art. 37).
Chiude il Decreto-legge una «Clausola di invarianza finanziaria», in forza della quale salvo quanto previsto dagli artt. 5, 17, 21, 22, 23 e 36, dall’attuazione del presente Decreto-legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (art. 38).
3. L’illusione securitaria fra “overcriminalization” e “panpenalismo”
Nelle pagine precedenti si è ripercorsa l’impalcatura securitaria su cui poggia il Decreto-legge “Sicurezza”, che l’Esecutivo intende rendere immediatamente operativo, nell’esibito intento di rispondere a presunte emergenze in materia di sicurezza. Tale intento, tuttavia, appare funzionale a finalità latenti di natura politico-elettorale: da un lato, la proposta punitiva viene utilizzata per intercettare il consenso dell’elettorato; dall’altro, essa si configura come una forma di “distrazione di massa”, utile a distogliere l’attenzione dai reali problemi sociali che attraversano il Paese[41].
Dall’esame dell’articolata trama normativa emerge un ricorso variegato all’armamentario penale, che segue, tuttavia, sentieri già tracciati dall’attuale XIX legislatura, nonché dalle precedenti. La ricetta adottata resta invariata: introduzione di nuovi reati, ampliamento di quelli esistenti, inasprimento della pena attraverso una maggiore dosimetria sanzionatoria, rafforzamento delle misure di prevenzione, innovazioni nelle modalità di esecuzione della pena e l’introduzione di nuovi meccanismi coercitivi in ambito investigativo o cautelare.
Tutte queste misure sembrano orientate a “consegnare” ai cittadini, nell’ambito di una sorta di «marketing delle emozioni», un “prodotto securitario” che risulta ostentatamente simbolico ed espressivo, e come tale privo di effettività. Si tratta di misure volte a elargire sicurezza: «una parola d’ordine – o una parola magica – al contempo ansiogena ed ansiolitica»[42], che funge da reazione pronta e apparente a ogni irritazione sociale o presunta emergenza endemica.
Trattasi di una sicurezza collettiva, che viene delegata alla “scure” del «diritto penale totale»[43], puntando quindi sul suo aspetto più muscolare, perentorio e marziale, nella lotta contro forme vecchie e nuove di criminalità, terrorismo, devianza, dissenso, marginalizzazione e povertà. Tutti questi fenomeni, come già rilevato, diventano oggetto di specifica criminalizzazione all’interno del Decreto-legge.
Così operando, lo Stato scommette ingenuamente sul fatto – invero indimostrato – che gli effetti normativamente attesi si realizzino concretamente. Al contempo, si trascurano gli effetti collaterali che la «straripante “overcriminalization”»[44] – in spregio al principio di extrema ratio – e il sovradosaggio di pena e di coercizione processuale realmente producono, specie sui diritti fondamentali della persona umana coinvolta, che vengono così travolti dalla scelta legislativa tipica del “trend” securitario[45]. Si invera, in tal modo, l’illusione della sicurezza attraverso il diritto penale.
Si aggiunga poi che nel realizzare la stretta securitaria degli ultimi anni, il Legislatore ha fatto ricorso a una contraddittoria e degenerativa linea di tendenza della contemporaneità penalistica che prende il nome di “panpenalismo”[46]. Questo fenomeno, di estrazione populista, unisce schemi di prevenzione e repressione tipici del «Penale di Polizia»[47]: una tendenza che segue logiche simboliche e irrazionali, che risultano contrarie all’efficienza del sistema punitivo e che, al contrario, alimentano l’incertezza sanzionatoria.
Più specificamente, la “spettacolarizzazione” della cronaca giudiziaria, distorcendo la percezione sociale del crimine, alimenta il sentimento di paura e il crescente bisogno di sicurezza nella collettività. Lo Stato, percependo questa esigenza, si trova spinto a rispondere con massima prontezza, temendo di perdere consenso. È proprio in questo contesto che prende piede il panpenalismo d’urgenza, con la conseguente “fabbrica dei reati e delle pene” che caratterizza un diritto penale elevato a strumento di intervento ordinario in tutti i settori di interesse pubblico.
Come è facile intuire, questa visione si oppone radicalmente a quella minimalista, che concepisce il diritto penale come extrema ratio, da utilizzare solo quando altri strumenti giuridici non risultano più adeguati a tutelare determinati beni giuridici.
Il congedo dell’ultima ratio dal sistema penale contemporaneo matura quindi all’interno di un panpenalismo dai tratti marcatamente polimorfi. Esso, infatti, non si esaurisce nella semplice moltiplicazione di illeciti penali e amministrativi e di pene tradizionali, ma prende forma attraverso una ramificazione tentacolare dell’apparato punitivo. Tale processo è favorito dall’impiego di strumenti prescrittivi e sanzionatori flessibili, generati dalla destrutturazione della legalità in senso formale e dalla ibridazione della fonte penale con elementi giurisdizionali e burocratico-amministrativi.
In parallelo, poi l’universo sanzionatorio multifunzionale di matrice comunitaria introduce un sistema che sovrappone sanzioni penali e amministrative, misure punitive, patrimoniali e interdittive, finalità specialpreventive e scopi risarcitori, rendendo sempre più difficile individuare persino l’ordinamento di appartenenza delle sanzioni[48].
4. Sulla distorta prassi dell’impiego della decretazione d’urgenza in materia penale
Come già accennato, la sicurezza collettiva è sempre più frequentemente affidata, secondo una prassi ormai consolidata, alla “scure” del diritto penale. Ed è proprio questo diritto penale a essere cristallizzato, di volta in volta, nello strumento eccezionale del decreto-legge.
Un cenno ulteriore merita allora il metodo della legiferazione e, quindi, la prassi dell’impiego della decretazione d’urgenza nella materia penalistica.
L’opzione di ricorrere all’utilizzo del decreto-legge, anziché seguire il procedimento di approvazione della legge formale ordinaria, è criticabile sia in relazione alla natura dell’organo
deliberante, sia in relazione ai requisiti, stringenti, di necessità e urgenza imposti dal disegno costituzionale.
È notorio che nel diritto penale vige il principio costituzionale della riserva di legge. L’interpretazione restrittiva della lettera costituzionale suggerisce che la legge formale ordinaria debba essere la fonte esclusiva del diritto penale. Indubbiamente, il Legislatore costituente ha considerato che il sacrificio della libertà personale, implicato dalle sanzioni penali, richieda una deliberazione del Parlamento, dove sono rappresentate anche le minoranze politiche, mentre l’organo esecutivo gode della fiducia solo della maggioranza parlamentare.
Nella materia penale, il ponderato bilanciamento tra l’esigenza di sicurezza della collettività, da una parte, e il sacrificio della libertà personale, dall’altra, non può che essere affidato all’organo rappresentativo dell’intero popolo italiano. Ne discende che, di regola, l’introduzione di nuove norme penali deve promanare dalla legge formale ordinaria, mentre il ricorso al decreto-legge deve essere giustificato da circostanze eccezionali.
Diversamente operando, ne risulterebbe una torsione del principio di legalità penale, una compressione del dibattito parlamentare e, più in generale, una fragilità dell’assetto democratico. Squilibrando la forma di governo e concentrando il potere, si intacca la forma stessa dello Stato, minando la democrazia. Il diritto penale, in questo contesto, finirebbe per piegarsi alle presunte ondate securitarie, diventando uno strumento reattivo e simbolico, piuttosto che il risultato di una ponderata razionalità legislativa.
Orbene, nel caso di specie, sembrano mancare proprio tutti i requisiti di necessità e urgenza che giustificano il ricorso allo strumento eccezionale del Decreto-legge emanato dall’Esecutivo, già oggetto di severe, pur fondate, critiche da parte della dottrina [49].
L’impiego di tale forma di provvedimento si inserisce poi in una prassi consolidata, seppur anomala, caratterizzata da un “abuso” [50] della decretazione d’urgenza per affrontare fenomeni di rilievo penale[51]. Una prassi che, alterando il sistema delle fonti, finisce per compromettere la separazione dei poteri, principio cardine della democrazia costituzionale che assicura la limitazione del potere.
Come noto, il decreto-legge, quale ipotesi eccezionale del legiferare, è subordinata al rispetto di condizioni precise, dovrebbe servire a far fronte a situazioni straordinarie e imprevedibili (ad es., attacchi terroristici, crisi migratorie, emergenze sanitarie, situazioni belliche, etc.).
Nel caso del Decreto-legge oggetto di attenzione, invece, manca una situazione concreta che renda improrogabile l’intervento del Parlamento, come si evidenzia brevemente nei motivi che seguono.
In chiave giuridica, anzitutto, si riscontra un’ampiezza e una genericità dei motivi che legittimano l’Esecutivo al ricorso alla decretazione d’urgenza. Le giustificazioni fornite risultano infatti generiche e ricorrenti[52], spesso riducendosi a mere formule di stile, prive di un legame con eventi eccezionali. Il riferimento ai «casi straordinari di necessità e di urgenza» – come richiesto dall’art. 77, co. 2, Cost. – appare pertanto in parte stereotipato, quasi “di prassi”.
Si riscontra inoltre una evidente eterogeneità nelle materie trattate. Il Decreto-legge abbraccia numerosi settori, corrispondenti ai cinque Capi che lo compongono, suscitando dubbi circa la coerenza e l’urgenza complessiva dell’intervento. Molti di questi provvedimenti risultano infatti di natura strutturale, tali da poter essere gestiti più adeguatamente tramite una legge ordinaria, previo opportuno dibattito parlamentare.
Sul punto, appare allora opportuno richiamare il recentissimo insegnamento-monito della Corte costituzionale di cui alla sentenza 25 luglio 2024, n. 146[53], in cui, in estrema sintesi, si è stabilito, a chiare lettere, che il decreto-legge è «uno strumento eccezionale», e «la pre-esistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e l’urgenza […] costituisce un requisito di validità costituzionale», in quanto in gioco vi sono gli «equilibri fondamentali della forma di governo».
Da un’altra prospettiva, si può poi aggiungere che il “vecchio” Disegno di legge è stato presentato oltre un anno fa per iniziativa governativa[54], e non come decreto-legge. Appare dunque quantomeno improbabile che, al di là di motivazioni di natura esclusivamente politico-elettorale, siano sopravvenute ragioni effettive di necessità e urgenza che giustifichino l’intervento normativo immediato su tutte le disposizioni eterogenee contenute nei trentotto articoli del provvedimento. Ciò apre conseguentemente la strada a possibili questioni di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 77 Cost.[55].
In definitiva, il Decreto-legge in esame, precario quanto a rispetto dei principi penalistici di rango costituzionale[56], e manifestazione di una degenerante ipertrofia penalistica[57], “scarica” sulla giustizia penale e sul sistema carcerario la soluzione ai mali sociali e l’azzeramento delle minacce alla sicurezza in senso lato.
Secondo chi scrive, quindi, questo approccio appare sovraesteso e discutibile sotto il profilo della democraticità del processo legislativo, divenendo uno strumento dell’azione politica dell’Esecutivo, anche a discapito della stessa iniziativa legislativa ordinaria. Il pericolo concreto è, quindi, quello di creare un precedente che potrebbe favorire una prassi capace di svilire le prerogative del Parlamento.
[1] D.d.l. in esame è stato presentato in data 22 gennaio 2024 per iniziativa governativa del Ministero dell’Interno, di concerto con il Ministero della Giustizia e col Ministero della Difesa.
[2] Fino a quella data, infatti, le Commissioni riunite Affari Costituzionali e Giustizia in sede referente, terminate le audizioni, stavano procedendo alla valutazione dei numerosi emendamenti proposti al testo approvato alla Camera lo scorso 18 settembre 2024.
[3] Su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, del Ministro dell’Interno, del Ministro della Giustizia e del Ministro della Difesa.
[4] Il Decreto-legge in esame introduce, sulla falsariga del “vecchio” Disegno di legge, «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario».
[5] Sebbene risalga al novembre 2023 la sua approvazione da parte del Consiglio dei Ministri. Cfr. Comunicato stampa del Consiglio dei Ministri n. 59, 16 novembre 2023, consultabile su www.governo.it.
[6] Come sembra emergere dalla ricostruzione de Il Post, Perché il disegno di legge “Sicurezza” è diventato un decreto-legge, 4 aprile 2025, consultabile su www.ilpost.it.
[7] Si pensi, per rimanere all’attuale XIX legislatura, alla già approvata L. 28 giugno 2024, n. 90 («Disposizioni in materia di rafforzamento della cybersicurezza nazionale e di reati informatici»).
[8] Si veda, da ultimo, V. Manes, L’ossessione securitaria, in Dir. dif., 24 marzo 2025, p. 1 ss. e dottrina ivi richiamata. Posizioni critiche erano state espresse anche dal mondo forense, oltre che da quello accademico. Si vedano, a tal proposito, Pacchetto sicurezza: l’Unione delle Camere Penali Italiane delibera lo stato di agitazione, in Sist. pen., 2 ottobre 2024; Pacchetto sicurezza: il comunicato del Consiglio direttivo dell’Associazione italiana dei Professori di Diritto penale, in Sist. pen., 3 ottobre 2024. Forti preoccupazioni per il potenziale impatto del D.d.l. su alcune libertà garantite dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo sono state espresse anche dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa in una lettera inviata al Presidente del Senato il 16 dicembre 2024 (Il Commissario del Consiglio d’Europa per i diritti umani chiede al Senato di modificare il “pacchetto sicurezza” per salvaguardare le libertà di associazione e di manifestazione del pensiero, in Sist. pen., 23 dicembre 2024).
[9] Giovandosi qui anche delle brevi ricostruzioni contenutistiche contenute nel Comunicato stampa del Consiglio dei Ministri n. 122, 4 aprile 2025, consultabile su www.governo.it. V. anche il Dossier n. 240/2, XIX Legislatura, Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario - A.S. n. 1236, 30 settembre 2024, p. 5 ss., consultabile su www.senato.it.
[10] Recante «Disposizioni per la prevenzione e il contrasto del terrorismo e della criminalità organizzata, nonché in materia di beni sequestrati e confiscati e di controlli di polizia».
[11] Al riguardo, si prevede l’introduzione di due nuove ipotesi criminose di cui agli artt. 270-quinquies.3 («Detenzione di materiale con finalità di terrorismo») e 435, co. 2 («Fabbricazione o detenzione di materie esplodenti») c.p., su cui, criticamente, già M. Pelissero, A proposito del disegno di legge in materia di sicurezza pubblica: i profili penalistici, in Sist. pen., 27 maggio 2024.
[12] In Giur. cost., 2024, p. 1252 ss.
[13] In questi termini, è stato delineato un nuovo reato all’art. 634-bis c.p. («Occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui»).
[14] Si modifica così la disciplina dell’art. 639-bis c.p. sui «Casi di esclusione della perseguibilità a querela».
[15] In quest’ultimo senso, il nuovo art. 321-bis c.p.p. («Reintegrazione nel possesso dell’immobile»).
[16] Nuovo art. 61, co. 1, n. 11-decies), c.p.
[17] Si sopprime la circostanza aggravante del n. 2-bis) del comma 2 dell’art. 640 c.p., che adesso diventa autonoma ipotesi di reato nel nuovo comma 3, con corrispondente inasprimento del relativo trattamento sanzionatorio.
[18] Con reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni e della multa fino a 15.000 euro, anziché da uno a cinque anni e con la multa fino a 10.000 euro.
[19] Si aggiunge, in tal modo, un nuovo comma nell’art. 165 c.p. in materia di «Obblighi del condannato».
[20] Disciplinanti, rispettivamente, il «Rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena» e il «Rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena».
[21] Recante «Provvedimenti in caso di evasione o di condotte pericolose realizzate da detenuti in istituti a custodia attenuata per detenute madri».
[22] Si vedano gli artt. 285-bis, co. 1 «Custodia cautelare in istituto a custodia attenuata per detenute madri»; 293, co. 1-quater «Adempimenti esecutivi»; 386, co. 4 «Doveri della polizia giudiziaria in caso di arresto o di fermo»; 558, co. 4-bis «Convalida dell’arresto e giudizio direttissimo» e 678, co. 1-bis «Procedimento di sorveglianza» c.p.p.
[23] Recante, secondo il Decreto-legge, «Impiego di minori nell’accattonaggio. Organizzazione e favoreggiamento dell’accattonaggio. Induzione e costrizione all’accattonaggio». Cfr. rubrica vigente: «Impiego di minori nell’accattonaggio. Organizzazione dell’accattonaggio».
[24] Rispettivamente, in materia di «Violenza o minaccia a un pubblico ufficiale», «Resistenza a un pubblico ufficiale» e di «Circostanze aggravanti» per tali reati.
[25] Che diviene pertanto la seguente: «Lesioni personali a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni, nonché a personale esercente una professione sanitaria o sociosanitaria e a chiunque svolga attività ausiliarie ad essa funzionali». Cfr. la rubrica attualmente vigente: «Lesioni personali a un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive, nonché a personale esercente una professione sanitaria o socio-sanitaria e a chiunque svolga attività ausiliarie ad essa funzionali».
[26] D.lgs. 30 aprile 1992, n. 285.
[27] Il medesimo articolo chiarisce che costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza.
[28] In questo caso, si aggiunge un nuovo comma dopo il comma 7 dell’art. 14, D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.
[29] Cfr. art. 17 ss. L. 3 agosto 2007, n. 124 («Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto»).
[30] Conv. con mod. dalla L. 17 aprile 2015, n. 43 («Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione»).
[31] Conv. con mod. dalla L. 31 luglio 2005, n. 155 («Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale»).
[32] Rimangono allora attratti nelle maglie della “giustificazione” i seguenti reati: a) partecipazione ad «Associazioni sovversive» (art. 270, co. 2, c.p.); b) direzione e organizzazione di «Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico» (art. 270-bis, co. 1, c.p.); c) partecipazione ad «Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico» (art. 270-bis, co. 2, c.p.); d) «Assistenza agli associati» rispetto alle associazioni indicate agli artt. 270 e 270-bis c.p. (art. 270-ter c.p.); e) «Arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale» (art. 270-quater c.p.); f) «Organizzazione di trasferimento per finalità di terrorismo» (art. 270-quater.1 c.p.); g) «Addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale» (art. 270-quinquies c.p.); h) «Finanziamento di condotte con finalità di terrorismo» (art. 270-quinquies.1 c.p.); i) «Detenzione di materiale con finalità di terrorismo» (art. 270-quinquies.3 c.p.); l) istigazione a commettere alcuno dei delitti contro la personalità internazionale e interna dello Stato (art. 302 c.p.); m) partecipazione a «Banda armata» (art. 306, co. 2, c.p.); n) istigazione a commettere delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità o apologia degli stessi delitti (art. 414, co. 4, c.p.); o) partecipazione ad «Associazioni di tipo mafioso anche straniere» (art. 416-bis, co. 1, c.p.); p) «Fabbricazione o detenzione di materie esplodenti» (art. 435 c.p.).
[33] Per una ricostruzione della disciplina e talune considerazioni critiche espresse con riguardo alle innovazioni operate già dal Disegno di legge a detta norma di settore, sia consesso il rimando a A.F. Vigneri, La “speciale” causa di giustificazione per gli agenti dei Servizi di informazione. Note critiche a partire dal D.d.l. “Sicurezza”, in Giust. ins., 20 marzo 2025, consultabile su www.giustiziainsieme.it.
[34] Recante «Attuazione della direttiva (UE) 2019/1153 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, che reca disposizioni per agevolare l’uso di informazioni finanziarie e di altro tipo a fini di prevenzione, accertamento, indagine o perseguimento di determinati reati, e che abroga la decisione 2000/642/GAI».
[35] D.lgs. 1° agosto 2003, n. 259.
[36] Avente competenze giuridiche, contabili ed economiche, purché non gravato da cause ostative previste dalla normativa antimafia. L’esperto è tenuto peraltro a operare con diligenza, imparzialità e riservatezza, ed è soggetto a regole di incompatibilità e conflitto di interessi. In caso di comportamenti scorretti, il Prefetto può revocare l’incarico e procedere alla cancellazione dall’albo. È previsto un compenso specifico per l’esperto, distinto dalle somme destinate alla vittima, da erogare annualmente sulla base della relazione presentata.
[37] Recante «Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà».
[38] In materia di «Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti».
[39] Modificando, in tal senso, apposite previsioni del D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 sulla «Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183».
[40] Recante «Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà».
[41] La Presidente del Consiglio dei Ministri ha sottolineato che le norme oggetto di decretazione d’urgenza erano attese da tempo e che non potevano più essere rinviate, evidenziando l’urgenza di fornire risposte concrete ai cittadini e garantire adeguate tutele alle forze dell’ordine e all’intero comparto “sicurezza”.
[42] Le parole riportate sono riprese da V. Manes, L’ossessione securitaria, cit., pp. 2 e 4, per il quale, magistralmente, «l’illusione terapeutico-punitiva si alimenta e al contempo si appaga delle componenti simboliche della pena». E ancora: «è facile quanto illusorio, in altri termini, agitare il vessillo delle pene e della coercizione punitiva, che dunque – dietro lo sfoggio muscolare di forza esibita a scopi placativi – altro non è se non una manifestazione di conclamata debolezza».
[43] Il diritto penale “totale” viene invocato in ogni contesto come un intervento salvifico e, soprattutto, come un presunto rimedio – politicamente e mediaticamente vantaggioso – per una serie di mali sociali. Un simile ampliamento del sistema penale, tuttavia, comporta inevitabilmente il sacrificio dei principi fondamentali di garanzia, alimentato dal clima di populismo e giustizialismo che caratterizza l'attuale dibattito pubblico. Si vedano, in tema, le illuminanti considerazioni di F. Sgubbi, Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi, Bologna, 2019, passim.
[44] L’efficace espressione è di N. Mazzacuva, L’epoca della straripante ‘overcriminalization’: un possibile (immediato) rimedio, in Pen. dir. proc., 2023, p. 521. Sul fenomeno della “overcriminalization”, si vedano le ampie indagini di A. Cadoppi, Il “reato penale”. Teorie e strategie di riduzione della criminalizzazione, Napoli, 2022, p. 39 ss.
[45] Dal quale affiora una legislazione «coerente con un diritto penale classicamente generalpreventivo che tende a trasfigurarsi nell’oggetto di un fluttuante diritto alla sicurezza di beni o interessi che vengono identificati come prioritari in un determinato momento storico». Evidenzia puntualmente questo aspetto L. Risicato, Diritto alla sicurezza e sicurezza dei diritti: un ossimoro invincibile?, Torino, 2019 p. 9 (corsivi originali). Sul citato trend securitario, inteso come causa di un’espansione del campo d’intervento penale secondo logiche sempre più repressive, si veda, già prima, D. Pulitanò, Sicurezza e diritto penale, in Riv. it. dir. pen., 2009, p. 555.
[46] Il tema è oggetto di vasta indagine in C. Cupelli, Tentazioni e contraddizioni del sistema penale contemporaneo: creazionismo giudiziario, panpenalismo legislativo e caccia al colpevole, in Cass. pen., 2023, p. 693 ss.
[47] Di cui parla opportunamente F. Forzati, Gli equilibrismi del nuovo 434 bis c.p. Fra reato che non c’è, reato che già c’è e pena che c’è sempre. Prove tecniche di reato senza offesa e di pena in assenza di reato, in Arch. pen., 2022, p. 32, a proposito dell’introduzione del reato di «Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica» avvenuta proprio nell’arco della presente legislatura.
[48] Molto efficacemente, sul punto, F. Forzati, Il congedo dell’ultima ratio fra sistema sanzionatorio multilivello e penale totale: verso la pena come unica ratio?, in Arch. pen., 2020, p. 43.
[49] Di «Parlamento ridotto a organo di ratifica della volontà del governo» parla Gian Luigi Gatta in L. Milella, Dl sicurezza, il penalista Gatta: “Inutile. E l’urgenza umilia le Camere”, 6 aprile 2025, consultabile su www.ilfattoquotidiano.it. Il carattere «eversivo» di questa manovra politica è poi segnalato dalla costituzionalista Alessandra Algostino in Id, “Sicurezza”: un decreto legge eversivo, 7 aprile 2025, consultabile su volerelaluna.it.
[50] Sul massiccio ricorso allo strumento del decreto-legge nel corso dei primi due anni dell’attuale XIX legislatura, si vedano gli accurati dati di Openpolis, I primi due anni della XIX legislatura, 2 ottobre 2024, consultabile su www.openpolis.it, dai quali sembra emerge un vero e proprio monocameralismo di fatto, con conseguente subordinazione e annichilimento delle prerogative del Parlamento.
[51] L’abuso di decretazione d’urgenza nella materia penale è “denunciato” da Unione delle Camere Penali, Peggio del “DDL sicurezza” c’è solo il Decreto sicurezza, 5 aprile 2025, consultabile su www.camerepenali.it.
[52] Secondo il Decreto-legge, rientrano nei casi di ritenuta necessità e urgenza il potenziamento dell’attività di prevenzione e contrasto al terrorismo e alla criminalità organizzata, nonché la sicurezza urbana e i controlli di polizia. Rientrano, invece, nei casi di straordinaria necessità e urgenza l’introduzione di misure a tutela del comparto “sicurezza” e di disposizioni in materia di vittime dell’usura.
[53] In Giur. cost., 2024, p. 1522 ss., con nota di A. Celotto, La Camicia di Nesso, Mortati e l’abuso del decreto-legge.
[54] E al cui esame parlamentare sono state dedicate un centinaio di sedute tra Camera e Senato, con l’audizione di numerosi magistrati, professori ed esperti.
[55] È la fondata preoccupazione di Associazione Italiana Professori di Diritto Penale, Sul “pacchetto sicurezza” varato con decreto-legge, 9 aprile 2025, consultabile su www.aipdp.it.
[56] Sui numerosi profili di incostituzionalità del presente Decreto-legge si soffermano Unione delle Camere Penali, Peggio del “DDL sicurezza” c’è solo il Decreto sicurezza, cit. e Associazione Italiana Professori di Diritto Penale, Sul “pacchetto sicurezza” varato con decreto-legge, cit. Già prima, con riferimento alle norme del Disegno di legge, v. V. Manes, L’ossessione securitaria, cit., 4.
[57] Almeno quattordici sono le nuove fattispecie incriminatrici e nove sono i reati per i quali risulta inasprita la pena.
Sul tema si veda anche: Sul Pacchetto sicurezza varato con decreto-legge, La “speciale” causa di giustificazione per gli agenti dei Servizi di informazione. Note critiche a partire dal D.d.l. “Sicurezza” di Antonio Fabio Vigneri, Il DDL Sicurezza e il carcere di Fabio Gianfilippi, Il diritto penale italiano verso una pericolosa svolta securitaria, È compito della Repubblica. Note sul DDL Sicurezza di Enrico Grosso.
Immagine: Paolo Uccello, La Battaglia di San Romano. Disarcionamento di Bernardino della Carda, tecnica mista su tavola, 1438, Galleria degli Uffizi, Firenze.
Sui principi del do not significant harm e della neutralità climatica: alcune riflessioni a margine del Green Deal europeo
di Gianluigi Delle Cave
Sommario: 1. Inquadramento del tema. – 2. I “nuovi” principi ambientali derivanti dal GD: la neutralità climatica e il DNSH. – 2.1. (segue) l’azione del principio di neutralità climatica. – 3. Il principio DNSH at a glance: funzioni e caratteristiche. – 3.1. (segue) e il suo perimetro applicativo. – 4. Il DNSH nel settore dei contratti pubblici. – 5. Il principio DNSH nei procedimenti ambientali. – 6. Conclusioni.
1. Breve inquadramento del tema.
È noto che il principio do not significant harm[1] (“DNSH”) è uno dei pilastri del c.d. “Green Deal” europeo[2] (“GD”).
Il GD non costituisce una reazione estemporanea diretta a fronteggiare situazioni emergenziali ma, piuttosto, sembrerebbe «più vicino a una pianificazione ragionata e mission oriented, fortemente legata, cioè, a obiettivi, non condizionando le dinamiche di mercato e la concorrenza, ma incidendo sui fini, sui mezzi e sulle strategie di investimento». Il GD, da tale angolo visuale, realizza un nuovo bilanciamento tra la concorrenza e la lotta al cambiamento climatico, in cui la seconda pare destinata ad avere la prevalenza[3]. Una delle conseguenze maggiori di questo nuovo equilibrio riguarda la regolazione del mercato pure per il mezzo di nuovi principi guida.
A fronte di un’impostazione tradizionalmente intesa a garantire la competizione tra le aziende operanti nel settore, il GD, quindi, «determina la necessaria affermazione di un approccio ‘attivo’ alla materia, con l’adozione di regole intese a incentivare la transizione energetica e a creare meccanismi di solidarietà e condivisione degli oneri tra gli Stati»[4]. Del resto, l’adozione stessa del programma di che trattasi incide profondamente anche sulle politiche industriali, inducendo l’Unione a proporre e sostenere un modello di industria europea fondato su un approccio circolare e rigenerativo. Il Green Deal, difatti, non modifica esclusivamente il bilanciamento realizzato in materia di governo dell’economia da parte dell’Unione, ma segnala anche una nuova modalità di operare nell’ambito delle politiche sociali, in cui si passa da un sistema di regolazione, all’adozione di strategie attive di protezione sociale e decarbonizzazione[5].
Ebbene, la portata applicativa di quanto sopra premesso la si rinviene, oltre che in alcune pronunce dei giudici amministrativi (come quella in commento), pure nella declinazione stessa, concreta, del principio DNSH (come detto costituente uno degli arti del GD), bene perimetrata dal Regolamento UE 2020/852 (c.d. “Regolamento Tassonomia”), il cui art. 3 chiarisce che nel valutare un’attività economica - con riferimento alle misure dei Piani nazionali per la ripresa e resilienza (PNRR) - si tiene conto dell’impatto ambientale dell’attività stessa e dell’impatto ambientale dei prodotti e dei servizi da essa forniti durante il loro intero ciclo di vita, in particolare prendendo inconsiderazione produzione, uso e fine vita di tali prodotti e servizi[6]. Del resto, lo stesso Recovery Plan europeo mira a ripensare lo spazio UE, vincolando gli Stati non soltanto con obbligazioni “di mezzi” ma anche “di risultato”, laddove i destinatari saranno tenuti non solo a spendere il danaro pubblico, concesso o prestato loro a fondo perduto, ma dovranno anche garantire un risultato conforme ai principi, agli obiettivi e alle aree di investimento programmati a livello eurounitario.
2. I “nuovi” principi ambientali derivanti dal GD: la neutralità climatica e il DNSH
Preme evidenziare, in primissima battuta, come il GD non accoglie un’impostazione conflittuale tra crescita economica e tutela dell’ambiente, ma si propone, invece, di realizzare attraverso lo sviluppo di politiche industriali e di regolazione uno sviluppo sostenibile tale per cui nel 2050 l’economia europea «non genererà emissioni nette di gas ad effetto serra e in cui la crescita economica sarà dissociata dall’uso delle risorse» (cfr. Comunicazione della Commissione in incipit). La prima fase di questa transizione sembra destinata ad essere contraddistinta da misure riconducibili alla c.d. “disruptive green industrial policy”, segnata dallo smantellamento o riqualificazione delle attività industriali altamente inquinante. Un approccio che è destinato «a sollevare una conflittualità giuridica, ma anche politica tra la sostenibilità ambientale e la sostenibilità sociale»[7].
Ora, proprio l’adozione del GD denota la massima apertura dell’ordinamento dell’Unione ai principi ambientalisti, in quanto tale atto pone l’ambiente e lo sviluppo sostenibile al centro dell’agenda politica dell’Unione. I principi di cui si discute rientrano nell’ambito dei principi del diritto dell’Unione, ma la tendenza ad utilizzarli sotto varie dizioni e con diversi significati induce a formulare talune classificazioni e distinzioni preliminari[8].
Tuttavia, in primis, occorre chiarire che vi sono principi di carattere generale che, pur non potendo essere definiti propriamente ambientali, forniscono un contributo determinante per la politica dell’Unione in questo settore. Come evidenziato in dottrina, ne costituisce una delle migliori espressioni il noto principio di sussidiarietà[9], che ha trovato la sua prima declinazione nell’ordinamento comunitario proprio in questo settore, là dove segnala la necessità che la Comunità agisca nei limiti in cui gli obiettivi comunitari di salvaguardia della qualità dell’ambiente e della salute umana possano essere perseguiti in maniera più adeguata dal livello superiore (art. 25 Trattato di Roma). Questo principio introdotto dall’Atto Unico Europeo[10] ha rivestito - e tutt’ora riveste - un ruolo fondamentale nella creazione di una disciplina sovranazionale dell’ambiente, considerato che l’azione dell’Unione, per la portata e gli effetti, può risultare più idonea al perseguimento di un determinato scopo rispetto a quella presa a livello statale, regionale e locale[11]. Sullo stesso piano si colloca il principio di proporzionalità[12], il quale impone alle istituzioni dell’Unione di adottare solo atti che non superino i limiti di ciò che è appropriato e necessario per il conseguimento degli obiettivi legittimi perseguiti dalla normativa di cui trattasi. Le medesime considerazioni possono estendersi, evidentemente, ad altri principi di carattere generali, quali ad esempio, solo per citarne alcuni, quelli di solidarietà, di leale cooperazione e di non discriminazione[13].
Su un piano formalmente differente si collocano, invece, i principi specifici in materia ambientale[14], che sono posti a fondamento della politica dell’Unione, la quale deve mirare ad un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità nelle varie regioni d’Europa (art. 191, par. 2, TFUE). Si tratta di principi aventi natura e portata differenti, che risentono di una varietà di obiettivi perseguiti dall’Unione, ma che hanno in comune la tutela, diretta o indiretta, dell’ambiente (a titolo esemplificativo l’integrazione ambientale e lo sviluppo sostenibile, a carattere omnicomprensivo; o ancora il principio chi inquina paga[15], dal contenuto più specifico e circoscritto; il principio di precauzione[16], che si inserisce in una logica di intervento ex ante[17]).
Per quanto qui di immediato interesse, quindi, pare opportuno provare a costruire un’ulteriore distinzione, cioè tra principi ormai consolidati (quelli indicati dall’art. 191 TFUE supra ad esempio), e quelli, invece, di nuova (o nuovissima) generazione, che sono emersi in modo compiuto solo recentemente, come - ad esempio - quello della “neutralità climatica” o “di non arrecare un danno significativo”[18] (do not significant harm, “DNSH”), direttamente discendenti pure dal Green Deal[19].
Sulla neutralità climatica, da obiettivo a principio, non è immediata la riflessione, anzitutto perché nemmeno la Commissione UE si avventura nella sua definizione esatta. Essa, infatti, è presentata, anzitutto, come obiettivo complessivo della strategia in esame e, sul piano contenutistico, la si intende come l’azzeramento delle emissioni nette di gas a effetto serra. Neutralità climatica come neutralità di emissioni in sostanza. La normativa europea sul clima, però, aiuta a scolpirne i contenuti in modo più chiaro[20]. Ed infatti, il Regolamento UE 2021/1119 ci fornisce anzitutto un chiarimento di sostanza in tal senso: che la neutralità climatica (già qui elevata a principio?) ha dei suoi obiettivi autonomi (art. 2 del Regolamento cit.) e si poggia su due capisaldi. Il primo, quello della riduzione irreversibile e graduale delle emissioni. Il secondo, l’aumento degli assorbimenti dai pozzi regolamentati nel diritto UE, che includono tanto le soluzioni naturali quanto quelle tecnologiche. In questo modo, in sostanza, «si introduce nella strategia europea la capacità che la stessa natura ha di contrastare il cambiamento climatico, ponendo al centro del progetto gli ecosistemi e la loro protezione»[21]. L’idea di fondo che emerge dalla lettura in combinato disposto dei due articoli (artt. 1 e 2 del Regolamento clima) è, quindi, sostanzialmente, la seguente: poiché oggi si emette più anidride carbonica di quanta se ne possa assorbire - e ciò contribuisce drammaticamente al riscaldamento globale -, occorre trovare un nuovo equilibrio per compensare le emissioni antropogeniche; da un lato, riducendo le emissioni e tenendole sotto controllo; dall’altro, promuovendone la rimozione e la cattura attraverso soluzioni tecnologiche o naturali[22].
Nella formulazione complessiva della normativa europea sul clima, in uno con il GD, quindi, si evince come la neutralità climatica vada oltre la mera decarbonizzazione, trascendendo l’obiettivo ed elevandosi, per ambizione e ampiezza, a vero e proprio principio guida, per lo spettro di azioni che copre a tutela dell’ambiente e per la profondità di funzione sugli interventi che prospetta[23]. Il principio de quo, del resto, sembrerebbe emergere anche da una lettura attenta di ulteriori atti di sviluppo e applicazione del GD qui esaminato, ad esempio del Regolamento (UE) 2024/1781 che istituisce un quadro per la definizione dei requisiti di progettazione ecocompatibile che i prodotti dovranno rispettare per essere immessi sul mercato europeo o messi in servizio. Ed infatti, i plurimi scopi e obiettivi del Regolamento appena citato sono, a tutta evidenza, legati dall’unico fil rouge della - sopra elevata - neutralità climatica, ossia: la fissazione di requisiti di progettazione eco-compatibile e di specifici obblighi di informazione riguardanti, tra gli altri, durabilità, riparabilità, riutilizzabilità, circolarità, impronta di carbonio e impronta ambientale dei prodotti, da fornire ai consumatori per favorire scelte di consumo sostenibili[24]; l’introduzione del Digital Product Passport[25], volto a facilitare la tracciabilità dei prodotti lungo l’intera catena del valore; la definizione di requisiti obbligatori per gli appalti pubblici verdi, al fine di incentivare l’acquisto di prodotti sostenibili da parte delle P.A.; la previsione del divieto di distruzione dei prodotti di consumo invenduti, a vantaggio di riparazione, riutilizzo e riciclaggio; il rafforzamento dei controlli doganali e delle attività di vigilanza del mercato, allo scopo di garantire l’osservanza dei requisiti di progettazione ecocompatibile.
Ma tra i principi in materia ambientale di più recente introduzione nell’ordinamento dell’Unione, occupa certamente rilievo il principio di non arrecare un danno significativo (DNSH[26]), che si traduce, anche in tal caso, in una valutazione di conformità delle misure adottate dalle istituzioni europee e dagli Stati membri, in attuazione del diritto dell’Unione[27]. Tale principio è conosciuto soprattutto perché costituisce un limite al finanziamento delle misure nazionali introdotte attraverso i vari PNRR[28], assumendo estrema rilevanza nelle differenti fasi di attuazione, monitoraggio e controllo[29]. Ora. al nuovo principio DNSH si deve riconoscere, anzitutto, «una più chiara incidenza e attitudine a condizionare le scelte politiche», in virtù dell’inserimento di regole puntuali nel PNRR, nonché l’idoneità ad orientare le scelte delle imprese e i relativi[30]. Tuttavia, in punto di riflessione critica, non si può non rilevare che la portata del principio in esame potrebbe contrastare con quella degli altri principi ambientali supra se sol si consideri, ad esempio, il principio di precauzione[31], o quello dell’azione preventiva e lo stesso principio di integrazione, che sembrano ambire alla protezione dell’ambiente senza stabilire un limite di tollerabilità dell’inquinamento, là dove, il principio DNSH (come bene evidenziato in dottrina[32]) assolve una funzione «più tipicamente compromissoria che promozionale»: le misure non devono arrecare un danno che, peraltro, per essere scongiurato deve essere significativo. Ne consegue che attraverso la descritta tecnica «vengano implicitamente ammessi tutti gli altri interventi ancorché possano determinare un impatto ambientale negativo»[33].
Sulla base di quanto appena esposto, pare quindi il caso di rilevare come il DNSH non sembrerebbe essere identificabile tout court quale principio-valore (a differenza del principio di neutralità climatica, invero questo obiettivo primario del GD); ed infatti, a ben vedere, il Regolamento Tassonomia sembrerebbe configurare il DNSH quale strumento al più per raggiungere gli obiettivi di ecosostenibilità (in altri termini, un mezzo per addivenire alla neutralità supra citata). Sembrerebbe, invece, trovare una migliore configurazione se pensato quale principio-regola (tanto è vero che il “non arrecare un danno significativo all’ambiente” tout court - con riferimento ai finanziamenti PNRR e quindi, a cascata, con riferimento a tutte le opere che attingono al Piano de quo - costituisce regola precisa e bene perimetrata).
Ora, va da sé che, benché ognuno dei principi indicati renda necessario un bilanciamento di interessi confliggenti, in questo caso il punto di equilibrio sembra essere stato fissato piuttosto al ribasso. In parole povere, il perseguimento dell’interesse “prevalente” alla neutralità climatica non sostituisce i vincoli del DNSH e non garantisce da sé l’eco-sostenibilità come obbligazione di risultato nella mitigazione climatica. Del resto, la neutralità climatica è qualificata vincolante dal Regolamento UE n. 2021/1119 solo sul versante della scadenza temporale: il 2050. Essa, cioè, «fissa il termine entro il quale ottenere le obbligazioni di risultato della mitigazione climatica, nel rispetto sia dei vincoli del principio-criterio DNSH sia del consensus internazionale di UE e Stati sulle soglie qualitative e quantitative del pericolo, che UNFCCC e Accordo di Parigi richiedono di garantire»[34].
2.1. (segue) l’azione del principio di neutralità climatica.
Ad ogni buon conto, si consideri che la neutralità climatica, per come espressamente tracciata supra, ossia «quell’equilibrio tra le emissioni e gli assorbimenti di tutta l’Unione dei gas a effetto serra da raggiungere entro il 2050», agisce sotto due profili: da un lato, si mira alla riduzione irreversibile e graduale delle emissioni antropogeniche dei gas a effetto serra e, dall’altro, all’aumento degli assorbimenti dai pozzi, cioè foreste, vegetazione, suolo, corpi idrici (così artt. 1 e 2 regolamento UE 2021/1119, ovvero la normativa europea sul clima). E allora se - da obiettivo - si elevasse la neutralità in esame a principio, come sembrerebbe militare una lettura sistematica delle disposizioni eurounitarie sul punto, parrebbe ancor più agevole leggere le componenti principali del GD. In primo luogo, un principio a guida di una rinnovata politica industriale, coerente con gli obiettivi di graduale azzeramento delle emissioni fissati dalla strategia per la neutralità climatica. In secondo luogo, un principio posto a inequivocabile presidio del processo di decarbonizzazione, che della neutralità climatica è un aspetto centrale[35].
Ora, si è correttamente evidenziato che la locuzione “principi del diritto europeo” è una sintesi verbale, di fenomenologie diverse, non tutte riconducibili ai principi del diritto in senso stretto[36]. Il nucleo duro dei principi, scritti e non scritti, è quello di essere delle norme generalissime che indicano dei valori, degli obiettivi generali da raggiungere, lasciando peraltro, poi, all’interprete e in particolare alla giurisprudenza ampi margini di apprezzamento. Nel diritto ambientale, come sopra detto, si pensi alla precauzione (che impone di arrestare un’attività di fronte al dubbio scientifico della sua pericolosità[37]). Altre volte i principi indicano dei criteri di scelta, su cui compiere delle valutazioni: si pensi al principio di proporzionalità (da intendersi come criterio per individuare il minor sacrificio) o al buon andamento (come criterio di efficienza ed efficacia dell’azione). E allora, proprio in tale ottica, il GD richiede un approccio che si attua mediante canoni di flessibilità tali da accompagnare con i minimi urti il percorso di transizione[38], di guisa da richiedere ex se un principio guida o, comunque, un principio “valore”: esso è la neutralità climatica (nei cui confronti la regola del DNSH è al più uno strumento, un mezzo, per raggiungere gli obiettivi di ecosostenibilità, non viceversa).
Contestualmente e all’esito, quindi, della realizzazione degli obiettivi del GD, pare evidente il cambio di paradigma con riferimento alla neutralità climatica, che si candida ad essere elevato a nuovo principio generale oltre che ambientale, riflettendo esso un nuovo assetto sociale ed ecologico europeo, che trova oggi applicazione anche al di fuori delle attività e delle decisioni squisitamente ambientali (si pensi anche alle questioni e alle tematiche intergenerazionali). Del resto, tanto è quanto accaduto con riferimento al principio della sostenibilità (dall’ambiente ai conti pubblici), al principio di sussidiarietà (introdotto in prima battuta dall’Atto Unico Europeo con riferimento al solo ambiente) e, più recentemente al principio di precauzione, che, dal diritto dell’ambiente, ha preso le mosse per trovare poi applicazione anche ai settori della sanità, della lotta alla corruzione o della tutela della privacy[39]. Tanto è possibile prevedere, dunque, con riferimento alla vis espansiva del principio di neutralità climatica.
3. Il principio DSNH at a glance: funzioni e caratteristiche.
Muovendo, ora, al DNSH, giova prendere le mosse, anzitutto, dal dato normativo eurounitario da cui il principio de quoimmediatamente discende. In particolare, il Regolamento (UE) 2021/241, che istituisce il Dispositivo per la ripresa e la resilienza, stabilisce che tutte le misure dei Piani nazionali per la ripresa e resilienza (PNRR) debbano soddisfare il principio di “non arrecare danno significativo agli obiettivi ambientali”. Tale vincolo si traduce in una valutazione di conformità degli interventi al principio DNSH, con riferimento al sistema di tassonomia delle attività ecosostenibili indicato all’articolo 17 del Regolamento (UE) 2020/852[40]. L’art. 2 del Regolamento 852 cit., in particolare, introduce quattro distinte condizioni per qualificare un’attività economica come ecosostenibile. Si tratta, in particolare, di verificare che la stessa: contribuisca al raggiungimento di uno o più degli obiettivi ambientali; non arrechi un danno significativo a nessuno degli obiettivi ambientali; sia svolta nel rispetto delle garanzie minime di salvaguardia e sia conforme ai criteri di vaglio tecnico fissati dalla Commissione e specificati negli articoli successivi ovvero attraverso successivi regolamenti delegati.
Qui il DNSH (a differenza di quanto avviene nel successivo Regolamento 241 cit.) non è enunciato, espressamente e immediatamente, come un principio, ma al contrario come una delle condizioni della ecosostenibilità di un’attività. Così al DNSH, declinato sui sei obiettivi ambientali definiti nell’ambito del sistema di tassonomia delle attività ecosostenibili, viene data, quale perimetrazione di scopo, quella di valutare se una misura possa o meno arrecare un danno ai sei obiettivi ambientali individuati nell’Accordo di Parigi per come riprodotti nel GD[41].
In particolare, un’attività economica arreca un danno significativo (da un punto di vista generale, con ampi margini di discrezionalità si direbbe): (i) alla mitigazione dei cambiamenti climatici, se porta a significative emissioni di gas serra (GHG); (ii) all’adattamento ai cambiamenti climatici, se determina un maggiore impatto negativo del clima attuale e futuro, sull’attività stessa o sulle persone, sulla natura o sui beni; (iii) all’uso sostenibile o alla protezione delle risorse idriche e marine, se è dannosa per il buono stato dei corpi idrici (superficiali, sotterranei o marini) determinandone il deterioramento qualitativo o la riduzione del potenziale ecologico[42]; (iv) all’economia circolare, inclusa la prevenzione, il riutilizzo ed il riciclaggio dei rifiuti, se porta a significative inefficienze nell'utilizzo di materiali recuperati o riciclati, ad incrementi nell'uso diretto o indiretto di risorse naturali, all’incremento significativo di rifiuti, al loro incenerimento o smaltimento, causando danni ambientali significativi a lungo termine; (v) alla prevenzione e riduzione dell’inquinamento, se determina un aumento delle emissioni di inquinanti nell’aria, nell’acqua o nel suolo; (vi) alla protezione e al ripristino di biodiversità e degli ecosistemi, se è dannosa per le buone condizioni e resilienza degli ecosistemi o per lo stato di conservazione degli habitat e delle specie, comprese quelle di interesse per l’UE [sul piano nazionale, per la valutazione di detti obiettivi e, quindi, per l’applicazione del DNSH, è stata predisposta la “Guida operativa per il rispetto del principio di non arrecare danno significativo all’ambiente” (Guida DNSH)[43], periodicamente aggiornata].
Di poi, la Comunicazione 2021/C 58/01 della Commissione UE, precisa che la valutazione del danno significativo dovrebbe includere la fase di produzione, la fase di uso e quella di fine vita, ovunque si prevedano i maggiori danni. Ad esempio, per una misura che sostiene l’acquisto di veicoli, la valutazione dovrebbe tenere conto, tra l’altro, dell’inquinamento (ad es. emissioni nell’atmosfera) generato durante il montaggio, il trasporto e l’uso dei veicoli, e della gestione adeguata dei veicoli a fine vita. In particolare, una gestione adeguata a fine vita delle batterie e dei componenti elettronici (ad es. il loro riutilizzo e/o riciclaggio di materie prime critiche ivi contenute) dovrebbe assicurare che non è arrecato nessun danno significativo all’obiettivo ambientale dell’economia circolare.
Da tale angolo visuale, quindi, il Regolamento (UE) 2020/852 (unitamente al Regolamento Delegato 2021/2139[44]) descrive, de facto, i criteri generali affinché ogni singola attività economica non determini un “danno significativo”, contribuendo quindi agli obiettivi di mitigazione, adattamento e riduzione degli impatti e dei rischi ambientali. Si assiste, poi, a un cambio di registro: ossia che gli interventi del PNRR devono rispettare il “principio” DNSH[45] e, sulla base di quanto previsto dal Dispositivo per la ripresa e la resilienza, almeno il 37% (art. 18, comma 4, Reg. 2021/241) delle risorse complessive del Piano deve contribuire alla transizione verde e alla mitigazione dei cambiamenti climatici, come definito dal c.d. “tagging” climatico[46].
In punto metodologico, si evidenzia come la conformità con il principio del DNSH viene verificata ex ante per ogni singola misura tramite schede di auto-valutazione standardizzate, che condizionano il disegno degli investimenti e delle riforme e/o qualificano le loro caratteristiche con specifiche indicazioni tese a contenerne il potenziale effetto sugli obiettivi ambientali ad un livello sostenibile[47]). I criteri tecnici riportati nelle autovalutazioni DNSH, opportunamente rafforzati da una puntuale applicazione dei criteri tassonomici di sostenibilità degli investimenti, costituiscono quindi elementi guida lungo tutto il percorso di realizzazione delle misure del PNRR.
Le Amministrazioni sono qui, quindi, chiamate a garantire concretamente che ogni misura non arrechi un danno significativo agli obiettivi ambientali, adottando specifici requisiti in tal senso nei principali atti programmatici e attuativi. In particolare, nella fase attuativa, occorre dimostrare che le misure sono state effettivamente realizzate senza arrecare un danno significativo agli obiettivi ambientali, sia in sede di monitoraggio e rendicontazione dei risultati degli interventi, sia in sede di verifica e controllo della spesa e delle relative procedure a monte. Appare evidente, adunque, che la responsabilità del rispetto del principio viene affidata integralmente alla P.A. titolare o attuatrice della misura, nonché all’eventuale soggetto gestore, lungo le varie fasi di attuazione del progettato intervento - ossia ex ante, ma anche in itinere ed ex post in punto di monitoraggio -, ciò senza alcuna apparente garanzia di controllo esterno e senza un corpusnormativo di dettaglio che ne dia chiara attuazione.
3.1. (segue) e il suo perimetro applicativo.
Quanto all’applicazione in concreto del principio DNSH, sorge, anzitutto, naturale l’interrogativo sul suo rapporto con il più risalente principio dello sviluppo sostenibile. Come evidenziato in dottrina, infatti, mentre quest’ultimo aveva e ha come fine quello di contemperare le spesso non convergenti esigenze economiche, sociali e ambientali, in omaggio a quanto chiedeva già la Commissione Bruntland, il principio in trattazione «pare isolare il fattore ambientale per sottrarlo a qualsiasi forma di bilanciamento con gli interessi economici»[48]. Non anche a quelli sociali, però, giacché il Regolamento Tassonomia, agli art.3, par.1, lett. c) e 18, chiede espressamente il rispetto delle garanzie minime di salvaguardia in materia di diritti sociali. Tuttavia, leggendo il secondo Considerando del Regolamento de quo, è possibile rinvenire un punto di contatto tra sviluppo sostenibile e DNSH, ed è l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile[49].
Ora, preme qui ribadire che l’art. 5 del Regolamento UE 2021/241 stabilisce che il dispositivo finanzia unicamente le misure che rispettano il principio “non arrecare un danno significativo”. L’art. 18 del Regolamento cit., al par. 4, lett. d), conferma tale previsione, richiedendo agli Stati membri di indicare nei propri Piani le modalità con cui possono garantire che nessuna misura per l’attuazione delle riforme e degli investimenti in esso inclusa arrechi un danno significativo agli obiettivi ambientali.
Il legislatore europeo non sembrerebbe, quindi, aver preteso un contributo di segno positivo (il c.d. “contributo sostanziale”), ma avrebbe solo posto un requisito negativo: quello di non peggiorare significativamente le condizioni ambientali (ossia il DNSH), la cui valutazione è rimessa alle Amministrazioni deputate all’attuazione del Piano rispetto a ciascuna delle diverse misure agevolative previste. Le Amministrazioni nazionali sarebbero dunque chiamate - anche in fase di attuazione - a garantire concretamente che ogni misura non arrechi un danno significativo agli obiettivi ambientali[50].
Il principio de quo, quindi, in punto applicativo, condiziona, di fatto, trasversalmente la realizzazione di ogni misura del Piano, diventando pure uno specifico vincolo all’attività di pianificazione. Tuttavia, è proprio da tale angolo visuale che il DNSH scricchiola quanto a natura giuridica di principio squisitamente ambientale, dal momento che esso sembrerebbe svolgere più funzioni (checché non direttamente alternative). La prima e più evidente applicazione, infatti, riguarda il ruolo di criterio di “condizionalità ambientale”, con l’effetto di escludere dal sostegno finanziario quei progetti e investimenti che risultano incompatibili con la salvaguardia dell’ambiente. Una seconda funzione di questo principio consiste, poi, nel rafforzare tout court la protezione ambientale, quale cioè ulteriore livello di controllo rispetto alla normativa green tradizionale. Si aggiunge una terza dimensione, che mira a garantire che i finanziamenti UE siano destinati esclusivamente a investimenti con elevate prestazioni ambientali (è il caso PNRR che si discosta da altri programmi eurounitari, es. il programma “InvestEU”, che sembrerebbe prediligere le prime due accezioni applicative del DNSH).
In buona sostanza, adunque, può dirsi che il principio in questione si articola in tre obblighi ben distinti: due di natura restrittiva e uno di carattere propositivo. Il primo, come emerge de plano da quanto sopra evidenziato, impone di non causare un impatto negativo significativo su nessuno degli obiettivi ambientali stabiliti dall’articolo 9 del Regolamento UE 2020/852[51]. Il secondo elemento è il rispetto delle cosiddette “garanzie minime di salvaguardia”, previste dall’articolo 18 del Regolamento UE 2020/852. Ciò implica l’obbligo di tutelare i diritti umani, in coerenza con la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, e di aderire al principio del “non nuocere”, che costituisce un pilastro della normativa europea sul clima, come evidenziato nei considerando 6 e 9 del Regolamento UE 2021/1119. Infine, l’elemento a carattere positivo richiede che le decisioni e le misure adottate apportino un contributo rilevante agli stessi obiettivi ambientali sanciti dal Regolamento UE 2020/852. In questo modo, il principio DNSH si declina pure in un quadro di criteri operativi, dettagliati negli articoli da 11 a 15 del Regolamento cit., i quali determinano gli effetti concreti dell’azione pubblica. Questi tre elementi non operano in modo indipendente o alternativo, ma sono strettamente integrati tra loro, contribuendo congiuntamente non solo alla mitigazione del cambiamento climatico ma anche a garantire il rispetto del principio di neminem laedere.
4. Il DNSH nel settore dei contratti pubblici.
Come detto, il principio DNSH comporta una verifica specifica da effettuare valutando l’impatto ambientale dell’attività economica che assume rilievo di volta in volta e dei prodotti e servizi da essa forniti durante il loro intero ciclo di vita, in particolare prendendo in considerazione produzione, uso e fine vita di tali prodotti e servizi. In particolare, si è avuto modo di affermare in via pretoria come la previsione, nelle lex specialis, della conformità delle forniture al principio di che trattasi (ove finanziate con il PNRR) non introduce cause di esclusione ulteriori in violazione del principio di tassatività - disciplinato dall’art. 10 del d.lgs. n. 36/2023 - ma di prendere atto che il «documento richiesto - ossia la checklist contenente gli elementi di controllo per l’analisi DNSH - si atteggia quale elemento essenziale dell’offerta tecnica che, una volta non allegato alla medesima, impedisce alla stazione appaltante di compiere la doverosa verifica circa il rispetto del principio do not significant harm»[52].
Ed invero, con specifico riferimento al settore dei contratti pubblici (con finanziamenti PNRR), una corretta allocazione del principio DNSH dovrebbe prevedere l’inserimento dello stesso, in maniera chiara, trasparente e inequivocabile, non solo nella fase di gara vera e propria ma anche, e forse soprattutto, nella fase di esecuzione. Quanto alla prima fase, si pensi che già il disciplinare di gara dovrebbe recare un richiamo univoco al Regolamento Tassonomia e al principio de quo, con indicazione delle dichiarazioni rilevanti da rendersi a cura dell’operatore economico concorrente (ossia di assumersi gli obblighi specifici del PNRR[53] relativamente al non arrecare un danno significativo agli obiettivi ambientali e, ove applicabili, agli obblighi trasversali, quali, inter alia, il principio del contributo all’obiettivo climatico e digitale, il tagging). Dichiarazioni, peraltro, dovute pure dal subappaltatore (art. 119 del d.lgs. n. 36/2023) e dall’eventuale soggetto ausiliario in caso di avvalimento (art. 104 d.lgs. cit.). E ciò, si badi, oltre alla puntuale indicazione, nella lex specialis, della conformità dell’offerta degli O.E. alle specifiche tecniche e alle clausole contrattuali contenute nei criteri ambientali minimi (CAM[54]) applicabili ex art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 36/2023. Non a caso, proprio i CAM mirano a selezionare prodotti e servizi o ad affidare lavori migliori dal punto di vista ambientale[55], vale a dire con minori impatti ambientali (rispetto alle opzioni prive di requisiti ambientali), ciò considerando l’approccio del ciclo di vita, a partire dalla scelta delle materie prime sino alla fase di smaltimento al termine della vita utile del prodotto o servizio[56] (circostanza, questa, che bene ancora il DNSH pure all’interno dei criteri di che trattasi, laddove si consideri che i CAM sono in costante e periodica evoluzione[57] proprio per tenere conto delle innovazioni ambientali, dei progressi tecnici e tecnologici nei mercati di riferimento). Il rispetto dei criteri ambientali minimi, da tale prospettiva, può assicurare il rispetto del requisito tassonomico del DNSH. Nell’ambito delle azioni volte alla riduzione dell’impatto ambientale degli appalti PNRR, invero, si intravede una forte correlazione tra le disposizioni per il rispetto del principio DNSH e le prescrizioni contenute, ad esempio, nel CAM “Edilizia” di cui al d.m. 23 giugno 2022, n. 256.
Quanto sopra, poi, dovrebbe necessariamente riverberarsi anche nella fase esecutiva, per il mezzo di clausole contrattuali precise e dettagliate con riferimento al rispetto del DNSH. Tanto, a titolo esemplificativo, potrebbe rinvenirsi nella sezione dedicata agli obblighi specifici in capo all’aggiudicatario (quanto al rispetto e all’attuazione dei principi e degli obblighi specifici PNRR), alle modalità di svolgimento del servizio (fermo restando il fatto che i soggetti attuatori sono tenuti a disciplinare nelle condizioni particolari di gara tutte le prescrizioni tecniche specifiche dell’intervento), alle cause di risoluzione (laddove il mancato rispetto delle condizioni per la compliance al principio DNSH, oltre all’applicazione di penali contrattuali, può costituire causa di risoluzione del contratto pubblico ai sensi dell’art. 1456 c.c.).
Inoltre, in evidente applicazione del principio in commento, pare opportuno evidenziare l’utilità di previsioni contrattuali volte alla imposizione in capo all’appaltatore della valorizzazione, ove applicabile, di soluzioni volte alla riduzione dei consumi energetici e all’aumento dell'efficienza energetica, determinando un sostanziale miglioramento delle prestazioni energetiche e contribuendo alla riduzione delle emissioni di GHG. Da tale prospettiva, la piena implementazione del DNSH nella fase esecutiva della commessa pubblica imporrebbe pure la traslazione della responsabilità, in capo all’aggiudicatario, del rispetto delle norme e dei regolamenti vigenti nell’ambito del raggiungimento degli obiettivi di mitigazione, adattamento e riduzione degli impatti e dei rischi ambientali (oltre, ovviamente, alla responsabilità circa il concreto e pieno recepimento delle indicazioni specifiche finalizzate al rispetto del principio DNSH e al controllo dell’attuazione dello stesso nella fase realizzativa, anche negli Stati di Avanzamento dei Lavori-SAL, di guisa che gli stessi contengano una descrizione dettagliata sull’adempimento delle condizioni imposte dal rispetto del principio in esame).
5. Il principio DNSH nei procedimenti ambientali.
Giova premettere che la non sovrapponibilità tout court tra DNSH e legislazione ambientale (come detto supra) ha l’indubbio merito di rafforzare pure il livello di protezione ambientale. In altre parole, si vuole evidenziare qui come la conformità alla legislazione ambientale diventa la soglia minima mentre il DNSH diventa un requisito ulteriore, con susseguente innalzamento della soglia di protezione appena citata[58], come una sorta di ispessimento dei filtri di carattere ambientale. Ed infatti, il principio DNSH rafforza ex se l’interesse ambientale, quasi a mo’ di falange; e ciò è evidente laddove sol si consideri il fatto che esso sarebbe vincolante non solo nella condotta (cioè, prestare la massima attenzione, nella valutazione amministrativa, al profilo ambientale) ma anche nel risultato (non arrecare un danno significativo al bene ambiente), quasi a escludere, o comunque a molto depotenziare, qualsiasi ponderazione degli altri interessi coinvolti[59].
Trattandosi di valutazione squisitamente tecnica, pochissimo spazio, invero, viene riservato qui al bilanciamento dei profili di sostenibilità ambientali con quelli sociali/economici, isolando adunque il fattore ambientale «dalle diverse influenze che potrebbero intaccarlo, comprese le pur legittime esigenze o aspirazioni dei soggetti su cui la misura riverserà i propri effetti»[60].
Ora, con riferimento a procedimenti preliminari per il rilascio di titoli tipicamente ambientali[61], quali ad esempio la VIA[62], la VAS, l’AIA e l’AUA[63], i vincoli DNSH agiscono tendenzialmente, pure alla luce di quanto ripercorso nei paragrafi precedenti, nella fase ante operam, di guisa che sarà cura del soggetto attuatore tenerne conto in fase di proposta dell’investimento[64]. È interessante notare come, con riferimento a tali aspetti, si è efficacemente proposto (cfr. la Guida DNSH citata) che il corretto mantenimento di tutte le condizioni previste in sede autorizzativa possa essere supportato pure da un sistema documentato di responsabilità e di registrazioni come quello previsto dai sistemi di gestione ambientale tipo ISO 14001 o EMAS, verificati da un organismo di valutazione della conformità accreditato per lo specifico scopo a norma del Regolamento (CE) n. 765/2008. Ad ogni buon conto, diversamente dal caso dei contratti pubblici, nel caso delle autorizzazioni ambientali, sarà qui cura delle P.A. coinvolte quantomeno: (i) garantire il corretto mantenimento di tutte le condizioni previste in sede autorizzativa, richiamando in tal senso l’adempimento alla verifica di ottemperanza delle condizioni ambientali associate ai provvedimenti autorizzatori (sebbene, soprattutto nel caso di amministrazioni di piccole dimensioni, l’assenza del coinvolgimento obbligatorio di istituzioni o organi tecnici di supporto tecnico-scientifico, potrebbe assurgere a problematicità quanto alla corretta verifica delle misure proposte dall’operatore rispetto ai sei obiettivi ambientali del DNSH[65]); (ii) la raccolta e la conservazione di tutti gli elementi di verifica. Approccio, quest’ultimo, che consente, nei fatti, di verificare la coerenza con il principio DNSH all’interno dello stesso processo di VAS o VIA che al contempo garantisce la presenza delle valutazioni e analisi a supporto di livello strategico, necessarie per giustificare il rispetto dello stesso principio di che trattasi[66].
Restano, tuttavia, alcune incoerenze nell’applicazione del principio DNSH nella materia in esame. La prima riguarda un aspetto concettuale, ossia che la valutazione DNSH debba considerare l’impatto ambientale di una misura in termini assoluti, ossia confrontandolo con una situazione di impatto nullo (aspetto, questo, che conduce a esiti problematici, come la valutazione negativa di soluzioni basate sul gas naturale, poiché, in termini assoluti, la sua produzione comporta senza dubbio alcuno emissioni di CO2[67]). Una seconda criticità riguarda l’applicazione stessa del DNSH, che potrebbe imporre - nei procedimenti di che trattasi - un criterio comparativo non perfettamente coerente per valutare l’impatto ambientale, basato cioè sul confronto con la situazione esistente che l’investimento andrebbe a sostituire[68] (piuttosto che con uno scenario privo di impatti). In terzo luogo, manca, oggi, un coordinamento normativo ordinato tra il DNSH e le procedure ambientali, onde evitare uno sdoppiamento di valutazioni poco logico (si pensi, ad esempio, che i criteri attraverso cui si esplica il principio DNSH ben potrebbero essere inclusi fra quelli già adoperati nella VIA quanto alla valutazione di progetti specifici; ancora, si consideri che i sei obiettivi della mitigazione e dell’adattamento ai cambiamenti climatici sembrerebbero già rispondenti alla ratio della VAS, nonché della VIA medesima).
6. Conclusioni.
Si è osservato come il principio DNSH abbia trovato la sua prima applicazione concreta nell’ambito dell’economia e della finanza. La conformità a tale criterio, in questo scenario, rappresentava un riconoscimento per gli operatori economici che desideravano distinguersi come responsabili da un punto di vista green, in contrapposizione alla pratica di segno opposto del greenwashing. Tuttavia, si badi, non esisteva alcun obbligo generalizzato di rispettarlo. Grazie, però, alla sua struttura, il criterio DNSH è stato rapidamente adottato in altri settori, acquisendo un’importanza sempre più crescente (si pensi alla sua rilevanza oggi nell’assegnazione dei fondi previsti dal Dispositivo per la Ripresa e Resilienza).
La valutazione di conformità DNSH è, quindi, divenuta un requisito imprescindibile e si è affiancata alle altre procedure ambientali destinate a verificare la sostenibilità delle attività umane. Ora, rispetto a strumenti e normative già orientati de natura alla tutela ambientale (come la VIA e la VAS e i principi sottostanti), il principio DNSH sembrerebbe, di fatto, un’evoluzione del principio di integrazione, nel senso di rafforzarne l’efficacia nel prevenire la realizzazione di progetti contrari ai principi della sostenibilità (si veda, in parallelo, la riduzione della discrezionalità amministrativa nella verifica del rispetto del DNSH rispetto a quanto avviene, ad esempio e con riferimento ai plurimi interessi da bilanciare nel gioco procedimentale, nella VIA). A differenza, però, del principio di integrazione, il DNSH appare decisamente più rigido: esso mira a garantire un livello minimo e inderogabile di protezione ambientale, indipendentemente dal tipo di attività svolta e dalla sua rilevanza economica o sociale[69].
Il valore aggiunto di questo principio, adunque, sembrerebbe consistere in una maggiore (e rinnovata) attenzione al dato tecnico-scientifico e nel rafforzamento del principio di prevenzione. Peraltro, è evidente la capacità del DNSH, in quanto principio, di espandersi sia in ampiezza orizzontale che in profondità verticale: con riferimento al primo profilo, infatti, il DNSH è sempre più “richiesto” (e applicato) in molteplici settori strategici per la crescita economica degli Stati membri dell’UE, non solo se si guarda al PNRR ma anche se si volge lo sguardo ai Fondi Strutturali Europei 2021-2027; quanto al secondo profilo, non può tacersi circa il fatto che la verifica di conformità DNSH è altamente pervasiva, essendo obbligatoria per qualsiasi misura, indipendentemente dalla previsione di impatti negativi significativi sugli ecosistemi.
Nel settore dei contratti pubblici, questo si traduce pure nel fatto che gli impegni presi dalle Amministrazioni, in sede di autovalutazione DNSH, devono essere tradotti in precise avvertenze e monitorati fin dai primi atti riferibili alla misura fino al collaudo/certificato di regolare esecuzione degli interventi o alla conclusione delle attività. Costituisce, a titolo esemplificativo, valore aggiunto l’esplicitazione degli elementi essenziali necessari all’assolvimento del DNSH nei decreti di finanziamento e negli specifici documenti tecnici di gara, eventualmente prevedendo meccanismi amministrativi automatici che comportino la sospensione dei pagamenti e l’avocazione del procedimento in caso di mancato rispetto del DNSH stesso. Allo stesso modo, nelle gare d’appalto, sarà utile che i documenti d’indirizzo alla progettazione (così come la lex specialis nel suo complesso) fornisca indicazioni tecniche per l’applicazione progettuale delle prescrizioni finalizzate al rispetto del DNSH; analogamente i documenti di progettazione, capitolato e disciplinare dovrebbero riportare indicazioni specifiche affinché sia possibile riportare anche negli stati di avanzamento dei lavori una descrizione dettagliata sull’adempimento delle condizioni imposte dal rispetto del principio de quo[70].
Del resto, il valore aggiunto del principio DNSH sta proprio nel maggior ossequio al dato tecnico-scientifico, cui è ancorata la valutazione, e al potenziamento del principio di prevenzione, grazie al vincolo applicativo generalizzato, non tipologico[71]. DNSH che, nei fatti, contribuisce a definire i caratteri e, al contempo, la causa di giustificazione dello stesso intervento nell’economia di matrice europea, perché garantisce un sostegno finanziario già conformato ad alcuni obiettivi ambientali per investimenti che, altrimenti, non si sarebbero realizzati.
Vero è che, nella pratica, le P.A., a livello nazionale, spesso si limitano a recepire le indicazioni contenute nella Guida DNSH, in quanto i bandi e i contratti di finanziamento obbligano i soggetti attuatori a svolgere, pena la decadenza dal beneficio, a svolgere la procedura di autovalutazione secondo le indicazioni della Guida medesima (pur in assenza di alcun carattere vincolante). Circostanza questa registrata più volte in via pretoria (da ultimo nella pronuncia in commento), ove si rileva come le Amministrazioni - titolari del finanziamento - recepiscono proprio i contenuti della Guida (pure per il mezzo della lex specialis), ma loro carattere cogente. Tuttavia, non può tacersi, sul punto, come il dato giurisprudenziale[72] confermi anche il fatto cha la P.A. può certamente sempre discostarsi dai contenuti autovalutativi della Guida de qua, purché motivatamente, lasciando quindi intendere che qui non è tanto necessario il rispetto di una predefinita griglia di criteri del DNSH, quanto piuttosto la sua ratio (il principio, per l’appunto, di non arrecare danno all’ambiente, misurabile in concreto per il mezzo di plurimi indicatori purché idonei allo scopo).
Ed è forse da tale prospettiva che è maggiormente sentita la necessità di una definitiva positivizzazione del principio in esame. Sul punto, il d.lgs. n. 152/2006 - nel fare propri i principi comunitari di tutela ambientale a cui devono uniformarsi sia il potere pubblico, nella sua attività di normazione ovvero di esercizio delle funzioni amministrative, sia i privati nelle proprie attività economiche e di vita quotidiana - non contempla ancora espressamente il DNSH. Ora, sebbene la mancanza di un riferimento formale non ne compromette certo né la rilevanza né l’applicabilità, è lecito comunque chiedersi se, in una prospettiva futura di riforma, non sia opportuno positivizzare esplicitamente il principio in oggetto[73]. Ciò, peraltro, permetterebbe di indirizzare con maggiore certezza - negli ambiti supra descritti - l’azione dei poteri pubblici nazionali, già orientata alla tutela ambientale, alla solidarietà tra generazioni e allo sviluppo sostenibile, anche in relazione agli obiettivi stabiliti dalla tassonomia ambientale[74]. Circostanza, invero, necessaria qualora si intendesse applicare il DNSH, quale principio per l’appunto, anche al di fuori delle disposizioni che ne prevedono espressamente l’applicazione (inter alia, gli affidamenti PNRR), superando così anche quelle criticità evidenziate in dottrina quanto alla natura di mero criterio del DNHS in esame (checché la portata stessa della regola insita nel concetto “do not significant harm”, sul piano ambientale, rechi in sé una vis espansiva tale, come visto, da superare i confini formali del Regolamento Tassonomia[75], straripando su tutte le valutazioni ambientali, anche in assenza di espresso riferimento ad esso).
Del resto, nel contesto della transizione ecologica, l’intervento statale in ambito economico si conforma sempre più al principio di non arrecare danni significativi agli obiettivi ambientali, indipendentemente dalla natura delle risorse impiegate. Questo processo spinge, inevitabilmente, a qualificare i criteri di sostenibilità ambientale come veri e proprio vincoli strutturali all’esercizio della stessa discrezionalità amministrativa (come bene emerge dagli spunti pretori offerti nelle prime pronunce sul tema); cambiamento, questo, destinato a persistere ben oltre la scadenza del PNRR.
[1] Il DNSH, in particolare, fa la sua comparsa a novembre 2019 nel Regolamento (UE) 2019/2088 relativo all’informativa sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari (disclosure di sostenibilità). Esso, infatti, introduce, per tutti i partecipanti al mercato finanziario e per i consulenti finanziari, l’obbligo di comunicare come i rischi di sostenibilità siano considerati e integrati nelle loro scelte di investimento e quale considerazione assumano gli impatti negativi sui fattori di sostenibilità nei loro processi e nelle loro politiche di impegno. Più nel dettaglio, il considerando 17, con riferimento agli “investimenti sostenibili”, specifica che «le imprese che beneficiano di tali investimenti rispettino prassi di buona governance e sia assicurato il principio di precauzione teso a non arrecare danni significativi, affinché non sia pregiudicato in maniera significativa né l’obiettivo ambientale né quello sociale». L’art.2, par.1, n. 17, del regolamento cit. (dove si fornisce la definizione di “investimento sostenibile”) non reca poi, però, una definizione di “danno significativo”. Sul rapporto DNSH e sostenibilità pure finanziaria, si veda M. Delsignore, Il principio DNSH e la lotta al greenwashing, in Federalismi.it, 2024, 27.
[2] Il GD europeo è una strategia di contrasto al cambiamento climatico lanciata dall’UE nel dicembre 2019. L’atto che ne tratteggia le linee essenziali è, di fatto, una Comunicazione della Commissione, un documento di policy, intitolato per l’appunto Green Deal europeo COM(2019)640. L’esordio della comunicazione illustrativa del GD cattura subito il senso della roadmap: «ogni anno […] l’atmosfera si riscalda e il clima cambia. Degli otto milioni di specie presenti sul pianeta un milione è a rischio estinzione. Assistiamo all’inquinamento e alla distruzione di foreste e oceani. Il Green Deal europeo è la risposta a queste sfide. Si tratta di una nuova strategia di crescita mirata a trasformare l’UE in una società giusta e prospera, dotata di un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva che nel 2050 non genererà emissioni nette di gas a effetto serra in cui la crescita economica sarà dissociata dall’uso delle risorse». In dottrina, tra i contributi più recenti, si veda D. Bevilacqua, Il Green New Deal, Milano, 2024; Id. Il green deal, l’economia circolare e lo “stato conformatore”, in RGE online, 2023, 38; Id., La normativa europea sul clima e il Green New Deal, in Riv. trim. dir. pubb., 2022, 297 ss.; D. Bevilacqua, E. Chiti, Green Deal, costruire una nuova europa, 2023, Il Mulino; E. Chiti, Verso una sostenibilità plurale? La forza trasformatrice del Green Deal e la direzione del cambiamento giuridico, in Riv. Quadr. Dir. Amb., 2021, 3; A. Moliterni, Il Green Deal europeo e le sfide per il diritto dell’ambiente, in Riv. Quadr. Dir. Amb., 2022, 34 ss.
[3] D. Bevilacqua, Il Green New Deal, op. cit., 44 ss.; G. Monti, Four options for a greener competition law, in Journal of European Competition Law & Practice, 2020, 11, 124 ss.; A. Gerbrandy, The difficulty of conversations about sustainability and European competition law, in Antitrust Chronicle, 2020, 12, 62 ss.; K. Pouikli, Towards mandatory Green Public Procurement (GPP) requirements under the EU Green Deal: Reconsidering the role of public procurement as an environmental policy tool, in ERA Forum, 2021, 21.
[4] Questo quanto evidenziato pure da D. Bevilacqua, Il Green New Deal, op. cit., 31 ss. Sul punto, si vedano anche le riflessioni di F. De Leonardis, Lo stato ecologico, Torino 2023; A. Moliterni, La transizione alla green economy e il ruolo dei pubblici poteri, in G. Rossi, M. Monteduro (a cura di), L’ambiente per lo sviluppo. Profili giuridici ed economici, Torino, 2020, 55 ss.; M. Cocconi, La regolazione dell'economia circolare. Sostenibilità e nuovi paradigmi di sviluppo, Milano, 2020; E. Frediani, Lo sviluppo sostenibile: da ossimoro a diritto umano, in Quad. cost., 2017, 3, 626 ss.
[5] L’EGD opera, difatti, in maniera assai differente rispetto agli strumenti tradizionali delle politiche ambientali europee, operanti secondo lo schema determinato dagli artt. 191 e 192 TFUE, con particolari conseguenze sul principio di “no harm” secondo A. Sikora, European Green Deal, op. cit., 687 ss. che conclude l’analisi della riconducibilità all’ordinamento europeo del programma sostenendo che «what the EGD fails to address and explore is the constitutional dimension of environmental protection in the EU legal order. Constitutional entrenchment of environmental protection seems to be precisely a missing point of the EGD».
[6] Pare opportuno evidenziare che, a livello internazionale, esistono nozioni analoghe al DNSH. Un esempio è il tema dei sussidi dannosi per l’ambiente: nell’ambito della biodiversità, la Convenzione di Kunming-Montreal (art. 18) mira espressamente a identificare ed eliminare finanziamenti destinati ad attività che ne compromettono la tutela.
[7] Cfr. F. Torres, The European Green Deal: More than an Exit Strategy to the Pandemic Crisis, a Building Block of a Sustainable European Economic Model, in Journal of Common Market Studies, 2021, 170 ss.; C. Hamilton, Earthmasters: The Dawn of the Age of Climate Engineering, 2021, Yale University Press; B. Tonoletti, Cambiamenti climatici come problema di diritto pubblico universale, in Riv. Giur. Amb., 2021, 37 ss.
[8] Il famoso rapporto Brundtland del 1987 (“Our Common Future”) ha definito come “sostenibile” lo sviluppo capace di soddisfare le necessità del presente senza compromettere le opportunità delle generazioni future. L’idea è ripresa esattamente dagli artt. 3 e 11 del T.F.U.E.. Queste norme, infatti, fanno degli imperativi della sostenibilità e dell’integrazione l’architrave della tutela ambientale, in chiave sistemica. I due macro-principi di che trattasi ambiscono ad impedire che, durante la coevoluzione dei due sistemi “società” e “ambiente”, un pericoloso scarto si insinui, nel tempo e nello spazio, tra la scala delle azioni, dei processi e delle responsabilità umane e la scala dei processi e delle dinamiche ambientali. Da qui discendono due necessità simmetriche: la cautela e l’apprendimento. Ed è a questa logica che rispondono i principi di prevenzione, precauzione, intervento alla fonte, responsabilizzazione del potenziale inquinatore, condivisione delle informazioni. Si veda M. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente. Come sistema complesso, adattivo, comune, 2007, Torino, 102 ss.; R. Ferrara, La tutela dell’ambiente e il principio di integrazione: tra mito e realtà, in Riv. Giur. Urb., 2021, 2, 16 ss.; S. Grassi, La tutela dell’ambiente nelle fonti internazionali, europee ed interne, in Federalismi.it, 2023; M. Onida, Il diritto ambientale dell’UE nel tempo, tra agenda europea e politiche nazionali, in Federalismi.it, 2020.
[9] Il T.U.E. stabilisce, all’art. 5, che nei settori che non sono di sua esclusiva competenza, “la Comunità interviene secondo il principio di sussidiarietà”. In altri termini, il principio non fissa stabilmente la titolarità formale delle funzioni, ma vale a dislocarne l’esercizio verso l’alto o verso il basso in rapporto alla natura delle questioni in gioco. La sentenza della CGUE, 25 maggio 2023, n. 575 ha, ad esempio, ritenuto che, in applicazione del principio di sussidiarietà, spettasse agli Stati la fissazione delle soglie o dei criteri utili a stabilire in concreto l’entità dell’impatto ambientale dei progetti ai fini dell’applicazione degli artt. 4 e 11 della Direttiva 2014/52/UE in tema di VIA. Il Consiglio europeo ha messo limpidamente a fuoco il punto in un passo della Risoluzione sul V Programma di azione ambientale che «combina il principio della sussidiarietà con il concetto più ampio di condivisione delle responsabilità. Quest’ultimo concetto non si basa tanto sulla scelta di operare ad un livello ad esclusione degli altri, ma piuttosto sulla scelta di combinare gli strumenti e gli attori a diversi livelli, senza per questo voler rimettere in questione la divisione delle competenze tra Comunità, gli Stati membri e le autorità regionali o locali. Per un singolo obiettivo o problema l’accento può essere posto a livello della Comunità, nazione, regione e per un altro a livello regionale, locale, settoriale oppure a livello di aziende, collettività, consumatori». In dottrina, si veda F. Fonderico, La disciplina comunitaria dell’ambiente, in Rassegna parlamentare, 2003, 4, 961 ss.; Id., Sesto programma d’azione per l’ambiente e le strategie tematiche, in Riv. giur. amb., 2007, 5, 695 ss.; R. Giuffrida, F. Amabili (a cura di), La tutela dell’ambiente nel diritto internazionale ed europeo, 2018, Torino.
[10] Firmato nel 1986, l’Atto Unico di che trattasi integrò il Trattato CEE con disposizioni finalmente dedicate all’ambiente, che fecero della protezione ambientale una componente essenziale del processo di integrazione europea (artt. 130r-130t). Le scelte dell’Atto Unico, non a caso, furono poi confermate nel Trattato di Maastricht del 1992, che elevò la tutela dell’ambiente a competenza formale e dichiarata dell’Unione, consacrando l’obiettivo dello sviluppo sostenibile e codificando i principi fondamentali in materia.
[11] M.C. Carta, Il Green Deal europeo. Considerazioni critiche sulla tutela dell’ambiente e le iniziative di diritto UE, in Eurojus, 2020; M. Faioli, Sul significato sociale della dimensione europea, in Federalismi.it, 2019; F. Munari, Do Environmental Rules and Standard Affect Firms’ Competitive Ability?, in European Papers, 2019, 207 ss.; R. Ferrara, Brown economy, green economy, blue economy: l’economia circolare e il diritto dell’ambiente, in Dir. e Proc. Amm., 2018, 801 ss.
[12] Anche alla luce delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza eurounitaria, pare corretto misurare la proporzionalità in ragione dell’obiettivo di elevato livello di tutela: CGUE, 07 settembre 2004, in causa C-127/02, cit. Il principio secondo cui, «in linea generale la tutela dell’ambiente ha trovato anticipata applicazione rispetto all’evento dannoso con l’introduzione, nell’ordinamento, del principio di precauzione (art. 174, § 2, del Trattato CE, oggi art. 191, § 2 Trattato FUE, art. 301 codice dell’ambiente), in forza del quale per ogni attività che comporti pericoli, anche solo potenziali, per la salute umana e per l’ambiente, deve essere assicurato un alto livello di protezione», ad esempio, è affermato da Cons. di Stato, sez. IV, 7 maggio 2021, n. 359. Nel senso della stretta necessità della misura, in tema sanitario e ambientale, cfr. Cons. Stato, sez. III, 3 ottobre 2019, n. 6655; Id., sez. IV, 28 febbraio 2018, n. 1240, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[13] In dottrina, M. Monteduro, Le decisioni amministrative nell’era della recessione ecologica, in Rivista AIC, 2018, 37 ss.; P. Lombardi, Ambiente e generazioni future: la dimensione temporale della solidarietà, in Federalismi.it, 2023; M. Cecchetti, Diritto ambientale e conoscenze scientifiche tra valutazione del rischio e principio di precauzione, in Federalismi.it, 2022.
[14] Sui principi, in particolare, si vedano le riflessioni di F. Fracchia, I principi generali nel codice dell’ambiente, in Riv. quad. dir. amb., 2021, 3, 4 ss.; Id., L’ambiente nella prospettiva giuridica, in F. Cuturi (a cura di), La natura come soggetto di diritti. Prospettive antropologiche e giuridiche a confronto, 2020, Firenze, 159 ss.; Id., La tutela dell’ambiente come dovere di solidarietà, in Dir. econ., 2009, 491 ss. Si veda anche F. Fonderico, La tutela dell’ambiente, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo speciale, 2003, Milano, 1021 ss.; Id. La “codificazione” del diritto dell’ambiente in Italia: modelli e questioni, in Riv. trim. dir. pubbl., 2006, 612 ss.; F. Giampietro, I principi ambientali nel d.lgs. n.152/06: dal T.U. al Codice dell’ambiente ovvero le prediche inutili?, in Ambiente e sviluppo, 2008, 6; D. Sorace, Tutela dell’ambiente e principi generali sul procedimento amministrativo, in R. Ferrara, M.A. Sandulli (diretto da), Trattato di diritto dell’ambiente. I procedimenti amministrativi per la tutela dell’ambiente, 2020, Milano, 3 ss.; F. Lorenzotti, B. Fenni (a cura di), I principi del diritto dell’ambiente e la loro applicazione, 2015, Napoli; S. Grassi, Ambiente e Costituzione, in Riv. quadr. dir. amb., 2017, 4 ss.; R. Ursi, La terza riforma della Parte II del Testo unico ambientale, in Urb. e app., 2011, 13 ss.; F. De Leonardis, Le trasformazioni della legalità nel diritto ambientale, in G. Rossi (a cura di), Diritto dell’ambiente, 2021, Roma, 123 ss.; R. Ferrara, I principi comunitari della tutela dell’ambiente, in Dir. amm., 2005, 509 ss.; M. Renna, I principi in materia di ambiente, in Riv. dir. amb., 2012, 70 ss., che evidenzia come, in particolare, «la sussidiarietà è servita a far sì che la Comunità potesse attrarre verso l’alto e, di conseguenza, svolgere competenze normative che al livello più basso, ossia al livello degli Stati membri, non potevano essere o, comunque, non erano svolte adeguatamente, a motivo, in particolare, delle dimensioni degli obiettivi da realizzare e delle competenze da esercitare»; G. Tesauro, Manuale di diritto dell’Unione europea, 2021, Napoli, 170 ss.; P. Dell’Anno, Principi di diritto ambientale internazionale ed europeo, 2004, Milano; Id., Il ruolo dei principi del diritto ambientale europeo: norme di azione o norme di relazione?, in Gazzetta Ambiente, 2003, 131 ss.
[15] La CGUE ha chiarito che l’art. 191, par. 2, TFUE, che contiene il principio in parola, «è rivolto all’azione dell’Unione e non può essere invocato dai provati al fine di escluderne l’applicazione di una normativa nazionale emanata in una materia rientrante nella politica ambientale, quando non sia applicabile nessuna normativa dell’UE adottata in base all’art. 192 TFUE che disciplini specificamente l’ipotesi di cui trattasi» (CGUE, 13 luglio 2017, n. 129/16).
[16] Il Comitato economico sociale europeo ha riassunto in poche efficaci battute detto principio vale a dire: «il principio di precauzione presenta tre componenti fondamentali: la precauzione richiede anzitutto maggiori sforzi volti ad accrescere le conoscenze; la precauzione presuppone la creazione di strumenti di vigilanza scientifica e tecnica per identificare le nuove conoscenze e comprenderne le implicazioni; la precauzione comporta infine l’organizzazione di un ampio dibattito sociale in merito a ciò che è auspicabile e ciò che è fattibile» (parere su “Il ricorso al principio di precauzione”, 2020, Bruxelles). Secondo T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 17 febbraio 2016, n. 2107, in giustizia-amministrativa.it, il principio di precauzione non può divenire «un canone di interpretazione della normativa di settore» con l’effetto di sottoporre la realizzazione dell’impianto a prescrizioni molto più severe di quelle previste dalla legge pur quando non vi sia una incertezza scientifica circa i rischi legati a una determinata attività»; è solo «la mancanza di certezze scientifiche dovute a insufficienti informazioni e conoscenze scientifiche riguardanti la portata dei potenziali effetti negativi di un organismo o di una sostanza che impone l’adozione di misure adeguate al fine di evitare o limitare effetti potenzialmente negativi». Si veda anche M. Allena, Il principio di precauzione: tutela anticipata v. legalità-prevedibilità dell'azione amministrativa, in Dir. econ., 2016, 411 ss.; S. Cognetti, Precauzione nell'applicazione del principio di precauzione, in Scritti in memoria di Giuseppe Abbamonte, 2019, Napoli, 387 ss.
[17] Anche il primato della, diversa, “prevenzione” è costantemente affermato dalla giurisprudenza della CGUE. Si pensi, recentemente, alla sentenza della Corte del 17 aprile 2018 (Commissione c. Repubblica d Polonia) ove, in tema di protezione della biodiversità, si è stabilito che « l’articolo 12, paragrafo 1, lett. a) e d) della direttiva 2009/147/CE impone agli Stati membri di adottare i provvedimenti necessari ad istituire un regime di rigorosa tutela delle specie animali»; regime che presuppone «l’adozione di misure coerenti e coordinate di carattere preventivo».
[18] Come evidenziato in dottrina, «il concetto di “danno significativo”, o meno, risulta assolutamente vago: siamo, dunque, di fronte ad un concetto giuridico indeterminato, il cui contenuto è sostanzialmente lasciato alla discrezionalità tecnica delle autorità che sono chiamate ad applicare il criterio». A. Bartolini, Green Deal europeo e il c.d. principio DNSH, in Federalismi.it, 2024, 2. Si veda anche D. Bevilacqua, Il Green New Deal, op. cit., 237 ss., ove l’Autore evidenzia che «in futuro avrà un ruolo chiave il modo in cui verrà interpretato il concetto di “danno significativo”: su questo punto riprende vigore la discrezionalità del soggetto attuatore, quindi dalle amministrazioni nazionali, ma questa a sua volta sarà condizionata, di volta in volta, dagli organi giudiziari coinvolti in eventuali dispute».
[19] B. De Witte, The european union’s Covid 2019 recovery plan: the legal engineering of an economic policy shift, in Common Market Law Review, 2021, 635 ss. Si veda anche A. Averardi, Potere pubblico e politiche industriali, Iovene, Napoli, 2018, 122 ss.; L. Butti, S. Nespor, Il diritto del clima, Milano, Mimesis, 2022, 89 ss.; A. Bonomo, Il potere del clima. Funzioni pubbliche e legalità della transizione ambientale, Cacucci, Bari, 2023, 13 ss.; L. Salvemini, Il nuovo diritto dell’ambiente tra recenti principi e giurisprudenza creativa, Torino, Giappichelli, 2022, 145 ss.
[20] F. Rolando, L’attuazione del principio di integrazione ambientale nel diritto dell’Unione europea, in DPCE online, 2022, 3, 23 ss.
[21] Cfr. C. Sabel, D.G. Victor, Fixing the climate strategies for an uncertain world, Princeton University Press, 2022.
[22] In dottrina, si veda D. Bevilacqua, Il Green New Deal, op. cit., 89 ss.
[23] B. Tonoletti, I cambiamenti climatici come problema di diritto pubblico universale, in Riv. Giur. Amb., 2021, 37 ss.; E. Bruti Liberati, Politiche di decarbonizzazione, costituzione economica europea e assetti di governance, in Dir. Pubb., 2021, 415 ss.; F. Rolando, L’attuazione del Green Deal e del Dispositivo per la ripresa e resilienza: siamo effettivamente sulla strada per raggiungere la sostenibilità ambientale?, in Dir. Un. UE, 2022.
[24] Ai sensi del Regolamento supra, il primo piano di lavoro dovrà essere adottato dalla Commissione entro il 19 aprile 2025 e dovrà dare precedenza ai prodotti che hanno un impatto ambientale maggiore, ex plurimis: ferro e acciaio, alluminio, prodotti tessili, detergenti, vernici e sostanze chimiche.
[25] Il Passaporto Digitale del Prodotto è uno strumento che, nella logica del Regolamento citato, consente di raccogliere, in maniera accurata, completa e aggiornata, informazioni sul prodotto e sul suo ciclo di vita, dalla sua realizzazione alla fine della sua vita utile al fine di promuovere la trasparenza e la sostenibilità della supply chain.
[26] Preme evidenziare come sulla natura di “principio” del DNSH non vi è uniformità di vedute. Secondo A. Bartolini, op. ult. cit., il principio DNSH sarebbe in realtà «ontologicamente un criterio di selezione dei danni significativi o non significativi all’ambiente: per cui a fini di chiarezza espositiva occorrerebbe finirla con usare il termini principio e sostituirlo con il termine criterio». Secondo l’Autore, il DNSH potrebbe essere inquadrato quale “condizionalità ambientale” ossia rientrante in quegli «obblighi gravanti tra stati o comunque tra autorità pubbliche, per cui un determinato vantaggio è condizionato all’avverarsi di determinati comportamenti o attività da parte dell’altra, avvicinandosi sostanzialmente allo schema dell’onere […]. Tra le condizionalità ambientali in senso ampio introdotte dal dispositivo di ripresa e resilienza (c.d. recovery fund) vi è anche l’implementazione del criterio DNSH». Cfr. pure P. Casalino, La fase di prima attuazione del piano nazionale di ripresa e resilienza: gestione, monitoraggio e controllo, principi trasversali e condizionalità per il corretto utilizzo delle risorse europee, in Riv. Corte Conti, 2021, 5, 5 ss.
[27] Non è questa la sede per una trattazione di dettaglio del principio in parola. Tuttavia, preme evidenziare qui come lo stesso sembrerebbe essere, come bene evidenziato in dottrina, una diretta applicazione del principio di sostenibilità, in quanto tende a coniugare la tutela dell’ambiente con quella dello sviluppo economico e in qualche modo collegabile a quello di non regressione; cfr. F. De Leonardis, Lo stato ecologico, 2023, Torino, 262 ss. Sul punto, si veda anche F. Spera, Da valutazione “non arrecare un danno significativo” a “principio DNSH”: la codificazione di un nuovo principio europeo e l’impatto di una analisi trasversale rivolto al futuro, in I Post di ASIDUE, 2022, IV.
[28] Si veda, sul punto, T.A.R. Lazio, Roma, sez. V, 08 ottobre 2024, n. 17304, in giustizia-amministrativa.it.
[29] A ben vedere, il Dispositivo per la Ripresa e Resilienza, come meglio si dirà nel seguito, non stabilisce una definizione di questo principio, ma rinvia all’atto che lo ha effettivamente introdotto: il Regolamento Tassonomia. Secondo il regolamento in esame, un’attività è considerata “ecocompatibile” se non arreca un danno significativo ad uno dei sei obiettivi ambientali definiti dall’art. 9 (ex aliis, la mitigazione dei cambiamenti climatici; l’uso sostenibile e la protezione delle acque e delle risorse marine; la transizione verso un’economia circolare; la prevenzione e la riduzione dell’inquinamento; ecc.). Per ognuno di essi, l’art. 17 descrive le attività che determinerebbero un danno significativo, chiarendo che l’impatto ambientale deve essere valutato tenendo conto dei prodotti e servizi forniti durante il loro intero ciclo di vita.
[30] I. Costanzo, La valutazione di conformità al principio “Do No Significant Harm” (DNSH), in Giorn. dir. amm., 2023, 5, 676 ss.; G.M. Caruso, Il principio “do no significant harm”: ambiguità, caratteri e implicazioni di un criterio positivizzato di sostenibilità ambientale, in La Cittadinanza europea, 2022, 2, 151 ss.
[31] T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 5 giugno 2019, n. 543, in giustizia-amministrativa.it, secondo cui «in realtà, per il principio di precauzione, è possibile e doveroso applicare valori limite più conservativi di quelli in vigore, qualora l'impianto inquinante disponga della tecnologia idonea, o possa esserne dotato con una spesa ragionevole, e la gestione dell'attività rimanga economicamente sostenibile»; si è comunque affermato (T.A.R. Molise, sez. I, 15 marzo 2017, n. 82) che, «poiché la complessità dei sistemi ecologici non permette di avere un quadro completo delle conoscenze, né di prevedere con esattezza lo sviluppo delle dinamiche dei sistemi», il principio di precauzione «richiede che si agisca avendo sempre come riferimento lo scenario più prudente tra quelli possibili, vale a dire quello che corrisponde all'attuale livello di dubbio nella conoscenza delle situazioni e nella previsione dei fenomeni futuri».
[32] Si veda, nello specifico, A. Bartolini, Green Deal europeo e il c.d. principio DNSH, in Federalismi.it, 2024, 15, 51 ss.
[33] In termini G. Cordini, P. Fois, S. Marchisio (a cura di), Diritto ambientale. Profili internazionali, europei e comparati, 2017, Torino, 144 ss.
[34] M.C. Verciano, La discrezionalità del potere nella lotta al cambiamento climatico, in Federalismi.it, 2023, 3. In particolare, secondo l’A. sembra che il Green Deal europeo non rifletta affatto la «più alta ambizione possibile», richiesta dall’Accordo di Parigi nella pianificazione delle quote di abbattimento delle emissioni in una prospettiva di DNSH e ciò in quanto mancherebbe il parametro quantitativo e temporale del Carbon Budget globale residuo. Detta circostanza renderebbe la previsione europea viziata su quattro fronti: (i) in termini di irragionevolezza, «dato che il Regolamento non assume espressamente, come parametro di riferimento, il Carbon Budget globale residuo, allo scopo di calcolare il proprio»; (ii) per conseguente irrazionalità, poiché qualsiasi mitigazione climatica, anche quanto funzionalizzata a un obiettivo autoreferenziale come la neutralità climatica, «consiste pur sempre in un’appropriazione di quote del Carbon Budget globale residuo, sicché ignorarlo non vuol dire escluderlo»; (iii) per ulteriormente connessa illogicità, in quanto la previsione di bilancio è proiettata sulla finestra temporale 2030-2050 cioè quando il Carbon Budget globale residuo sarà già esaurito, come ormai pacificamente accertato dalla comunità scientifica; (iv) per consequenziale contrarietà con il principio DNSH, in quanto «prevedere un bilancio tardivo e inutile implica praticamente andare incontro a decisioni e azioni significativamente difformi dal contenuto di mitigazione climatica, indicato dall’art. 1 del Regolamento Ue n. 2020/852, e per ciò stesso dannose».
[35] Cfr. in dottrina i rilievi di U. Barelli, Il PNRR ed il principio “Do not significant harm”, in RGA on line, 2023, 39 e di I. Costanzo, La valutazione di conformità al principio do not significant harm (DNSH), in Giorn dir. amm., 2023, 676 ss.
[36] Si veda, recentemente, in argomento G. Morbidelli, I principi eurounitari e la legge n. 241/1990: quale rapporto?, in A. Bartolini, T. Bonetti, B. Marchetti, B.G. Mattarella, M. Ramajoli (a cura di), La legge n. 241 del 1990, trent’anni dopo, 2021, Torino, 34 ss.
[37] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28 febbraio 2018, n. 1240: «il Collegio ritiene che il principio di precauzione: a) i cui tratti giuridici si individuano lungo un percorso esegetico fondato sul binomio analisi dei rischi-carattere necessario delle misure adottate, presuppone l'esistenza di un rischio specifico all'esito di una valutazione quanto più possibile completa, condotta alla luce dei dati disponibili che risultino maggiormente affidabili e che deve concludersi con un giudizio di stretta necessità della misura; b) non può legittimare un'interpretazione delle disposizioni normative, tecniche ed amministrative vigenti in un dato settore che ne dilati il senso fino a ricomprendervi vicende non significativamente pregiudizievoli; c) non conduce automaticamente a vietare ogni attività che, in via di mera ipotesi, si assuma foriera di eventuali rischi per la salute delle persone e per l'ambiente, privi di ogni riscontro oggettivo e verificabile, richiedendo esso stesso una seria e prudenziale valutazione, alla stregua dell'attuale stato delle conoscenze scientifiche disponibili, dell'attività che potrebbe ipoteticamente presentare dei rischi, valutazione consistente nella formulazione di un giudizio scientificamente attendibile».
[38] Come efficacemente evidenziato da D. Bevilacqua, Il Green New Deal, op. cit., 237 ss., «in futuro avrà un ruolo chiave il modo in cui verrà interpretato il concetto di “danno significativo”: su questo punto riprende vigore la discrezionalità del soggetto attuatore, quindi dalle amministrazioni nazionali, ma questa a sua volta sarà condizionata, di volta in volta, dagli organi giudiziari coinvolti in eventuali dispute».
[39] La tendenza espansiva dei principi ambientali trova una espressa conferma nel dettato dell’art. 3 quater del d.lgs. n. 152/2006, ove si riconosce allo sviluppo sostenibile il rango di principio potenzialmente applicabile a tutte le attività umane concernenti l’ambiente e alle scelte amministrative ambientali. In particolare, ai sensi del comma 2, il principio va rispettato anche ove non si faccia questione di interventi pubblici specificamente destinati alla tutela dell’ambiente.
[40] Il Regolamento ha classificato le attività economiche ai fini della loro ecosostenibilità, individuando con chiarezza sia gli obiettivi ambientali da perseguire sia i criteri di vaglio tecnico da rispettare nel riconoscimento dei finanziamenti e degli investimenti delle attività economiche. Sul punto si veda L. Lionello, Il Green Deal europeo. Inquadramento giuridico e prospettive di attuazione, in Vita e Pensiero, 2022; A.S. Bruno, Il PNRR e il principio del “Do Not Significant Harm” davanti alle sfide territoriali, in Federalismi.it, 2022; C. De Vincenti, Il principio “Do Not Significant Harm”: due possibili declinazioni, in Astrid, 2022.
[41] Con l’Accordo di Parigi, adottato il 12 dicembre 2015 (ed entrato in vigore il 4 novembre 2016) nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC), è stato convenuto di mantenere l’aumento della temperatura media mondiale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali, proseguendo gli interventi volti a limitare tale aumento a 1,5°C. L’obiettivo di intensificare l’impegno globale a favore del clima, gettando le basi per una transizione rapida, giusta ed equa, sostenuta da profondi tagli alle emissioni e dal potenziamento degli investimenti nel settore ambientale, è stato sottoscritto dai Paesi partecipanti alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (“COP 28”), svoltasi negli Emirati Arabi Uniti dal 30 novembre al 12 dicembre 2023. Nell’ambito della successiva “COP29” di Baku, per quanto qui di immediato interesse, è stato previsto lo stanziamento di 300 miliardi l’anno in aiuti climatici (quello che in termini tecnici è il New Collective Quantified Goal, il “Nuovo Obiettivo Quantitativo Globale” 2025-2035) che dovrebbero arrivare in quota crescente entro 11 anni in forma di sovvenzioni a fondo perduto o in prestiti a basso tasso di interesse, in finanza pubblica e privata mobilitata, con i Paesi sviluppati nel ruolo di leader. Si badi bene, tuttavia, che qui non è rinvenibile alcun vincolo giuridico: l’accordo, da tale angolo visuale, resta un’astratta aspirazione, pure per i Paesi più vulnerabili agli effetti della crisi climatica. L’occasione, quindi, è mancata anche laddove si consideri il testo dell’art. 9 dell’Accordo di Parigi, ove si prevede che «le Parti che sono paesi sviluppati forniscono risorse finanziarie per assistere le Parti che sono paesi in via di sviluppo per quanto riguarda sia la mitigazione che l'adattamento, continuando ad adempiere agli obblighi ad essi incombenti in virtù della convenzione».
[42] Con riferimento a tale aspetto, in relazione al rispetto del principio DNSH, si veda T.A.R. Marche, sez. I, 31 gennaio 2024, n. 118, in giustizia-amministrativa.it.
[43] La Guida, in particolare, per come aggiornata dalla circolare del MEF n. 22 del 14.05.2024, fornisce una disamina di dettaglio pure degli aspetti più pratici qui esaminati. La Guida, infatti, che si compone - tra l’altro - di Schede tecniche relative a ciascun settore di intervento, ha la funzione di fornire alle amministrazioni titolari delle misure PNRR e ai soggetti attuatori, una sintesi delle informazioni operative e normative che identificano i requisiti tassonomici, ossia i vincoli DNSH e nelle quali sono riportati i riferimenti normativi, i vincoli DNSH e i possibili elementi di verifica. Si consideri che la circolare si premura di specificare che la Guida in oggetto non ha carattere vincolante, specificando che «la Guida è uno strumento di orientamento e supporto. Rimane in capo alle Amministrazioni titolari la responsabilità di assicurare la conformità ai requisiti DNSH degli interventi finanziati, anche tramite la trasmissione di indicazioni puntuali ai soggetti attuatori in sede di monitoraggio e rendicontazione dei traguardi e obiettivi (milestone e target) e in sede di verifica e controllo della spesa».
[44] Si consideri che il Regolamento Delegato (UE) 2021/2139 della Commissione del 04 giugno 2021 integra il Regolamento (UE) 2020/852 del Parlamento europeo e del Consiglio fissando i criteri di vaglio tecnico che consentono di determinare a quali condizioni si possa considerare che un’attività economica contribuisce in modo sostanziale alla mitigazione dei cambiamenti climatici o all’adattamento ai cambiamenti climatici e se non arreca un danno significativo a nessun altro obiettivo ambientale. Detto Regolamento è stato integrato dal Regolamento Delegato (UE) 2023/2485 che introduce criteri di vaglio tecnico supplementari per gli obiettivi climatici per nuove attività economiche non previste nel precedente documento.
[45] Questo è il caso, a titolo meramente esemplificativo, dell’investimento relativo all’efficientamento energetico delle cittadelle giudiziarie (Missione 2 Componente 3 del PNRR), per il quale è stato esplicitato come la misura non comporti emissioni di gas ad effetto serra (GHG) significative in quanto gli edifici non sono dedicati all'estrazione, stoccaggio, trasporto o produzione di combustibili fossili e, soprattutto, come il programma intenda, invece, aumentare l'efficienza energetica, portando a un sostanziale miglioramento delle prestazioni energetiche degli edifici già esistenti interessati.
[46] Peraltro, si segnala come investimenti e attività PNRR non devono: produrre significative emissioni di gas ad effetto serra, tali da non permettere il contenimento dell’innalzamento delle temperature di 1,5 C° fino al 2030 (sono pertanto escluse iniziative connesse con l’utilizzo di fonti fossili); essere esposte agli eventuali rischi indotti dal cambiamento del clima, quali ad es. innalzamento dei mari, siccità, alluvioni, esondazioni dei fiumi, nevicate abnormi; compromettere lo stato qualitativo delle risorse idriche con una indebita pressione sulla risorsa; utilizzare in maniera inefficiente materiali e risorse naturali e produrre rifiuti pericolosi per i quali non è possibile il recupero; introdurre sostanze pericolose, quali ad es. quelle elencate nella cosiddetta Authorization List del Regolamento UE n. 1907/2006 c.d. “Reach”; compromettere i siti ricadenti nella rete Natura 2000.
[47] Metodologia, quest’ultima, applicata anche per l’iniziativa “REPower EU”, che si innesta sul Dispositivo per la ripresa e resilienza per dare una risposta all’eccessiva dipendenza dell’UE dalle importazioni di gas, petrolio e carbone dalla Russia e a fronte delle perturbazioni del sistema energetico mondiale. Il Regolamento (UE) 2023/435 del 27 febbraio 2023 individua gli obiettivi specifici di questa iniziativa, le fonti di finanziamento e conferma le modalità di valutazione delle proposte di misure già adottate per i PNRR. Viene in questo contesto confermato il principio DNSH che continua ad applicarsi alle riforme e agli investimenti, al netto di una specifica deroga per le misure che contribuiscono a migliorare le infrastrutture energetiche per soddisfare il fabbisogno immediato di sicurezza dell'approvvigionamento (e che non può riguardare più del 30% dei costi totali stimati delle misure incluse nel capitolo REPowerEU.
[48] R. Bifulco, Nascita di un principio? la tormentata formazione del do no significant harm, in RGA online, 2024. L’Autore evidenzia come «mentre nel regolamento Tassonomia il DNSH è applicato nei confronti delle attività economiche, nel regolamento sul dispositivo esso trova un’applicazione per ogni misura, sia che si tratti di riforme sia che si tratti di investimenti. Inoltre queste due tipologie di attività possono concernere, a loro volta, diversi livelli, come lo sviluppo di piani di investimento (progetti per la ricarica delle batterie per autoveicoli), orientare investimenti pubblici (investimenti in materia di impianti per il trattamento dei rifiuti), indirizzare e incentivare investimenti privati (si pensi agli schemi per dirottare fondi verso progetti a sostegno dello sviluppo nella transizione verso l’idrogeno). Dunque, all’interno del regolamento sul dispositivo, il principio è utilizzato nella maniera più trasversale possibile».
[49] Adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015, essa fissa gli obiettivi di sviluppo sostenibile (c.d. “OSS”) con riguardo alle sue tre dimensioni: economica, sociale e ambientale.
[50] In giurisprudenza, si veda anche Cons. Stato, sez. VI, 23 dicembre 2024, n. 10317, in giustizia-amministrativa.it.
[51] Aspetto che colloca il DNSH, de facto, all’interno dell’architettura normativa europea, rendendolo complementare ad altri principi cardine, come quello di integrazione ambientale e le cosiddette “garanzie minime”, con l’obiettivo di contrastare il cambiamento climatico. Di conseguenza, qualsiasi incertezza sull’ambito di applicazione del DNSH non è lasciata alla discrezionalità dei singoli poteri, ma è soggetta all’interpretazione della Corte di Giustizia dell’UE per garantire un’applicazione uniforme.
[52] T.A.R. Puglia, Bari, sez. III, 04 marzo 2024, n. 263, in giustizia-amministrativa.it.
[53] Su DNSH come condizionalità imposta dal dispositivo per la ripresa e resilienza v. P. Casalino, La fase di prima attuazione del piano nazionale di ripresa e resilienza: gestione, monitoraggio e controllo, principi trasversali e condizionalità per il corretto utilizzo delle risorse europee, in Riv. Corte Conti, 2021, 5, 10 ss.
[54] Al momento sono stati adottati CAM per 24 tipologie di forniture e affidamenti: arredi per interni (d.m. 254/2022); arredo urbano (d.m. 07 febbraio 2023); ausili per l’incontinenza (d.m. 24 dicembre 2015); calzature da lavoro e accessori in pelle (d.m. 17 maggio 2018); carta (d.m. 04 aprile 2013); cartucce (d.m. 17 ottobre 2019); edilizia (d.m. 256/2022); eventi culturali (d.m. 347/2022); illuminazione pubblica (fornitura e progettazione; d.m. 27 settembre 2017); illuminazione pubblica (servizio; d.m. 28 marzo 2018); illuminazione e raffrescamento/riscaldamento per edifici (d.m. 07 marzo 2012); infrastrutture stradali (d.m. 279/2024); lavaggio industriale, noleggio di tessili (d.m. 09 dicembre 2020); prestazione energetica (d.m. 12 agosto 2024); pulizie e sanificazione (d.m. 51/2021); rifiuti urbani e spazzamento stradale (d.m. 255/2022); ristorazione collettiva (d.m. 65/2020); ristoro e distributori automatici (d.m. 06 novembre 2023); servizi energetici per gli edifici (d.m. 07 marzo 2012); servizi energetici a prestazione per sistemi edifici-impianti (d.m. 12 agosto 2024); stampanti (d.m. 17 ottobre 2019); tessili (d.m. 07 febbraio 2023); veicoli (d.m. 17 giugno 2021); verde pubblico (d.m. 63/2020). Tutti questi decreti, peraltro, vengono aggiornati periodicamente sulla base dell’evoluzione tecnologica e di mercato.
[55] Sulla obbligatorietà dei CAM, ex plurimis, cfr. Cons. Stato, Sez. V, 05 agosto 2022, n. 6934: «la ratio dell’obbligatorietà dei CAM sta nell’esigenza di garantire che la politica nazionale in materia di appalti pubblici verdi sia incisiva non solo nell’obiettivo di ridurre gli impatti ambientali, ma anche in quello di promuovere modelli di produzione e consumo più sostenibili, “circolari” e nel diffondere l’occupazione “verde”».
[56] In dottrina, ex aliis, si veda F. Di Giovanni, “Appalti verdi” e responsabilità sociale dell’impresa, in M. Pennasilico (a cura di), Contratto e ambiente. L’analisi “ecologica” del diritto contrattuale, Napoli, 2016, 63 ss.; F. De Leonardis, L’uso strategico della contrattazione pubblica: tra GPP e obbligatorietà dei CAM, in Riv. quadr. dir. amb., 2020, 3, 67 ss.; O. Hagi Kassim, Gli appalti verdi, in G. Rossi (a cura di), Diritto dell’ambiente, Torino, 2021, 509 ss.; G. Fidone, F. Mataluni, Gli appalti verdi nel Codice dei Contratti Pubblici, in Riv. quadr. dir. amb., 2016, 3; D. Bevilacqua, La normativa europea sul clima e il Green New Deal. Una regolazione strategica di indirizzo, in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, 2, 297 ss.; F. Fracchia, S. Vernile, I contratti pubblici come strumento dello sviluppo ambientale, in Riv. quadr. dir. amb., 2020, 2, 15 ss.; I. Baisi, Criteri di sostenibilità ambientale, in G.F. Cartei, D. Iaria (a cura di), Commentario al nuovo Codice dei contratti pubblici, Napoli, 2023, 426 ss.
[57] Si veda, ex aliis, il Piano d’azione per la sostenibilità ambientale dei consumi nel settore della pubblica amministrazione adottato con decreto del Ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze e con il Ministro delle imprese e del Made in Italy del 03 agosto 2023, ove è confermata l’indicazione di revisionare e l’aggiornare i CAM vigenti nonché la definizione dei CAM su nuove categorie di appalti o concessioni.
[58] Si pensi alla realizzazione di impianti alimentati da energia fossile, i quali, astrattamente, possono ben essere conformi alle disposizioni di cui al d.lgs. n. 152/2006 (in termini di VIA ad esempio); e però il mancato rispetto del principio DNSH precluderebbe comunque al progetto l’accesso al finanziamento con fondi pubblici.
[59] A differenza, a titolo esemplificativo, della VIA, ove il rispetto del principio di integrazione si manifesta proprio nella ponderazione di plurime istanze - ambientali e non - rilevanti per la scelta. Si rileva, qui, a differenza del DNSH, un carattere compromissorio, che non si risolve tout court nella inibizione di opere e progetti che abbiano impatti negativi sull’ambiente. In buona sostanza, nel procedimento di che trattasi, l’interesse ambientale è sì vincolante ma non predominante rispetto ad altre istanze, di guisa che esso può essere modulato a seconda del peso che assume in specifici contesti e tempi.
[60] Si veda anche I. Costanzo, Il principio do no significant harm (DNSH) nel processo di transizione ecologica: un itinerario di riflessione, in Riv. it. dir. pubb. com., 2023, 4, 702 ss.
[61] Si veda, sul punto, la Comunicazione della Commissione 2021/C58/01 con riferimento al valore probatorio ai fini DNSH del positivo espletamento delle procedure VIA e VAS.
[62] La VIA, invero, costituisce culla di molteplici principi del diritto ambientale, in specie quello di prevenzione e di integrazione. Quest’ultimo, in particolare, prevede che nella definizione e nell’attuazione delle politiche e delle azioni dell’UE siano tenute in debita considerazione le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente. A livello applicativo, il principio de quo si traduce nell’obbligo, nel procedimento, di valutazione dell’interesse ambientale. Se così perimetrato, è facile coglierne la continuità con il principio DNSH, in quanto, analogamente al principio di integrazione, esso mira ad integrare la valutazione dell’interesse ambientale nelle scelte economiche e di sviluppo, al fine di realizzare le condizioni per uno sviluppo sostenibile. Sul punto I. Costanzo, op. ult. cit., 710 ss.
[63] Ancorché buona parte dei requisiti DNSH siano previsti dalla normativa nazionale, si evidenzia, tuttavia, come alcuni elementi specifici potrebbero non essere previsti nell’istruttoria dei procedimenti citati (ad esempio alcuni obiettivi ambientali, quai la mitigazione dei cambiamenti climatici o l’adattamento ai cambiamenti climatici che non sempre rientrano nella prassi). In altri casi, gli interventi previsti potrebbero addirittura non prevedere autorizzazioni ambientali.
[64] Si veda, sul punto, Cons. Stato, sez. IV, 05 agosto 2024, n. 6966, in giustizia-amministrativa.it.
[65] A differenza del procedimento di VIA, ad esempio, ove il provvedimento di compatibilità ambientale è emanato, a seconda dei casi previsti dalla legge, a livello regionale o statale, qui pure con il coinvolgimento di una Commissione tecnica di verifica ad hoc.
[66] Cfr., sul punto, la Guida DNSH.
[67] Da tale prospettiva si apprezza anche la differenza, in punto procedurale, con la VIA: mentre la verifica DNSH si applica orizzontalmente a tutte le misure finanziabili tramite il Dispositivo per la resilienza, la VIA riguarda solamente tipologie di interventi espressamente individuate dalla normativa. Stante l’obiettivo della neutralità climatica fissato dal GD, peraltro, molti progetti individuati dal d.lgs. n. 152/2006 negli Allegati rilevanti (es. raffinerie o attività di perforazione) sarebbero, alla luce del DNSH, non autorizzabili.
[68] Aspetto questo, invero, poco fondato, in quanto una valutazione assoluta è richiesta, a ben vedere, solo quando esiste un’alternativa praticabile dal punto di vista tecnologico ed economico. In assenza di tale alternativa, è certamente possibile dimostrare la conformità al DNSH adottando le migliori tecnologie disponibili nel settore per minimizzare l’impatto ambientale dell’investimento/opera.
[69] Si veda, sul punto, I. Costanzo, op. ult. cit., 711 ss.
[70] Come chiarito anche nella Guida DNSH, per assicurare il rispetto dei vincoli DSNH in fase di attuazione è opportuno che le Amministrazioni titolari di misure e i soggetti attuatori: (i) indirizzino, a monte del processo, gli interventi in maniera che essi siano conformi inserendo gli opportuni richiami e indicazioni specifiche nell’ambito degli atti programmatici di propria competenza, tramite per esempio l’adozione di liste di esclusione e/o criteri di selezione utili negli avvisi per il finanziamento di progetti; (ii) adottino criteri conformi nelle gare di appalto (o procedure di affidamento) per assicurare una progettazione e realizzazione adeguata degli interventi; (iii) raccolgano le informazioni necessarie per la rendicontazione di ogni singola milestone e target nel rispetto delle condizioni collegate al principio del DSNH e definiscano la documentazione necessaria per eventuali controlli. Cfr. A. Bartolini, Green Deal europeo e il c.d. principio DNSH, in Federalismi.it, 2024, 15, 51 ss.
[71] G.M. Caruso, Il principio “do non significant harm”: ambiguità, caratteri e implicazioni di un criterio positivizzato di sostenibilità ambientale, in La cittadinanza europea, 2022, 2, 141 ss.
[72] T.A.R. Lazio, Roma, sez. V ter, 26 marzo 2024, n. 5923, in giustizia-amministrativa.it.
[73] Cfr. U. Barelli, Il principio DNSH e il nuovo criterio DNSH, in RGA online, 2023, 39; F. Spera, Da valutazione “non arrecare un danno significativo” a “principio DNSH”: la codificazione di un nuovo principio europeo e l’impatto di una analisi trasversale rivolto al futuro, in I Post di ASIDUE, 2022, 4.
[74] Sul punto, la stessa Guida DNSH costituisce solo un tentativo (nobile e di indubbia utilità) di indirizzare l’attività dei funzionari amministrativi, attualmente sforniti non solo di un chiaro quadro legislativo a regolazione del principio in esame, ma anche di strategie per valutare con consapevolezza e competenza l’effettiva sostenibilità degli interventi da attuare.
[75] Si ricorda che l’obbligo di non arrecare un danno significativo nasce, invero, al di fuori del diritto ambientale e dei Piani, collocandosi nell’ambito della regolazione della finanza privata. Cfr. R. Ferrara, La valutazione di impatto ambientale fra principio di precauzione e DNSH (do no significant harm): spunti di riflessione, in Riv. giur urb. 2024, 12.
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