ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le dichiarazioni della persona offesa nel filtro della credibilità: la verità processuale oltre ogni ragionevole dubbio
di Daria Passaro
Sommario: 1. La prova dichiarativa proveniente dalla persona offesa dal reato. L’origine della vexata quaestio dell’attendibilità nelle “vittime vulnerabili” - 1.1. La credibilità della vittima nei procedimenti per violenza sessuale. La figura del minore abusato e la Carta di Noto - 2. Il cammino giurisprudenziale sulla credibilità delle persone offese. La sentenza n. 13016/2020 della Corte di Cassazione - 3. Verso i (possibili) criteri di valutazione: il confine tra credibilità e sospetto intorno alle dichiarazioni rese. L’ascolto protetto delle vittime vulnerabili.
1. La prova dichiarativa proveniente dalla persona offesa dal reato. L’origine della vexata quaestio dell’attendibilità nelle “vittime vulnerabili”
“Per comprendere certi delitti bisogna conoscere le vittime”. Così recitava Oscar Wilde.
Eppure, nel panorama storico-giuridico italiano, l’invecchiato modello penale incentrato sul reo quale soggetto da condannare e rieducare ha rivelato la sua intrinseca debolezza solo a partire dagli anni ’40 del secolo scorso, anche in conseguenza ad una Carta Costituzionale dalla innegabile portata rivoluzionaria. Il giurista ha lentamente colto nel sistema penale la necessità di “ascolto” delle richieste della persona offesa, affinché la stessa non finisca col subire una seconda vittimizzazione, quella della dimenticanza. È in questa prospettiva che negli ultimi decenni ha preso forma la rivoluzione copernicana intorno alla nozione di vittima, ricostruita non più in chiave meramente passiva, ma come soggetto che esprime esigenze di protezione non (più) trascurabili.
Ad oggi, in un contesto tendenzialmente vittimo-centrico, la definizione di “vittima vulnerabile” ricomprende chi, per le caratteristiche legate al soggetto, minore o infermo di mente, ovvero al tipo di violenza subita, è vittima di un trauma in conseguenza del reato e in quanto tale deve essere tenuta a riparo dalla cosiddetta “vittimizzazione secondaria”, ossia dal patimento di un nuovo e successivo trauma indotto dal processo stesso, inevitabilmente connesso alla riedizione del ricordo. Si tratta di una nozione estremamente variabile, nel tempo arricchitasi dei significati dai contorni più disparati, finendo per includere non solo il minore, il soggetto affetto da infermità mentale, ma anche e frequentemente le vittime di reati sessuali, di maltrattamenti, di violenze domestiche, di mutilazioni genitali, di tratta e riduzione in schiavitù, di mafia e di terrorismo. Di crimini sempre più efferati.
La nozione di vulnerabilità oscilla tra la valorizzazione della tipologia del reato subito e l’attenzione per le caratteristiche personali e soggettive di chi ha patito il pregiudizio del reato. Per meglio dire, per un versante prevale la vulnerabilità connessa al tipo oggettivo di crimine di cui si è vittima, in relazione alla modalità dell’azione criminosa, alle caratteristiche del bene tutelato- sovente particolarmente sensibile come la libertà sessuale- per un altro prevale un’attenzione soggettivistica e psicologica in ordine alla quale la vittima è vulnerabile a prescindere dal tipo di delitto che abbia leso i suoi diritti.
Il discusso tema che oggi investe la credibilità oggettivo-soggettiva delle dichiarazioni provenienti dalle persone offese da reato, calato in particolar modo nel mondo delle vittime vulnerabili, mostra con forza le criticità di un settore nevralgico del processo penale assoggettato all’ incontrastato dominio giurisprudenziale. Attualmente, l’orientamento interpretativo maggioritario, in materia di prova dichiarativa proveniente da una figura peculiare e complessa quale quella del querelante-persona offesa-parte civile-testimone, è quello secondo cui il sapere della persona offesa, quand’anche privo di riscontri esterni ed emergente da un soggetto per sua natura interessato alle sorti del processo, può giustificare una sentenza di condanna dell’imputato.
I dubbi che gravitano attorno a questo dibattito prendono forma dalla circostanza fattuale per cui la persona offesa de qua è per definizione “l’antagonista dell’imputato”, facendo scattare campanelli d’allarme difficilmente trascurabili rispetto all’ordinaria regola della colpevolezza che risulti al di là di ogni ragionevole dubbio.
Il punto di partenza può essere individuato nella Carta Costituzionale, ove all’art. 27, secondo comma, è sancita una presunzione di non colpevolezza dell’imputato estesa fino all’emanazione della sentenza definitiva. Vieppiù che, nella scala dei valori costituzionali in materia processuale, a fianco all’art. 27 emerge l’art. 111 Cost., teso a fissare il perimetro del cosiddetto “giusto processo”, stabilendo al comma 2 che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità».
Tali pilastri costituzionali rischiano di entrare pericolosamente in crisi quando il risultato della vicenda processuale, spesso fatta di aspri e violenti contrasti tra la “vittima” e il suo “antagonista”, sembra attestarsi nelle mani e nella posizione della persona offesa, ossia di un soggetto processuale tanto coinvolto e interessato ad un determinato esito quanto “preferibile” rispetto all’imputato. Da qui la chiamata in causa dei diritti di difesa, inviolabili stando all’articolo 24 della Carta Fondamentale, di un imputato inevitabilmente posto in posizione subvalente.
È evidente come la quaestio da esaminare sia la seguente: nell’ambito delle vicende che vedono coinvolte le suddette vittime “vulnerabili”, la prova dichiarativa proveniente da chi rivesta il ruolo di persona offesa dal reato, nonché eventualmente lo status di parte civile costituita nel pendente processo penale, è in grado di giustificare, da sola e quindi autonomamente, la sentenza di condanna di un imputato? La risposta, che per giurisprudenza prevalente è ampiamente positiva, per lo spirito critico del giurista e probabilmente per una consistente fetta di opinione pubblica è una fugace alzata di spalle. E questo per una ragione agevolmente intuibile: la P.O., eventualmente costituita P.C., non sarà mai soggetto estraneo al processo e quindi terzo come è invece un normale testimone che si appresti a deporre.
Al riguardo, è importante osservare che nel processo penale il dubbio sulla responsabilità dell’imputato deve risolversi per definizione nella sentenza assolutoria, visto che non è mai l’innocenza bensì la colpevolezza a dovere essere provata dall’accusa. Come a voler dire che mentre per il trionfo dell’accusa è sempre necessario che sia raggiunta la prova certa, alla difesa gioverebbe anche il solo dubbio.
La materia del valore della prova dichiarativa della persona offesa dal reato, tanto discussa quanto foriera di notevoli problematiche dal sapore costituzionale, è ad oggi riservata ad una giurisprudenza che, più che rivestire una posizione esegetica o ermeneutica, appare pienamente fondativa, capace di “dicere ius”. Sulla base di tale posizione ricoperta, la scelta mantenuta nel tempo dai giudici, territoriali o di legittimità, è quella di affidarsi al sapere, più o meno controllato, della persona offesa per arrivare ad emettere un verdetto di colpevolezza.
Tanto posto, ciò che si vuole sottolineare è dunque la necessità di mettere a nudo i fisiologici limiti dell’apporto probatorio fornito dalla persona offesa-vulnerabile, potendo l’attenzione incentrata sulla “vittima” determinare un rischioso riduzionismo probatorio, oltre che un’imputazione, da parte del P.M. rappresentante l’accusa, che appaia azzardata o addirittura deficitaria sul piano probatorio.
Dalle esposte premesse nasce e prende vita il problema sulla credibilità e attendibilità della deposizione fornita dalla persona offesa dal reato quale soggetto per sua natura interessato alla condanna del suo altrettanto naturale antagonista, oltremodo allorquando l’offeso abbia subito un trauma idoneo a determinarne una condizione di vulnerabilità psicologica. Tanto accade poiché il sistema giudiziario accetta che soltanto il giudice debba essere lucidamente terzo ed imparziale, affidandosi, pur tuttavia, alla deposizione di chi coltivi un comprensibile interesse personale, morale e talora economico-patrimoniale (nell’ipotesi in cui la persona offesa si costituisca parte civile), soggetto dichiarante a cui giammai potrebbe chiedersi la neutralità rispetto ai fatti.
I margini di sospetto dettati da questo sistema così come delineato si mostrano con evidenza anche nel raffronto col processo civile. Per vero, poiché il giudizio penale è improntato alla regola dell’accertamento della responsabilità condotto “al di là di ogni ragionevole dubbio”, mentre in quello civile vige la regola, meno rigorosa, del “più probabile che non”, la coerenza del sistema risulterebbe scalfita consentendo di fondare la condanna penale semplicemente sul racconto di un soggetto tutto tranne che disinteressato, il quale, paradossalmente, nel rito civile nemmeno avrebbe parola. Difatti, l’incapacità a testimoniare è disposta dall’art. 246 c.p.c., a rigore del quale non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio.
Ciò nondimeno, si vuol ribadire, la giurisprudenza italiana da tempo sposa con costanza una precisa linea interpretativa consistente nel basare le condanne sulla rilevanza esaustiva del solo racconto della persona offesa dal reato, quand’anche si costituisca parte civile, spesso in mancanza di altri testimoni utili a chiarire il quadro probatorio.
Se questa è la scelta portata avanti dai giudici, di merito e non, allora è fondamentale che si indaghi sul tema della veridicità, credibilità, attendibilità e coerenza della vittima dichiarante che, nel dibattimento, più o meno consapevolmente trasforma le proprie dichiarazioni in un vero e proprio “racconto”. La sua deposizione istruttoria prende vita dall’impulso del pubblico ministero ed ha una non trascurabile forza espansiva, i relativi risultati potendo fondare e giustificare una sentenza di condanna, pur senza la necessità di ulteriori elementi di supporto, che la riscontrino o la corroborino.
In una delle numerose pronunce della Corte di Cassazione sul tema de quo, con sentenza del 20 marzo 2019, n. 12250/19, la stessa ha precisato che la prova della responsabilità è desunta dalle chiare e limpide dichiarazioni rese dalla persona offesa, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto. Analogamente, la giurisprudenza di merito si è allineata a tale indirizzo, ritenendo che la deposizione della persona offesa possa essere assunta, anche da sola, come prova della responsabilità dell’imputato, purché sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità e senza la necessità di applicare le ordinarie regole probatorie di cui agli artt. 192, commi 3 e 4 c. p. p. che invece richiedono riscontri esterni. Tali orientamenti, in considerazione dell’intervenuta solidità giurisprudenziale, assumono il valore di principi cardine da calare e radicare in materia di dichiarazioni provenienti da soggetti connotati da una condizione di vulnerabilità post-traumatica.
Quali e quanto estesi siano i criteri di valutazione della suddetta credibilità è questione annosa, in cui è necessario addentrarsi a passo d’uomo, con la necessaria prudenza e curiosità che animano ogni giurista.
1.1. La credibilità della vittima nei procedimenti per violenza sessuale. La figura del minore abusato e la Carta di Noto
I principi elaborati nei procedimenti attinenti a violenza sessuale, in relazione alla valutazione di attendibilità e credibilità della persona offesa, si basano sull’assunto per cui l'accertamento delle particolari dinamiche delle condotte di violenza sessuale nella maggioranza dei casi deve essere svolto senza l'apporto di testimoni diversi dalla stessa vittima. Fatalmente, si riscontra una peculiare tensione istruttoria scaturente dalla necessità di apprendere la vicenda proprio da chi l'ha direttamente subita, soprattutto quando la vittima sia un minore.
In queste ipotesi, la deposizione della persona offesa, sola depositaria della vicenda, può essere assunta autonomamente come fonte di prova della colpevolezza, a seguito di un'indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l'ha resa. Tanto si verifica proprio perché in tale contesto quasi sempre l'accertamento dei fatti accaduti dipende dalla valutazione delle opposte versioni fornite dall’ imputato e dalla parte offesa, soli protagonisti di quegli accadimenti, in assenza di qualsivoglia riscontro oggettivo atto ad attribuire maggiore credibilità dall'esterno all'una o all'altra tesi.
Nei reati di violenza sessuale non v’è dubbio che il controllo intorno alla credibilità soggettiva della persona offesa e all'attendibilità intrinseca del racconto reso dalla stessa dovrà essere ancor più penetrante e rigoroso, dovendo ritenere la P.O. portatrice di un personale interesse all'accertamento del fatto.
Tuttavia, gli elementi atti a fondare il sospetto che la vittima di reati sessuali dichiari il falso giammai possono abitare nei suoi "costumi sessuali", ossia nelle abitudini sessuali, nel modo di vivere la propria corporeità e sessualità, posto che la vita privata e la sessualità della persona offesa rilevano processualmente solo quando ciò sia necessario alla ricostruzione del fatto. Per meglio dire, ogni argomento che sottintenda o alluda ai "facili costumi" della persona offesa quale fattore di dubbio sulla sua attendibilità non trova alcuno spazio nella valutazione in esame.
Analogamente, la mancanza di una puntuale collocazione spaziale del fatto verificatosi non contribuisce a ledere l'attendibilità della narrazione effettuata, purché la collocazione stessa risulti utilmente accertata in base ad altri elementi probatori.
Quando la vittima del reato sessuale è un minore è necessario che l'esame della credibilità tenga conto di molteplici elementi, in particolar modo l'attitudine a testimoniare e quella, legata all'età, a memorizzare gli avvenimenti e a riferirli in modo coerente, il contesto delle relazioni familiari ed extra-familiari nonché i processi di rielaborazione delle vicende vissute.
Precisamente, accertata la capacità di comprendere e riferire i fatti della persona offesa minorenne, la sua deposizione deve essere analizzata nel più ampio contesto socio-ambientale, onde escludere l'intervento di circostanze esterne idonee a inficiarne la credibilità.
Tanto è utile sottolineare dal momento che i minori, seppur dichiarati attendibili e lasciati liberi di raccontare, possono divenire malleabili in presenza di suggestioni esterne, arrivando a conformarsi alle aspettative dell'interlocutore quando interrogati. Per evitare il verificarsi di tali fenomeni, è fondamentale ricostruire la prima dichiarazione del minore, spontanea e più genuina perché immune da interventi estranei ed intrusivi, capaci di alterare il sincero ricordo dell’accaduto, come ad esempio le reazioni emotive degli adulti presenti al momento della narrazione.
Imprescindibile, per meglio operare una valutazione rigorosa e neutrale da parte dei giudici, delle dichiarazioni rese dai minori, l’apporto di scienze apposite quali la pedagogia, psicologia e sessuologia.
Proprio allo scopo di attribuire carattere tendenzialmente scientifico alla valutazione di attendibilità in queste delicate fattispecie, è stata varata nel 2017 la Carta di Noto, contenente importanti linee-guida per gli esperti nell'ambito degli accertamenti compiuti sui minori vittime di abusi sessuali. A ben vedere, l'inosservanza dei protocolli prescritti dalla Carta di Noto per la conduzione dell'esame di un minore vittima di abusi non determina in alcun modo la nullità o inutilizzabilità della prova, tantomeno l'inattendibilità delle dichiarazioni raccolte. Nondimeno, sebbene il giudice non sia vincolato al rispetto dalla Carta di Noto, egli è tenuto a motivare perché ritenga, secondo il proprio libero ma mai arbitrario convincimento, attendibile la prova dichiarativa assunta in evidente violazione delle prescrizioni della Carta.
Per meglio dire, quanto più grave sarà la violazione dei protocolli prescritti dalla Carta di Noto, tanto più il giudice dovrà scrupolosamente motivare circa l’attendibilità del minorenne abusato.
2. Il cammino giurisprudenziale sulla credibilità delle persone offese. La sentenza n. 13016/2020 della Corte di Cassazione
Nel corso degli anni, copiosa giurisprudenza di merito e di legittimità si è pronunciata in numerose occasioni sul problema dell’attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa dal reato, soprattutto in relazione a reati oggetto di forte attenzione mediatica, quali il delitto di stalking ex art. 612 bis c.p., ovvero quello di maltrattamenti contro familiari e conviventi ex art. 572 c.p.
Volendo restringere all’ultimo decennio il perimetro dell’evoluzione pretoria intervenuta, una rilevante pronuncia risale, in primis, al 17 giugno 2014, Cass. n. 41040, in materia di stalking, quando la Corte di Cassazione ha evidenziato che nell’ipotesi di atti persecutori, l’attendibilità e la forza persuasiva delle dichiarazioni rese dalla vittima del reato non vengono inficiate dalla circostanza che nel corso del periodo di vessazione la persona offesa abbia vissuto transitori momenti di benevola rivalutazione del passato con eventuale desiderio di pacificazione con il compagno persecutore.
Conseguentemente, si è giunti a ritenere che anche quando si rinunci a rivestire il ruolo di parte civile, tale determinazione non debba incidere prettamente sul processo penale ma, precipuamente, sulle questioni civili ad esso connesse. Tanto perché la decisione di rinunciare alla costituzione di parte civile nulla toglierebbe al trauma subito per un consistente arco temporale dalla p.o. nonché al graduale turbamento psicologico innestato dallo stalking, un sopravvenuto atteggiamento remissivo e rinunciativo non incidendo sulla credibilità della p.o. ovvero sulla configurabilità del reato.
Nella medesima ottica di tutela nei confronti della persona offesa, appare particolarmente interessante l’orientamento della giurisprudenza di legittimità del 13 maggio 2015, sentenza n. 31309, con riferimento alle dichiarazioni della vittima, affermando che nella valutazione della prova testimoniale, l’ambivalenza dei sentimenti provati dalla persona offesa nei confronti dell’imputato non rende di per sé inattendibile la narrazione delle violenze e delle afflizioni subite, bensì impone solo una prudenza maggiore nell’analisi delle dichiarazioni rese.
Di notevole rilievo è senz’altro la pronuncia della Corte di Cassazione intercorsa il 12 ottobre 2018, n. 46218, che oltre a chiarire annose questioni intorno alla credibilità delle persone offese, ha precisato aspetti fondamentali legati alla configurabilità dei reati di molestia e violenza sessuale.
Invero, nella suddetta occasione la Corte ha innanzitutto stabilito il suo orientamento granitico secondo cui le dichiarazioni della persona offesa possono, da sole e senza la necessità di riscontri esterni, fondare l’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, adeguatamente motivata, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che sarà inevitabilmente più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Fermo restando che, le dichiarazioni della vittima saranno ancor più credibili ove confortate da elementi di riscontro, tali da escludere circostanze incompatibili con la condotta contestata.
A tal fine, ha dichiarato la Corte, il giudice ha il dovere di indicare le emergenze processuali determinanti il suo convincimento, rendendo visibile l’iter logico-giuridico che ha condotto alla soluzione adottata. Per contro, non rileverebbe il silenzio su una specifica deduzione difensiva, non essendo necessaria l’esplicita confutazione delle specifiche tesi asserite dalla difesa. Pertanto, il giudice potrà trarre il proprio convincimento circa la responsabilità penale anche dalle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre che sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità.
Tale valutazione inerente all’attendibilità della persona offesa si atteggia come un giudizio di tipo fattuale e di merito che attiene al modo di essere della persona escussa. Trattasi, per ciò solo, di un giudizio che può trovare spazio solo nella garanzia tipica della dialettica dibattimentale, essendo invece precluso in sede di legittimità.
Nello specifico, la sentenza dell’ottobre 2018 ha altresì illuminato i concetti penalmente rilevanti di molestia sessuale e violenza sessuale, onde meglio discernere queste fattispecie di reato che sovente si celano dietro i racconti delle vittime. A tal fine, la molestia sessuale, prevista e punita dall’articolo 660 c.p., prescinderebbe da contatti fisici a sfondo sessuale, manifestandosi con petulanti corteggiamenti non graditi, ovvero con telefonate o espressioni volgari a sfondo sessuale, tutte condotte sessualmente connotate ma diverse dall’abuso sessuale.
Per contro, la nozione di violenza sessuale ex art. 609 bis c.p. sarebbe comprensiva di atti idonei a compromettere la libera determinazione sessuale della persona e ad invaderne la sfera sessuale con modalità connotate dalla costrizione ovvero dall’ abuso di inferiorità fisica o psichica, la nozione di violenza non limitandosi all’uso di energia fisica verso la persona offesa, bensì comprendendo qualsivoglia limitazione della libera volontà del soggetto passivo.
Da ultimo, la Suprema Corte con sentenza n. 13016 del 6 marzo 2020 ha recentemente confermato il proprio orientamento, da ritenere ormai consolidato, nonché specificato ulteriormente gli aspetti salienti del concetto di attendibilità della persona offesa dal reato. Stando alla Cassazione, quanto ai criteri per la valutazione delle dichiarazioni accusatorie della persona offesa, il relativo procedimento deve estrinsecarsi secondo una precisa scansione logica.
Si parte, dunque, dall’analisi della capacità a testimoniare, ossia l’abilità soggettiva a recepire le informazioni, ricordarle, raccordarle e riferirle coerentemente, capacità che deve presumersi, salvo specifiche situazioni atte a porla in dubbio; si prosegue con la valutazione dall’età del dichiarante e delle sue condizioni psichiche, giungendo alla disamina della credibilità soggettiva, onde verificare che quanto riferito non sia inquinato da situazioni in grado di alterare, più o meno consapevolmente, la genuinità del racconto. Successivamente, si procede col vaglio della attendibilità intrinseca, da intendere come capacità del racconto di offrire una rappresentazione quanto più logica possibile degli eventi evocati. L’ultimo tassello attiene a eventuali- melius, non necessari- riscontri esterni rispetto al narrato.
La circostanza, quest’ultima, per cui si tratti di riscontri esterni meramente “eventuali” va ricondotta alla tesi confermata e scolpita dai giudici di legittimità, a rigore della quale le dichiarazioni della persona offesa devono poter da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, si ribadisce ancora una volta, previa verifica della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto.
3. Verso i (possibili) criteri di valutazione: il confine tra credibilità e sospetto intorno alle dichiarazioni rese. L’ascolto protetto delle vittime vulnerabili
Lungo la linea sottile che si frappone tra credibilità e fattori di sospetto, principaliter nei riguardi delle testimonianze “vulnerabili”, dove si colloca il “dubbio sull’attendibilità” che attanaglia il giudicante e, in generale, il giurista?
I potenziali dubbi sull’attendibilità di quanto narrato possono innanzitutto derivare dalla naturale e quasi fisiologica propensione del denunciante a esporre i fatti in modo tale da confermare i contenuti della precedente denuncia, anche nell’ottica di scongiurare conseguenze negative a cui normalmente si espongono i calunniatori.
Ben può accadere, inoltre, che i fatti denunciati siano il frutto di un errore commesso in buona fede ovvero che, sebbene il reato sussista, il denunciante involontariamente accusi un innocente a causa di un equivoco, di un errore percettivo o di un fenomeno di suggestione.
Concentrando nuovamente l’attenzione sul tema dell’attendibilità della persona offesa nel reato di violenza sessuale perpetrata su un minore, è evidente che allorquando la prova della fattispecie in esame è costituita in massima parte, se non esclusivamente, dalla parola di un minore, il rischio di un errore giudiziario o della colpevolizzazione di un innocente è di non poco momento. D’altronde, si vuol ribadire, ad oggi non sussiste alcun obbligo di seguire il protocollo della Carta di Noto nell’esame dei minorenni, non avendo alcun valore normativo e contenendo meri suggerimenti per il giudicante.
Può poi verificarsi che il racconto fornito dalla vittima di abuso sessuale non sia stato correttamente raccolto sì da determinare una pericolosa confusione tra quanto effettivamente percepito dal minore e quanto suggeritogli, anche inconsapevolmente, dal soggetto interrogante. Del resto, se come si è detto i minori sono naturalmente portatori di un alto grado di suggestionabilità, allora si rende imprescindibile l’uso di una particolare cautela e attenzione nelle modalità con cui si interrogano gli stessi, i quali potrebbero essere inconsciamente indotti a fornire risposte assecondanti sebbene lontane dalla realtà dei fatti accaduti.
Ugualmente, il minore interrogato sugli abusi potrebbe incorrere, data l’età e l’asserita suggestionabilità, nella difficoltà di distinguere le sue menzogne incoscienti da quelle coscienti, talvolta per catturare l’attenzione dei presenti.
Non v’è dubbio, in una prospettiva di più ampio respiro, che la valutazione giuridica di attendibilità e credibilità intorno alle dichiarazioni rese dalle persone offese dal reato dovrebbe occupare lo spazio di un’ autonoma e attenta verifica che si avvalga tanto di elementi concreti rapportati al “caso per caso” quanto di parametri generali di riferimento come la spontaneità, la linearità, l’affidabilità e la plausibilità del racconto riferito della vittima, la coerenza e la completezza della narrazione (o al contrario la contraddittorietà ed illogicità di quanto esposto), la capacità di riportare fedelmente alla memoria i ricordi e di riviverli al momento dell’escussione, la verosimiglianza delle giustificazioni addotte. Né deve trascurarsi il modo in cui si depone, proprio perché, essendo meno padroneggiabile delle espressioni verbali, può costituire un prezioso fattore rivelatore, una sorta di linguaggio secondario.
Il 20 gennaio 2015 è entrato in vigore il decreto legislativo n. 212 del 15 dicembre 2015 che, in attuazione della direttiva europea n. 29 del 25 ottobre 2012, ha introdotto nel sistema penale alcune norme in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.
Precipuamente, il decreto legislativo n. 212/2015 ha apportato alcune importanti modifiche al codice di procedura penale idonee a rafforzare la posizione processuale e procedimentale della persona offesa durante la sua audizione, riconoscendo un effettivo status di vittima del reato e fornendo un efficace strumentario per tutelarne la partecipazione consapevole all’interno del procedimento-processo penale.
Per quel che rileva, una notevole innovazione apportata riguarda le modalità effettive di partecipazione al processo della persona offesa, con particolare riferimento alle vittime c.d. “vulnerabili”. È stato introdotto in tale direzione il nuovo art. 90 quater c.p.p., che definisce una serie di parametri soggettivi ed oggettivi tesi a stabilire se la persona offesa versi in una condizione di particolare vulnerabilità.
Tale condizione, secondo la disposizione, andrebbe desunta “oltre che dall’età e dallo stato di infermità o di deficienza psichica, dal tipo di reato, dalle modalità e circostanze del fatto per cui si procede. Per la valutazione della condizione si tiene conto se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se è riconducibile ad ambiti di criminalità organizzata o di terrorismo, anche internazionale, o di tratta degli esseri umani, se si caratterizza per finalità di discriminazione, e se la persona offesa è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall’autore del reato”.
L’intento perseguito dal legislatore è radicato nella volontà di proteggere la vittima vulnerabile da interferenze esterne e contatti con l’autore del reato e di assicurare le sue dichiarazioni al procedimento in modo garantito e genuino. Questo scopo di garanzia è realizzato mediante la previsione di particolari cautele per la vittima vulnerabile in fase di audizione, durante le indagini, in incidente probatorio ovvero durante il dibattimento.
L’aspetto rivoluzionario risiede nella circostanza per cui si tratta di cautele già previste per l’acquisizione delle informazioni e delle testimonianze nei confronti di minori, nel caso in cui si proceda per determinati reati, come maltrattamenti e reati sessuali, e che qui vengono volutamente estese anche alla vittima considerata “particolarmente vulnerabile” secondo i parametri suesposti.
Per quanto attiene alla fase delle indagini preliminari, l’intervento ha investito gli artt. 351 comma 1-ter e 362 comma 1 bis c.p.p. prevedendo che la polizia giudiziaria o il pubblico ministero, nell’ assumere sommarie informazioni da una vittima “particolarmente vulnerabile”, anche maggiorenne, possano avvalersi di un esperto in psicologia o psichiatria. I medesimi organi, inoltre, devono assicurare che la persona offesa particolarmente vulnerabile, una volta sentita, non abbia contatti con l’indagato e non sia chiamata più volte a rendere sommarie informazioni, salvo il caso di assoluta necessità per le indagini. La volontà di evitare che la vittima sia chiamata più volte a rendere informazioni sottolinea l’esigenza di evitare inutili ripetizioni dell’esame tanto per non causare ulteriori stress psicologici alla vittima quanto per non compromettere la genuinità e attendibilità delle dichiarazioni di questa.
Un ulteriore tassello innovativo è stato posto in materia di incidente probatorio, ove il decreto legislativo in esame ha integrato l’art. 392 comma 1 bis c.p.p., estendendo la possibilità di ricorrere a tale istituto quando la persona offesa versi in condizione di particolare vulnerabilità, anche al di fuori dei limiti rigorosi di cui al comma 1 del medesimo articolo, limiti caratterizzati, ad esempio, dal rischio dell’impossibilità di escussione in dibattimento, dall’esposizione a violenza o minacce. Per quanto riguarda le precise modalità di conduzione dell’esame in incidente probatorio della persona offesa-vulnerabile, è stato aggiunto all’art. 398 c.p.p. il nuovo comma 5 quater che dispone l’adozione di modalità protette, come ad esempio l’esame schermato dal vetro specchio.
La rivoluzione intervenuta in sede di incidente probatorio, volta a rendere più agevole l’utilizzo di tale strumento da parte dei soggetti che versino in condizione di particolare vulnerabilità, ha trovato consistente applicazione giurisprudenziale negli ultimi anni, come verificatosi ad esempio in sede di legittimità con la Cassazione del 16 maggio 2019, n. 34091.
Circa l’esame della vittima in dibattimento, è stato in primis modificato l’art. 190 bis c.p.p., disposizione che costituisce una deroga al principio fondamentale di oralità della prova nel dibattimento, prevedendo che, in alcuni casi specifici- trattandosi di delitti di associazione a delinquere e/o di stampo mafioso- l’esame di testimoni o persone imputate in altri procedimenti connessi che abbiano già reso dichiarazioni sia ammissibile “solo se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengono necessario sulla base di specifiche esigenze” . Tale limitazione, valevole altresì in favore del minore di anni sedici, qualora si tratti di procedimenti relativi a reati sessuali e di pedofilia, a seguito della riforma, è oggi estesa anche alle persone offese che versino in condizione di particolare vulnerabilità.
Il d.lgs. 212/2015 ha infine modificato incisivamente l’art. 498 comma 4-quater c.p.p., relativo all’esame dibattimentale della persona offesa che versi in condizione di particolare vulnerabilità, prevedendo la possibilità che esso avvenga con l’adozione di modalità protette qualunque sia il reato per cui si procede, vale a dire non solo per determinati tipi di delitti, tra cui il reato di maltrattamenti e alcuni reati sessuali, come era invece in precedenza.
Le novità introdotte dal d.lgs. 212/2015, per il tramite dell’applicazione pretoria che ne ha fatto seguito anche in sede di giurisprudenza di legittimità, rappresentano un deciso passo in avanti nella riconosciuta valorizzazione dello status di vittima del reato e, soprattutto, nella tutela della stessa tanto nel processo quanto in fase di indagini preliminari, altresì attraverso la previsione di una completezza delle informazioni da rivolgere alla persona offesa relativamente ai propri diritti e facoltà.
Il legame di questa consapevolezza giuridica col tema dell’attendibilità delle dichiarazioni provenienti dalla persona offesa è immediato: è evidente come un’attenta tutela della vittima del reato, garantendo una più genuina dichiarazione promanante dalla medesima, sia in grado di meglio assicurare la credibilità del suo racconto.
Ad oggi, quella dell’attendibilità rappresenta una valutazione complessa ma irrinunciabile, se non si vuole incorrere nel rischio di attribuire cieca credibilità alla persona offesa “in quanto tale”. Per converso, un’analisi superficiale e riduttiva di tale aspetto varrebbe a ignorare quelle che sono ragioni di dubbio invalicabili perché riconducibili ad un soggetto ex ante interessato a far valere la colpevolezza del suo antagonista naturale.
La necessità che un esame intorno alla attendibilità delle prove dichiarative rese dalle (assunte) vittime sia urgente e non rinunciabile rappresenta una presa di coscienza giuridica che, lungi dal condannare la persona offesa ad una “sfiducia a monte”, intende invece tutelare la genuinità del suo racconto e far valere la verità processuale. A conferma di ciò, la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 115, già nel 1992 aveva sottolineato con forza che la rinuncia a priori al contributo probatorio della parte civile costituirebbe un sacrificio troppo grande nella ricerca della verità processuale.
Se quanto detto è vero, allora non si tratterebbe di rinunciare ai risultati della deposizione della persona offesa, bensì di ridimensionarne notevolmente l’attuale peso riconosciuto dalla giurisprudenza “creativa”, di riconoscerne i limiti, di comprendere come la verità nelle aule di giustizia sia un risultato tutt’altro che scontato.
Del resto, più che mai attuale è la visione di George Orwell, per cui “in tempi di menzogna universale, dire la verità è un atto rivoluzionario.”
Riferimenti bibliografici:
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ALTAVILLA, Psicologia giudiziaria, Vol. II, IV edizione, 617 e ss.;
ASCOLESE, commento a Cassazione Penale, sezione III, sent. 18-12-2017, n. 56286;
BARGI, Cultura del processo e concezione della prova, in La prova penale di Gaito, 2008, 23;
BERT, Smascherare i bugiardi. Ma come?, in Psicologia contemporanea, n. 236, anno 2013, Giunti Editore, pagg. 26 e 27;
CANZIO, La tutela della vittima nel sistema delle garanzie processuali: le misure cautelari e la testimonianza vulnerabile, in Dir.pen. e proc. n.8 2010, 985 e ss.;
FERRUA, Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, in AA. VV., La prova nel dibattimento penale, Torino, 2010, 381;
FORNARI-FAGIANI, Aspetti clinici e psicometrici dello studio della testimonianza nella minore età, 1978, Vol. 91, n. 3, 216;
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ILLUMINATI, Il nuovo dibattimento: l’assunzione diretta delle prove, in Foro it., 1988, V, 355 ss;
ROSI, Tutela delle vittime dei reati con particolare riferimento alle vittime vulnerabili, Relazione Ufficio del Massimario Corte di Cassazione, 10 ss.;
ROXIN, La posizione della vittima nel sistema penale in Indice penale, 1989, 5 ss.;
STELLA, Il giudice corpuscolariano. La cultura delle prove, Milano, 2005, 107.
Riferimenti giurisprudenziali:
1. Cass., Sez. VI, sentenza del 3 giugno 2004, n. 33162;
2. Cass., Sez. III, sentenza del 13 maggio 2010, n. 24248.
3. Cass., Sez. IV, sentenza del 18 ottobre 2011, n. 44644;
4. Cass., Sez. Un., sentenza del 19 luglio 2012, n. 41461;
5. Cass., Sez. III, sentenza del 10 dicembre 2013, n. 27450;
6. Cass,. Sez. V, sentenza del 17 giugno 2014, n. 41040;
7. Cass., Sez. VI, sentenza del 13 maggio 2015, n. 31309;
8. Cass., Sez. III, sentenza del 14 maggio 2015, n. 30865;
9. Cass., Sez. III, sentenza dell’11 ottobre 2016, n. 648;
10. mCass., Sez. III, sentenza del 16 maggio 2017, n. 41593;
11. Cass., Sez. III, sentenza del 10 ottobre 2017, n. 46464;
12. Cass., Sez. III, sentenza del 12 ottobre 2018, n. 46218;
13. Cass., Sez. Un., sentenza del 28 gennaio 2019, n. 14426;
14. Cass., Sez. III., sentenza del 20 marzo 2019, n. 12250;
15. Cass., sez. III, sentenza del 16 maggio 2019, n. 34091;
16. Cass., Sez. Un., sentenza del 22 maggio 2019, n. 22533;
17. Cass., Sez. VI, sentenza dell’11 giugno 2019, n. 15620;
18. Cass., Sez. I, sentenza del 6 marzo 2020, n. 13016.
Le parole di Papa Francesco sugli omosessuali e le premesse di una rivoluzione copernicana
di Marco Gattuso
1. Hanno avuto vasta eco (dall’apertura del New York Times on line in giù) le parole di Papa Francesco riportate in un documentario presentato alla Festa di Roma il 23 ottobre u.s., a firma del regista Evgeny Afineevsky, ove il pontefice afferma che «quello che dobbiamo fare è una legge sulle unioni civili; hanno diritto di essere protetti legalmente»[1]. La stampa ha pure riportato che tra i momenti più toccanti del film vi è la telefonata del Papa a una coppia di papà di tre bambini nati con maternità surrogata in Canada, in risposta a una lettera in cui lamentavano il clima di pregiudizio che coinvolge anche i loro figli, in cui Bergoglio li ha rassicurati che «superando eventuali pregiudizi i bimbi vanno accolti come tutti gli altri».
Nel corso del suo pontificato le posizioni espresse nei documenti ufficiali non sono cambiate, ma a me pare che già a partire dal celebre “chi sono io per giudicare un gay?” (era il 2013) e sino alla telefonata ai due papà, questo Pontefice abbia voluto mostrare, oltre che una straordinaria disponibilità al confronto, il proposito di un progressivo riposizionamento della Chiesa, seppure coi tempi propri di una istituzione millenaria. Sono passati meno di quindici anni dai duri attacchi della CEI alla proposta di legge sul modello dei pacs francesi (Sarkozy definì «sconvolgente» la posizione vaticana) ma non era passato inosservato, nel 2015-2016, il malcelato scetticismo rispetto agli annunciati “moti di popolo” contro la legge Cirinnà, tradottisi in un Circo Massimo semivuoto per il cd. family day (cui la Chiesa ufficiale in effetti contribuì assai poco). Com’era da attendersi, le nuove parole del Papa sono state ora accolte con immenso sollievo e commozione da milioni di omosessuali credenti (e dai loro genitori, parenti, amici), suscitando per altro verso scetticismo nel fronte più laico e violenti attacchi dalle frange più conservatrici del mondo cattolico, sino alla loro “interpretazione autentica” nel “breve scritto esplicativo” della Segreteria di Stato, di cui si è avuta notizia il 2 novembre, nel quale viene sottolineato che le parole sono state pronunciate in risposta alla domanda sull’apertura del matrimonio avvenuta nel 2010 in Argentina, quando Bergoglio era arcivescovo di Buenos Aires, per cui permane l’assoluta contrarietà della Chiesa[2].
A prescindere da tali precisazioni, mi pare che le affermazioni sopra menzionate meritino comunque qualche riflessione anche su una Rivista propriamente giuridica (sicché ho accolto ben volentieri l’invito a una breve nota), non tanto perché riferite proprio al terreno del diritto positivo, quanto perché segnalano, a mio avviso, che anche la Chiesa romana avverte ormai l’inesorabile tramonto del paradigma della devianza, su cui si è fondata e si fonda tutt’ora la discriminazione giuridica delle persone omosessuali, e il passaggio invece al nuovo paradigma della neutralità dell’orientamento sessuale, che io credo susciti nuovi interrogativi sulla tenuta del principio di eguaglianza.
2. Nello stesso anno in cui l’Argentina approvava la Ley de matrimonio igualitario (15/7/2010) fui invitato a partecipare a un “seminario preventivo” organizzato come ogni anno dall’Università di Ferrara in preparazione di un caso che di lì a poco sarebbe stato discusso dalla nostra Corte costituzionale[3]: si trattava della questione di legittimità del divieto di matrimonio per le persone omosessuali (che i giudici a quo trassero da una norma «priva di disposizione»[4] ma fondata su «una consolidata ed ultramillenaria nozione di matrimonio»[5]) e nel corso di quell’appassionata discussione (era il tempo in cui duecento giuristi potevano riunirsi in una meravigliosa aula del ‘400 per chiacchierare amabilmente di diritto senza timore di contagi…) ebbi modo di rilevare come la “questione omosessuale” necessitasse di una riflessione, prima ancora che sui suoi termini squisitamente giuridici, sui suoi presupposti culturali, ideologici, e a volte religiosi, spesso celati nelle motivazioni dei giudici.
Osservai, in quel breve intervento di soli otto minuti (tanti ne venivano concessi a ogni partecipante!), come riguardo all’omosessualità stessimo assistendo a un mutamento di paradigma, secondo la nota definizione kuhniana[6] riferita alla storia della Scienza, ma applicabile anche al nostro campo. Come ci ha insegnato il grande epistemologo, la Scienza non procede sempre per accumulazione, come avviene quando viene scoperta una nuova stella o una nuova particella, ma procede a volte con improvvise rotture del precedente impianto di conoscenze, così da richiedere una vera e propria riorganizzazione del pensiero. Nel suo celebre saggio sulla rivoluzione copernicana[7], Thomas Kuhn indica un tratto caratteristico dei mutamenti di paradigma nella difficoltà per gli aderenti ai due paradigmi, quello passato e quello emergente, di comprendersi a vicenda. Richiama, molto a proposito, le immagini della psicologia della Gestalt, quelle, per intenderci, ove si può vedere un vaso o due profili di donna, ma mai le due immagini insieme, poiché necessitano d’una ricomposizione visiva, concettuale, una riorganizzazione cognitiva. Questo concetto è nodale, perché spiega per quale ragione sia tanto difficile la transizione da un paradigma all’altro, che richiede ogni volta che le parole assumano un nuovo significato, e spiega inoltre per quale ragione le tesi precedenti, per quanto sofisticate, appaiano polverose e vuote, addirittura ridicole, a chi appartiene al nuovo paradigma, così come le idee innovative appaiono indisponenti e paradossali a chi è ancora avvinto nell’atmosfera culturale del paradigma precedente.
Come la scienza, anche la storia del diritto ha conosciuto epocali mutamenti di paradigma. Quanti dotti testi sono stati scritti per spiegare razionalmente la superiorità – antropologica, naturale, d’origine divina – dell’uomo sulla donna? Basti rammentare la sofisticata idea di Antonio Cicu della famiglia come Istituzione, un piccolo Stato, che come ogni istituzione ha bisogno d’un Capo, che la tradizione indica, ovviamente, nell’uomo. Persino nel dibattito in assemblea costituente non si mancò di evocare una «Legge armonica dell’Universo intesa a determinare secondo un criterio naturale la supremazia del marito sulla moglie»[8] e in effetti la moglie secondo l’art. 144 c.c. fu soggetta sino agli anni settanta all’indirizzo stabilito dall’uomo. Espressioni che subito dopo apparirono assurde, persino ridicole. Analogo mutamento di paradigma si è avuto con la questione razziale: nella nota sentenza sui matrimoni interrazziali (una questione analoga e speculare a quella del matrimonio fra persone dello stesso sesso), la Corte suprema della Virginia scrisse nel 1965 che la divisione delle razze è nella natura delle cose, che tutta la tradizione umana non aveva mai conosciuto matrimoni misti, richiamando addirittura un disegno divino di separazione dell’umanità in razze. Il carattere relativo e transeunte di tali argomenti fu poi svelato dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, che rimosse di lì a poco il divieto con la celebre affermazione che «la libertà di sposarsi è riconosciuta da tempo come uno dei diritti personali essenziali per la ricerca della felicità»[9].
Anche sulla questione omosessuale è oggi in corso, com’è evidente, un mutamento di paradigma. Da una concezione, anche scientifica, dell’omosessualità come patologia e devianza, contestata dal primo movimento omosessuale nella Germania di Weimar (stroncato dalla deportazione nazista) e poi dai nuovi movimenti nel dopoguerra sino alla clamorosa rivolta dello Stonewall nel 1969, siamo infine giunti alla memorabile Dichiarazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 17 maggio 1990, con cui la Scienza Ufficiale (la Scienza normale, direbbe Kuhn!) ha sancito che si tratta di una variante del comportamento umano. Quindi, sono intervenuti sempre più testi legislativi che hanno sancito la necessaria parità tra la condizione eterosessuale e omosessuale e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea l’orientamento sessuale è stato menzionato, all’art. 21, insieme al sesso, alla razza, al colore della pelle o all’origine etnica fra i tratti della persona che non possono condurre a discriminazioni.
3. Le ultime parole del Papa mi pare che segnalino, in modo ormai univoco, il lento distacco della stessa Chiesa romana, persino lei, dal precedente paradigma della devianza, muovendo anch’essa verso l’idea di una condizione finalmente assunta come naturale.
Non è mio compito, né ne avrei le competenze, per proporre qui una esegesi delle parole del Papa, le quali vanno pure collocate nel contesto in cui sono state espresse, ma l’affermazione a favore di una legge che tuteli le coppie dello stesso sesso, congiunta alla sottolineatura che le persone hanno il diritto di essere protette legalmente mi pare rappresenti il segno di una profonda incrinatura del vecchio paradigma della colpevolizzazione delle persone omosessuali, dando conto dell’ammissione da parte del Pontefice che la relazione d’amore merita riconoscimento morale e, per conseguenza, protezione giuridica. Mi pare che affermando che le persone omosessuali hanno il diritto di essere protette, anche quando esprimono il desiderio di formalizzare il rapporto di coppia, il Pontefice rilevi implicitamente che l’orientamento sessuale rappresenta un oggettivo tratto della personalità di cui occorre prendere atto. Non mi pare rilevante se il Papa sia giunto a tale conclusione per contrastare il progetto di legge argentino di apertura del matrimonio, o se la pubblicità tardiva di tali parole rientri in un qualche disegno di chi, dentro la Chiesa, osteggia il Pontefice, come si è pure detto. Mi pare infatti che resti in ogni caso il segno di un tangibile spostamento nella posizione della Chiesa, perché perde di consistenza, finalmente, l’idea dell’omosessuale in qualche modo “nemico” del progetto divino di famiglia. La frase del Papa sottintende, direi finalmente, che l’orientamento omosessuale non è frutto di una scelta, colpevolmente assunta da chi vuole allontanarsi da Dio, ma rappresenta una oggettiva caratteristica umana, una sua variante naturale, che merita rispetto e tutela. La persona omosessuale non fa in effetti alcuna scelta, ma semplicemente è omosessuale. Come chi ha gli occhi verdi, i capelli castani o una certa propensione per la matematica.
Viene così affrontato e forse definitivamente sciolto, anche dal Papa, un nodo, forse il più ambiguo, della questione omosessuale: la sua erronea collocazione nell’ambito delle questioni etiche o, peggio ancora, del mutamento dei costumi. Se da un punto di vista storico è innegabile che il mutamento scientifico sia stato indotto dai profondi rivolgimenti sociali e di costume degli anni sessanta e settanta (si rilegga ancora una volta Kuhn sull’indissolubile nesso fra evoluzione culturale e scientifica), una volta appurato che l’orientamento sessuale (etero, bi, omo) è un tratto neutro della persona, come il colore della pelle, appare allora manifesto come la questione omosessuale, da un punto di vista giuridico, non abbia nulla a che fare con i cambiamenti del costume, del comune senso del pudore, degli atteggiamenti dell’opinione pubblica rispetto alla sessualità, ma si iscriva nell’ambito del diritto di una minoranza di non essere giuridicamente discriminata. Non una questione di libertà (sessuale), ma di eguaglianza.
Non sono ovviamente in grado di valutare, né interessano in questa sede, le conseguenze teologiche (in particolare come tali parole si concilino col tradizionale invito a condurre una vita casta e priva di qualsiasi relazione d’amore), certo è interessante che nella successiva “nota esplicativa” il Vaticano si spinga a dire che è «pertanto evidente che papa Francesco si sia riferito a determinate disposizioni statali, non certo alla dottrina della Chiesa, numerose volte ribadita nel corso degli anni», atteso che se è indubbio che tale chiarimento è volto evidentemente a mitigare l’effetto dirompente delle sue parole, l’argomento usato è sottile e al contempo seducente, perché conduce a tenere distinto, formalmente, il piano del sacramento canonico da quello degli istituti di diritto positivo. A quasi cinquant’anni dal referendum sul divorzio, sostenuto dalle gerarchie, sembra emergere l’ammissione che gli istituti giuridici (forse anche il matrimonio civile, non più indissolubile), aventi efficacia per tutta la collettività, non debbono necessariamente rispecchiare la dottrina della Chiesa, che è riferita ai sacramenti (fra cui il matrimonio canonico), i quali interessano chi è parte del popolo di Dio.
4. Sin qui il Papa. Ma le riflessioni sul mutamento di paradigma, riscontrato anche nelle parole del Pontefice, mi inducono a qualche ulteriore riflessione sui prevedibili scenari all’orizzonte.
Ricordiamo tutti com’è finita la questione di incostituzionalità nel 2010: la Corte italiana con la sentenza n. 138 negò che il divieto di matrimonio fosse incostituzionale e al contempo invitò il Legislatore a provvedere[10]. E questi, in effetti, sei anni dopo provvide, con iter combattutissimo, a promulgare la legge n. 76/2016 istitutiva della unione civile fra persone dello stesso sesso.
La legge n. 76/2016, fra pregi e difetti, luci e ombre, ha messo in moto un profondo processo culturale: migliaia di coppie si sono “sposate”, con liberatorie cerimonie in municipio, circondate da genitori commossi, parenti e amici festanti; i mezzi di comunicazione ci hanno rimandato l’immagine di una società in movimento, con migliaia di ragazze e ragazzi che fanno coming out già a scuola, gente che dichiara con naturalezza la propria omosessualità in pubblico e in tv, genitori finalmente meno preoccupati per il futuro dei loro figli gay o lesbiche. La legge ha contribuito a diffondere una maggiore accettazione sociale e, spesso, persino un sentimento di affettuosa condivisione. A tale cambiamento ha corrisposto, tuttavia, un incremento esponenziale dei crimini e dei discorsi di odio: la cronaca ci riferisce un aumento preoccupante dei pestaggi, minacce, assalti e persino omicidi di persone che, finalmente, hanno trovato il coraggio di vivere apertamente le proprie relazioni d’amore. L’Italia, nel 2020, è un paese dove può essere molto pericoloso persino tenersi per mano con la persona con cui si è legittimamente uniti. Il mutamento di clima e la stessa legge Cirinnà hanno smosso sentimenti di odio e chi cova il pregiudizio trova oggi ragioni in più per uscire allo scoperto. La frustrazione economica e sociale in un periodo di crisi si riversa contro chi viene avvertito come soggetto più debole e, comunque, ancora socialmente e giuridicamente non pienamente uguale. Inoltre, la mancata parificazione si riverbera anche sui figli delle coppie gay e lesbiche (ormai migliaia anche in Italia), perché resta ancora irrisolta la questione del loro riconoscimento, abbandonata dal legislatore in un limbo. Bambini cui la giurisprudenza italiana continua a negare, salvo che in alcune illuminate decisioni di merito, una protezione uguale a quella assicurata ai figli delle coppie eterosessuali (con un caso, direi da manuale, di discriminazione per associazione). Siamo dunque in mezzo al guado e il mutamento non può dirsi compiuto.
Nel 2010 la Corte costituzionale rinviò, sostanzialmente, al legislatore, assumendo che non emergessero ancora elementi tali da ritenere superata la tradizionale nozione di matrimonio come unione fra uomo e donna. Anche successivamente la Consulta, seguita dalla Corte di cassazione, in materia di filiazione ha ripetuto che il compito di adeguare l’ordinamento spetterebbe al legislatore e non al giudice. Si è arrivati a negare ai bambini già nati una protezione uguale a quella garantita ai figli delle coppie eterosessuali sull’assunto che spetti al legislatore assicurare al minore «le migliori condizioni di partenza»[11], che «alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale» sarebbe ragionevole ritenere meglio garantite in una famiglia eterosessuale, così contraddicendo le conclusioni cui è giunta unanimemente la scienza ufficiale, il cui richiamo nelle sentenze è infatti completamente omesso[12]. Il rinvio al quisque de populo, anziché alla scienza, persino nel giudizio sull’interesse del minore è quanto mai opaco e finisce col riprodurre, e amplificare, il pregiudizio.
Il rimpallo al legislatore potrebbe apparire, forse, ragionevole (o, al più, potrebbe configurare un commodus discessus in questioni politicamente spinose) se fossero in gioco vicende che attengono al costume o a scelte etiche. Mutato il paradigma, e divenuta la questione omosessuale questione di trattamento giuridico di una minoranza e di eguaglianza formale, è invece assai dubbio che il giudice possa rinviare alla volontà della maggioranza (che cosa avremmo pensato se nel 1967 la Corte Suprema avesse rinviato i matrimoni interrazziali alla discrezionalità del legislatore, allora dominato da una maggioranza bianca e razzista?).
Ovviamente molto al di là delle intenzioni del Pontefice, che muove senz’altro dalla strenua difesa della nozione tradizionale di matrimonio e le cui parole sono soltanto un ulteriore, potentissimo, indice che il mutamento scientifico del 1990 ha scavato in profondità, il passaggio al nuovo paradigma impone a mio avviso risposte nuove.
Com’è noto, nel 2020 l’Italia è l’unico grande paese occidentale a mantenere il divieto di matrimonio e, in particolare, proprio i grandi paesi cattolici hanno rimosso da diversi anni il divieto di sposarsi per le persone omosessuali (Spagna, Francia, Belgio, Irlanda, Austria, Portogallo, Malta, Argentina, Brasile, Messico, Colombia, Costa Rica, Uruguay)[13]. Nella cattolicissima e conservatrice Austria, a fronte dell’inerzia del legislatore il divieto è stato rimosso nel 2017 dalla Corte costituzionale, dichiarando l’illegittimità delle norme del codice civile che negavano agli omosessuali l’accesso al matrimonio e agli eterosessuali l’accesso all’unione civile[14].
Anche nel nostro ordinamento è già pacifico che la parola “matrimonio” non incorpori più assiologicamente la diversità di genere, come riconosciuto espressamente dalla stessa Cassazione nel 2012[15], e anche nel nostro ordinamento, dopo la legge Cirinnà, la nozione di “famiglia” non rimanda più solo all’unione fra uomo e donna[16]. Le parole hanno assunto, dunque, un nuovo significato.
Entra allora in gioco, a mio avviso, non solo il principio di eguaglianza formale di cui all’art. 3 ma lo stesso art. 29 della Costituzione, robusta garanzia voluta dai Costituenti proprio per difendere da impostazioni ideologiche quanto ognuno di noi ha di più intimo e umano: le nostre relazioni d’amore, con la nostra compagna o compagno e con i nostri bambini[17].
[1] Nel testo in spagnolo: «lo que tenemos que hacer es una ley de convivencia civil; tienen derecho a estar cubiertos legalmente». Non pare scorretto che la stampa italiana abbia tradotto “convivencia” con “unione” trattandosi dei due termini usati nei diversi contesti per indicare una legge riservata alle coppie omosessuali.
[2] In tale “scritto esplicativo” si precisa inoltre che altre dichiarazioni contenute nel documentario («le persone omosessuali hanno il diritto di essere in una famiglia. Sono figli di Dio e hanno diritto a una famiglia. Nessuno dovrebbe essere estromesso o reso infelice per questo») non sono una novità in quanto sono riferite, com’era peraltro evidente, alla necessità per le famiglie di non bandire i figli omosessuali. Le stesse sono state tuttavia montate dal regista russo insieme a quelle sulle “unioni civili”, creando confusione, nonostante fossero state rese in un altro momento dell’intervista (la quale era stata già trasmessa nel giugno 2019 dal canale televisivo messicano Televisa, curiosamente senza i passaggi ora inclusi nel documentario).
[3] Gli atti sono stati raccolti in La «società naturale» ed i suoi “nemici”. Sul paradigma eterosessuale del matrimonio, a cura di Bin, Brunelli, Guazzarotti, Pugiotto, Veronesi, Torino 2010.
[4] Ferrando, Questo matrimonio non si può fare? in La «società naturale» ed i suoi “nemici”, cit., pag. 155.
[5] È l’espressione utilizzata nell’ordinanza di rimessione del Tribunale di Venezia, 3/4/2009, in Resp. civ. e prev. 2009, 1905, con nota Ferrando, e in Nuova Giur. Civ. Comm. 2009, 911 con nota Buffone.
[6] Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1962.
[7] Kuhn, La rivoluzione copernicana, Torino, Einaudi, 1972
[8] Cesario Rodi in Atti dell’Assemblea Costituente, 2958-2959.
[9] Loving v Virginia, 12 giugno 1967.
[10] In Foro it. 2010, parte I, 1367 con nota Dal Canto, e Romboli e in Fam. Dir. 2010, 653, con nota Gattuso.
[11] Corte di cassazione, 7668/2020: «non è, perciò, irragionevole [...] che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle che, secondo la sua valutazione e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni "di partenza"».
[12] Come ricordato dall’Associazione Italiana di Psicologia nel 2014, in risposta ad affermazioni di analogo tenore dell’allora Ministro della Salute Lorenzin, per cui sarebbe ragionevole assumere che i bambini siano meglio garantiti con genitori di sesso diverso: «Tali asserzioni sono prive di fondamento empirico e disconoscono quanto appurato dalla ricerca scientifica internazionale, a partire da studi avviati ormai quarant’anni fa. Sull’argomento le più rappresentative società scientifiche si sono espresse in modo inequivocabile. (...) Su questi temi la comunità scientifica è unanime. L’Associazione Italiana di Psicologia ancora una volta invita i responsabili delle istituzioni politiche a tenere in considerazione i risultati che la ricerca scientifica ha prodotto e messo a disposizione della società e si facciano promotori del rispetto delle persone e della corretta divulgazione scientifica evitando di esprimere asserzioni infondate che hanno il solo risultato di rinforzare i pregiudizi e danneggiare le famiglie mono-genitoriali, le coppie omosessuali e soprattutto i loro bambini»; Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, 2014: «Non è certamente la doppia genitorialità a garantire uno sviluppo equilibrato e sereno dei bambini, ma la qualità delle relazioni affettive. Da tempo infatti la letteratura scientifica e le ricerche in quest’ambito sono concordi nell’affermare che il sano ed armonioso sviluppo dei bambini e delle bambine, all’interno delle famiglie omogenitoriali, non risulta in alcun modo pregiudicato o compromesso». Cosi da decenni gli statements ufficiali delle associazioni di psicologi, psicoanalisti, pediatri: American Psychological Association (2005): «non un solo studio dimostra che i figli di genitori gay e lesbiche siano in qualche modo svantaggiati rispetto ai figli di coppie eterosessuali»; American Psychoanalytic Association (2002/2012): «interesse del bambino è sviluppare un attaccamento verso genitori coinvolti, competenti e capaci di cure e di responsabilità educative» e «la valutazione di queste qualità genitoriali dovrebbe essere determinata senza pregiudizi rispetto all’orientamento sessuale»; American Academy of Pediatrics (2006): «i risultati delle ricerche dimostrano che bambini cresciuti da genitori dello stesso sesso si sviluppano come quelli cresciuti da genitori eterosessuali. Più di venticinque anni di ricerche documentano che non c’è una relazione tra l’orientamento sessuale dei genitori e qualsiasi tipo di misura dell’adattamento emotivo, psicosociale e comportamentale del bambino. Questi dati dimostrano che un bambino che cresce in una famiglia con uno o due genitori gay non corre alcun rischio specifico. Adulti coscienziosi e capaci di fornire cure, che siano uomini o donne, eterosessuali o omosessuali, possono essere ottimi genitori».
[13] Oltre a quelli citati nel testo, fra i paesi non ha maggioranza cattolica hanno rimosso il divieto: Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Germania, Olanda, Lussemburgo, Islanda, Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia, Australia, Nuova Zelanda, Taiwan, Sud Africa.
[14] Verfassungsgericht Oesterreich, 4/12/2017, reperibile in Articolo29.it.
[15] Corte di cassazione, 4184/2012, in Foro it. 2012, I, 2727 con nota Romboli, e in Fam. dir. 2012, 7, 665 con nota Gattuso.
[16] L’art. 1, comma 36 fornisce infatti una definizione di famiglia di fatto che abbraccia le coppie etero e omosessuali: «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale».
[17] L’analisi dei lavori preparatori rileva come la norma fosse stata concepita proprio contro le ingerenze già patite dalla libertà matrimoniale durante il fascismo, quando «il legislatore approfittando del silenzio dello Statuto Albertino in ordine alla famiglia … ha fatto divieto per esempio agli ebrei di sposarsi in terra italiana, ha stabilito divieti di nozze con stranieri» (relaz. di maggioranza, Atti dell’Assemblea Costituente p. 3227).
L’omo-transfobia diventa reato: la Camera dà il via libera - B. Liberali, A. Schillaci, L. Goisis e G. Dodaro -
Forum a cura di Corrado Caruso e Vincenzo Militello
Al crocevia del delicato confronto fra tutela delle condizioni personali da forme di discriminazione e rispetto della libertà di espressione, e intervenendo in una materia dove l’aspirazione alla determinatezza delle condotte penalmente illecite si scontra con notevoli problemi di sottostanti intese socio-valutative ampiamente condivise, l’approvazione alla Camera, lo scorso 4 novembre, del testo che contrasta le svariate forme che possono dare volto alle discriminazioni anche violente nei confronti di persone Lgbt e con disabilità rappresenta un importante passaggio in un dibattito politico-giuridico avviato da più legislature.
L’occasione è sembrata opportuna per stimolare una riflessione aggiornata da parte di studiosi che, da prospettive tanto costituzionalistica - Benedetta Liberali e Angelo Schillaci - quanto penalistica - Luciana Goisis e Giandomenico Dodaro -, hanno variamente già incrociato le questioni sul tappeto. Le diverse prese di posizione che seguono concordano sull’importanza sotto molteplici profili delle prospettate modifiche, che allineano il nostro ordinamento al contesto sovranazionale ed internazionale e in qualche caso (come in relazione alla tutela nei confronti della disabilità) lo fanno risaltare rispetto ad altre soluzioni nazionali, pur senza tacere delle incognite di interventi normativi che ampliano le possibili accezioni della nozione di discriminazione, specie se corredate dall’intervento del diritto penale.
C.C. e V.M.
[in coda il forum in formato pdf ed il ddl approvato alla Camera]
Benedetta Liberali
Sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere nei nuovi artt. 604-bis e 604-ter c.p.: una questione (non solo) definitoria
1. Con la modifica degli artt. 604-bis (Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa) e 604-ter (Circostanza aggravante) c.p. approvata nel testo unificato di diverse proposte di legge dalla Camera dei Deputati il 4 novembre 2020 (AA.C. 107, 569, 868, 2171 e 2255) e trasmesso al Senato della Repubblica (A.S. 2005) si intendono prevenire e contrastare condotte di discriminazione e di violenza “per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”.
In particolare, viene inserito il riferimento a queste nozioni nella prima disposizione, laddove prevede il reato di istigazione alla discriminazione o di discriminazione e il reato di istigazione alla commissione o di commissione di atti di violenza o provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, oltre che il divieto di ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo che abbia come scopo l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, con conseguente modifica del titolo della rubrica (art. 2); mentre nella seconda si prevedono nuove circostanze aggravanti, per i reati punibili con pena diversa dall’ergastolo, che determina un aumento di pena fino alla metà, affiancando tali riferimenti alle finalità già ivi previste, ossia quelle di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso (art. 3).
2. Nella prospettiva di verificare e individuare i profili di maggiore interesse dal punto di vista del diritto costituzionale di tali modifiche, che attengono innanzitutto al rispetto dei principi di determinatezza, di uguaglianza e di ragionevolezza, oltre che della libertà di manifestazione del pensiero, è necessario soffermarsi preliminarmente sulle nozioni di “sesso”, “genere”, “orientamento sessuale” e “identità di genere”, considerando che nella nostra Carta costituzionale vi è “solo” un espresso riferimento al “sesso”, oltre che alle generiche “condizioni personali” (art. 3, comma primo, Cost.), certamente idonee a ricomprendere anche quelle ultime nozioni, così come la “disabilità” (su cui si veda, da ultimo, G. Arconzo, I diritti delle persone con disabilità. Profili costituzionali, FrancoAngeli, Milano, 2020).
Con il termine “orientamento sessuale” si indica “la scelta del genere del partner nell’ambito della sfera erotico-affettiva” (E. Crivelli, La tutela dell’orientamento sessuale nella giurisprudenza interna ed europea, Edizioni scientifiche Italiane, Napoli, 2011, 6 s.). Si intende, quindi, fare riferimento alla “direzione dell’affettività e sessualità di un individuo, indipendentemente dal genere, maschile o femminile, a cui appartiene” (ibidem, 7), mentre l’identità sessuale ricomprende “sia la componente dell’orientamento sessuale, nella quale è qualificante la dimensione relazionale, sia quella dell’identità di genere” (ibidem, 7).
A questo proposito, e avendo riguardo alle due categorie di soggetti espressamente considerate nella relazione che accompagnava una delle prime proposte (AC 569), ossia le persone omosessuali e transessuali, occorre ricordare come più correttamente di identità sessuale si possa parlare in riferimento alle prime, che non aspirano ad appartenere a un sesso diverso da quello biologico, bensì a non essere discriminati per la scelta affettiva e sessuale di un partner di sesso uguale; mentre in relazione alle seconde sia maggiormente conferente il riferimento all’identità di genere, poiché esse mirano al riconoscimento di questa identità, sia dal punto di vista fisico sia da quello anagrafico (ibidem, 8).
In generale, quindi, certamente la locuzione “orientamento sessuale” “è per sua natura complessa dato che rappresenta il risultato dell’interazione multipla dei diversi significati assumibili dai due fattori che la compongono: orientamento affiancato a sessuale” (L. Calafà, Le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, in M. Barbera, (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Giuffrè, Milano, 2007, 177 s.). L’orientamento sessuale, infatti, “si riferisce, in termini astratti, alle preferenze o inclinazioni di una persona di ordine sessuale, mentre in termini concreti appare idoneo a contenere il riferimento a condotte, pratiche, espressioni o manifestazioni varie (fisiche, verbali e non verbali) di natura sessuale. Anche il termine sessuale ha una duplice connotazione indicando, nel contempo, «un’attrazione o una condotta affettiva ed erotica» così come il sesso o genere delle persone interessate” (ibidem, 178).
Occorre, invece, ulteriormente distinguere rispetto alle nozioni di “identità di genere” e “identità sessuale”, essendo la seconda riconducibile più direttamente all’orientamento sessuale, mentre la prima al mutamento di sesso. E, infatti, “Pur non negando che tra le due dimensioni esista una sorta di contiguità semantica e che anche la sessualità sia parte integrante dell’identità delle persone si preferisce, in ultima istanza, riservare la locuzione identità di genere alle sole questioni di mutamento di sesso, da donna a uomo e da uomo a donna” (ibidem, 179). In questa direzione, peraltro, è possibile ricomprenderle entrambe nella più ampia “identità personale” (sulla quale si veda A. Cerri, Identità personale, Enciclopedia giuridica Treccani, 1995).
A tale proposito, il testo unificato opportunamente inserisce in via esplicita le definizioni di sesso (da intendersi quale “sesso biologico o anagrafico”), di genere (ossia “qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso”), di orientamento sessuale (inteso come “l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi”) e di identità di genere (ossia “l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dal- l’aver concluso un percorso di transizione”) (art. 1).
3. Dal punto di vista, dunque, del rispetto del principio di determinatezza della legge penale (art. 25 Cost., sul quale si rinvia a M. D’Amico, Il principio di determinatezza in materia penale fra teoria e giurisprudenza costituzionale, in Giur. cost., 1998, 315 ss.), non sembrerebbero porsi profili problematici, soprattutto laddove si consideri che, al di là delle definizioni recate dalla stessa proposta di legge, non solo l’omosessualità e la transessualità sono termini ormai entrati nel linguaggio comune, ma anche (e soprattutto) che la Corte costituzionale ha avuto diverse occasioni per riconoscerne e valorizzarne il fondamento costituzionale.
Si pensi, innanzitutto, con riguardo al “fenomeno” del transessualismo (al riguardo si veda A. Lorenzetti, Diritti in transito. La condizione giuridica delle persone transessuali, FrancoAngeli, Milano, 2014), alle ben note decisioni nn. 98 del 1979 e 161 del 1985, alla legge n. 164 del 1982 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso) e, infine, ancora, al più recente intervento della Corte con la sentenza n. 221 del 2015.
Se con la decisione del 1979 (sulla quale si veda S. Bartole, Transessualismo e diritti inviolabili dell’uomo, in Giur. cost., 1979, 1178 ss.) la Corte non ritenne configurabile, da parte sua, un vero e proprio diritto inviolabile alla rettificazione del sesso, demandando ala legislatore ogni possibile regolamentazione in materia, a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 164 la sentenza n. 161 del 1985 colloca in modo particolarmente significativo tale disciplina “nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e dignità, della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie ed anomale”. Secondo la Corte il legislatore avrebbe fatto proprio un “concetto di identità sessuale nuovo e diverso rispetto al passato”, in cui acquisiscono rilievo non solo gli organi genitali esterni e primari, ma anche gli elementi psicologici e sociali, che concorrono a determinare una “concezione del sesso come dato complesso della personalità determinato da un insieme di fattori, dei quali deve essere agevolato o ricercato l’equilibrio, privilegiando - poiché la differenza tra i due sessi non è qualitativa, ma quantitativa - il o i fattori dominanti”.
Significativo, peraltro, risulta il passaggio della motivazione in cui la Corte da un lato sottolinea che non può intendersi violato l’art. 2 Cost., nel momento in cui viene “assicurato a ciascuno il diritto di realizzare, nella vita di relazione, la propria identità sessuale, da ritenere aspetto e fattore di svolgimento della personalità”, dall’altro che, di conseguenza, “gli altri membri della collettività sono tenuti a riconoscerlo, per dovere di solidarietà sociale”.
Nel 2015 la Corte respinge l’interpretazione della legge n. 164 che induceva a ritenere necessario, ai fini dell’ottenimento della sentenza di rettificazione del sesso, anche i trattamenti chirurgici altamente invasivi aventi a oggetto i caratteri sessuali primari. Questi ultimi, ad avviso del Giudice delle Leggi, costituiscono “solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali” e ciò costituisce il naturale “corollario di un’impostazione che − in coerenza con supremi valori costituzionali − rimette al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare […] il proprio percorso di transizione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l’identità di genere”. E, infatti, la stessa possibilità di rettificare il proprio sesso è configurabile “in funzione di garanzia del diritto alla salute, ossia laddove lo stesso sia volto a consentire alla persona di raggiungere uno stabile equilibrio psicofisico, in particolare in quei casi nei quali la divergenza tra il sesso anatomico e la psicosessualità sia tale da determinare un atteggiamento conflittuale e di rifiuto della propria morfologia anatomica”.
Con riguardo alle persone omosessuali, la Corte costituzionale con la sentenza n. 138 del 2010 (rispetto alla quale si vedano le considerazioni di M. D’Amico, Una decisione ambigua, in Notizie di Politeia, 2010, C, 85 ss.), pur non ritenendo di poter estendere loro il “diritto al matrimonio” (art. 29 Cost.), ha espressamente riconosciuto l’unione omosessuale quale formazione sociale tutelata dall’art. 2 Cost., “intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”.
E, ancora, nella più recente sentenza n. 221 del 2019, pur non consentendo l’accesso alle tecniche di procreazione assistita di tipo eterologo alle coppie omosessuali femminili, la Corte ha tenuto a chiarire che tale decisione viene adottata “a prescindere dalla capacità […] della coppia omosessuale […] di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali”. Tale decisione, inoltre, è stata richiamata dalla più recente sentenza n. 230 del 2020, con cui si è sottolineato che, se “il riconoscimento della omogenitorialità, all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente, non è imposto dagli evocati precetti costituzionali, vero è anche che tali parametri neppure sono chiusi a soluzioni di segno diverso, in base alle valutazioni che il legislatore potrà dare alla fenomenologia considerata”.
4. Le modifiche degli artt. 604-bis e 604-ter c.p., inoltre, consentono di soffermarsi su un ulteriore profilo che potrebbe risultare problematico, ossia quello del rispetto del principio di uguaglianza e, dunque, del divieto di discriminazione. In particolare, ci si potrebbe interrogare sulla possibile configurazione di una sorta di “discriminazione alla rovescia”, laddove si introduca, di fatto, una “tutela rafforzata di omosessuali e transessuali contro comportamenti motivati da omofobia o da transfobia” (E. Dolcini, Omofobia e legge penale. Note a margine di alcune recenti Proposte di legge, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2011, I, 24 ss.).
A una risposta negativa pare potersi pervenire innanzitutto se si considera che l’art. 3 Cost. vieta di introdurre discriminazioni irragionevoli, dovendosi al contrario prevedere trattamenti differenziati per situazioni che presentano elementi specifici tali da giustificarne, appunto, l’introduzione. In questa prospettiva, “la particolare vulnerabilità di una categoria di soggetti, ove sia empiricamente dimostrabile e venga in effetti dimostrata, rappresenta un sufficiente fondamento di ragionevolezza per una tutela rafforzata di quei soggetti” (ibidem).
In secondo luogo, e in ogni caso, occorre tenere conto che, in fondo, con le espressioni “sesso”, “genere”, “orientamento sessuale” e “identità di genere”, per come esse sono state declinate nel testo approvato dalla Camera, ben si ricomprendono anche ulteriori “condizioni” attinenti alla sfera sessuale e, dunque, per esempio, anche quella eterosessuale, non ponendosi alcuna limitazione alle loro potenzialità interpretative in senso espansivo.
5. Un ultimo profilo che occorre segnalare attiene alla “scelta strutturale” di prevedere da un lato nuove e autonome fattispecie di reato e dall’altro circostanze aggravanti del trattamento sanzionatorio relativo a vigenti ipotesi delittuose. Tale profilo si collega strettamente a un’ulteriore possibile criticità, ossia quella relativa al rischio di introdurre nell’ordinamento reati di opinione che violino, evidentemente, la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.).
Proprio rispetto alla scelta di introdurre una autonoma fattispecie di reato, infatti, si potrebbero paventare maggiori criticità, laddove in particolare le motivazioni connesse al sesso, al genere, all’orientamento sessuale e all’identità di genere (come anche alla disabilità) potrebbero condurre ad avvicinarsi al pericoloso crinale della punizione di manifestazioni del pensiero (al riguardo, si vedano le osservazioni di A. Pugiotto, Aporie, paradossi ed eterogenesi dei fini nel disegno di legge in materia di contrasto all’omofobia e alla transfobia, in GenIus, 2015, I, 6 ss.).
Al riguardo, però, occorre esaminare il tenore letterale della modifica dell’art. 604-bis c.p.
La disposizione vigente al suo primo comma prevede che “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito: a) con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”. La proposta di modifica non sembra inserire i riferimenti al sesso, al genere, all’orientamento sessuale, all’identità di genere e alla disabilità alla condotta di propaganda delle idee, ma “solo” a quelle di istigazione alla commissione o di commissione di atti di discriminazione, violenza e provocazione alla violenza. E così pure, se si considera la modifica relativa al divieto di “ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, l’inserimento delle sopra citate nozioni si riferisce a condotte che devono pur sempre consistere in condotte di “incitamento” e, dunque, non di “mera manifestazione del pensiero”.
La proposta di modifica nel testo unificato approvato dalla Camera, peraltro, ha cura di specificare che è esclusa la responsabilità penale derivante dalla “libera espressione di convincimenti od opinioni”, così come dalle “condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte”, sempre che esse non siano “idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti” (art. 4).
Richiamando le considerazioni svolte sul necessario chiarimento delle nozioni di “sesso”, “genere”, “orientamento sessuale” e “identità di genere”, si può, da ultimo, rilevare come resti particolarmente opportuna la stessa scelta del legislatore in questa direzione, anziché lo specifico riferimento alle (sole) omosessualità e transessualità (o omofobia e transfobia). E, all’interno di questa scelta, ancora, ci si potrebbe interrogare sulle motivazioni che hanno condotto il legislatore a fare riferimento nell’art. 604-bis c.p. ai “motivi” e nell’art. 604-ter c.p. alle “finalità” (a questo proposito si veda ancora E. Dolcini, cit., che si sofferma sulle possibili differenti scelte lessicali, richiamando le espressioni “Per finalità di”, “per motivi di” e “in ragione di”).
Angelo Schillaci
A metà del guado: la proposta di legge Zan, tra riconoscimento e solidarietà
1. Il testo in materia di prevenzione e contrasto delle discriminazioni e della violenza fondate su sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere – ora anche disabilità – approvato dalla Camera dei Deputati nella seduta del 4 novembre 2020 è il risultato dell’approvazione in testo unificato di diverse proposte di legge, avvenuta in Commissione Giustizia il 30 luglio 2020, a seguito di un serrato e approfondito confronto nella maggioranza, che ha visto il contributo anche di alcuni esponenti di forze di opposizione (e in particolare di una porzione del gruppo di Forza Italia).
Rispetto ai numerosi progetti di legge presentati e discussi nelle ultime legislature sul tema (a partire almeno dal 1996), la proposta di legge Zan si caratterizza per alcuni profili di sostanziale novità.
2. Anzitutto, essa affronta la questione del contrasto delle discriminazioni e della violenza di matrice misogina, omolesbobitransfobica e abilista rinunciando ad un approccio antidiscriminatorio di tipo soltanto episodico o occasionale – vale a dire, finalizzato a contenere o reprimere episodi di discriminazione e violenza una volta che essi si siano verificati – e scegliendo di intervenire anche sulle condizioni strutturali della discriminazione e della violenza, con misure di carattere preventivo, oltre che di concreto sostegno alle vittime. In questo quadro, la scelta di integrare le previsioni di cui agli articoli 604-bis e 604-ter del codice penale appare soltanto come uno dei tasselli di una azione più comprensiva, in linea peraltro con il carattere sussidiario e residuale dell’intervento repressivo penale che ispira il nostro ordinamento. A ciò si aggiungono, infatti, specifici interventi – disciplinati dagli articoli 6, 7, 8 e 9 – che mirano a superare le condizioni strutturali e sistemiche della discriminazione e della violenza, con riferimento però alla sola matrice omolesbobitransfobica, per evitare sovrapposizioni con gli strumenti già previsti dall’ordinamento per la prevenzione della discriminazione e della violenza contro donne e persone con disabilità e per il sostegno delle vittime.
3. In secondo luogo, significativi elementi di novità si riscontrano anche in relazione alle modalità di intervento sul codice penale. La proposta di legge estende, come accennato, il novero delle condizioni personali protette dalle fattispecie penali introdotte dalla cd. legge Reale-Mancino (legge 13 ottobre 1975, n. 654, come modificata dal decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122) e successivamente confluite negli articoli 604-bis e 604-ter del codice penale per effetto del decreto legislativo 1 marzo 2018, n. 21: attualmente, tali disposizioni reprimono – da un lato – la propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico e – dall’altro – l’istigazione al compimento e il compimento di atti discriminatori o violenti per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (art. 604-bis c.p.) e aggravano altresì, fino alla metà, la pena prevista per altre fattispecie di reato se commesse per i medesimi motivi (art. 604-ter c.p.).
La proposta di legge estende alle condotte motivate da sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità esclusivamente le due fattispecie autonome di istigazione e compimento di atti discriminatori e violenti di cui all’art. 604-bis, e l’aggravante di cui all’art. 604-ter: la fattispecie di propaganda di idee resta pertanto circoscritta a quelle fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico (e ciò è reso evidente, in modo particolare, dalla novella della rubrica dell’art. 604-bis, di cui all’art. 1 della proposta in esame). A differenza di quanto avvenuto in passato, dunque, per un verso la proposta di legge individua le condizioni personali protette, piuttosto che il movente represso (omotransfobia, misoginia o abilismo, ad esempio); per l’altro, non limita l’intervento alle condotte motivate da orientamento sessuale o identità di genere ma, recependo specifiche sollecitazioni emerse nel corso del ciclo di audizioni, lo ha esteso – fin dall’approvazione del testo unificato – alle condotte motivate dal sesso e dal genere e, nel passaggio d’Aula, anche dalla disabilità della vittima.
La scelta di enunciare le condizioni personali protette in luogo del movente del delitto è particolarmente significativa non solo dal punto di vista della tassatività della formulazione del precetto penale, ma anche ai fini di un inquadramento dell’intervento legislativo nella prospettiva del riconoscimento giuridico – e della conseguente protezione – di dimensioni della dignità personale ritenute ricche di valore e meritevoli di tutela. Non si è dunque in presenza – come pure è stato osservato nel dibattito pubblico – di una norma che crei una qualche forma di “privilegio” per “categorie” o “minoranze” protette, come dimostra anzitutto la formulazione della norma in termini neutri (qualunque sesso, qualunque genere, qualunque orientamento sessuale e qualunque identità di genere sono meritevoli di protezione): tutto al contrario, l’intervento legislativo in esame intende assicurare il riconoscimento giuridico di dimensioni di vita ed esperienza che, in un momento storico dato, sono apparse al legislatore come particolarmente vulnerabili (non in sé, ma in conseguenza di specifiche dinamiche socio-culturali) e meritevoli di protezione, anche in chiave di temperamento di quelle stesse dinamiche. Ciò risulta con particolare evidenza proprio in relazione all’introduzione della disabilità tra le condizioni personali protette: a differenza infatti dell’aggravante già prevista dall’articolo 36 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, la quale aggrava la pena prevista per taluni reati solo in virtù del fatto che gli stessi siano commessi ai danni di una persona con disabilità, sia la fattispecie autonoma di reato (art. 604-bis) che l’aggravante (art. 604-ter) configurano una tutela rafforzata, colpendo la lesione dello specifico valore ascritto alla condizione personale, nel caso di condotte motivate da quest’ultima.
4. A tale riguardo, deve poi osservarsi che – a seguito di una condizione specificamente posta dalla Commissione Affari costituzionali e dal Comitato per la legislazione nei pareri – l’Aula ha approvato un emendamento recante le definizioni delle condizioni personali protette, a esclusione della disabilità, che ritrova la propria definizione consolidata nell’articolo 1, comma 2, della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18).
Tale integrazione si è resa necessaria per assicurare – come da rilievo delle Commissioni richiamate – il principio di tassatività della legge penale. Alla base dello sforzo definitorio vi è dunque la necessità di mantenere in equilibrio l’incidenza delle definizioni stesse su dinamiche di riconoscimento – e, dunque, il rischio di misconoscere specifiche dimensioni della dignità delle condizioni definite – e la specifica funzione delle definizioni medesime, che è quella di guidare il giudice nell’applicazione di norme destinate al contrasto delle discriminazioni e della violenza. Non è in questa sede possibile, per ragioni di spazio, diffondersi sulle singole definizioni: basti notare, a mo’ di esempio, che tale tensione è ben confermata dalla definizione prescelta per l’identità di genere. Una definizione che, da un lato, riprende la consolidata giurisprudenza costituzionale e di legittimità sulla dimensione relazionale dell’identità di genere (si parla, infatti, di identificazione “percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso”) e dall’altro, in linea con quella stessa giurisprudenza, esclude la corrispondenza biunivoca tra il riconoscimento dell’identità di genere e la conclusione di un percorso di affermazione di genere: peraltro, l’uso del termine “percorso di transizione” in luogo di quello di procedimento di “rettificazione di attribuzione di sesso” (che è la dizione utilizzata dalla legge 14 aprile 1982, n. 164) consente di ritenere che il legislatore abbia inteso dare protezione anche a quelle situazioni di vita ed esperienza delle persone trans che – pur non avendo intrapreso il procedimento disciplinato dalla legge n. 164/1982 – abbiano tuttavia iniziato un percorso di affermazione del genere di elezione nella vita personale e di relazione.
L’Assemblea ha così dato risposta alla condizione formulata dalla I Commissione e dal Comitato per la legislazione, che invitavano a meglio definire i confini tra le condotte discriminatorie colpite dall’articolo 604-bis del codice penale: e in effetti, la disposizione definitoria approvata – opportunamente combinata con la definizione di atti discriminatori già contenuta nell’articolo 2 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216 (che riprende, a sua volta, le definizioni di discriminazione diretta e indiretta elaborate dalla giurisprudenza della Corte di giustizia UE) – pare suscettibile di individuare in modo sufficientemente tassativo il perimetro di applicazione della fattispecie penale.
5. Strettamente collegato con l’inquadramento dell’intervento legislativo in esame nella prospettiva del riconoscimento di dimensioni della dignità è il profilo – assai dibattuto – della compatibilità tra la proposta integrazione dell’articolo 604-bis c.p. (in relazione alle due fattispecie di istigazione alla discriminazione e di istigazione alla violenza) e la libertà di manifestazione del pensiero garantita dall’articolo 21 della Costituzione, aspetto sul quale già si arenò la discussione su analoga proposta di legge nel corso della legislatura precedente.
Si tratta di un aspetto di sicuro rilievo, che evoca il tema più generale della convivenza tra diverse visioni del mondo e della vita nelle società pluralistiche, e al miglior modo di gestire la concorrenza tra di esse quando siano in gioco aspetti della dignità personale. Un tema peraltro già affrontato (e risolto), a ben vedere, dalla giurisprudenza interna e sovranazionale che, negli anni, si è fatta carico di individuare con sufficiente precisione il confine tra ambito dell’intervento penale, tutela della libertà di espressione e concorrente istanza di rispetto della dignità. Così, nella giurisprudenza costituzionale e ordinaria, è sufficiente richiamare le pronunce con le quali – in relazione alle fattispecie di istigazione in generale, e a quelle normate dalla cd. legge Reale-Mancino in particolare – si è correttamente ritenuto che la linea di confine tra libertà di espressione e condotte penalmente rilevanti sia da individuare nella idoneità delle opinioni espresse a determinare il concreto pericolo del compimento degli atti conseguenti (cfr. ad esempio ex multis C. cost., sent. n. 65/1970; Cass. pen., sez. I, 22 maggio 2015, n. 42727). Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo – ad esempio nei due recenti casi Lillendahl v. Islanda (12 maggio 2020, ric. n. 29297/18) e Beizaras and Levickas c. Lituania (14 gennaio 2020, ric. n. 41288/15), che riprendono peraltro l’orientamento già espresso in Vejdeland c. Svezia (9 febbraio 2012, ric. n. 1813/07) – ha chiaramente affermato che il ricorso alla norma penale per limitare la libertà di espressione è consentito e non viola la Convenzione qualora sia diretto a colpire attacchi ai diritti e alla dignità di altri con chiaro intento discriminatorio. Analoga posizione è stata di recente espressa dalla Corte di Giustizia UE nel caso NH c. Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford (23 aprile 2020, in c. C-507/18, specie par. 52).
Sebbene dunque l’equilibrio tra le contrapposte istanze fosse già desumibile dall’ordinamento vigente, nel corso dei lavori parlamentari la maggioranza ha accolto la sollecitazione proveniente da alcuni settori interni a essa e dal gruppo di Forza Italia e volta a introdurre una specifica salvaguardia per la libertà di espressione. Su questa base, è stato inserito, già in Commissione, l’articolo 3, rubricato “Pluralismo delle idee e libertà delle scelte” e formulato nei termini di una norma di principio secondo cui “ai sensi della presente legge, sono consentite la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee e alla libertà delle scelte”. Anche su tale disposizione si è appuntata una condizione posta dalla Commissione Affari costituzionali nel proprio parere per l’Aula, con la richiesta di formulare l’enunciato in termini più precisi e idonei a delimitare l’ambito della salvaguardia. Esclusa – come ben testimoniato dal dibattito d’Aula del 28 ottobre 2020 – la possibilità di riformulare la disposizione nei termini di una esclusione a priori della punibilità di talune opinioni o condotte (ipotesi non coerente con gli equilibri già consolidati richiamati in precedenza e, soprattutto, suscettibile di radicare una irragionevole disparità di trattamento tra i beni già protetti dagli articoli 604-bis e 604-ter c.p. e quelli protetti dalla novella in commento), è stato approvato un emendamento che: a) precisa che la salvaguardia vige non “ai sensi” ma “ai fini della presente legge”, così ancorandola più decisamente alla finalità antidiscriminatoria della medesima; b) sostituisce “sono consentite” con “sono fatte salve”, così testimoniando in modo ancor più preciso che la legge si limita a ribadire in termini di principio gli approdi già raggiunti dalla giurisprudenza; c) afferma in modo esplicito che la salvaguardia opera, purché opinioni e condotte non siano idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti.
6. È stato così individuato dal legislatore, in una parola, il punto di equilibrio tra riconoscimento e solidarietà, nel quadro di un intervento normativo rivolto a reprimere discriminazione e violenza, e a superarne le condizioni strutturali e sistemiche. Da un lato, infatti, nell’immagine del soggetto giuridicamente rilevante entrano a pieno titolo le diverse dimensioni dell’identità affettiva, sessuale e di genere così come la specifica condizione di vita ed esperienza delle persone con disabilità. Dall’altro, il riconoscimento di profili identitari e caratteristiche personali è messo a sistema con la salvaguardia della molteplicità di visioni del mondo e della vita che, quando non attingono la soglia di offensività delle condotte discriminatorie e violente, trovano tutela nelle dinamiche di un sistema costituzionale aperto, democratico, pluralista ma, al tempo stesso, saldamente orientato al rispetto della dignità personale nelle sue diverse dimensioni, anche relazionali.
Giandomenico Dodaro
La problematica criminalizzazione degli “atti di discriminazione” non violenti nei delitti contro l’eguaglianza. Una riflessione a partire da d.d.l. Zan e altri in materia di misure di prevenzione e contrasto delle discriminazioni omo-transfobiche.
1.Contro l’odioso fenomeno delle discriminazioni di persone Lgbt il disegno di legge Zan e altri, approvato dalla Camera dei deputati il 4 novembre 2020, estende l’ambito applicativo degli artt. 604-bis e ter c.p. della Sezione I-bis – Dei delitti contro l’eguaglianza, ai comportamenti motivati da sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere[1].
La proposta è frontalmente avversata, innanzitutto, da coloro i quali, dentro e fuori il mondo cattolico, sono contrari al riconoscimento da parte dello Stato della rilevanza giuridica di orientamenti sessuali e identità di genere, non allineati o non “adeguati” al sesso biologico della persona, in quanto implicherebbe una espressa ricezione di una concezione, quella gender, tutt’altro che pacifica a livello culturale e scientifico, accrescendo in ambito giuridico le incertezze interpretative e applicative relative alla stessa nozione di discriminazione. Argomentano, inoltre, i più che l’incriminazione dell’istigazione, in forma individuale o associata, e della commissione di atti dalla dubbia natura discriminatoria comporterebbe un’ingiustificata compressione di libertà costituzionalmente tutelate (ricerca, educazione, associazione, educazione, religione). Più in particolare, il delitto dell’art. 604-bis lett. a) c.p., adombrando una sorta di reato d’opinione, realizzerebbe primariamente una compressione della libertà di espressione e della libertà di agire nelle relazioni interpersonali, nei più disparati contesti di vita, coerentemente alle proprie convinzioni religiose o morali relative a ruoli, identità, affetti, sessualità e relazioni. In definitiva, la norma penale non si limiterebbe a incriminare solamente la realizzazione di veri e propri atti di discriminazione soggettiva nei confronti delle persone Lgbt, ma anche disparità di trattamento che trovano giustificazione nell’esercizio di libertà costituzionali, accrescendo il rischio di incorrere nel delitto per credenti e non credenti impegnati nella difesa di concezioni dell’identità contrarie alla teoria gender. Per queste ragioni si ritiene preferibile continuare a contrastare gli episodi di omo-transfobia facendo applicazione delle norme incriminatrici vigenti, eventualmente aggravate dalla circostanza dei “motivi abietti o futili” di cui all’art. 61, n. 1 c.p., o mediante il ricorso all’apparato del c.d. diritto antidiscriminatorio, che tutela alcuni dei caratteri che contribuiscono a definire l’identità della persona, in alcuni ambiti e a determinate condizioni, e per lo più con sanzioni civilistiche.
2.Tali critiche e preoccupazioni escono ridimensionate solo in parte dal testo approvato dalla Camera dei deputati.
È confermato l’impianto di fondo della proposta, focalizzata sulla criminalizzazione della discriminazione, violenta e non violenta, agita o istigata, con esclusione della mera propaganda di idee. Ad entrare in tensione con l’art. 21 Cost. continua a essere l’incriminazione dell’istigazione. La questione può forse ritenersi sdrammatizzata, non certamente superata, dall’inserimento nell’art. 4 di una clausola di stile, che afferma, recependo un costante indirizzo di giurisprudenza costituzionale e convenzionale, che «ai sensi della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori e violenti». Il riconoscimento della legittimità dell’istigazione solo a determinate condizioni segna un punto di equilibrio coerente con la Costituzione, che però conferma il carattere problematico della compatibilità dei delitti d’opinione con le esigenze della convivenza all’interno di una società plurale, come continua a ribadire ampia parte della letteratura giuridica.
Inoltre, per cercare di contenere la vaghezza del significato normativo dell’espressione discriminazione per sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere, il disegno di legge introduce all’art. 1 le definizioni dei suddetti caratteri identitari. Si tratta di nozioni conformi a letture mainstream, tutt’altro che esaustive e condivise nel dibattito scientifico, sulle quali è prevedibile che si appunterà l’analisi critica dei commentatori.
La distinzione tra discorsi leciti e atti vietati non sembra riuscire a superare in maniera convincente e risolutiva le critiche più severe mosse contro la proposta di riforma, la quale sembra rappresentare, anche per ulteriori ragioni che nello spazio ristretto di questo contributo non potranno essere analizzate (es. perseguibilità d’ufficio, irrigidimento della disciplina delle circostanze del reato), l’ennesima dimostrazione di un uso simbolico e particolaristico del diritto penale.
Ci limitiamo a rilevare che nell’incriminazione dell’art. 604-bis lett. a) c.p., rimane irrisolta la questione relativa a cosa debba intendersi per “discriminazione”, e a quali condizioni si possa ritenere che la discriminazione di una persona raggiunga la soglia dell’offensività penalmente rilevante. L’interrogativo è tutt’altro che marginale e tocca direttamente il cuore del problema di un delitto contro l’uguaglianza. Basti fare un esempio: sarebbe qualificabile come istigazione punibile l’organizzazione di una manifestazione finalizzata a esercitare pressione sulle forze politiche di orientamento cattolico, affinché votino contro una proposta di legge mirante a riconoscere a coppie omosessuali il diritto di contrarre matrimonio? Stante la polisemia del termine, è arduo non considerare discriminatorio il voto del parlamentare, non avendo alcun pregio rilevare che l’art. 68 Cost. garantisce l’insindacabilità per i voti dati.
3.Discriminatorio può ragionevolmente ritenersi un atto di violenza o un qualsiasi reato motivato dal sesso, dal genere, dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere della vittima. Il rispetto dei diritti fondamentali non ammette distinzioni basate sulle caratteristiche soggettive costitutive dell’identità della persona.
Trattandosi di fatti già penalmente rilevanti, si potrebbe discutere della reale utilità di un ulteriore irrigidimento sanzionatorio (artt. 604-bis e ter c.p.), ritenendosi, invece, pacifica la sua giustificazione. Un regime sanzionatorio più severo per reati commessi per ragioni omo-transfobiche trova un fondamento nel carattere plurioffensivo del fatto, lesivo non solo dei singoli beni giuridici tutelati dalla norma di parte speciale, ma lesivo altresì del bene dell’uguaglianza, negata da un reato la cui commissione, secondo la definizione di hate crime fornita dall’Ocse, trova origine proprio in un motivo di pregiudizio contro una caratteristica soggettiva, l’identità sessuale, protetta dall’ordinamento giuridico contro eventuali discriminazioni.
Problematica è, invece, la qualificazione di atti, normalmente leciti, che assumono natura penale in quanto motivati da sesso, genere, orientamento sessuale o identità di genere, i quali sono potenzialmente in grado di essere ricondotti al delitto dell’art. 604-bis lett. a) c.p. Per quanto l’incriminazione abbia carattere residuale, la sua sfera applicativa è potenzialmente molto estesa, corrispondente al significato che si ritiene corretto assegnare al termine discriminazione, ed è in grado di proibire anche fatti bagatellari. La scarsa o nulla applicazione giudiziaria dell’incriminazione non consente di desumere utili criteri interpretativi, alimentando semmai ulteriori perplessità sulla reale utilità della norma. Peraltro, non è affatto chiaro quali comportamenti i sostenitori della riforma ritengano debbano essere puniti attraverso il delitto dell’art. 604-bis lett. a) c.p. Se l’obiettivo che si vuole colpire, sono i biasimevoli comportamenti, di cui si sente parlare nel dibattito parlamentare, di genitori che “buttano fuori di casa” il figlio maggiorenne ed economicamente indipendente perché omosessuale, o che rifiutano di affittagli casa per andare a vivere con il compagno transessuale, la scelta di estendere l’incriminazione appare ancora più discutibile per l’ingerenza che si realizzerebbe in un contesto complesso come le relazioni familiari.
4.Per comprendere l’espressione “discriminazione” il giudice penale trova punti di riferimento nella legislazione antidiscriminatoria, nazionale e sovranazionale, relativa a diversi campi di materia, dalla quale mutua accezioni differenti del termine.
Nel diritto antidiscriminatorio convivono, ormai da tempo, più nozioni di discriminazione, corrispondenti a diversi paradigmi discriminatori e correlate a distinte concezioni dell’uguaglianza, affermatesi nel diritto comunitario. La frammentazione dell’idea di uguaglianza non sarebbe l’espressione di un atteggiamento ambivalente del legislatore, ma semmai la dimostrazione della consapevolezza della necessità di dare risposte diverse a forme diverse di discriminazione, e dello spostamento del baricentro della tutela antidiscriminatoria dall’uguaglianza alla differenza in ragione dell’affermarsi della dignità umana come valore dotato di significato normativo.
Accanto alla tradizionale teoria dell’uguaglianza come parità di diritti, un nuovo paradigma è venuto a delinearsi nelle fonti sovranazionali di nuova generazione, le quali mostrano la tendenza a un allargamento di tipo universalistico della tutela antidiscriminatoria a favore delle differenze soggettive, ritenute in sé portatrici di un autonomo e uguale valore. Questo nuovo approccio si manifesta in maniera evidente in quella particolare nozione di discriminazione che fa coincidere il comportamento vietato con la molestia, definita come «quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo» (art. 26 “Codice di pari opportunità”). Questa nozione allargata di discriminazione, dai confini difficilmente definibili, segna un punto di rottura con il passato. Riconoscendo all’individuo un diritto assoluto a non essere discriminato, appresta una tutela diretta alla dignità, il cui attivarsi sembrerebbe prescindere dalla comparazione tra fattispecie omogenee rispetto al riconoscimento di diritti in condizioni di parità. A quest’ultimo modello di uguaglianza sembrerebbe ispirarsi la nozione di discriminazione cui guarda con favore una parte della dottrina penalistica, che ritiene di poter identificare nella violazione del principio dell’uguale valore delle differenze l’essenza stessa dei crimini d’odio, sulla falsariga della legislazione penale antidiscriminatoria di altri Paesi (Francia e Spagna).
Nel complesso quadro giuridico attuale non risulta, dunque, possibile stabilire una nozione unitaria di discriminazione, rilevante per l’art. 604-bis c.p., il quale appare destinato a operare sulla base di una pluralità di accezioni normative di discriminazione, a seconda del campo di materia.
La frammentarietà della nozione di discriminazione non solo appare difficilmente conciliabile con le esigenze di determinatezza della fattispecie penale, ma si riflette negativamente anche sulla possibilità di ravvisare, nella multiforme varietà degli atti di discriminazione per sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere, la sussistenza di un’offesa al bene giuridico, quale che sia il modello di uguaglianza cui essa fa riferimento. Tale rischio aumenterebbe in maniera esponenziale, qualora si affermasse la tendenza, suggerita anche dal diritto penale antidiscriminatorio straniero, a leggere il delitto come ulteriormente sanzionatorio di ipotesi di discriminazione di matrice extra-penale, o si slargasse la nozione di discriminazione appiattendola sul concetto giuslavoristico di molestia.
Che si intenda per “atto di discriminazione” la negazione dell’uguaglianza delle differenze o una disparità di trattamento ingiustificata, il giudice sarà chiamato al difficile compito di valutare la rilevanza del motivo che spiega il comportamento oggetto di giudizio, nel primo caso al fine di accertare la lesività dell’atto in sé, nel secondo caso per valutare la ragionevolezza del trattamento differenziato. Se in alcuni casi la valutazione non porrà soverchie difficoltà, in altre situazioni, specie di fronte a nuove domande di riconoscimento di diritti (matrimonio, adozione, Pma e, in specie, Gpa), si tratterà di un esame dagli esiti incerti, che richiederà al giudice di prendere posizione in un dibattito scientifico tuttora aperto. Al giudice, più che al decisore politico, il disegno di legge finisce per assegnare un ruolo cruciale nell’eliminazione delle disuguaglianze, con il rischio di surriscaldare ed esacerbare ulteriormente attraverso decisioni di segno contrario un dibattito già molto intenso, a discapito, potenzialmente, delle libertà costituzionali.
Le critiche mosse al disegno di legge mettono in evidenza una serie di criticità specifiche e generali dei delitti contro l’uguaglianza, che giustificherebbe un significativo e complessivo ripensamento del diritto penale antidiscriminatorio italiano.
[1] La sfera applicativa delle due fattispecie normative viene estesa, altresì, ai comportamenti discriminatori contro persone con disabilità.
Luciana Goisis
Brevi riflessioni sulla recente proposta di legge in materia di crimini d’odio omotransfobico, di genere, per disabilità
1. La categoria dei crimini d’odio. Solo tematizzando la categoria dei crimini d’odio si può cogliere l’esigenza di una legge contro l’omotransfobia e le discriminazioni di genere, nonchè l’abilismo.
Volendo accogliere la definizione più accreditata di crimine d’odio, emersa in sede europea grazie all’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione, nonché nell’ambito anglosassone ove la categoria nasce, si tratta di crimini che si compongono di due elementi: una condotta che costituisce reato; inoltre, la commissione di tale condotta deve essere ispirata da un motivo di pregiudizio contro una “caratteristica protetta”, appartenente ad un gruppo, come può essere la razza, la lingua, la religione, l’etnia, la nazionalità o altre caratteristiche simili, nelle quali si annoverano il genere, l’orientamento sessuale e l’identità di genere (talvolta, la disabilità).
A tale categoria vanno dunque ascritti oggi anche i crimini d’odio omotransfobico, nonché i crimini d’odio fondati sul genere, nei quali rientra la violenza di genere, e altresì i crimini d’odio verso disabili. A corroborare quest’ultima conclusione contribuisce l’apertura alla prospettiva comparata ove sono molte le legislazioni europee ed extraeuropee che contemplano una disciplina penalistica, oltre che in materia di crimini d’odio razziale e religioso, anche in materia di crimini d’odio omotransfobico e di genere (e talora per disabilità).
2. Il d.d.l. Zan et Alii. Se paragonata con il panorama legislativo straniero, l’esperienza italiana in materia di discriminazioni a sfondo omotransfobico e di genere è desolante. Il nostro Paese non dispone di alcuna legge antiomofobia, né contempla norme penali, di rango ordinario, che incriminino o aggravino il trattamento sanzionatorio per la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere, nonché sul genere della vittima. Scarne anche le norme in materia di abilismo.
Tuttavia, il quadro legislativo italiano sembra oggi destinato a mutare.
È noto che il disegno di legge Zan et Alii, dal nome del relatore, approvato, come testo unificato (A.A. C. 107, 569, 868, 2171 e 2255), il 30 luglio 2020, in Commissione Giustizia e recante “Modifiche agli artt. 604-bis e ter c.p., in materia di violenza o discriminazione per motivi di sesso, di genere, di orientamento sessuale e di identità di genere”, si compone di 10 articoli, attraverso i quali si punta sia sulla strategia repressiva che su quella preventiva, al fine di contrastare le forme di discriminazione e violenza omotransfobica e misogina. Ad oggi, 4 novembre 2020, il d.d.l. ha superato il vaglio dell’Assemblea, con una doverosa estensione della disciplina, da noi già in altra sede auspicata, anche alla disabilità.
Gli attuali artt. 2 e 3 del d.d.l. modificano i delitti contro l’uguaglianza previsti agli artt. 604-bis e ter c.p. per aggiungere alle discriminazioni per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi gli atti discriminatori fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità. L’estensione riguarda le fattispecie di istigazione al compimento o di compimento di atti discriminatori e violenti, nonché la fattispecie associativa, mentre non si opera, opportunamente, l’ampliamento della fattispecie di propaganda (nonché dell’ipotesi del negazionismo), evitando così di entrare in potenziale collisione con la libertà d’espressione. L’art. 3 estende l’aggravante c.d. dell’odio razziale alle condotte fondate sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità. L’art. 4, frutto del c.d. emendamento Costa, reca una clausola dedicata al pluralismo delle idee e alla libertà delle scelte. L’art. 5 modifica l’art. 1 della l. 25 giugno 1993, n. 205 prevedendo il lavoro di pubblica utilità, già pena accessoria, anche nell’ipotesi di sospensione condizionale della pena e di sospensione del procedimento con messa alla prova. L’art. 6 modifica coerentemente l’art. 90-quater c.p.p. Infine, gli artt. 7, 8, 9 prevedono politiche di promozione della pari dignità delle persone LGBT e azioni di sostegno a favore delle vittime di reato. L’art.10 prevede un sistema di rilevazione statistica sulle discriminazioni e sulla violenza.
Veniamo, entrando in medias res, all’obiezione più di frequente mossa a tale disegno di legge (essendo oggi superata quella circa la precisione o tassatività normativa grazie ad una norma definitoria da ultimo inserita nel testo di legge all’art. 1)[2] – la sua presunta natura liberticida, invocata, come noto, nel dibattito pubblico, da esponenti delle forze conservatrici, nonché dalla stessa CEI in alcune esternazioni recenti: si tratta di obiezione pretestuosa.
In primis, la proposta di legge non estende la tutela alla fattispecie di propaganda, come si diceva. Ciò solo basterebbe ad escludere ogni preoccupazione in ordine a future limitazioni della libertà di espressione.
L’obiezione è strumentale altresì perché non tiene conto degli approdi giurisprudenziali consolidati nel nostro ordinamento giuridico: è pacifico che la giurisprudenza costituzionale, nonché quella ordinaria, ha costantemente interpretato le fattispecie istigatorie alla luce del pericolo concreto, bilanciando gli interessi in gioco – libertà di espressione e dignità umana – a favore della seconda, la pari dignità appunto, il bene giuridico tutelato dai delitti contro l’uguaglianza. In altre parole, la libertà di opinione non è posta in pericolo da tale riforma: né, del resto, si comprende perché l’obiezione debba valere solo per le discriminazioni omotransfobiche e di genere (ed oggi per disabilità) e non per quelle razziali e religiose, da sempre oggetto di presidio penalistico.
Ciononostante, come da noi sottolineato in audizione informale alla Commissione Giustizia, sarebbe stato opportuno prevedere, onde fugare ogni dubbio sul punto, al pari che negli ordinamenti anglosassoni, una clausola di salvaguardia della libertà d’espressione: in questa direzione, si è salutato con favore, pur nella perfettibilità della formulazione, il citato emendamento Costa che, accogliendo il suggerimento della Commissione Affari Costituzionali, ha inserito l’art. 3 (oggi art. 4) nel testo di legge unificato, recante una clausola siffatta. Tale clausola – apparentemente una causa di non punibilità – è stata oggi, a nostro avviso proficuamente, così riformulata, in linea con gli orientamenti giurisprudenziali or ora ricordati: “ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori e violenti”.
3. La necessità dell’intervento legislativo. Una seconda obiezione mossa nei confronti della proposta di legge attualmente all’esame del Parlamento si appunta sulla natura non necessitata dell’intervento legislativo. A nostro avviso, ci sono tre ragioni dirimenti che depongono, al contrario, nel senso della irrinunciabilità della riforma in gestazione: la presenza di un obbligo internazionale alla criminalizzazione, obbligo corroborato dalla giurisprudenza della Corte EDU, il dato vittimologico, nonché ragioni di costituzionalità.
I documenti internazionali in ordine all’omofobia consentono di evincere la sussistenza di un obbligo di incriminazione quantomeno implicito per i crimini d’odio omofobico.
Il complesso delle disposizioni internazionali contempla i numerosi documenti pattizi che prevedono un divieto di discriminazione (art. 14 CEDU; art. 2 Trattato sull’Unione europea; art. 21 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; art. 10/art. 19 Trattato sul funzionamento dell’Unione europea). Vi sono altresì importanti strumenti di soft law: le Risoluzioni sull’omofobia del Parlamento europeo del 2006 e 2012 che impongono l’intervento del diritto penale nella lotta contro l’omofobia. Tali strumenti, se non comportano un obbligo espresso di incriminazione, rappresentano tuttavia un monito non trascurabile per il legislatore nazionale. Vi è unanimità di vedute in sede internazionale sull’opportunità del ricorso al diritto penale nella lotta ai discorsi d’odio, laddove essi si rivelino concretamente pericolosi: ciò per l’operare della Convenzione di New York del 1965, della CEDU, dello stesso Statuto della Corte penale internazionale. Tanto che si potrebbe ritenere che un obbligo di incriminazione, sulla base di siffatte norme, sussista anche per i crimini d’odio omotransfobico.
Quanto alla violenza di genere, sono noti gli obblighi di criminalizzazione provenienti dalla Convenzione di Istanbul.
Non solo. L’analisi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani in materia di omofobia consente di cogliere l’orientamento verso una tutela rafforzata delle minoranze sessuali. Basti citare il noto caso Vejdeland: al pari dei crimini d’odio razziale, anche i crimini d’odio omofobico devono essere contrastati tramite il ricorso al diritto penale. In direzione analoga – sancendo la prevalenza della dignità sulla libertà – si pongono i recentissimi casi Lielliendahl v. Islanda e Beizaras e Levickas v. Lituania. Non è pertanto da escludere che il Governo italiano sia esposto al rischio di una condanna della Corte europea, laddove si palesasse un caso di violenza omofoba, in considerazione del fatto che non si è ancora intervenuti a legiferare in materia.
Pacifico è inoltre l’orientamento della Corte nella lotta alla violenza di genere, considerata un trattamento disumano e degradante (art. 3 CEDU).
Da ultimo, depone nel senso della irrinunciabilità di una legge in materia di omofobia e misoginia, nonché di abilismo, il dato vittimologico.
Con riferimento alla violenza di genere basti ricordare, secondo le ultime rilevazioni Istat, che essa interessa 6 milioni e 788 mila donne che hanno subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita. “Lo zoccolo duro della violenza”, scrive l’ente di ricerca, “non è intaccato: stupri e tentati stupri sono stabili così come le forme più efferate di violenza fisica. La gravità delle violenze sessuali e fisiche è aumentata”. Dati che trovano rispondenza anche nell’indagine dell’Osservatorio per i diritti (Vox) sull’odio verso le donne in rete: si scatena anche quando la cronaca narra casi di femminicidio (dal 2000 al 2018, in media più di 3 a settimana).
La testimonianza della diffusione del fenomeno dell’omofobia è data dalle rilevazioni statistiche dell’Oscad e dall’Unar: si registrano in Italia fra il 2010 e il 2018, 2.532 segnalazioni, di cui una parte costituenti reato. Per il 59,3% sono reati d’odio etnico/razziale, per il 18,9% d’odio religioso, per il 13% d’odio omofobico, per il 7,8% reati contro disabili, per l’1,0% reati d’odio basati sull’identità di genere. Anche se il numero oscuro fa presumere cifre molto più significative. A corroborare i dati statistici, sono intervenuti i dati raccolti da Vox, aggiornati al 2019, che confermano una lieve decrescita dell’odio omofobico, ma segnalano che, laddove si dibatte di famiglie omosessuali, l’odio riemerge e l’aggressività dei messaggi d’odio omofobico è forte. La recrudescenza degli atti di violenza omotransfobica è pertanto un fenomeno presente in Italia: il che dimostra la vulnerabilità dei soggetti LGBT.
Molto consistenti, secondo i dati riferiti, anche i crimini d’odio ai danni dei disabili, soggetti fragili colpiti in ragione della loro diversità.
Tutto ciò rende, a nostro avviso e di parte della dottrina penalistica, urgente e pienamente giustificato l’intervento del legislatore penale, il quale, proprio in ragione del “trattamento differenziato dei distinti”, imposto dall’art. 3 Cost., declinato alla luce del principio di ragionevolezza, dovrà approntare una tutela rafforzata dei soggetti in condizioni di debolezza (v. Direttiva UE 29/2012). Provvido pertanto l’ultimo emendamento al d.d.l., con conseguente nuova intitolazione del provvedimento legislativo e adeguamento delle relative disposizioni, che contempla anche la disabilità fisica e psichica fra i fattori di discriminazione (occorrerebbe tuttavia un coordinamento con la l. 104/1992). Cosicché il testo di legge oggi approvato alla Camera titola così: “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”: esso, contemplando anche la disabilità, si pone all’avanguardia rispetto ad altre legislazioni europee.
Sui delitti contro l’uguaglianza incombe attualmente un sospetto di illegittimità costituzionale poiché ancora la disciplina non contempla tutte le caratteristiche protette dall’art. 3 Cost. pur ispirandosi dichiaratamente a tale principio fondante che sancisce la “pari dignità dinanzi alle differenze”. Per questa ragione di costituzionalità, a nostro avviso ineludibile, unitamente agli obblighi internazionali e ai moniti della Corte EDU, al dato vittimologico, nonché al maggior disvalore penale delle condotte ispirate da odio omofobico e di genere, oltre che per disabilità, si legittima pienamente l’attuale riforma di legge – ora destinata all’esame del Senato – che mira, da un lato, a combattere due fenomeni – l’omofobia e la misoginia – i quali sono frutto di una medesima visione patriarcale, non più accettabile né per le società moderne, né per le scienze giuridiche e segnatamente per il diritto penale contemporaneo, dall’altro, a completare il quadro di tutela verso i disabili – un gruppo storicamente oggetto di discriminazione – che sino ad ora prevedeva, quale norma ad hoc, la sola circostanza aggravante di cui all’art. 36 l. 104/1992.
[1] La sfera applicativa delle due fattispecie normative viene estesa, altresì, ai comportamenti discriminatori contro persone con disabilità.
[2] Il testo del disegno di legge approvato alla Camera prevede infatti una esaustiva norma definitoria (art. 1) dei termini “sesso”, “genere”, “orientamento sessuale” ed “identità di genere”, ricostruiti secondo gli indirizzi ermeneutici prevalenti. Sotto il profilo del rispetto del principio di precisione della fattispecie penale, potrebbe residuare la sola questione della definizione della nozione di “atto di discriminazione” che andrebbe affrontata sulla falsariga di quanto fatto nell’ordinamento francese. La legislazione francese si caratterizza, infatti, per la previsione della discriminazione quale autonoma figura di reato (artt. 225-1 e 225-2 c.p.): qualsiasi distinzione operata fra le persone fisiche, sulla base dei fattori protetti, è punita con la pena di tre anni d’imprisonnement e la pena dell’amende pari a 45.000 euro. La definizione della nozione di discriminazione si ritrova nell’art. 225-2 c.p.: “La discrimination définie aux articles 225-1 à 225-1-2, commise à l’égard d’une personne physique ou morale, est punie de trois ans d'emprisonnement et de 45 000 euros d’amende lorsqu’elle consiste: 1. A refuser la fourniture d’un bien ou d’un service; 2. A entraver l’exercice normal d’une activité économique quelconque; 3. A refuser d’embaucher, à sanctionner ou à licencier une personne; 4. A subordonner la fourniture d’un bien ou d’un service à une condition fondée sur l’un des éléments visés à l’article 225-1 ou prévue aux articles 225-1-1 ou 225-1-2; 5. A subordonner une offre d’emploi, une demande de stage ou une période de formation en entreprise à une condition fondée sur l’un des éléments visés à l’article 225-1 ou prévue aux articles 225-1-1 ou 225-1-2; 6. A refuser d’accepter une personne à l’un des stages visés par le 2° de l’article L. 412-8 du code de la sécurité sociale. Lorsque le refus discriminatoire prévu au 1° est commis dans un lieu accueillant du public ou aux fins d’en interdire l’accès, les peines sont portées à cinq ans d’emprisonnement et à 75 000 euros d’amende”. Una indicazione definitoria di pari tenore si può tuttavia ricavare, in via interpretativa, come già accade ordinariamente nell’applicazione giurisprudenziale dei delitti contro l’uguaglianza, dal ricco quadro della normativa antidiscriminatoria sovranazionale e interna. Sia consentito sul punto, e sulla categoria dei crimini d’odio, il rinvio a L. Goisis, Crimini d’odio. Discriminazioni e giustizia penale, Napoli, Jovene, 2019, passim.
Ancora oggi in compagnia e a colloquio con il mio Maestro Virgilio Andrioli
Intervista di Vincenzo Antonio Poso ad Andrea Proto Pisani
Andrea Proto Pisani è nato il 10 novembre 1939 a Napoli, dove si è laureato nel 1961 con il Prof. Virgilio Andrioli, il più giovane allievo di Giuseppe Chiovenda. Docente di diritto processuale civile dal 1968, dopo Siena e Bari, dal 1974 al 2009 ha insegnato nell’Università degli Studi di Firenze. Dal 1994 al 1998 ha ricoperto l'incarico di componente laico di nomina parlamentare del Consiglio Superiore della Magistratura. Dal 2001 è socio dell'Accademia dei Lincei, nominato su proposta di Pietro Rescigno e Rodolfo Sacco, anche per i Suoi studi sempre connessi al diritto sostanziale. Dal 1961 collabora continuativamente alla redazione della rivista Il Foro Italiano, della quale è stato anche condirettore dal 2012 al 2015. Della sua estesa produzione scientifica meritano qui di essere ricordate le Lezioni di diritto processuale civile, pubblicate da Jovene Editore, che dal 1994 hanno avuto diverse edizioni.
V. A. Poso «L’affetto, l’umanità e l’intransigenza morale di un Maestro: Virgilio Andrioli» è il libro pubblicato, alla fine di settembre di quest’anno, per i tipi di Jovene Editore, da Lei curato, che raccoglie alcuni ricordi degli allievi e alcune lettere. Iniziamo da qui. Chi era, nei Suoi ricordi universitari, Virgilio Andrioli?
A. Proto Pisani Quando nell’ottobre 1959, nel programmare le lezioni da seguire nel terzo anno di giurisprudenza, mio padre – unica vera interferenza nei miei studi universitari – mi consigliò di anticipare di un anno la frequenza al corso di diritto processuale civile, perché era tenuto da un ottimo professore, Virgilio Andrioli, il quale per me era poco più che l’Autore dei primi tre densi volumi della terza edizione del Commento al codice di procedura civile, che campeggiavano nella colta biblioteca di mio padre (ottimo avvocato “monocratico” di un tempo passato, specializzato prevalentemente nel diritto commerciale), a fianco del suo disordinato scrittoio, che lui frequentemente consultava.
L’Università era allora ancora un’università di elite, ed io avevo avuto la fortuna di studiare (e frequentare le lezioni) con ottimi professori. Innanzi tutto Giuseppe Auletta, che insegnava dall’inizio alla fine le intere Istituzioni di diritto privato, attraverso una miriade di lezioni e un parallelo corso di esercitazioni (talora aiutato da un brillante libero docente, Alberto Auricchio, amico della mia prima sorella); Antonio Guarino (allievo di Vincenzo Arangio Ruiz), severo professore di Istituzioni di diritto romano, il cui studio, se probabilmente era poco apprezzato dagli storici, era utilissimo, per chi non aveva vocazioni storiche, perché ripercorreva il diritto privato romano attraverso la dommatica civilistica; Francesco De Martino, che nelle sue lezioni del sabato e del lunedì ripercorreva la storia pubblica del diritto romano, fornendo un raffinato esempio di analisi storica; Augusto Graziani, giovane libero docente di economia politica, che già allora nelle sue esercitazioni affascinava per una materia dai mille risvolti politici. E poi al secondo anno tutti Maestri quali Alessandro Graziani, Giuliano Vassalli, Bruno Paradisi, Mario Lauria. Unico vero, grosso e importantissimo vuoto era l’insegnamento di diritto costituzionale, che, ancorato a problemi di teoria generale del diritto pubblico degli anni trenta, ignorava, nella sostanza, i valori della Costituzione del 1948, e per di più era tenuto da un docente non solo mediocre, ma anche di più che dubbia moralità accademica, il quale, divenuto padrone assoluto della Facoltà, ne avrebbe determinato il rapido declino (ancora nel 1965 Lino Jannuzzi dedicava sull’Espresso del 30 maggio un ampio articolo di denuncia delle malefatte della dinastia sua e di suo fratello: conservo ancora l’estratto di quell’articolo, che fu diffuso ampiamente).
In questo contesto (come accennato sopra) si collocava, al terzo o al quarto anno, l’insegnamento di Andrioli di diritto processuale civile.
Ebbene, il salto, lo stacco rispetto agli altri insegnamenti (a Napoli come nelle numerose altre università in cui Andrioli ha insegnato, da Trieste a Pisa, da Genova a Roma) era enorme e percepito da tutti quanti sono stati Suoi studenti, che lo ricordano ancora spesso con commozione.
Innanzitutto è esperienza comune che nella Facoltà di Giurisprudenza la frequenza dei corsi diminuisca in modo nettissimo negli anni successivi al primo; a fronte delle aule di grandi dimensioni e pienissime del primo anno, negli anni successivi il numero degli studenti frequentanti si riduceva (e ancora oggi si riduce) a poche decine, e ciò indipendentemente dal valore scientifico, talvolta elevatissimo, dei Professori.
Le aule in cui Andrioli insegnava erano sempre pienissime e il numero degli studenti frequentanti tornava ad essere elevatissimo, come al primo anno. Nonostante la circostanza che il diritto processuale civile sia materia, almeno apparentemente, tra le più aride del diritto, le lezioni di Andrioli incantavano l’uditorio per una pluralità di fattori: per la chiarezza dell’esposizione, per il continuo richiamo al diritto costituzionale, civile, commerciale e così via dicendo; per la capacità di rendere viva, come nello scorrere di un film, la trattazione dei singoli argomenti sempre saldamente inseriti nel contesto dei vari settori di riferimento, nonché per l’esposizione sempre aperta alla giurisprudenza, anche costituzionale. Il diritto cessava di essere qualcosa di statico e diventava nelle sue parole qualcosa di vivo, di mobile, in movimento.
Il corso di Andrioli era strutturato in cinque ore di lezione settimanali (con inizio all’ora esatta e con intervalli brevissimi, ove si svolgesse in due ore) e da un corso di esercitazioni di tre ore settimanali con la partecipazione solo degli studenti che avessero davvero interesse agli approfondimenti: per ogni esercitazione si doveva leggere e studiare una bibliografia indicata preventivamente; io conservo ancora il quadernone con gli appunti sui vari argomenti: dalla giustizia costituzionale, con cui Andrioli ci introdusse alla teoria dell’interpretazione e, in particolare, al pensiero di Tullio Ascarelli; alla teoria dell’azione con il suo carattere atipico e a tanti altri argomenti che non è qui possibile indicare.
Gli esami erano tutti personalmente tenuti dal Professore con la presenza in senso letterale di un assistente ordinario. Erano molto rigorosi, ma, una volta appresa, la materia non si dimenticava più. Quanto ai sussidi didattici Andrioli redasse durante gli anni napoletani un corso scritto di lezioni, corso valutato in modo entusiastico da Francesco Carnelutti, che già aveva recensito negli stessi termini la prima edizione del Commento del Codice di Procedura Civile concludendo con queste parole: «Come sarebbe contento oggi Chiovenda, se potesse leggere questo libro, pur così avanzato rispetto alla posizione di ieri ma così pregno del suo spirito, che era di lavoro indefesso e perciò di quotidiano superamento!». Le Lezioni del 1959 erano sostanzialmente una rilettura dei Principi di Chiovenda a distanza di cinquanta anni, alla luce della Costituzione del 1948 e del nuovo Codice di procedura civile. Come in quasi tutte le opere scritte, Andrioli abbandonava la limpidezza delle lezioni orali e diventava uno scrittore di grande difficoltà, dalle frasi lunghissime, nell’ansia di non omettere niente della complessità dell’argomento trattato.
V. A. Poso Il percorso accademico di Virgilio Andrioli è stato molto frastagliato, se non erro.
A. Proto Pisani Mi sembra opportuno a questo punto cercare di spiegare perché la permanenza a Napoli di Andrioli durò appena quattro anni, nonostante l’importanza degli scritti pubblicati in quel periodo e nonostante il successo sia fra gli studenti sia fra gli allievi che aveva avviato alla prosecuzione degli studi. La spiegazione è triste, ma molto semplice. Andrioli fu chiamato a Napoli nel 1957, a seguito, si dice, di un Consiglio di Facoltà tempestoso e per un solo voto in più rispetto ad un altro concorrente. Io mi laureai con lui nel luglio del 1961, e immediatamente dopo Andrioli, pur risiedendo a Roma, abbandonò la Facoltà di Giurisprudenza napoletana per trasferirsi a Genova, nonostante i disagi derivanti dalla distanza e la lunghezza del viaggio in treno da Roma a Genova.
Il motivo di questo abbandono è presto detto. Andrioli era una persona assolutamente libera e come dopo la vittoria nel concorso nel 1937 aveva preferito essere chiamato a Trieste (insieme a Domenico Barbero e Giuseppe Branca) anziché “brigare” per essere chiamato a Roma dalla Facoltà di Economia e Commercio, così nel 1961 decise di abbandonare Napoli, per rispetto della propria dignità, rifiutando di approvare la prassi per cui, almeno secondo la leggenda, le delibere, anziché essere discusse nel Consiglio di Facoltà, erano decise nello studio professionale di chi, con la connivenza di molti, deteneva il potere assoluto in Facoltà. E non è un caso che Giuseppe Auletta (non a caso allievo di Tullio Ascarelli), abbandonò Napoli dopo appena un anno, o, per citare un esempio eclatante, Gustavo Minervini, commercialista di razza, ma non disposto a servire, fu con tanti altri esiliato nella Facoltà di Economia e Commercio e non fu mai chiamato a Giurisprudenza.
Per tornare ad Andrioli è poi da dire che riuscì a trasferirsi alla Facoltà di Giurisprudenza di Roma solo nel 1967, ma per insegnare diritto fallimentare e non diritto processuale civile, cattedra questa che Salvatore Satta si rifiutò di sdoppiare fino al pensionamento avvenuto nel 1974; solo dopo tale data Andrioli sarà chiamato a insegnare la sua materia, insieme, però, ad altri processualcivilisti molto più giovani.
V. A. Poso Qual è stato il contributo di Virgilio Andrioli, in continuità con l’insegnamento di Giuseppe Chiovenda, nella cultura giuridica italiana?
A. Proto Pisani Il contributo di Andrioli è stato quello di accentuare il carattere strumentale del processo civile rispetto al diritto sostanziale.
Come probabilmente è noto, Chiovenda soleva riassumere questa strumentalità attraverso questa frase: «il processo deve dare a chi è titolare di un diritto, tutto quello e proprio quello che è previsto dal diritto sostanziale».
Questa frase trovava attuazione:
a) a livello di diritto di agire in giudizio attraverso l’affermazione della atipicità del diritto di azione, nelle tre classiche forme non solo della azione di condanna e della conseguente possibilità di attuazione della condanna, ma anche nella atipicità dell’azione di mero accertamento (atipicità contestata da Salvatore Satta) e nell’azione costitutiva, non solo nella costituzione di servitù coattive o di annullamento o risoluzione del contratto, ma anche da utilizzare per potere ottenere tramite il processo gli stessi effetti del contratto definitivo non concluso in caso di inadempimento del contratto preliminare (come è noto questa possibilità fu contestata in dottrina ad es. da Leonardo Coviello e dalla giurisprudenza, e troverà attuazione solo con l’emanazione dell’art. 2932 del Codice civile del 1942);
b) a livello di azione sommaria cautelare ogni qual volta il periculum in mora fosse tale da provocare un pregiudizio grave o addirittura irreparabile a causa del protrarsi dell’inadempimento durante tutto il corso del processo a cognizione piena, anche al di là delle misure cautelari tipiche previste dalla legge (quali ad esempio i sequestri giudiziari a tutela del proprietario o a tutela del credito), e ciò tramite la deduzione dal sistema della c.d. azione assicurativa generale (come è noto questa soluzione fu respinta non solo dalla giurisprudenza, ma anche da parte di uno studioso che pure affermava di essere un chiovendiano di ferro, come Piero Calamandrei, al quale, però, è da riconoscere il merito di avere favorito l’emanazione dell’art. 700 del Codice di procedura civile, nel corso della sua assidua collaborazione con il Guardasigilli Grandi nella fase finale della redazione del nuovo Codice).
Orbene il contributo di Virgilio Andrioli alla continuità con l’insegnamento di Chiovenda lo si coglie non solo in tutta la Sua opera volta a favorire al massimo la strumentalità del processo, ma anche nelle quasi mille pagine della terza edizione del Suo Commento al quarto libro del Codice di Procedura Civile (pubblicata nel 1966), in cui fra l’altro spazza via le obiezioni oggettivamente reazionarie, nella sostanza, di Salvatore Satta e anche di Luigi Montesano, volte a escludere l’applicazione dell’art. 700 a tutti i diritti a contenuto e funzione non patrimoniale. Ma ovviamente non è questa la sede per approfondire un discorso cui personalmente ho dedicato forse la parte più rilevante della mia attività di studioso.
V. A. Poso Fondamentale è stato il contributo di Virgilio Andrioli alle riforme processuali del lavoro degli anni ’70 del secolo scorso.
A. Proto Pisani A questo tema ho dedicato la relazione introduttiva nelle Conversazioni sul lavoro promosse dagli allievi di Giuseppe Pera nel 2019 nel Convento di San Cerbone, sul processo del lavoro, dedicate proprio al ricordo di Virgilio Andrioli, che Pera considerava suo secondo Maestro, dopo Luisa Riva Sanseverino (Virgilio Andrioli e le riforme processuali degli anni ’70: quasi un racconto, in Riv. Dir. Proc., 2020, 656 ss.).
In questa sede mi limito pertanto a rinviare a quella relazione per quanto concerne il contributo determinante di Andrioli e svolgere due sole osservazioni su questo tema:
a) richiamare nuovamente l’importanza storica del procedimento di repressione della condotta antisindacale ai sensi dell’art. 28 l. n. 300/1970 (c.d. “Statuto dei diritti dei lavoratori”), in quanto prima volta nella storia dell’Italia liberale, fascista prima e repubblicana poi della utilizzazione in via tipica della tutela sommaria (non cautelare) a garanzia di un diritto di libertà;
b) rilevare che nel 1973, su sollecitazione di Andrioli, dedicai un ampio articolo (apparso su Il Foro Italiano del 1973 e destinato agli studi in onore di Costantino Mortati) dal titolo Tutela giurisdizionale differenziata e nuovo processo del lavoro”. Questa espressione, pur essendo in sé altamente equivoca, per un verso ebbe notevole successo specie negli studi processualistici dell’America Latina, per altro verso determinò attacchi violenti da parte di alcuni studiosi italiani i quali mi attribuirono la volontà di sostenere la sommarizzazione del processo civile (rinvio al riguardo alla mia relazione e alla mia replica che ho svolto nel Convegno di Catania del 1979 della Associazione Italiana fra gli Studiosi del Processo Civile, Atti, Milano, 1981, e da me ripubblicato anche in Le tutele giurisdizionali dei diritti, Studi, Napoli, 2003, pp. 227-292). Le critiche non erano del tutto infondate in quanto l’espressione “tutela giurisdizionale differenziata” utilizzava le stesse parole per riferirsi a due temi notevolmente diversi:
aa) riti speciali a cognizione piena;
bb) ricorso ad ipotesi di tutela sommaria (cautelare o non cautelare): il che fu fonte di equivoci, equivoci però che con un po' di maggiore attenzione i miei critici avrebbero potuto agilmente superare.
V. A. Poso Nella lunga attività universitaria e forense di Virgilio Andrioli una parte fondamentale è stata rappresentata dalla «scuola» de Il Foro Italiano, officina nella quale hanno prestato la loro opera i Suoi allievi. Quale metodo vi ha insegnato Virgilio Andrioli, con riferimento in particolare all’analisi e al commento della giurisprudenza?
A. Proto Pisani Certamente sia Virgilio Andrioli, sia chi scrive ha dedicato grande rilievo alla «scuola» offerta dalla collaborazione al Foro Italiano.
Occorre, però, dire subito che l’impegno da me dedicato al Foro italiano non sia comparabile in modo alcuno a quello di Virgilio Andrioli, il quale iniziò la Sua collaborazione appena laureato nel 1931, collaborazione che si tradusse nel 1961 per quasi venticinque anni nello svolgimento del compito di direttore unico. In quegli anni Andrioli selezionò tutte le sentenze della Corte di Cassazione e di merito da pubblicare; redasse i “neretti” indicando in tal modo le parti delle sentenze da massimare; individuò i collaboratori selezionati quasi sempre tra i Suoi studenti migliori (Giuseppe Pera, Alessandro Pizzorusso, Giuseppe Borrè, Franco Batistoni Ferrara, Modestino Acone, Giovanni Verde, Lucio Florino, Sergio La China, Mario Bessone, Luigi Rovelli, Carlo Maria Barone, Giancarlo Pezzano, Maurizio Converso e tanti altri), ai quali inviare le singole sentenze; controllò le note redazionali integrandole e coordinandole; impostò il fascicolo e la sua copertina; riguardò ed effettuò la prima correzione delle bozze. Alla collaborazione al Foro italiano dedicò oltre cinque ore al giorno, sottraendole, spesso con dolore, alla pubblicazione di saggi, alla moglie, Signora Adriana, e anche al sonno.
Quando, intorno al 1975, Andrioli cessò la Sua collaborazione, il Foro italiano era di certo diventata la prima rivista italiana di giurisprudenza, con oltre sedicimila abbonati (ricevendo solo negli ultimi anni un compenso di cinquecentomila lire al mese).
Carlo Scialoja, con la sua signorile eleganza, e soprattutto il lavoro a tempo pieno di un giovane, Maurizio Converso (nei primi anni retribuito con un compenso da fame) compirono il miracolo di evitare il tracollo della Rivista tramite la chiamata a raccolta dei vecchi (e sempre più stanchi) collaboratori e soprattutto per la capacità di Maurizio Converso di trovarne di nuovi (con la partecipazione assidua a tutti i convegni di qualche rilievo), di addestrarli al difficile mestiere di redattore, rivedendo e coordinando le note redazionali. Certamente anche io, specie tramite i miei allievi, cercai di svolgere la mia parte, ma senza paragone alcuno con quella determinante di Maurizio Converso.
Poi nei primi anni di questo secolo sopravvenne l’informatica con tutto quello che ne seguì. A questo punto la proprietà (ceduta a buon prezzo dal previdente editore Zanichelli), anziché puntare sulla competenza di un esperto (quale certamente era Maurizio Converso che da anni insegnava Informatica Giuridica all’Università), il quale sapesse dirigere la non semplice rapida trasformazione del Foro cartaceo in rivista soprattutto on line, pensò bene di poter fare da sola col conseguente inevitabile crollo non solo degli abbonamenti (ridotti a quattromila), ma soprattutto delle tradizioni della Rivista, forse anche per l’incapacità di capire i cambiamenti in corso nell’editoria giuridica dei direttori, tra i quali anche chi scrive, che solo dopo tre anni e mezzo (i primi due però trascorsi insieme a Maurizio Converso) si dimise da tale incarico (cominciando anche a destinare prevalentemente ad altre riviste i propri scritti, sempre più ridotti per il sopravvenire della vecchiaia).
Chiuso questo triste capitolo, per completare la risposta alla domanda rivoltami, mi sembra che sia da dire che il “metodo” insegnatoci da Andrioli si può condensare in questi tre punti. Innanzitutto la modestia ed essere disposti a subire e sapere recepire le critiche (io, personalmente, scrissi e riscrissi ben cinque volte la prima nota a sentenza assegnatami da Andrioli, subito dopo la laurea). In secondo luogo, l’importanza della ricerca avente ad oggetto l’individuazione e la lettura di precedenti facendo estrema attenzione a tenere conto della particolarità del caso concreto, ed evidenziandole nelle massime (al riguardo Andrioli redasse un libretto di istruzioni, in cui io ritrovo il richiamo all’importanza dell’evoluzione della realtà sociale secondo il metodo realistico di Ascarelli che Andrioli mi aveva insegnato). In terzo luogo, in caso di preparazione di una sentenza di merito, il divieto assoluto di apprezzamenti sul contenuto della decisione, per evitare l’utilizzazione della rivista di giurisprudenza per pilotare l’accoglimento o il rigetto dell’impugnazione di una parte (cosa purtroppo diffusa anche tra qualche mio collega), nonché l’assoluto divieto di utilizzare scritti difensivi nella redazione della eventuale nota di commento.
V. A. Poso La nomina nel 1978 da parte del Presidente della Repubblica Sandro Pertini a Giudice della Corte Costituzionale (della quale è stato anche Vicepresidente) segna una tappa fondamentale dell’esperienza professionale di Virgilio Andrioli; del resto alla giustizia costituzionale sono dedicati alcuni saggi importanti raccolti nel 1992 da Alessandro Pizzorusso in un volume, che completa gli scritti del Maestro (Studi sulla Giustizia Costituzionale, Giuffrè, 1992). Quali sono state le sentenze più significative dovute alla penna del Giudice Costituzionale Virgilio Andrioli?
A. Proto Pisani Come Alessandro Pizzorusso, nonostante una vita dedicata allo studio del diritto costituzionale, della giustizia costituzionale, delle centinaia di decisioni della Corte costituzionale da lui preparate e commentate sul Foro (e su altre riviste) e del rilievo internazionale della sua opera scientifica, non fu mai nominato giudice costituzionale perché troppo indipendente sia rispetto ai partiti politici sia rispetto ad altri centri di potere, così Virgilio Andrioli non sarebbe mai entrato nel Palazzo della Consulta se la Sua indipendenza non si fosse incontrata con quella di un uomo politico particolarissimo come Sandro Pertini.
Fu così che una mattina dell’ottobre del 1978, Sandro Pertini chiamò al telefono Andrioli per dirgli che lo avrebbe nominato giudice della Corte Costituzionale. Incarico che Andrioli accettò, pur sapendo che molto probabilmente avrebbe trascorso alla Corte gli ultimi anni che avrebbe invece dedicato ai Suoi studi (del 1979 è la pubblicazione del poderoso volume Diritto processuale civile, I, dedicato alla parte generale, ai processi a cognizione piena e alle impugnazioni).
L’indicazione analitica delle sentenze redatte dal giudice Andrioli, è stata effettuata da Giuliano Scarselli in un articolo, (pubblicato in Foro it., 2008, V, 132 ss.).
In questa sede vorrei soffermarmi sulla sentenza della Corte Costituzionale n.190/1985 (in Foro it. 1985, I, 1881 ss.), pronunciamento con il quale Andrioli trapiantò nel processo amministrativo la tutela cautelare atipica prevista dall’art. 700 c.p.c., colmando in tal modo un grave vuoto di tutela (che alcuni pretori avevano avuto il coraggio di colmare con decisioni ritenute troppo ardite per essere condivise dalla generalità: v. per tutte l’importantissima sentenza della Pretura di Pisa 30 luglio 1977, Est. Salvatore Senese, in Foro it. 1977, I, 2354, con ampia nota di richiami).
La sentenza n. 190/1985 della Corte Costituzionale è di grossa importanza anche sul piano scientifico, perché fondata sulla costituzionalizzazione del principio cardine del sistema chiovendiano secondo cui la «durata del processo non deve andare a danno dell’attore che ha ragione». Andrioli stesso colse immediatamente l’importanza pratica e teorica della decisione, tanto che la segnalò con soddisfazione alla figlia di Chiovenda, Signora Beatrice Canestro Chiovenda.
Detto questo, e rinviando all’articolo di Scarselli per le indicazioni di altre decisioni di rilievo redatte da Andrioli, devo, però, aggiungere che la sua esperienza di giudice della Corte Costituzionale non fu fra le più felici. Questo mi sembra di poter dire per varie ragioni: il carattere burbero di Andrioli lo rendeva inadatto alla partecipazione ad un collegio ampio come quello della Corte e ciò fece sì che Andrioli spesso aggredisse attraverso parole pesanti i colleghi dei quali non condivideva le proposte di decisione; si aggiunga anche che il novennio di giudice costituzionale coincise con l’invecchiamento indubbio del mio Maestro, invecchiamento che dopo appena tre o quattro anni sarebbe esploso con il Suo smarrimento nell’appennino fra i boschi di Vallombrosa.
V. A. Poso Nel Suo lungo peregrinare in Italia (Trieste, Pisa, Napoli, Genova, Firenze, Roma), Virgilio Andrioli ha seminato in ogni università moltissimi allievi, studiosi di spessore, non solo di diritto processuale civile, alcuni dei quali sono diventati a loro volta Maestri. Qual è stato il tratto caratteristico del rapporto di questo grande Maestro con i Suoi allievi e di questi con Lui?
A. Proto Pisani Recentemente, scrivendo l’introduzione al volume di ricordi di Virgilio Andrioli citato all’inizio, prima di parlare dei Suoi allievi divenuti docenti universitari, ho sottolineato come si è venuta a creare una comunità informale degli “studenti” di Andrioli, di coloro che hanno partecipato a quell’esperienza per tutti parimente indimenticabile di aver partecipato ad un Suo corso di lezioni. Quando per caso ci si incontra si constata pressoché sempre che quel corso di lezioni ha lasciato il segno: sia per l’intransigenza morale nell’adempimento dei propri doveri professionali di docente, magistrato o avvocato, sia per l’attenzione ai soggetti deboli e l’affezione ai valori costituzionali, ecc. ecc.
Questa è l’eredità più profonda che Andrioli ha lasciato ai Suoi studenti; poi fra questi ci sono quelli che sono divenuti docenti universitari, di diritto processuale civile come chi scrive e come Pino Borrè, libero docente di procedura civile con una monografia ancora attuale sulla esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare e, allo stesso, tempo magistrato, impegnato nelle correnti della magistratura, particolarmente attento alla interpretazione delle leggi ordinarie alla luce dei principi rivoluzionari della Costituzione del 1948, e ancora fondatore di una rivista di grosso valore, anche scientifico, Questione Giustizia e tanto altro che occorrerebbe parlare per oltre un’ora; o Beppe Pera e Maria Vittoria Ballestrero (Sua studentessa a Firenze di un singolare corso di procedura penale), divenuti docenti di diritto del lavoro (quanto a Pera dovrò ritornarvi nel corso di questa intervista); docenti di diritto privato come Mario Bessone o Luigi Rovelli (docente e magistrato ad un tempo); o ancora altri docenti di diritto processuale civile come Modestino Acone, Giovanni Verde o Sergio La China (Suo assistente a Genova, originariamente allievo di Salvatore Satta); e ancora Carlo Maria Barone e Giancarlo Pezzano Suoi assistenti a Roma e coautori, insieme a me, col Maestro di un vero e proprio «trattato» – come fu definito da alcuni - sulle controversie individuali di lavoro ( prima edizione Zanichelli del 1974); e poi Alessandro Pizzorusso, di cui già si è detto; Tonino Tizzano, docente di diritto internazionale (che fra l’altro fu chiamato a realizzare per il Foro la parte IV, relativa soprattutto alla giurisprudenza europea, originariamente caratterizzato dalle pagine di colore verde); o Franco Batistoni Ferrara, pisano, docente di diritto tributario.
Quanto al metodo di Andrioli nel seguire i Suoi allievi aspiranti docenti universitari, ho cercato di indicarlo riportando le lettere inviatemi da Andrioli nell’ultima parte del volume dedicato al Suo ricordo.
Severità, severità soprattutto nei primi studi monografici. Nessuna apertura alla retorica senza “costrutto”; indicazione dei dati bibliografici di diritto tedesco e straniero da cui prendere le mosse; concentrazione iniziale sul dominio della dommatica concettuale, quindi apertura verso il mondo dei valori, soprattutto costituzionali; verifica almeno mensile dello stato di avanzamento del lavoro attraverso una disponibilità, da parte Sua assoluta, alla lettura anche dalle prime stesure, seguita poi da incontri a Roma, in Via Tevere, e dopo in Via Tolmino; disposizioni alla sua segretaria di mettere i Suoi allievi in contatto telefonico con lui, quali che fossero i Suoi impegni; esame e riesame dello schema del lavoro; una lettura complessiva finale seguita poi dalla lettura delle bozze con gli ultimi suggerimenti. Libertà assoluta di indipendenza dal Suo pensiero, ma richiamo continuo all’attenzione ai classici.
Direi che pochi sono stati gli allievi fortunati come quelli che potevano contare su un’attenzione così continua nella stesura dei primi lavori monografici.
E il sentimento profondo di noi tutti è quello di un’infinita riconoscenza nei confronti del proprio comune Maestro, che poi ci avrebbe continuato a seguire dopo il superamento del concorso, dell’ordinariato ecc. ecc.
Un’ultima osservazione è quella relativa alla Sua indisponibilità a partecipare ai gruppi di potere (di tutte le materie giuridiche) allo scopo di essere nominato componente della commissione esaminatrice del concorso. Qui Andrioli abbassava le armi e si diceva incapace di scrivere più di una ventina di lettere di segnalazione del Suo interesse, in quanto non poteva scrivere a “delinquenti” o più genericamente a colleghi che disistimava.
Questo comportava probabilmente la sua esclusione dalle commissioni di concorso, ma l’autorevolezza dell’essere Suo allievo compensava ampiamente le possibilità di vittoria.
Dico questo come testimonianza personale; non so invece cosa accadesse se oltre al Suo appoggio ci si adoperasse per coinvolgere a proprio favore anche qualcuno di quei gruppi di potere cui Andrioli volutamente voleva restare estraneo.
V. A. Poso Il rapporto che Lei ha avuto con Virgilio Andrioli è stato determinante non solo nella Sua vita di studioso, ma anche sul piano umano per le sue accentuate doti di moralità, anche nella vita universitaria. È questo lo stigma del Maestro?
A. Proto Pisani Sì, certamente, è questo il Suo insegnamento.
Qui vorrei anche accennare all’aiuto che Andrioli mi dava nei momenti di stanchezza nervosa. Mi scriveva lettere in cui per un verso mi invitava a non sopravvalutare la stanchezza che derivava dai miei studi, per altro verso richiamava la mia attenzione a guardare coloro che stavano peggio di me e quindi a non autocommiserarmi troppo.
Per me era importante anche il Suo richiamo ai valori di un impegno cristiano verso i più deboli e il richiamo alla lettura di Esprit o al mio impegno nel Tetto, una rivista cattolica napoletana. Ricordo quando richiamò la mia attenzione sulla lettura della domenica precedente del richiamo di Amos: “misericordia voglio non sacrifici”.
V. A. Poso Di alcune cose che ci ha raccontato ne so qualcosa anche io, perché a Pisa sono stato allievo diretto, per la disciplina lavoristica, di Giuseppe Pera, ma sono stato allievo anche di Alessandro Pizzorusso (nella IV Lezione “Luisa Riva Sanseverino” tenuta il 5 maggio 1988 nell’Aula Magna della “Sapienza Pisana”, dedicata al diritto fallimentare, Virgilio Andrioli disse che per distinguerli, Pera e Pizzorusso erano anche molto amici, li chiamava «pera» e «mela»). In quale occasione ha conosciuto Giuseppe Pera e quali sono i Suoi ricordi?
A. Proto Pisani I nomi di Pera come quello di Pizzorusso ricorrevano spesso nel corso delle lezioni universitarie di Andrioli, come quelli dei Suoi allievi pisani, pretori a San Miniato e Moncalieri, che non avevano esitato a rimettere alla Corte Costituzionale articoli di legge di origine fascista lesivi di libertà riconosciute dalla Costituzione.
Quanto a Pera ricordo di essermi recato a Pisa o a Lucca, in occasione dell’invito che mi aveva rivolto a tenere nel 1972 una relazione ad un importante convegno di diritto del lavoro milanese, sull’art. 28 dello Statuto dei diritti dei lavoratori a due anni dalla sua entrata in vigore; ricordo che a Milano conobbi Luigi Mengoni che mi disse di essere rimasto impressionato della ampiezza della mia analisi della giurisprudenza.
Rincontrai certamente Pera in occasione di un pranzo di festeggiamento di Alessandro Pizzorusso per la vittoria del concorso universitario, festeggiamento che si tenne a Montecarlo, un paese nei pressi di Lucca (era presente anche il padre di Pizzorusso, Giuliano, da cui ereditai poi il commento, in più volumi, al codice di procedura civile del 1865 di Luigi Mattirolo). Terminato il pranzo ci recammo tutti nella bella villa di Pera appena fuori Lucca, e conoscemmo anche Pia, sua giovane figlia, allora appassionata di fotografia. Conservo ancora le numerose fotografie di Andrioli, Pera, Pizzorusso, e delle nostre mogli, fotografie che spesso ho visto riprodotte in occasioni di convegni organizzati dalla Fondazione Pera.
Sempre riguardo a Pera ricordo che nel 1973 – 1974, di ritorno da una mia andata a Lucca, mi condusse a Firenze all’Istituto di diritto agrario comparato in occasione della presentazione dei Quaderni fiorentini di storia del pensiero giuridico moderno e mi presentò a Paolo Grossi, che ancora non conoscevo.
V. A. Poso Ai primi di agosto del 1991, durante una breve passeggiata, a seguito della perdita degli occhiali, Virgilio Andrioli, all’epoca ottantaduenne, si perse nei boschi di Vallombrosa e fu ritrovato dai soccorritori dopo tre notti all’addiaccio. Negli anni successivi le condizioni di salute di Virgilio Andrioli peggiorarono sino a costringerlo a letto, per diversi anni privo di conoscenza e in stato vegetale. È una pagina dolorosa anche per Lei (e per gli allievi più affezionati che sono sempre andati a fargli visita), che, quando è stato necessario, fu nominato tutore. Quali sono i ricordi di quegli anni difficili?
A. Proto Pisani Ho più volte detto che quella tragica vicenda di agosto del 1991 può considerarsi il termine dell’attività di Andrioli come studioso.
Nei primi anni successivi all’incidente gli allievi continuarono a fare visita al loro Professore, che ancora si muoveva in macchina con la Signora Adriana. Negli anni (1994 – 1998), in cui fui a Roma come consigliere laico del C.S.M., ricordo di essere uscito più volte con loro.
Ricordo in particolare la visita alla Signora Beatrice Canestro Chiovenda (una vecchietta ultranovantenne molto vivace che, tramite l’intermediazione di Franco Cipriani, ebbi più volte occasione di visitare con mia moglie a Premosello Chiovenda e a casa del figlio a Roma). Non potrò mai dimenticare l’incontro a Roma di Andrioli e la figlia del Suo Maestro: Andrioli assunse l’atteggiamento dello scolaretto intimidito, cosa che non mi era mai accaduto di vedere. Quella visita resterà sempre impressa nella mia memoria.
Verso la fine del secolo scorso i coniugi Andrioli decaddero sempre di più e nel 2000 morì la Signora Adriana. Da quegli anni tutti gli allievi di Andrioli, compresi Pera, Pizzorusso, Barone, cessarono di andarlo a trovare nella Sua casa di Via Tolmino, perché rifiutavano di accettare la Sua decadenza e spesso chiamavano me per avere Sue notizie. Direi che dal 1990 – 1994 in poi la sopravvivenza dei coniugi Andrioli fu assicurata dalla Dott.ssa Maria Rosaria Fruscella, segretaria di Andrioli alla Corte Costituzionale, la quale trovò come autista dell’auto di servizio della Corte una persona dalla grande umanità, Giacomo Malatesta, il quale provvedeva soprattutto a fare la spesa e gli acquisti giornalieri di medicine e, altresì, le badanti (delle quali desidero ricordare Lina che in quegli anni ebbe il dolore di perdere i suoi due unici figli in incidenti di motociclette). Scomparsa la Signora Adriana, fu necessario nominare un tutore al Professore (divenuto un tronco del tutto privo di capacità di intendere e di volere) e in occasione della visita del giudice tutelare la Dott.ssa Fruscella si adoperò perché tutore non fosse nominato il fratello del Professore (a suo avviso non sufficientemente adatto per l’età avanzata) e fece invece il mio nome. A seguito di un incontro col giudice tutelare, fui nominato tutore del mio Maestro (anche perché rinunciando, ovviamente, a percepire qualsiasi compenso o rimborso spese, il giudice tutelare mi disse di sentirsi agevolato nel prospettare la mia nomina ai parenti).
La disponibilità di Giacomo Malatesta e l’aiuto della Dott.ssa Maria Rosaria Fruscella e di Lina resero molto agevole lo svolgimento di questa mia inedita funzione. Anzi il dovermi recare una o più volte al mese a trovare il mio Professore, già allora e anche oggi ripensando a quegli anni, mi provocava e mi provoca ancora un grande senso di tenerezza.
V. A. Poso Dal Suo Maestro ha ereditato il piacere e il dovere dell’insegnamento costruttivo al quale si è sempre dedicato con particolare impegno, per i temi trattati, il numero delle lezioni e i rapporti con gli studenti. Possiamo dire che l’università è stata la Sua prima casa?
A. Proto Pisani Sì, è proprio così, per me l’università era la mia casa.
V. A. Poso «Andrea Proto Pisani arrivava a lezione sempre puntuale, metteva sulla cattedra le sue cose, gli appunti, i codici, dei pennarelli, soprattutto le sigarette e i pocket coffee che utilizzava per il suo relax tra la prima e la seconda ora di lezione, e si concedeva qualche minuto di concentrazione prima dell’inizio delle spiegazioni. Noi studenti attendavamo quasi divertiti il compimento di quei riti, poi la lezione iniziava, e aveva sempre ritmi serrati, veloci, dalle ore 11,00 fino alle ore 13,00, quando la lezione terminava». Con queste parole il Suo allievo Giuliano Scarselli, allora studente nell’anno accademico 1982/1983, ha descritto (Andrea Proto Pisani compie ottantanni, in Judicium, 6 novembre 2019) le Sue lezioni. Un vero e proprio rito.
A. Proto Pisani Giuliano Scarselli è sempre con me molto affettuoso, ma è vero che provavo un piacere immenso nel trovarmi in un’aula piena di studenti e dovere tentare ogni anno di spiegare il perché lo studio del processo civile potesse essere di grosso interesse: in quanto indispensabile per il superamento della “crisi di cooperazione” a livello di diritto sostanziale e consentire al titolare di un diritto di ottenere tramite il processo tutto quello e proprio quello che gli è garantito dal diritto sostanziale. E ciò soprattutto se letto alla luce dei valori fondanti della nostra Costituzione repubblicana: e cioè la tutela dei diritti inviolabili della persona (ivi compresi ovviamente la tutela dei diritti e delle libertà in materia di lavoro), l’attuazione dei diritti e dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale (indispensabili per la riduzione delle diseguaglianze), la tutela della dignità della persona come valore prevalente rispetto al diritto di proprietà o alla iniziativa economica e sociale.
Visto in questa ottica il processo cessa di essere un qualcosa di arido rivolto solo agli avvocati e ai magistrati, ma diviene asse portante di un moderno stato sociale di diritto.
Detto questo, vorrei aggiungere che l’insegnamento, nello sforzo di spiegare agli studenti la interconnessione tra diritto sostanziale e processo, è riuscito spesso a consentirmi, nel corso dello svolgimento della lezione, di cogliere collegamenti o di sciogliere problemi, utilissimi anche ad essere sviluppati sul piano strettamente scientifico.
E, infatti, superati i primissimi anni di insegnamento, la mia attività scientifica è stata sempre o quasi frutto dell’insegnamento, fino a sfociare nel 1994 nella sintesi delle Lezioni di diritto processuale civile. Ovviamente non compete a me valutare se ciò ha davvero consentito o no qualche progresso.
V. A. Poso Quindi, usando sempre le parole di Giuliano Scarselli, c’era il desiderio da parte Sua di trasmettere agli studenti (era questa la sensazione da loro percepita) «non solo la conoscenza di una materia bensì anche un metodo, dei valori, la costruzione di un sistema». Teneva, poi, un autonomo corso seminariale annuale destinato solo agli studenti che avessero superato l'esame base, seminari aperti anche ad altri docenti, ai magistrati e agli avvocati, a completamento di un percorso universitario.
A. Proto Pisani Sì, sempre nell’ambito dell’insegnamento va collocato l’impegno (appreso da Andrioli) di affiancare al corso di lezioni esercitazioni, cui dedicare non meno di tre ore di una mattinata (come quella del sabato) libera da altri impegni, con la partecipazione attiva di gruppi ristretti di studenti e solo poi con l’intervento dei docenti.
Dopo alcuni anni dedicati allo studio delle locazioni (specie negli anni ruotanti intorno al 1978 in cui fu emanata la legge sul c.d. equo canone, che suscitò il mio interesse anche per l’instaurazione di un possibile parallelismo fra diritto alla conservazione del posto di lavoro e diritto alla conservazione della locazione della casa di abitazione), a seguito della chiamata a Firenze di Giovanni Fabbrini, si affrontarono prima temi di carattere generale, quali i limiti soggettivi, oggettivi e temporali del giudicato, e poi ci dedicammo al primo esame approfondito di riforme processuali, quali quelle poi sfociate nella l. n. 353/1990.
Senza esitazione, le esercitazioni settimanali con Giovanni Fabbrini (e la partecipazione di avvocati, magistrati e docenti anche non fiorentini) costituiscono nel mio ricordo l’esperienza più utile e gratificante della mia attività di insegnamento. E ciò perché prima occorreva addestrare gli studenti, che avrebbero dovuto introdurre la singola esercitazione, alla ricerca della giurisprudenza e di alcuni scritti specifici; poi, ascoltate le relazioni degli studenti, il discorso si trasformava in un dialogo tra me e Giovanni Fabbrini; dialogo che spesso diveniva una contrapposizione fra due diverse formazioni di pensiero, nell’assoluto rispetto intellettuale dell’opinione di ciascuno, opinioni che entrambi erano disposti a modificare, precisare, ecc.; il che già di per sé era un grosso fatto educativo per gli studenti presenti.
V. A. Poso Quindi a Firenze Lei ha avuto l’occasione di collaborare con l’indimenticabile Giovanni Fabbrini (che in precedenza aveva insegnato anche a Pisa e molti sono i ricordi che ci hanno trasmesso Francesco Paolo Luiso e Sergio Menchini, suo allievo diretto, ma anche Giuseppe Pera, che per un periodo di tempo ha condiviso anche lo studio legale con lui e Fabio Merusi). Quali sono i Suoi ricordi? Ci può tratteggiare un ritratto del Maestro prematuramente scomparso?
A. Proto Pisani A quello che ho già ampiamente detto sopra, ora vorrei aggiungere che Fabbrini è stato un processualcivilista dotato di eccezionali capacità logiche. La sua scomparsa è stata per me non solo la perdita di un amico divenuto fraterno, di un collega esemplare che nonostante i suoi impegni professionali non ritardava mai l’inizio delle lezioni o, peggio, si faceva sostituire, che sosteneva tutti gli esami personalmente, che aveva una non comune capacità di guidare gli studenti alla tesi di laurea; ma anche il venir meno della possibilità di portare a termine il suo programma di redigere un manuale di diritto processuale civile (già programmato con la Cedam) in cui mettere a frutto non solo le sue capacità, ma anche di articolare un discorso, preannunciato dai suoi preziosissimi studi su “i poteri del giudice”, “connessione”, “eccezione” (studi che in parte costituivano la continuazione del suo “Manuale di diritto processuale del lavoro” del 1974, pubblicato da Franco Angeli Editore).
Poiché la speranza è l’ultima a scomparire, confido ancora che il suo, bravissimo, allievo prediletto Sergio Menchini, tra i tanti impegni, trovi il tempo necessario per continuare il lavoro del suo Maestro.
Risalgono (oltre che a Elio Fazzalari) anche ai colloqui fra Fabbrini e Luiso nell’Istituto di diritto processuale civile della Sapienza pisana degli anni ’70, le origini di alcune parti del vero e proprio trattato in cinque volumi del (chiarissimo) Diritto processuale civile, di Francesco Paolo Luiso (edito da Giuffrè).
Vorrei concludere con un’osservazione triste: ho sempre avvertito che se io avessi voluto, avrei potuto porre il veto sulla chiamata a Firenze di Giovanni Fabbrini. Ho parlato di tristezza perché probabilmente l’università andava male già quando era moralmente molto migliore di quella attuale.
V. A. Poso Per molti anni a Firenze, anche negli anni in cui Lei ha insegnato, ha operato come giudice del lavoro Marco Ramat, fondatore di Magistratura Democratica, che nel 1965, partecipando a Gardone come relatore al XII Congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati invitò i colleghi a liberarsi dagli isola iuris vetero – positivisti e a seguire nell’esercizio della giurisdizione la bussola della Costituzione. Ci sono anche tanti altri esempi in tal senso, non ultimo quello di Salvatore Senese. A Firenze e in Toscana, peraltro, erano sempre influenti gli insegnamenti improntati al cristianesimo sociale di Giorgio La Pira e Don Lorenzo Milani. Quali sono i Suoi ricordi della giurisprudenza dei c.d. «pretori d’assalto»?
A. Proto Pisani Del gruppo di Magistratura Democratica e, in particolare, di Salvatore Senese e Pino Borrè, ho già parlato e ho anche richiamato l’importanza da Essi data alla Costituzione: di conseguenza è fuori discussione il mio favore per la giurisprudenza dei c.d. pretori d’assalto (che brutta espressione, però).
Quanto al mio interesse per il cristianesimo sociale di Giorgio La Pira, Don Lorenzo Milani, cui aggiungerei senza esitazione Giuseppe Dossetti, esso risale agli anni ’50 della mia gioventù: e ciò anche per la collaborazione determinante di La Pira e Dossetti nella formulazione degli art. 2 e 3 della Costituzione, sulla base di un accordo sostanziale con Lelio Basso e Palmiro Togliatti sulla redazione di una Costituzione che legittimasse anche diverse realizzazioni di uno stato sociale; forma di Stato che non fu realizzata ( neanche accennata negli anni ’50) per le politiche reazionarie di Luigi Gedda e del Papato di quel tempo, e per le conseguenti scelte da parte del settore maggioritario della Democrazia Cristiana.
V. A. Poso In qualche biografia ho letto che, facendo propria la lezione di Tullio Ascarelli, di Luigi Mengoni e di tanti altri, Lei ha fatto propria la teoria dell'interpretazione come interpretazione sistematica con la Costituzione e i suoi valori tra i quali innanzitutto la dignità della persona. È questa la Sua metodologia di studio e di ricerca?
A. Proto Pisani È indubbio. Sul punto ho in corso di stampa una noterella in cui prendo esplicita posizione, pur senza nominarlo, contro il carattere anticostituzionale delle posizioni di qualche studioso (ivi compreso un mio collega al quale sul piano personale sono legato da profonda e sincera amicizia) il quale aderisce esplicitamente alle posizioni di Carl Schmitt (cioè di uno dei responsabili dell’olocausto), quasi che la difesa dell’impresa debba avvenire a scapito dell’interpretazione fondata anche sui valori costituzionali.
Si giunge così a una utilizzazione rovesciata dell’uso alternativo del diritto in una prospettiva questa sì inaccettabile, in quanto fondata (come un tempo sulla difesa della razza) sulla cancellazione –abrogazione (oltre che dell’art. 2 Cost.) anche dell’esplicito richiamo dell’art. 41 della Costituzione, che subordina la legittimità dell’iniziativa economica privata al rispetto del valore della dignità umana.
Ad Ascarelli e Mengoni aggiungerei Norberto Bobbio e, in particolare, la sua ricostruzione del pensiero di Tullio Ascarelli, successivo al suo rientro in Italia, in tema di interpretazione; e da ultimo il commento di Maurizio Fioravanti all’art. 2 della Costituzione, per la collana sulla “Costituzione italiana” di Carocci, e il volumetto postumo di Vincenzo Scalisi su “L’ermeneutica della dignità”.
Facendo un salto, vorrei dire che l’adozione da parte mia di questa “metodologia della ricerca” si è tradotta nella mia vita di studioso nel rileggere i rapporti tra diritto sostanziale e processo: in gran parte nel tentativo di rileggere le tecniche di tutela storicamente sviluppatesi a tutela del diritto di proprietà, nel senso, non di contestarle in sé, ma in quello diverso della loro utilizzazione oggi a tutela dei diritti della persona: diritti normalmente a contenuto e a funzione non patrimoniale (come tali bisognosi di tutele urgenti). Per citare un solo esempio, utilizzare ( più che la tecnica di tutela del possesso) soprattutto la tecnica raffinata della denuncia di danno temuto (art. 1172 c.c.) a garanzia dei diritti della persona: da questo punto di vista l’operazione tecnica effettuata attraverso l’art. 28 l. n. 300/1970 (c.d. Statuto dei diritti dei lavoratori) mi sembra davvero rivoluzionaria nella misura in cui, nella sostanza, utilizza la tutela sommaria non cautelare non a favore della proprietà, ma di diritti propri della persona dei lavoratori. Ma su questo ho scritto anche troppo nel corso degli anni e non voglio qui dilungarmi.
V. A. Poso Delle Sue vicende universitarie sappiamo molto, anche per quello che Lei stesso ha scritto nelle Note a margine di una vita universitaria (di un allievo di Virgilio Andrioli), che si possono leggere in Riv.Dir.Proc.,2019, 430 ss.). Sul finire del 2019, per festeggiare in maniera discreta il Suo compleanno, ha dedicato il saggio (pubblicato in Riv. Dir. Proc. 2019, 1429 ss.) «Problemi del processo civile rivisti da un ottantenne» ai Suoi allievi, oltre ottanta, professori, magistrati, avvocati, indicandoli uno per uno per nome, con la speranza di non dimenticarne troppi. Possiamo parlare di una «scuola» di Andrea Proto Pisani oppure, allergico a questa, ha saputo indicare soprattutto un metodo ai suoi tanti allievi?
A. Proto Pisani No, non esiste alcuna “scuola” di Andrea Proto Pisani, ma solo il tentativo di seguire i miei allievi con la stessa attenzione con cui Virgilio Andrioli mi seguì nella mia stesura della Opposizioni di terzo ordinaria e della Trascrizione delle domande giudiziali, cioè delle mie prime due monografie che nulla avevano certamente di rivoluzionario, ma miravano solo a impadronirmi della tecnica (se si vuole della dommatica concettuale) indispensabile per la prosecuzione più o meno fruttuosa dei miei studi in piena autonomia di pensiero (e, se si vuole, di scelte politiche).
V. A. Poso Il Consiglio Superiore della Magistratura (di cui Lei ha fatto parte come componente laico dal 1994 al 1998), organo costituzionale, deve conservare la sua autonomia e deve poter svolgere il suo lavoro, se necessario, con la dovuta discrezionalità. Oggi, però, anche in conseguenza di alcuni procedimenti penali e disciplinari, molte sono le suggestioni per una riforma radicale dell’organo di autogoverno. È un problema di nomine e di come le nomine sono fatte o di regole di condotta e di funzionamento? Qual è la Sua opinione in proposito?
A. Proto Pisani L’autonomia e l’indipendenza della magistratura prevista della Costituzione del 1948, anche attraverso la istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura, costituisce un qualcosa che giustamente ci viene (o ci veniva) invidiato dalle altre magistrature europee.
A tale riguardo occorre però procedere con cautela, perché i casi Luca Palamara e Cosimo Ferri hanno scosso giustamente la pubblica opinione, non solo italiana.
Vorrei procedere per gradi.
a) La grossa scelta della Costituzione è consistita nel sottrarre la c.d. amministrazione della giurisdizione (o se si preferisce la “carriera” dei magistrati) all’esecutivo (al Ministro di grazia e giustizia, come previsto fino ad alcuni anni orsono) e averla attribuita al C.S.M., cioè ad un organo costituito per due terzi da magistrati da loro stessi liberamente eletti, e solo per un terzo da docenti e avvocati di lunga esperienza e competenza anche in materia giudiziaria designati dal Parlamento.
b) Effettuato questo primo indispensabile passo, la magistratura ha ottenuto poi che la carriera (e la retribuzione) dei magistrati fosse, almeno in prima battuta, sganciata da concorsi interni gestiti normalmente dai magistrati superiori, ma fosse fondata su valutazioni quadriennali di professionalità effettuate dai c.d. Consigli Giudiziari, cioè organi decentrati del C.S.M. E qui vi è un primo notevole difetto: le valutazioni di professionalità sono compiute dai soli componenti togati del Consigli giudiziari, senza che i componenti laici abbiano potere anche solo di parola; il che è in palese contrasto con la Costituzione là dove essa prevede che tutte le attività del C.S.M. siano gestite senza distinzione anche dai consiglieri laici e non solo da quelli togati.
In tal modo si è cercato di dare attuazione al principio enunciato dall’art. 107, 3° comma, Cost., secondo cui «i magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni».
Residuo duro a morire il potere esclusivo del C.S.M. di conferire gli incarichi direttivi e semidirettivi. Abolito come criterio di scelta quello della anzianità, perché questo nulla dice circa le “attitudini” e il “merito” dei singoli magistrati allo stesso incarico direttivo o semidirettivo, ne è seguita la pressoché assoluta discrezionalità del C.S.M. nel conferimento o nella scelta tra i più aspiranti allo stesso concorso: e ciò perché i requisiti della attitudine e del merito sono requisiti desumibili solo da una serie di fatti (c.d. secondari), fonti pertanto di “presunzioni semplici” dalle quali la deduzione della esistenza o no del fatto principale - attitudine o merito - per definizione e prova priva di certezza (e le cose si complicano ancora di più quando occorre addirittura effettuare un giudizio di “prevalenza” fra più aspiranti).
Ciò ha fatto sì che, almeno negli ultimi venti anni, i consiglieri del C.S.M., i quali nelle altre materie loro attribuite godono di una discrezionalità pressoché nulla o quasi, siano invece di fatto “liberi” di decidere quale sia il magistrato cui assegnare il singolo incarico direttivo o semidirettivo.
V. A. Poso Nel dibattito di questi ultimi anni in particolare (ma la discussione è risalente nel tempo) molti, pur con le dovute critiche, sostengono che l’associazionismo dei magistrati è un valore aggiunto per la magistratura e che la diversità delle correnti deve essere preservata come espressione di democrazia e di pluralismo culturale. Altri definiscono le correnti solo gruppi di potere, senza distinzione alcuna, dove prevale lo stigma dell’appartenenza. Qual è la Sua opinione in proposito e quali sono i rimedi possibili?
A. Proto Pisani Rispondendo a una precedente domanda ho avuto modo di parlare del Convegno del 1964 di Gardone che diede luogo alla formazione delle “correnti”: ciò avvenne non in prospettiva di future lottizzazioni, bensì sulla base della distinzione delle “correnti” (cioè associazioni di magistrati non sopprimibili perché espressione delle libertà di associazione garantita dall’art. 18 Cost.: cosa che spesso si dimentica quando si vorrebbe “sopprimere” le correnti) a seconda del diverso porsi dei magistrati associati nei rapporti ideali (cioè nel senso positivo) tra magistrato e legge (ivi compresa la Costituzione).
Ebbene, con il trascorrere degli anni, da un lato quelle spinte ideali si sono quantitativamente ridotte, dall’altro la sacrosanta soppressione del criterio dell’anzianità ha progressivamente dato luogo al fenomeno disdicevole della lottizzazione degli incarichi direttivi e semidirettivi tra tutte le correnti, nessuna esclusa (ivi compresa, per intenderci, la corrente costituita nel 1964 da magistrati quali Marco Ramat, Salvatore Senese, Pino Borrè e altri, i quali oggi certamente si staranno “rivoltando nella tomba”).
In questa situazione che fare? Personalmente (me ne sono occupato più volte – ad es. in Foro it. 2008,V, 129 ss., Incarichi direttivi e semidirettivi dei magistrati: la necessità di un taglio netto nel sistema di conferimento, e 2019, V, 301 ss., L’ineludibile «problema» del conferimento degli incarichi semidirettivi e direttivi della magistratura: la necessità di un serio dibattito – da ultimo anche in un articolo in corso di stampa su Il Giusto Processo Civile, scritto a quattro mani da me e Natale Giallongo) sono convinto che l’unica soluzione capace di sopprimere il malcostume denunciato è quello di sottrarre in prima battuta il conferimento esclusivo degli incarichi al C.S.M. e l’attribuzione invece, almeno in prima battuta, di tale potere ai magistrati dello stesso ufficio giudiziario (in modo non molto dissimile di quanto accade per la nomina dei direttori dei dipartimenti universitari), con la previsione espressa della prorogabilità nella stessa funzione una sola volta, e, cessato l’incarico, il ritorno del magistrato a ricoprire le funzioni precedenti di magistrato semplice nello stesso ufficio originario al pari degli altri magistrati. Solo così, oltre a eliminare il sistema della lottizzazione, si abolirebbe anche il fenomeno di una doppia carriera (magistrati semplici e direttivi) e si darebbe applicazione al già richiamato art. 107 Cost. secondo cui i magistrati si distinguono soltanto per diversità di funzioni.
È, però, da osservare conclusivamente che la proposta ora riassunta non mi sembri trovare consenso neanche tra i magistrati più di tutti caratterizzati (almeno alle origini) dalle migliori idealità: probabilmente perché il potere è un qualcosa che logora solo chi non lo ha.
V. A. Poso Restando alla Sua specifica competenza, quali sono le proposte concrete per risolvere o almeno tentare di risolvere le diverse criticità da molti anni riscontrate nei diversi ambiti della giustizia civile a cominciare dagli aspetti generali e organizzativi?
A. Proto Pisani Cerco di affrontare tutti insieme i problemi della crisi del processo civile.
Direi che la modestia scientifica e più in generale culturale del Guardasigilli e del Presidente del Consiglio (che hanno addirittura ottenuto il rinnovo della propria nomina nonostante la radicale modifica della maggioranza di governo) impedisce loro di avere chiarezza sui veri problemi da affrontare.
La crisi del processo civile deriva innanzitutto da deficienze ordinamentali e organizzative: questo è da decenni un dato acquisito da tutti gli operatori del diritto.
Innanzitutto da deficienze sul piano organizzativo.
In primo luogo, il numero insufficiente dei magistrati addetti al ramo civile e inoltre la cattiva distribuzione dei magistrati esistenti. Al riguardo mi sembra opportuno invitare alla lettura della recentissima analisi, completa di tutti i dati numerici e dei costi necessari, svolta da un ex magistrato, Marco Modena, Giustizia civile. Le ragioni di una crisi, Aracne, Roma, 2019 (rinviando ad altra occasione per eventuali chiose che non inficiano in modo alcuno i risultati raggiunti dall’autore).
In secondo luogo, la carenza degli ausiliari amministrativi del giudice: cancellieri e segretari.
In terzo luogo, l’opportunità di sopprimere i giudici onorari di tribunale ( malpagati, privi di autonomia e indipendenza, spesso anche di preparazione adeguata) e la loro sostituzione con la figura di un assistente del giudice, selezionato tramite concorso, con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, regolarmente e adeguatamente retribuito, cui attribuire competenze giudiziarie minori (quali, ad esempio, la liquidazione dei compensi di consulenti tecnici, la redazione di decreti ingiuntivi e di progetti di decisione, sempre e soltanto per le controversie semplici, specie se ripetitive, e altro).
Quanto ai giudici di pace possono sopravvivere nella attuale situazione di crisi, ma solo attribuendo loro competenze per materia (allo scopo di assicurarne una formazione efficace) e non competenze per valore che concernono ogni ramo dell’ordinamento.
Alla stregua di un progetto fiorentino (pubblicato in Foro it., 2017, V, 208 ss.) i problemi di tecnica normativa sono relativamente semplici in quanto ampiamente “arati” (anche se sconosciuti a chi ci governa). Li riassumo con la massima semplicità:
a) il modello base del processo di cognizione dovrebbe essere quello del processo del lavoro con integrazione della fase preparatoria relativa a repliche, controrepliche e chiamata in causa di terzi;
b) si arriva così alla prima udienza di trattazione davanti al giudice, per la programmazione della eventuale istruzione o addirittura la decisione immediata;
c) l’appello andrebbe notevolmente modificato con aperture ampie alle nuove prove ed eccezioni (e addirittura consentendo la modifica delle domande ove inerenti allo stesso “rapporto” controverso);
d) si dovrebbe poi prevedere una fase di istruzione preliminare relativa alla assunzione della prova testimoniale, alla esibizione di documenti e alla consulenza tecnica; l’attivazione di una fase di tale specie dovrebbe poter facilitare soluzioni concordate presso gli stessi avvocati con soppressione di quel vero e proprio non senso della mediazione obbligatoria, condizione di procedibilità, che contrasta con la natura volontaria, cioè condivisa, dell’accesso alla mediazione vera e propria;
e) sarebbe, infine, da prevedere il processo contumaciale relativamente alle controversie aventi ad oggetto diritti disponibili e la generalizzazione della condanna con riserva di eccezioni prima facie manifestamente infondate; istituto, quest’ultimo, già presente nel nostro ordinamento, ma solo in ipotesi tipiche, adeguando il nostro processo di cognizione a istituti ampiamente presenti e di grossa utilità negli ordinamenti francese e tedesco;
f) per motivi di opportunità evito di parlare in maniera approfondita del giudizio di cassazione sul quale sono sin troppo spesso intervenuto (v., da ultimo, Riv. Dir. Proc., 2020, p. 1192 ss. in uno scritto dedicato a F.G. Scoca, articolo volto soprattutto a provocare un dibattito).
V. A. Poso Una domanda obbligata a un Professore universitario. Quali sono le criticità e i problemi irrisolti dell’università italiana, con rifermento alla formazione e al sistema della ricerca, ma anche alla selezione del personale docente?
A. Proto Pisani Sulla crisi dell’università mi limito a una battuta rapidissima. Nel sistema attuale, oltre a un calo pauroso della qualità degli studi anche monografici (non giustificabile solo col passaggio da una università di elite ad una università di massa), la selezione avviene tramite blande valutazioni insite nella introduzione di giudizi (apparentemente) di sola abilitazione, giudizi normalmente sempre preceduti dalla selezione di “ricercatori” pressoché sempre sotto il controllo di gruppi di potere interni ai Dipartimenti. Una volta entrati nel sistema, la progressione in carriera diviene pressoché automatica (anche per motivi economici di bilancio delle singole università) attraverso concorsi locali fittizi (gestiti dai Dipartimenti di appartenenza di chi vi era entrato come ricercatore). Soppressione completa, infine, dei trasferimenti con le inevitabili gravi conseguenze sul piano culturale.
Vorrei ricordare, infine, una vicenda raccontatami da Andrioli. Negli anni trenta del secolo scorso, Antonio Segni fece vincere il concorso di professore ordinario di procedura civile a Sergio Costa. Ebbene Chiovenda criticò severamente l’operato di Segni, non tanto per il favore fatto al suo conterraneo, quanto perché – disse ad Andrioli – il danno derivava dal fatto che in tal modo Sergio Costa (a suo avviso studioso mediocre) avrebbe potuto divenire, in futuro, a sua volta commissario di concorso, così che la sua nomina a professore ordinario avrebbe agito da moltiplicatore a danno della serietà della ricerca universitaria.
V. A. Poso La grave crisi emergenziale ha imposto regole eccezionali che sono state criticate da molti, anche sotto il profilo costituzionale. Qual è la Sua opinione in proposito?
A. Proto Pisani Il rinnovo dei poteri straordinari al Presidente del Consiglio dei Ministri occasionati dall’epidemia, purtroppo di nuovo in atto del Covid-19, mi induce a richiamare l’intervento che io e Natale Giallongo avemmo a svolgere e pubblicare nell’aprile 2020 (Brevi note su Costituzione e provvedimenti conseguenti alla epidemia da coronavirus, in Judicium, 22 aprile 2020). È anche un modo per ricordare un carissimo amico scomparso il 3 ottobre 2020 a termine di una gravissima malattia affrontata con serenità esemplare, e che mi ha arricchito molto.
Cerco di sintetizzare il nostro pensiero.
La epidemia in atto ha turbato e continua a turbare anche molti operatori giuridici.
Innanzi tutto i provvedimenti governativi (e talvolta di alcuni Presidenti di Regione) di prevenzione e di contrasto dell’epidemia, nonostante il preavviso dato dalla gravità dell’esperienza cinese, e la dichiarazione di emergenza sanitaria nazionale emanata il 31 gennaio di quest’anno, risalgono solo al 20 febbraio (decreto legge n. 6), senza che nel periodo intermedio risulti effettuata alcuna attività di predisposizione di attrezzature (semplici, ma indispensabili quali le mascherine, i tamponi, ecc. che solo negli ultimi giorni di aprile sono stati acquisiti).
Non risulta inoltre che nel mese di febbraio politici o operatori giuridici abbiano aperto dibattiti sulla delicatezza costituzionale dei provvedimenti che inevitabilmente si sarebbero dovuti emanare per contrastare la diffusione della sempre più vicina epidemia preannunciata dalla dichiarazione di emergenza sanitaria nazionale.
V.A. Poso Cosa avrebbe dovuto fare, allora, in concreto il Governo?
A. Proto Pisani Emanata la dichiarazione di emergenza sanitaria nazionale, ci si aspettava che il Governo, consapevole per un verso dell’assetto costituzionale dei rapporti tra esecutivo e parlamento previsto nella seconda parte della Costituzione e per altro verso della delicatezza dei diritti e delle libertà fondamentali previsti dalla prima parte della Costituzione, diritti e libertà su cui necessariamente incidesse con provvedimenti (urgenti) volti a fronteggiare le conseguenze della epidemia già preannunciata.
Se avesse avuto la duplice consapevolezza delle questioni ora ricordate, un Governo che voglia pomposamente etichettarsi come democratico, ad avviso di chi scrive avrebbe dovuto:
a) convocare urgentemente Camera dei Deputati e Senato (se possibile in seduta congiunta) e informare come la gravità della situazione (anche sulla base delle esperienze straniere di Cina, Corea del Sud ed Iran) fosse tale da dovere intervenire tramite provvedimenti su interessi gravissimi, su vere e proprie libertà e diritti fondamentali delle persone di rilievo costituzionale, provvedimenti necessariamente urgenti;
b) informare il Parlamento nel suo complesso di maggioranza e minoranza, e solo dopo questa informazione il più possibile specifica, e il dibattito successivo, assumersi la responsabilità di emanare i provvedimenti necessari, provvedimenti sul cui contenuto aveva preventivamente informato il Parlamento.
Non è possibile col senno di poi dire quali sarebbero state le conseguenze di questa convocazione ed audizione.
Una cosa è però sicura: un simile comportamento avrebbe eliminato la possibilità di esautoramento del Parlamento, e ciò proprio nel momento in cui il Governo avrebbe avuto la necessità di emanare provvedimenti a tutela del bene salute (sopravvivenza) dei cittadini; provvedimenti che allo stesso tempo avrebbero quantomeno compresso libertà, diritti fondamentali dei cittadini, diritti gelosamente garantiti dalla prima parte della Costituzione del 1948.
Direi che mai dal 1948 ad oggi si sia verificata una situazione di tale gravità e la conseguente indispensabilità – proprio perché il Governo avrebbe dovuto emanare provvedimenti urgenti (nella forma corretta: cioè il decreto-legge immediatamente efficace, ma soggetto a conversione in legge da parte del Parlamento) limitativi del godimento pieno di diritti fondamentali dei cittadini – di rispettare la centralità del Parlamento prevista dalla seconda parte della Costituzione.
Per fare ciò si sarebbe dovuta conoscere bene la Costituzione e i suoi valori e le loro interconnessioni, conoscenza che, invece, le forze politiche di cui il Governo è espressione, ed i singoli componenti del Governo, hanno mostrato di non possedere o di non volere utilizzare.
V. A. Poso Alcuni studiosi e operatori giuridici, anche di elevata esperienza, hanno denunciato, sotto diversi profili, la dubbia costituzionalità dei provvedimenti governativi adottati per fronteggiare l’emergenza sanitaria. Qual è la Sua opinione in proposito?
A. Proto Pisani è fuori di dubbio che i provvedimenti urgenti governativi hanno inciso oltre che sulla libertà personale (art. 13), sulla libertà di circolazione (art. 16), sulla libertà di riunione (art. 17), anche sul diritto di agire in giudizio a difesa dei propri diritti e interessi legittimi (art. 24), sul diritto a professare la propria religione anche negli edifici di culto (art. 19), sul diritto del condannato a non subire trattamenti contrari al senso di umanità (art. 27), sul diritto dei genitori di avere rapporti significativi con i propri figli (art. 30), sul diritto all’istruzione (art. 33), sul diritto di impresa (art. 41), ed ancora sul diritto di essere soggetti alle leggi formate secondo le disposizioni previste dalla Costituzione e non con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, udito il Ministro della Sanità e gli altri Ministri competenti, come invece previsto dal decreto - legge (!) 23 febbraio 2020 n. 6 convertito in L. 5 marzo 2020, n. 13, entrambi in palese violazione della seconda parte della Costituzione
Orbene, a mio avviso, la violazione più grave della Costituzione si è avuta – come già detto – nell’esautoramento del Parlamento anche nel procedimento di formazione di provvedimenti governativi che incidono su diritti fondamentali previsti dalla Costituzione. Quanto invece alle ipotesi sopra ricordate siamo in presenza di una “compressione” per motivi sanitari non sempre specificamente previsti dalle suindicate disposizioni costituzionali, ma mai di una loro violazione in senso stretto.
V. A. Poso Qualcuno, addirittura, ha parlato di violazione della libertà personale.
A. Proto Pisani Parlare di detenzione domiciliare riguardo all’art. 13 Cost. è solo una boutade, non un ragionamento giuridico, non fosse altro perché io stesso ho avuto ogni giorno possibilità di allontanarmi dalla mia abitazione, al pari di chi esce quotidianamente per acquistare i giornali, per sgranchire le gambe facendo il giro dell’isolato o accompagnare fuori il cane, per recarsi in banca, anche andare ad acquistare le sigarette (su cui solo fumatori pentiti possono dissentire e nulla ha a che vedere, come si accennerà tra poco, col diritto alla tutela giurisdizionale dei propri diritti e interessi legittimi); più seriamente per avvocati e magistrati di recarsi ai propri studi professionali e uffici giudiziari per studiare e trattare le controversie “urgenti”.
Quanto poi alla violazione degli altri diritti o libertà fondamentali, di cui agli artt. 16, 17, 19, 33, 41 Cost., si tratta di diritti comprimibili già ai sensi delle disposizioni costituzionali, anche se non sempre specificamente per motivi di sanità.
V. A. Poso Sul piano della giustizia, in particolare quella civile?
A. Proto Pisani A mio avviso il diritto di agire e difendersi in giudizio non è stato mai offeso, sia in civile sia in penale, stante la salvezza sempre prevista della possibilità di agire in via cautelare o contro provvedimenti cautelari (senza che sia necessario fare ricorso ad ardite analogie con la vendita di tabacchi). Relativamente alla tutela familiare e dei rapporti con i figli, vi è sempre la possibilità di ricorrere al Tribunale dei Minorenni ove ne ricorrano gli estremi al procedimento previsto dall’art. 336 c.c. e al giudice ordinario ai sensi dell’art. 700 (se del caso in via alternativa o cumulativa all’anticipazione dell’udienza ex art. 708, 709 e 709 ter c.p.c.); non senza dimenticare che l’art. 700 è norma generale di chiusura per la tutela di diritti a contenuto e/o funzione non patrimoniale e il compito che questa norma tutt’oggi assolve nell’assicurare la tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali delle persone, ove non ricorrano procedimenti sommari tipici.
V. A. Poso Passiamo ad altro. Alcuni scritti, risalenti anche agli anni ‘60 (raccolti in due volumetti pubblicati da Edizioni Accademiche Italiane nel 2017, Alla ricerca di un senso, e, nel 2019, Ancora alla ricerca di un senso), ci restituiscono un giurista autentico caratterizzato da profondi sentimenti religiosi, di fede cristiana, che si interroga sulla giustizia secondo Dio (alla luce dei Vangeli) e sulla giustizia secondo gli uomini (alla luce della Costituzione). Come è riuscito a coniugare la fede e il mistero che ad essa è sotteso con la giustizia umana, nel contesto delle gravi contraddizioni, disuguaglianze e violenze che da sempre hanno caratterizzato la società?
A. Proto Pisani Devo premettere che per motivi ideologici (alla cui stregua a mio avviso lo Stato deve essere la casa comune di tutti, di tutte le persone, se si vuole, di buona volontà che abbiano assorbito i valori espressi dagli artt. 2 e 3 della Costituzione), io ripeto spesso che la scuola, come anche l’università debbono, dovrebbero, essere gratuite e pubbliche per tutti (senza stare a dilettarsi sulle parole «senza oneri per lo Stato»).
Partendo da questo presupposto io (come ho avviato le mie figlie alla istruzione pubblica) non ho fatto mai riferimento nei miei corsi universitari al fenomeno religioso, né indicato in modo alcuno le mie preferenze su tale piano: e ciò per un rispetto di un principio di laicità (desumibile anche dagli artt. 2 e 3 Cost.) in cui fortemente credo. Ed altrettanto spero di aver fatto nei miei scritti giuridici.
Ciò premesso, io personalmente non sono affatto chiuso al fenomeno religioso: ma di esso ho trattato solo nell’ambito di riviste della c.d. sinistra cristiana (che brutta espressione!) come Il Tetto, rivista napoletana cui ho collaborato sin dal suo primo numero del 1964; così come, specie dopo la conclusione del mio insegnamento universitario, mi sono più volte soffermato anche per iscritto su temi quali la fede, l’etica, la giustizia secondo Dio (alla luce dei vangeli) e secondo gli uomini(alla luce della Costituzione), come evocato nella domanda che mi è stata rivolta.
Mi piace, pertanto, concludere questa intervista parlando di questi temi come li vedo oggi.
Fondamentale al riguardo è stata la rilettura, dopo quasi settanta anni, del libro di José María Díez–Alegría. Come ho accennato nella presentazione della raccolta di alcuni passi del suo volume Io credo nella speranza del 1972, il mio incontro col gesuita spagnolo avvenne a seguito dell’indicazione di un altro gesuita, Paolo Tufari, grande amico di tutti i redattori dei primi anni della rivista, al quale si deve il suggerimento del nome Il Tetto. Su tale base ho richiamato l’attenzione sul radicale distacco dal messaggio etico – profetico risalente all’Antico Testamento e, in particolare, sul richiamo dei profeti al valore della giustizia verso i deboli, alla predilezione dei soggetti deboli della storia e quanto meno alla pericolosità insita (come tentazione diabolica perenne) in ogni specie di potere: distacco che trova le sue origini nella progressiva alleanza della Chiesa cattolica, a partire da Costantino e Teodosio, col potere politico volto a privilegiare, nel succedersi dei secoli (almeno fino ai primi del novecento), gli interessi dei “ricchi” e non dei deboli dei vari periodi storici.
Un messaggio – quello dei vangeli e dei profeti – in contraddizione con la struttura gerarchica di potere della Chiesa cattolica, soprattutto (ma non solo) del suo vertice romano, e il suo stesso diventare un vero e proprio potere politico.
Ciò avrebbe continuato ad apparire evidente ad alcuni gruppi isolati di cristiani, che però sarebbero stati contrastati con energia (e spesso con violenza) soprattutto dai vertici della Chiesa, divenuta essa stessa “struttura di potere” dimentica della propria origine.
Direi che l’evoluzione, il cambiare pelle della Chiesa, con l’abbandono della centralità della predilezione dei deboli, abbia determinato da parte di molti (sia pure da diverse sponde) lo spostamento della riflessione religiosa prevalentemente (anche se mai del tutto) sul terreno sociale e dei relativi scontri più che sulla riflessione sulle caratteristiche di amore e di persona del Dio cristiano (e ebraico prima). Ciò ha comportato il rischio – a me sembra – gravissimo di accentuare il carattere etico rispetto a quello profetico – escatologico specifico del cristianesimo. Spostamento che ha fatto perdere la specificità del Dio cristiano (di parlare equivocamente di fine della religione e/o di morte di Dio) nonché – in una sorta di eterogenesi dei fini – una, quanto meno, riduzione di attenzione alla centralità della predilezione per i deboli e del significato anche sociale del Dio persona.
V. A. Poso Interessante questa prospettazione del «Dio persona». Vuole specificare meglio questo concetto?
A. Proto Pisani Ho piena consapevolezza di non possedere gli strumenti culturali che sarebbero necessari per approfondire il discorso appena accennato.
Mi sembra, però, che ci si possa limitare alle seguenti schematiche osservazioni.
Il Dio (ebraico e poi) cristiano (a differenza del dio astratto dei filosofi) è un Dio persona che si rivolge alle persone.
Ancora, ove si prescinda da alcune componenti mitiche dell’antico testamento, è un Dio che parla con le persone a iniziare da Abramo; e un Dio liberatore dalla schiavitù dell’Egitto.
Attraverso i profeti si ha l’apparizione di un Dio misericordioso che aborre i sacrifici e, si direbbe oggi, gli aspetti “cultuali” come contropartita, da parte degli uomini, della sua misericordia, del suo amore (infinito) verso gli uomini.
Utilizzando (in modo pressoché integrale, senza nessuna mia aggiunta) alcune pagine (lette circa quaranta anni fa) di un teologo tedesco, Hans Küng, noto anche per la sua chiarezza, mi sembra da dire: il Dio che Gesù ha annunciato, non è, come si è spesso inculcato ai bambini, un Dio capriccioso e maschilista, un Dio della legge, un Dio sorvegliante, un Dio senza tratti materni; non è un Dio a immagine dei re, dei tiranni e dei dittatori. Egli è piuttosto il buon Dio, che mi è anche madre: il Dio dell’amore dunque che in tutta la sua giustizia si apre incondizionatamente agli uomini, alle loro pene e alle loro speranze. Un Dio che non avanza sempre soltanto delle pretese, ma dona; che non opprime l’uomo, ma lo rinfranca; lo risana. Un Dio che ha cura di quelli che cadono (e chi non cade?). Un Dio che invece di condannare, perdona, invece di punire, libera, invece che fare giustizia, usa clemenza; che si rallegra della conversione di un’unica persona non giusta che di novantanove giusti. Un Dio che, pertanto, ama di più il figlio perduto che quello rimasto a casa, il gabelliere più che il fariseo, gli eretici samaritani più che gli ortodossi, le prostitute e le adultere più che i loro giudici troppo presuntuosi.
Come si vede, una predicazione, quella di Gesù, scandalosa e provocante, non solo per quei tempi, ma anche per la nostra epoca, tanto più che essa era accompagnata da una prassi parimenti provocante e scandalosa: nessuna scomunica, bensì comunicazione, anzi, comunione! Egli si univa, anzi, si sedeva a tavola con i disprezzati e i falliti, con i peccatori di ogni sorta. Un Dio che si pone al di là della spietata giustizia della legge, fatta di formalismo e casistica, e che fa proclamare una giustizia migliore; un Dio che, anzi, giustifica i trasgressori della legge. Un Dio, per cui i comandamenti esistono per l’uomo e non l’uomo per i comandamenti. Un Dio, che non vuole certo eliminare in questo mondo il vigente ordinamento giuridico e quindi l’intero sistema sociale, come nemmeno il tempio e le funzioni religiose, ma li vuole relativizzare per amore dell’uomo.
E che quindi vuole che si superino i confini naturali tra compagni e non – compagni, tra lontani e vicini, tra amici e nemici, tra buoni e cattivi. In che modo? Con la modestia, la discrezione, l’amore nel senso del discorso della montagna: un perdono senza fine, un servizio senza gerarchie, una rinuncia senza contropartita. Dio si pone in questo modo dalla parte degli svantaggiati, dei sottoprivilegiati, degli oppressi, dei deboli, dei poveri e dei malati; di più: rispetto a chi si presume giusto, egli si pone dalla parte dei non – devoti, degli immorali, dei senza – Dio. Vediamo dunque: un Dio amico dell’uomo, un Dio sorprendentemente amico dell’uomo.
Gesù ha preso le parti di questo Dio e della sua sorprendente amicizia verso gli uomini. Egli ha parlato, lottato, sofferto per lui, per lui è stato mandato a morte.
Certo Gesù – cioè colui che si era proclamato figlio di Dio padre – muore crocifisso.
Ma è un dato di fatto che con la sua morte non è tutto finito, ma che solo allora qualcosa è incominciato; è un dato di fatto che la sua prima comunità abbia, in modo addirittura temerario, proclamato lui – il profeta menzognero, il sobillatore del popolo, il bestemmiatore di Dio, il falso maestro apparentemente condannato da Dio – come Messia di Dio, come Cristo, come Signore, Figlio dell’uomo, Figlio di Dio. Perché lo ha fatto? Perché, come mostrano le fonti neotestamentarie, essa era convinta – e solo questa fede spiega in assoluto la nascita del cristianesimo – che Gesù non fosse morto nel nulla, ma in Dio. Ciò significa: Gesù vive – e cioè vive in virtù di Dio, con Dio e in Dio. Per chi o per che cosa? Per noi, come speranza e come impegno, per noi, come orientamento!
V. A. Poso Il teologo tedesco, su questa base, reputa di potere ritenere che esista una vita dopo la morte anche per l’uomo. È così anche per Lei?
A. Proto Pisani Io non mi sento, almeno non ora, qui, di potere condividere la “sicurezza” di una vita personale ultraterrena dell’uomo dopo la morte! Per dirla col poeta, con la morte si entra in un territorio da cui non vi è viaggiatore che torni.
Mi sento invece con sicurezza – o in questo credo consista la mia fede – di ritenere che a mio avviso il messaggio dei profeti dell’Antico Testamento e soprattutto quello proprio di tutta la vita di Gesù (e, aggiungerei, l’esperienza della Chiesa primitiva anteriore a quelle sovrapposizioni tra chiesa e potere politico avvenute da Costantino e Teodosio in poi) siano più che sufficienti per giustificare, da parte mia, il dirmi cristiano e accettare come vincolanti (indipendentemente dagli esiti concreti) il messaggio evangelico di misericordia e predilezione dei deboli (e aggiungerei degli oppressi), senza che ciò significhi la riduzione della fede cristiana ad una mera etica.
Prima di concludere questa intervista, onestà intellettuale mi impone di aggiungere che in questa convinzione di fede è oggi determinante la ripresa (dopo l’operato che resta fondamentale di Papa Giovanni il quale fra l’altro convocò il Concilio anche per distaccare la Chiesa dalla struttura di potere della curia romana) da parte di Papa Francesco del tentativo di soppressione delle strutture di potere della curia romana; la volontà di trasformare il papato da potere assoluto nella mera primazia della figura del Vescovo di Roma, con la conseguente riunificazione della Chiesa cristiana nel rispetto del c.d. principio della “unità nella diversità”; la messa in atto di una “politica” contraria a qualsiasi pronuncia c.d. ex cathedra e il ricorso sempre più alla collegialità, soprattutto attraverso la moltiplicazione dei sinodi, tramite i quali aprire la riflessione su temi quali il matrimonio religioso dei divorziati, la facoltatività del celibato dei sacerdoti, l’apertura del diaconato e poi del sacerdozio alle donne, l’unione (anche religiosa) delle coppie omosessuali; e innanzi tutto fin da oggi il recupero pieno della predilezione dei deboli e degli oppressi (come dimostrano i luoghi scelti come meta dei suoi viaggi iniziati con quello a Lampedusa) e, ovviamente della ecologia e della pace. Di questi giorni è poi l’enciclica Fratelli tutti la cui lettura (specie degli evangelici capitoli secondo e terzo) mi ha profondamente commosso.
Può questa fede coincidere, almeno in parte con i principi desumibili da una certa lettura della Costituzione?
Probabilmente sì, ma non è questo il compito di un professore universitario, nel preparare le lezioni di diritto processuale civile, che non voglia travalicare la laicità del suo insegnamento.
V. A. Poso In una bellissima intervista di Roberto Conti pubblicata in Giustizia Insieme il 2 ottobre 2020, Il mestiere del Giudice e la religione, Gabriella Luccioli delinea i limiti della fede religiosa del magistrato nella decisione dei casi nei quali l’etica è fondamentale ( su questo tema, sempre in Giustizia Insieme, 24 ottobre 2020, è intervenuto anche Vincenzo Vitale, A proposito di giudici, di coscienza e di fede). Secondo Lei può un giudice di profonda fede religiosa assolvere laicamente al suo compito nel rispetto del pluralismo religioso e del multiculturalismo?
A. Proto Pisani Purtroppo non ho avuto ancora l’occasione di leggere gli interventi, certo interessantissimi, cui Lei fa riferimento. Se vuole, dopo averli letti potremmo dedicare a questo tema una intervista a più voci.
Ora mi limito a una osservazione forse banale.
La mia esperienza di studioso di diritto positivo e, a un tempo, di uomo di fede mi induce a dubitare della possibilità di giudicare un comportamento solo sulla base di una legge generale e astratta, sia essa una legge dello Stato o di carattere religioso; ciò perché la mia doppia esperienza, cui accennavo, mi induce a prendere atto della importanza, spesso o sempre determinante, della particolarità del singolo caso concreto e ad un tempo della evoluzione della c.d. realtà sociale o della coscienza religiosa di fede. Con la conseguenza di non potersi affidare spesso alla «certezza» dei testi di leggi statali o religiosi, ma di dovere pressoché sempre confrontarsi con la coscienza di interprete o di credente.
Il discorso, ovviamente, potrebbe continuare a lungo e confrontarsi con la giurisprudenza o singole decisioni religiose; il tutto, però, tenendo conto da un lato l’avvertimento di Gesù che il sabato, la legge del sabato, è fatta per l’uomo, e non viceversa; dall’altro lato la lezione sull’interpretazione di Tullio Ascarelli e di tanti altri giuristi.
V.A. Poso È un tema, questo, che merita sicuramente un approfondimento. Forse è giunto il momento di stabilire un decalogo delle regole etiche, deontologiche e giuridiche da osservare nell’esercizio della giurisdizione.
A. Proto Pisani Giunto al termine di questa intervista desidero ringraziare – oltre che la mia collaboratrice di sempre Vincenza Giannetto – Vincenzo Antonio Poso per avermi stimolato a rispondere in un contesto non frammentato alle domande che lui mi ha intelligentemente posto.
V. A. Poso Grazie a Lei, Professore, per aver condiviso con i lettori di Giustizia Insieme i ricordi e le riflessioni dei quali ci ha fatto dono.
La polisemia della “zona agricola” (nota a Consiglio di Stato, sez. II, 6 ottobre 2020, n. 5917)
di Marco Brocca
Sommario: 1. Il caso. 2. La posizione del Consiglio di Stato. 3. L’identità della zona agricola: limiti e potenzialità. 3.1. La lettura della giurisprudenza. 3.2. La risposta del legislatore.
1. Il caso
Il comune di San Gennaro Vesuviano adotta una variante al P.R.G. che prevede, tra l’altro, la classificazione di alcuni terreni di proprietà dei ricorrenti/appellanti come zona D (“attività produttive”) e zona G (“commerciale-terziaria” e “turistico-recettiva”).
L’amministrazione provinciale, ente preposto secondo la legge urbanistica regionale alla verifica di compatibilità con gli strumenti di pianificazione territoriale sovraordinati e di conformità con la normativa statale e regionale di riferimento, approva la variante stralciando le suddette zone, perché ritenute sovradimensionate e incompatibili con le attività consentite nell’area secondo il regime urbanistico generale oltrechè rispetto agli obiettivi della stessa variante, e le riclassifica secondo la qualificazione originaria, ossia come zona E (zona agricola). Il comune, esaurito il contraddittorio con l’amministrazione provinciale nel quale aveva formulato le proprie controdeduzioni, si uniforma agli indirizzi provinciali e approva la variante con la classificazione delle aree in questione come “agricole”.
Diverse sono le censure mosse dai proprietari delle aree interessate, imperniate essenzialmente su due profili: 1) il ruolo esorbitante dell’amministrazione provinciale, per aver impresso all’area una destinazione diversa rispetto a quella prevista dalla variante adottata; in particolare, si sostiene che l’amministrazione provinciale avrebbe sovrapposto e sostituito le proprie valutazioni a quelle del comune, al quale invece deve intendersi riservata ogni decisione relativa alla pianificazione di livello locale, mentre all’ente sovraordinato spetterebbe un controllo di compatibilità/conformità, da cui esulano valutazioni di merito; 2) la destinazione agricola assegnata alle aree avrebbe un’accezione e una funzione di conservazione del territorio estranee al significato della categoria urbanistica della “zona E” e sarebbe contraria agli indirizzi di pianificazione dell’area e alla strategia di sviluppo del distretto industriale in cui i terreni rientrano, dettata anche dal piano territoriale di coordinamento provinciale.
2. La posizione del Consiglio di Stato
La pronuncia del Consiglio di Stato appare di interesse non solo per le motivazioni della decisione (di rigetto dell’appello), ma soprattutto per il percorso argomentativo seguito, che muove da un significativo excursus degli orientamenti giurisprudenziali in materia, così sintetizzabili:
- le scelte urbanistiche, comprese quelle riguardanti la classificazione dei suoli, sono riservate all’amministrazione e costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato di legittimità, salvo che siano inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, arbitrarietà o irragionevolezza manifeste;
- la destinazione urbanistica impressa a una zona non necessita di particolare motivazione, in quanto trova giustificazione nei criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nell’impostazione del piano, che risultano nella relazione tecnica e nei documenti accompagnatori; pertanto, l’onere motivazionale degli strumenti di piano risulta attenuato, risolvendosi nella mera indicazione della congruità con le direttrici di sviluppo del territorio esposte nella relazione tecnica e nei documenti che accompagnano la predisposizione del piano stesso;
-l’onere motivazionale si riespande in presenza di situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti, rispetto ad esempio ad una specifica destinazione del suolo; queste situazioni sono ravvisabili nell’esistenza di convenzioni di lottizzazione, di accordi di diritto privato intercorsi tra comune e proprietari, di giudicati di annullamento di dinieghi di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione. In assenza di queste ipotesi, non è configurabile un’aspettativa qualificata ad una destinazione edificatoria non peggiorativa di quella pregressa, ma solo un’aspettativa generica, analoga a quella di qualunque altro proprietario di aree che aspiri alla destinazione più proficua dell’immobile, posizione che è recessiva rispetto alle scelte urbanistiche dell’amministrazione;
- non sussiste una posizione di legittimo e qualificato affidamento nel caso di una previsione, favorevole all’interessato, presente nella delibera di adozione dello strumento urbanistico (piano o sua variante), poi disattesa dalla delibera di approvazione, perché la determinazione relativa all’adozione costituisce soltanto una fase iniziale ed endoprocedimentale del procedimento, suscettibile di condurre alla definitiva formazione della disciplina urbanistica, in presenza della conclusiva approvazione ad opera della competente autorità;
- in materia urbanistica, peraltro, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto l’amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma della previgente disciplina ad interesse di mero fatto non tutelabile in sede giurisdizionale;
-nel procedimento di formazione dell’atto complesso-piano o variante, l’ente di secondo livello può, ove non ritenga di approvare o rigettare in toto lo strumento urbanistico adottato, approvare con stralcio ovvero apportare delle modifiche d’ufficio. Si tratta di operazioni ammesse a condizione che l’intervento modificativo non sia di entità tale da alterare l’impostazione di fondo dello strumento urbanistico e si ritiene che la modifica della destinazione d’uso originariamente prevista non significhi di per sé alterazione dell’impostazione generale del piano. Peraltro, si tratta di soluzioni strutturalmente diverse, perché lo stralcio consiste in un’approvazione parziale del piano che lascia integro ed impregiudicato il potere del comune di riproporre una nuova disciplina urbanistica diretta a completare la pianificazione relativamente alle aree oggetto di stralcio, mentre la modifica d’ufficio comporta una sovrapposizione definitiva della volontà dell’ente di secondo livello a quella del comune, il quale vede estinto il proprio potere pianificatorio;
- in sede di pianificazione urbanistica possono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale, in ragione della primarietà e trasversalità degli interessi di cui all’art. 9 Cost.;
- la suddetta esigenza può tradursi, nel contesto della pianificazione urbanistica, nell’opzione del divieto di edificabilità e nel connesso obiettivo di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi e questa opzione non può escludersi a priori in relazione ad aree ampiamente urbanizzate, che invero si prestano a far emergere un interesse alla conservazione del suolo inedificato, per ragioni di compensazione ambientale;
- nell’ambito dello strumentario urbanistico la finalità ambientale può essere perseguita attraverso la tecnica della zonizzazione e, in particolare, mediante la categoria della “zona agricola”, “potendo questa essere volta a sottrarre parti del territorio comunale a nuove edificazioni, ovvero a garantire ai cittadini l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando loro quella quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione urbana”.
In applicazione di questi principi il Consiglio di Stato conclude nel senso di respingere l’appello e confermare la legittimità degli atti impugnati, in quanto l’ente provinciale si è limitato a stralciare le aree interessate, utilizzando dunque uno strumento intrinsecamente inidoneo a comprimere le prerogative comunali; inoltre, la declassificazione delle aree come zone agricole non altera l’impostazione della variante, bensì è coerente con i sottesi obiettivi (tra i quali, è previsto quello di “promuovere l’uso razionale e lo sviluppo ordinato del territorio mediante il minimo consumo delle risorse territoriali e paesistico-ambientali disponibili”), oltrechè con il significato della zona urbanistica E, ormai consolidato in giurisprudenza, di “garantire la preservazione dei valori ambientali e preservare un necessario equilibrio nel rapporto tra aree edificate e spazi liberi”.
3. L’identità della zona agricola: limiti e potenzialità
La disciplina delle zone agricole ha conosciuto un’evoluzione del tutto peculiare, progredita secondo diverse linee direttrici che lasciano trasparire un’incertezza concettuale, genetica e mai risolta, del suo oggetto. Un’incertezza di fondo che si è tradotta in notevoli difficoltà applicative dell’istituto, ma anche nell’emersione di accezioni adoperate dalle amministrazioni locali per fronteggiare nuove problematiche legate all’assetto del territorio.
La questione delle aree agricole, affrontata dal punto di vista del diritto urbanistico, risale alla seconda metà del secolo scorso. Se la legge urbanistica fondamentale del 1942 (legge 17 agosto 1942, n. 1150) trascurava questo ambito, protesa soprattutto a definire un apparato organico di regole costruttive per i centri abitati, sarà la cd. legge-ponte (legge 6 agosto 1967, n. 765) a considerare le aree agricole su un duplice piano: subordinandole all’obbligo di licenza edilizia per le trasformazioni edilizie (art. 10), obbligo prima confinato alla parte urbanizzata del territorio comunale, e qualificandole secondo la tecnica della zonizzazione (art. 17). Da quest’ultima prospettiva rileva infatti la tipizzazione, tra le zone territoriali omogenee, di quella agricola (zona E): questa formalizzazione riflette certamente l’importanza che il settore agricolo rivestiva in quell’epoca nel sistema economico nazionale, ma denota anche il tentativo di rivitalizzare il comparto in un momento di forte industrializzazione e terziarizzazione del Paese. D’altra parte, restava ancora aperta la questione dell’attuazione del disegno costituzionale in tema di tutela della proprietà agricola e di razionale sfruttamento del suolo (art. 44 Cost.), su cui il diritto urbanistico avrebbe potuto fornire un utile contributo. In realtà, la disciplina urbanistica delle aree agricole apprestata dalla legge n. 765/1967 lascia in penombra la questione costituzionale[1], perché è impostata secondo la classica configurazione che vede nell’urbanistica la regolazione delle trasformazioni, anzitutto edilizie, del territorio, con l’effetto che l’agricoltura rileva per le sue implicazioni sul piano dell’edificabilità più che come attività economica in sé da assecondare o valorizzare. È questo il difetto genetico che connota la categoria della zona agricola: il suo nomen evoca indubbiamente il favor verso l’attività agricola, ma il regime connesso è incentrato sull’opzione dell’inedificabilità – o limitatissima edificabilità – del territorio; in altre parole, prevale il significato “negativo” della zona agricola, nel senso della non edificabilità del territorio, piuttosto che l’accezione “positiva” di effettivo svolgimento dell’attività agricola[2].
Questa lettura era considerata coerente con l’impostazione della legge-ponte che aveva sostanzialmente confermato la natura edilizia del piano regolatore comunale[3], definendo le altre zone urbanistiche essenzialmente secondo il parametro costruttivo (centro storico, completamento e espansione edilizia, zona industriale, ecc.).
La dottrina ha acutamente osservato che grazie alla legge-ponte l’interesse di natura agricola entra nel novero degli interessi da ponderare nel procedimento di pianificazione, alla stregua di un “interesse pubblico differenziato”[4] in quanto tale rilevante e condizionante per la disciplina urbanistica e, tuttavia, nell’accezione stretta di promozione delle attività agricole finisce per porsi come interesse “debole”[5], destinato a una tutela indiretta, condizionata primariamente dalle prospettive edificatorie dell’area interessata o da esigenze contingenti.
L’idea che finisce per prevalere è che, tra le diverse destinazioni urbanistiche tipizzate, quella agricola si presta al meglio per imporre limitazioni all’edificabilità, garantendo, per questa via, un ragionevole equilibrio tra aree edificate e aree libere. Marginale – ed eventuale – resta l’obiettivo di riconoscere e valorizzare la vocazione agricola dei luoghi attraverso la perimetrazione di apposite parti del territorio comunale da destinare, appunto, alle pratiche agricole, obiettivo, peraltro, ulteriormente sacrificato dalla mancata o tardiva approvazione del piano regolatore dalla gran parte dei comuni che per lungo tempo hanno preferito ad esso lo strumento più snello del programma di fabbricazione, il quale si riferisce soltanto alla parte urbanizzata del territorio comunale e, al più, alla sua espansione edilizia[6].
Il nucleo concettuale per cui la vocazione della zona agricola è di sottrarre il suolo a nuove edificazioni ne condizionerà irrevocabilmente l’applicazione e la sua “elasticità” porterà a ulteriori sviluppi. In particolare, l’accezione della zona agricola come “area-limite” all’espansione edilizia si perfezionerà – e si dilaterà – in termini di “area di risulta”[7], opzione che, a sua volta, si declinerà in (almeno) due significati: quello per cui si tratta di area da preservare provvisoriamente nella prospettiva di una futura utilizzabilità in chiave residenziale o industriale[8] ovvero quello per cui l’area è direttamente utilizzabile per interventi che non possono essere convenientemente localizzati in altre zone[9].
Più recentemente si è affermato un ulteriore significato della zona agricola, quello di area servente all’esigenza di preservare i valori naturalistici del territorio. L’accezione muove anch’essa dalla riconosciuta vocazione della zona agricola all’inedificabilità del territorio e fa leva sull’idea che mantenere inedificate certe aree impedisce il consumo del suolo e, simmetricamente, offre alla collettività condizioni di vivibilità e fruibilità delle risorse ambientali. In altre parole, la destinazione agricola di un territorio, implicandone la sua inedificabilità, vale per contenere l’espansione urbana e, per questa via, funge da presidio di tutela del territorio nella sua valenza ambientale.
3.1 La lettura della giurisprudenza
Le diverse linee applicative della categoria urbanistica della zona agricola sono state sottoposte all’attenzione della giurisprudenza, che, sia pure con posizioni non sempre univoche, le ha sostanzialmente avallate.
La giurisprudenza muove dalla consapevolezza della connotazione in senso urbanistico della zona agricola impressa dalla legge-ponte e da questa premessa ricava importanti corollari: anzitutto, che la destinazione agricola assegnata a una determinata area non è ricognitiva di un’utilizzazione o anche solo di una vocazione a fini agricoli dell’area stessa né si risolve, di per sé, in un vincolo all’esercizio dell’attività agricola; quindi, che lo scopo primario della destinazione agricola è di garantire un ragionevole equilibrio tra aree edificate e aree libere, con l’effetto che essa non è a prioriostativa di qualsivoglia intervento urbanisticamente rilevante.
Seguendo questa impostazione la giurisprudenza maggioritaria adopera un metodo di verifica della concreta compatibilità del progetto rispetto alle caratteristiche dell’area di localizzazione e, più in generale, dell’assetto del territorio: all’esito di questa operazione sono stati ritenuti compatibili con la destinazione a zona agricola progetti di opere quali impianti idroelettrici[10] o di derivazione di acque pubbliche[11], canili[12], attività di cava[13], depositi di esplosivi[14] o di fuochi di artificio[15], discariche[16] o altri impianti di trattamento di rifiuti[17], impianti di produzione di energie rinnovabili[18].
Da altra angolatura, la giurisprudenza ha riconosciuto nella “funzione decongestionante o di contenimento dell’espansione edilizia” propria della zona agricola l’ “interesse alla tutela dei valori naturalistici e paesaggistici del territorio”[19]. Per questo ha ammesso la destinazione agricola di suoli quando essa è dichiaratamente funzionale a garantire “una naturale cintura di respiro ambientale”[20] ovvero “un polmone dell’insediamento urbano”[21] o “corridoi verdi”[22] tra aree ampiamente urbanizzate ovvero aree di “compensazione”[23] o “ripristino”[24] ambientale e ha ammesso la qualificazione come zona E di terreni non aventi propriamente attitudine all’utilizzazione agricola, come sono quelli di alta montagna ovvero quelli boscati[25].
Peraltro, questione preliminare parimenti risolta dalla giurisprudenza è quella dell’utilizzabilità dello strumentario urbanistico per finalità ambientali: lo sviamento di potere, lamentato di frequente dalle parti ricorrenti, è escluso dai giudici i quali, per ammettere la strumentalità del diritto urbanistico alla cura dell’interesse ambientale, richiamano l’art. 9 Cost., dimostrando consapevolezza della portata della disposizione costituzionale, sia nella parte strutturale (per il riferimento alla Repubblica e non allo Stato) sia in quella funzionale (per il riferimento al paesaggio, che evoca anche i beni ambientali).
Per questa via, è confermato il carattere “flessibile” della categoria urbanistica della zona agricola, la sua adattabilità a multiformi esigenze, compresa quella, più recente, di tutela dell’ambiente.
Una reviviscenza dell’accezione in senso propriamente agricolo della zona E si ritrova in quella giurisprudenza che, pur ribadendone il carattere residuale, riconosce la legittimità della scelta dell’amministrazione di prescrivere in via esclusiva l’utilizzo produttivo di tipo agricolo dell’area[26] ovvero di enunciare espressamente la tipologia delle ulteriori attività, rispetto a quelle strettamente agricole, che possono insediarsi nelle aree così classificate[27], opzioni che si giustificano in virtù dell’ampiezza della discrezionalità che connota il potere pianificatorio. Il carattere ostativo della zonizzazione agricola è legittimato anche in base ad argomentazioni che si fondano sulla natura dell’area, precisamente quando si tratta di un’area agricola di “particolare pregio”, connotazione che deriva per qualificazione giuridica (secondo la disciplina dello strumento urbanistico, comunale o sovracomunale, o direttamente ex lege) ovvero fattuale, come nel caso di aree che hanno una conformazione risultante dall’uso agricolo consolidato da tempo remoto o a seguito di peculiari interventi, come opere di bonifica[28].
Come si vede, la giurisprudenza dà la rappresentazione della multidimensionalità (e ambivalenza) della zona agricola: muovendo dall’impostazione di tipo urbanistico della normativa di riferimento, l’area agricola vale come “area libera”, che si declina nell’accezione di “area di risulta” e in quella, più recente e prevalente, di “area di interesse ambientale”; la connotazione in senso propriamente agricolo ha valenza residuale, che peraltro si riespande quando vi è un’esplicita ed esclusiva determinazione in questo senso da parte strumento urbanistico ovvero deriva dalle peculiari caratteristiche dell’area, formalizzate per qualificazione giuridica ovvero consolidate de facto.
3.2 La risposta del legislatore
La legge-ponte ha avuto il merito di sollevare la questione delle aree agricole e l’esperienza mostra che, emarginata l’impostazione della massimizzazione dell’interesse agricolo, alla connotazione iniziale della zona agricola come area di risulta si è progressivamente affiancata – fino a prevalere – l’accezione di area a valenza conservativa e contenitiva dell’espansione edilizia. Questo orientamento di impronta giurisprudenziale trova riscontro soprattutto nella legislazione regionale, in particolare nelle leggi di ultima generazione sul governo del territorio, che si sono fatte carico di affrontare il tema dei rapporti tra urbanistica e agricoltura, a fronte, come si vedrà, di una persistente anomia a livello statale.
Questa attenzione si traduce in diverse soluzioni. Anzitutto, è recuperato e valorizzato il collegamento del territorio con gli usi prettamente agricoli e questa relazione è proiettata negli obiettivi e contenuti degli strumenti di pianificazione urbanistico-territoriale: così, ad esempio, la l.r. Lombardia (11 marzo 2005, n. 12, “Legge per il governo del territorio”) include tra gli obiettivi della pianificazione comunale «elevati livelli di tutela e valorizzazione delle aree agricole» (art. 7), affermazione da cui discende una rigorosa disciplina delle attività consentite nelle aree agricole. Nelle aree destinate all’agricoltura sono ammesse esclusivamente le opere funzionali alla conduzione del fondo, ivi comprese quelle a finalità residenziale, in ogni caso sono esclusivamente realizzabili dall’imprenditore agricolo (art. 59). Gli interventi edificatori relativi alla realizzazione di nuovi fabbricati sono condizionati alla dimostrazione dell’impossibilità che le medesime esigenze abitative possano essere soddisfatte attraverso interventi sul patrimonio edilizio esistente (art. 59) e, dal punto di visto edilizio, necessitano del permesso di costruire, che comporta un vincolo di mantenimento della destinazione dell’immobile al servizio dell’attività agricola (art. 60).
In altri casi la funzionalizzazione dell’attività edilizia alla conduzione agricola dei terreni è sancita in termini prevalenti e non esclusivi, nel senso che è previsto un regime diversificato a seconda della posizione dei soggetti richiedenti. È il caso della regione Toscana, la cui rinnovata legge sul governo del territorio (l.r. 10 novembre 2014, n. 65, “Norme per il governo del territorio”, come modificata dalla l.r. 20 aprile 2015, n. 49) riconosce il mantenimento dell’attività agricola come elemento della «qualità del territorio rurale» e la limitazione della «frammentazione ad opera di interventi non agricoli» vale come una delle linee direttrici per la tutela dell’ambiente e del paesaggio rurale, nonché per il contenimento del consumo di suolo (art. 68). La legge differenzia i regimi di intervento in zona agricola (art. 70 ss.) a seconda che il proponente sia un imprenditore agricolo ovvero altro soggetto, prevedendo maggiori margini di intervento nel primo caso, con l’ulteriore specificazione che alcuni interventi (quelli più pesanti, come le ristrutturazioni urbanistiche, gli ampliamenti volumetrici, le nuove edificazioni connesse alla conduzione del fondo) necessitano di un apposito programma aziendale sottoposto ad approvazione comunale; mentre, nella seconda ipotesi sono possibili soltanto trasformazioni delle aree pertinenziali degli edifici con destinazione d’uso non agricola nonché limitati interventi sui medesimi immobili ovvero la realizzazione di manufatti utili per l’attività agricola amatoriale e per il ricovero di animali domestici. È ribadita la centralità della pianificazione urbanistica comunale, alla quale è rimessa ogni valutazione sull’ammissibilità o meno di determinati interventi, come la costruzione di nuovi edifici ad uso abitativo ad opera dell’imprenditore agricolo mediante il programma aziendale ovvero gli interventi sul patrimonio edilizio esistente in assenza del programma.
Medesima opzione è seguita da altre regioni. Così la regione Veneto, la cui legge urbanistica (l.r. 23 aprile 2004, n. 11, “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”) ammette in zona agricola interventi edilizi funzionali all’attività agricola e ad opera di imprenditore agricolo (art. 44). Gli interventi possono riguardare sia scopi residenziali che agricolo-produttivi e la loro realizzabilità è subordinata all’approvazione di un apposito piano aziendale e alla conformità alle previsioni del piano urbanistico comunale relative alle aree agricole. La norma prevede, peraltro, interventi di recupero di fabbricati esistenti in zona agricola, con ammissibilità di ampliamento per finalità abitativa (comma 5), disposizione che la giurisprudenza[29] ha interpretato restrittivamente, nel senso di escludere l’edificabilità nei confronti di soggetti diversi dall’imprenditore agricolo sebbene proprietari del fondo, cui è seguita un’apposita legge regionale (legge 23 dicembre 2010, n. 30) che ha dato l’interpretazione autentica della norma, precisando che gli interventi previsti dal comma 5 sono ammissibili anche in assenza del requisito soggettivo e dell’onere del piano aziendale.
Un ampliamento a favore dei soggetti diversi dall’imprenditore agricolo, sino a equiparazione delle categorie, ha trovato il varco nell’ambito della legislazione regionale, in particolare in quella, dichiaratamente straordinaria e transitoria in realtà sempre più organica e strutturale, volta al rilancio dell’attività edilizia, sulla scia dell’iniziativa statale delle norme sul cd. piano casa (decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, conv. in legge 6 agosto 2008, n. 133). Nell’ambito di questa disciplina molte regioni hanno esteso l’applicabilità del regime di favor per gli interventi edilizi all’ambito delle zone agricole, intervenendo anche sul piano dei requisiti soggettivi. È il caso della regione Campania (l.r. 28 dicembre 2009, n. 19, “Misure urgenti per il rilancio economico, per la riqualificazione del patrimonio esistente, per la prevenzione del rischio sismico e per la semplificazione amministrativa”, modificata dalla l.r. 5 aprile 2016, n. 6), che prevede l’assentibilità della modifica della destinazione d’uso nonché di interventi di ampliamento o di demolizione e ricostruzione di fabbricati siti in zone agricole a prescindere dall’utilizzazione agricola del fondo, come pure dalla qualificazione soggettiva del richiedente, con l’avvertenza che per gli interventi ampliativi e ricostruttivi occorre riservare non meno del venti per cento della volumetria ad uso agricolo. Un profilo in cui si registra una differenziazione di regimi tra imprenditore agricolo e soggetti diversi riguarda la conformità dell’intervento allo strumento urbanistico comunale: si tratta di presupposto necessario e inderogabile, salva l’ipotesi riservata all’imprenditore agricolo di realizzare nuove costruzioni ad uso produttivo nella misura massima di 0,03 mc/mq di superficie aziendale in deroga al piano comunale[30].
Altra opzione riguarda la diversificazione delle aree agricole, in base alle caratteristiche pedologiche, climatiche, agronomiche, alla presenza di colture pregiate o specializzate e di infrastrutture agricole, cui corrisponde una modulazione dei regimi e, generalmente, è prevista la tipizzazione delle aree agricole “di elevato pregio” alle quali è correlato un regime di tutela rinforzata: così la l.p. Trento 4 agosto 2015, n. 15, “Legge provinciale per il governo del territorio” che enuclea dalle aree agricole quelle “di pregio”, per le quali gli interventi modificativi sono ridotti rispetto a quelli possibili nelle altre zone agricole e sono essenzialmente connessi alla produzione agricola, estrapolando, peraltro, dalle aree di pregio quelle caratterizzate dalla “presenza di singolari produzioni tipiche” o “speciale rilievo paesaggistico”, per le quali non è assolutamente ammessa la destinazione a nuovi insediamenti, mediante il meccanismo della riduzione e compensazione possibile per le altre aree agricole (art. 65). Rilevano inoltre la l.r. Umbria 21 gennaio 2015, n. 1, “Testo unico governo del territorio e materie correlate”, che evidenzia tra le aree agricole quelle di “particolare interesse agricolo”, nelle quali sono possibili solo attività agricole, zootecniche e di cava (art. 21) e la già citata legge toscana n. 65/2014, che tipizza le manifestazioni del territorio rurale (aree rurali, nuclei rurali, aree ad elevato grado di naturalità, ecc.) e ammette l’individuazione di peculiari aree, quali le “aree ad elevato valore paesaggistico” e i “paesaggi agrari e pastorali di interesse storico coinvolti da processi di forestazione, naturale o artificiale, oggetto di recupero a fini agricoli” (art. 64), rinviando agli strumenti della pianificazione territoriale e urbanistica la definizione del regime del patrimonio edilizio e delle infrastrutture esistenti, nonché delle attività e servizi presenti, compresi quelli a carattere non agricolo, in corrispondenza ai diversi obiettivi di qualità del territorio definiti dalla legge.
Generalmente, le leggi urbanistiche riconoscono nel piano comunale la “fonte” della tutela, indiretta e diretta, delle zone agricole. Non mancano ipotesi in cui questa finalità è rinviata a livelli sovraordinati di pianificazione territoriale, anzitutto il piano territoriale di coordinamento provinciale: così, ad esempio, il modello trentino, in cui il piano provinciale è preposto all’individuazione e perimetrazione delle aree agricole di pregio (l.p. Trento, n. 15/2015, art. 23, comma 2, lett. f) e quello toscano, in cui il piano provinciale deve definire il patrimonio territoriale provinciale, con particolare riferimento al territorio rurale (l.r. Toscana, n. 65/2014, art. 90, comma 5, lett. a). Similmente, il modello della regione Lombardia, che rimette al piano provinciale la definizione degli “ambiti destinati all'attività agricola di interesse strategico” e le relative norme di tutela, uso e valorizzazione (l.r. Lombardia, n. 12/2005, art. 15, comma 4).
La progressiva valorizzazione dell’interesse agricolo nel disegno urbanistico ha certamente ridimensionato la classica configurazione delle zone agricole quali aree residuali, utili per molteplici finalità e, tuttavia, questa concezione permane e riaffiora ogniqualvolta emergano peculiari e nuove esigenze localizzative.
Significativa è l’esperienza della diffusione degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, fenomeno che ha conosciuto, a partire dagli anni ’90, un notevole sviluppo e che ha trovato nelle zone agricole l’ambito privilegiato di localizzazione. In assenza di un quadro normativo organico, alcune regioni si sono attivate per apprestare una prima regolamentazione. Così ha fatto, ad esempio, la regione Puglia che con legge 21 ottobre 2008, n. 31, “Norme in materia di produzione di energia da fonti rinnovabili e per la riduzione di immissioni inquinanti e in materia ambientale”, ha vietato la realizzazione di impianti fotovoltaici in alcune aree, tra le quali le “zone agricole di particolare pregio”, così qualificate dagli strumenti urbanistici, dal piano paesaggistico o dalla legge per la presenza di uliveti monumentali. La norma, tuttavia, è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale[31], per violazione dell’art. 117 Cost. perché si tratta di materia rientrante nella potestà legislativa concorrente e, all’epoca della legislazione regionale, mancavano le linee guida nazionali per la localizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili. L’attuale normativa statale, d.m. 10 settembre 2010, n. 47987, ammette la localizzazione degli impianti nelle zone classificate come agricole dai piani urbanistici, non essendo neanche necessaria la variante dello strumento urbanistico (art. 15, comma 3), al contempo rimette alle regioni la possibilità di qualificare come siti non idonei per la realizzazione di impianti le aree agricole interessate da produzioni agricolo-alimentari di qualità e/o di particolare pregio rispetto al contesto paesaggistico-culturale (art. 17, comma 1).
Esemplare, inoltre, è il caso degli insediamenti commerciali e produttivi, che spesso trovano localizzazione in zona agricola, pur essendo ad essi dedicata altra zona urbanistica (zona D). La normativa di riferimento (d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114; d.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447) appare estremamente permissiva, in quanto ammette progetti in contrasto con lo strumento urbanistico, la cui approvazione vale automaticamente come variante di esso e l’unica condizione richiesta per l’approvazione è la dimostrazione che “lo strumento urbanistico non individui aree destinate all’insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato” (art. 5, comma 1, d.P.R. n. 447/1998)[32].
Mantenendo il punto di osservazione sulla normativa di livello statale, può riscontrarsi un rinnovato interesse al tema dell’agricoltura, che tuttavia stride rispetto alla persistente emarginazione della questione delle zone agricole in senso urbanistico.
Dal primo punto di vista, può richiamarsi il filone normativo che promuove l’affidamento dei terreni abbandonati o incolti con la previsione di un vincolo di destinazione agricola. L’idea è di coniugare finalità di cura del territorio, di recupero dell’agricoltura e di promozione di iniziative imprenditoriali, con specifica attenzione all’imprenditoria giovanile. In questo senso si pone, ad esempio, l’art. 66 legge 24 marzo 2012, n. 27, di conversione del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 “Misure urgenti in materia di concorrenza, liberalizzazioni e infrastrutture”, che sancisce la dismissione di terreni demaniali agricoli e a vocazione agricola di proprietà statale, con procedure di alienazione o locazione a cura dell’agenzia del demanio; la normativa prevede il diritto di prelazione ai giovani imprenditori agricoli e il divieto di mutamento di destinazione urbanistica da quella agricola per un periodo almeno ventennale[33].
Altra prospettiva di interesse è quella che profila un collegamento privilegiato tra il recupero della destinazione agricola dei suoli e l’ambiente urbano. L’idea è che le pratiche agricole, tradizionalmente confinate nella zona esterna del centro abitato, possono produrre molteplici benefici (recupero di aree dismesse e valorizzazione degli spazi pubblici, sicurezza alimentare, cittadinanza attiva, promozione di opportunità di impresa e occupazione) nell’ambito del territorio urbanizzato o nelle immediate adiacenze. È il fenomeno dell’agricoltura urbana e periurbana, di recente attenzione anche da parte del legislatore.
Sono ancora pochi i riferimenti legislativi espliciti: così, ad esempio, la legge 14 gennaio 2013, n. 10, “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani”, che significativamente richiama gli orti tra le soluzioni funzionali all’obiettivo della “realizzazione di aree verdi permanenti intorno alle maggiori conurbazioni” (art. 3, comma 2), nonché la legge 1 dicembre 2015, n. 194, “Disposizioni per la tutela e la valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e alimentare” che cita la realizzazione di orti (didattici, sociali, urbani e collettivi) tra gli obiettivi delle cd. comunità del cibo. Il fenomeno è maggiormente avvertito a livello regionale, in cui risultano approvate alcune leggi ad hoc ovvero singole disposizioni che promuovono queste iniziative[34], mentre a livello locale molte esperienze si fondano su regolamenti comunali monotematici nonché sull’applicazione di modelli di partenariato pubblico-privato, come quelli di cui agli artt. 189-190 del codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016).
L’approccio di tipo urbanistico al tema delle zone agricole compare nel dibattito, scientifico prima che politico, sul consumo del suolo. La questione muove dalla maturata consapevolezza che il suolo sia una risorsa non inesauribile e non rinnovabile[35] e la sua indifferibilità è avvertita anzitutto a livello comunitario, come emerge da una pluralità di atti, sebbene tutti di soft law[36], essendo fallito il tentativo di approvazione di una specifica direttiva, a conferma della complessità della materia per la compresenza di interessi divergenti.
Questo dato è confermato anche dall’ordinamento statale, che è ancora privo di una legge organica in materia, nonostante i diversi disegni di legge, di iniziativa parlamentare e governativa, presentati nelle ultime legislature. Tra questi, quello che ha conosciuto un iter più avanzato è il ddl n. C.2039 intitolato “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato” (che condensa una serie di progetti presentati sin dal 2013), approvato dalla Camera in data 12 maggio 2016. Significativa è la connessione che ispira l’intero provvedimento tra il contenimento del consumo di suolo, che è riconosciuto come “bene comune e risorsa non rinnovabile”, e la salvaguardia della destinazione agricola dei suoli, nonché la priorità del riuso del suolo già edificato e della rigenerazione urbana rispetto all’ulteriore consumo di suolo inedificato[37].
Come detto, il percorso di riforma non si è tuttavia concluso nella precedente legislatura e il testo è stato riproposto nella legislatura attuale. Il ritardo del Parlamento ha portato diverse regioni a farsi carico della questione. Sono state approvate leggi ad hoc[38] o disposizioni integrative delle leggi urbanistiche[39], tutte connotate dallo stretto connubio tra valorizzazione delle aree agricole e contenimento del consumo di suolo. Le opzioni scelte dalle regioni spaziano dall’ammissibilità di espansione delle aree edificabili in zone agricola subordinata alla verifica dell’assenza di soluzioni alternative, come il ricorso ad altre zone urbanistiche ovvero il riuso del patrimonio esistente (Emilia-Romagna, Piemonte, Lombardia, Toscana, Trento e Bolzano) ovvero alla dimostrazione del completamento, per una quota significativa, delle previsioni urbanistiche di tipo edificatorio (Friuli-Venezia Giulia), alla predeterminazione delle quote di suolo consumabile (Umbria, Lombardia, Emilia-Romagna), all’aumento considerevole del contributo di costruzione (Abruzzo), alla rinuncia volontaria dei diritti edificatori (Veneto). Generalmente sono previste misure incentivanti, come la priorità nella concessione di finanziamenti, semplificazioni procedimentali, agevolazioni fiscali, riduzione del contributo di costruzione per gli interventi di riqualificazione e rigenerazione urbana.
Quella delle zone agricole resta una questione insoluta. La flessibilità concettuale può essere utile per assecondare nuove esigenze ed istanze del territorio e l’esperienza dimostra l’attivismo degli enti locali che se ne fanno interpreti attraverso il potere di pianificazione urbanistica e rispetto a queste esperienze la giurisprudenza mostra attenzione e sensibilità. Le applicazioni non sono peraltro sempre coerenti, per questo appare indifferibile una presa di posizione del legislatore. Un legislatore che, tuttavia, resta inerte a livello statale e ondivago[40] a livello regionale, diviso tra finalità di recupero dell’economia agricola e obiettivi di tutela dell’ambiente, ma anche indulgente verso la natura residuale e la vocazione all’edificabilità dell’area agricola, sganciata dai soggetti e dagli usi propriamente agricoli.
[1] G. Morbidelli, La legislazione urbanistica regionale per le zone agricole, in Riv. dir. agr., 1981, p. 55.
[2] F. Salvia – C. Bevilacqua, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2017, p. 86.
[3] P. Urbani, Le aree agricole tra disciplina urbanistica e regolamentazione dell’attività economica, in Riv. giur. edil., 2010, p. 30.
[4] P. Urbani, Governo del territorio e agricoltura. I rapporti, in Riv. giur. edil., 2006, p. 120.
[5] Ivi, p. 122.
[6] P. Urbani, La disciplina urbanistica delle aree agricole, in L. Costato – A. Germanò – E. Rook Basile (a cura di), Trattato di diritto agrario, II, Torino, 2011, p. 599.
[7] Ivi, p. 600.
[8] G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, Milano, 2010, p. 67.
[9] P. Urbani, La disciplina urbanistica delle aree agricole, cit., p. 601.
[10] Cons. Stato, sez. V, 16 ottobre 1989, n. 642, in Foro amm., 1989, p. 2710.
[11] Trib. sup. acque pubbl.,18 febbraio 1991, n. 7, in Cons. St., 1991, p. 420.
[12] Tar Puglia, Lecce, sez. III, 14 novembre 2012, n. 1881, in www.giustizia-amministrativa.it.
[13] Cons Stato, sez. VI, 19 febbraio 1993 n. 180, in Foro amm., 1993, p. 482.
[14] Cons. Stato, sez. V, 28 settembre 1993 n. 968, in Foro amm., 1993, p. 1846.
[15] Tar Lombardia, Brescia, sez. II, 13 maggio 2014, n. 494, in Riv. giur. edil., 2014, p. 831.
[16] Cons. Stato, sez. V, 1 ottobre 2010, n. 7243, in Riv. giur. amb., 2011, p. 289; Cons. Stato, sez. V, 16 giugno 2009, n. 3853, in Foro amm. CdS, 2009, p. 1496; Cons. Stato, sez. V, 26 gennaio 1996 n. 85, in Foro it., 1996, p. 440; Tar Liguria, Genova, sez. I, 14 dicembre 2016, n. 1237, in www.giustizia-amministrativa.it.
[17] Cons. Stato, sez. VI, 20 maggio 2020, n. 3202, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 3 dicembre 2018, n. 2711, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli sez. VIII, 9 aprile 2018, n. 2279, in www.giustizia-amministrativa.it.
[18] Cons. Stato, sez. V, 26 settembre 2013, n. 4755, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] Cons. Stato, sez. IV, 21 ottobre 2019, n. 7144, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. IV, 12 dicembre 2016, n. 5195, inwww.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. IV, 30 dicembre 2008, n. 6600, in Foro amm. CdS, 2008, p. 3354; Cons. Stato, sez. IV, 3 novembre 2008, n. 5478, in Riv. giur. edil., 2009, p. 162; Cons. Stato, sez. IV, 25 luglio 2007, n. 4149, in Riv. giur. edil., 2008, p. 360; Cons. Stato, sez. IV, 20 settembre 2005, n. 4828, in Riv. giur. amb., 2005, p. 95; Cons. Stato, sez. IV, 31 gennaio 2005, n. 259, in Foro amm. CdS, 2005, p. 106; Cons. giust. reg. Sicilia, 6 aprile 2018, n. 210, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lombardia, sez. II, 13 maggio 2019, n. 1065, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Toscana, Firenze, sez. I, 27 giugno 2016, n. 1090, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 9 aprile 2015, n. 903 in. www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 23 ottobre 2014, n. 5466, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Valle d’Aosta, sez. I, 2 novembre 2011, n. 73, in Foro amm., 2011, p. 3395; Tar Trentino-Alto Adige, Trento, sez. I, 6 aprile 2011, n. 105, in Foro amm. Tar, 2011, p. 1186; Tar Veneto, Venezia, sez. I, 31 marzo 2010, n. 1118, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli, sez. VII, 3 novembre 2009, n. 6825, in Foro amm. Tar, 2009, p. 3239; Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 24 giugno 2009, n. 1318, in Riv. giur. edil., 2010, p. 253. In questo senso, anche la giurisprudenza penale: ad esempio, Cass. pen., sez. III, 13 luglio 2009, n. 39078, in Dir. giur. agr., 2010, 65. Sulle ragioni teoriche a supporto della prassi amministrativa di tutela ‘urbanistica’ dell’ambiente e dell’avallo giurisprudenziale si rinvia a di P.L. Portaluri, L’ambiente e i piani urbanistici, in G. Rossi (a cura di), Diritto dell’ambiente, Torino, 2015, pp. 247 ss.
[20] Cons. Stato, sez. II, 31 agosto 2020, n. 5313, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 16 dicembre 2009, n. 2595.
[21] Cons. Stato, sez. IV, 21 ottobre 2019, n. 7144, cit.; Cons. giust. reg. Sicilia, 6 aprile 2018, n. 210, cit.; Tar Lombardia, sez. II, 13 maggio 2019, n. 1065, cit.; Tar Toscana, Firenze, sez. I, 27 giugno 2016, n. 1090, cit.
[22] Cons. Stato, sez. II, 31 ottobre 2019, n. 7459, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. IV, 24 aprile 2018, n. 2459, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lombardia, Milano, 7 maggio 2020, n. 751, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 9 aprile 2015, n. 898, in www.giustizia-amministrativa.it.
[23] Cons. Stato, sez. II, 6 ottobre 2020, n. 5917, cit.
[24] Cons. Stato, sez. II, 31 agosto 2020, n. 5313, cit.; Cons. Stato, sez. IV, 6 luglio 2009, n. 4308, in Foro amm. CdS, 2009, p. 1683.
[25] Sottolineano il punto F. Salvia – C. Bevilacqua, Manuale di diritto urbanistico, cit., p. 86; in giurisprudenza, ad esempio, Tar Lombardia, Milano, sez. II, 13 maggio 2019, n.1065, in Riv. giur. edil., 2019, p. 1093.
[26] Tar Campania, Napoli, sez. III, 7 gennaio 2020, n. 43, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Puglia, Lecce, sez. III, 14 novembre 2012, n. 1881, cit.; Tar Trentino-Alto Adige, Trento, 19 giugno 2008, n. 152, in www.giustizia-amministrativa.it.
[27] Cons. Stato, sez. IV, 19 giugno 2012, n. 3570, in Riv. giur. edil., 2012, p. 955.
[28] Cons. Stato, sez. VI, 20 maggio 2020, n. 3202, cit.; Cons. Stato, sez. II, 1 aprile 2014, n. 1065, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. IV, 19 giugno 2012, n. 3570, cit.; Cons. di Stato, sez. V, 18 settembre 2007, n. 4861, in Foro amm. CdS, 2007, p. 2487; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 9 aprile 2018, n. 2279, cit.
[29] Tar Veneto, Venezia, sez. II, 10 settembre 2007, n. 2988, in Foro amm. Tar, 2007, p. 2739.
[30] È evidente il favor per l’imprenditore agricolo, come peraltro è esplicitato nella finalità enunciata di «adeguare, incentivare e valorizzare l’attività delle aziende agricole» (art. 6-bis, comma 5).
[31] Corte cost., 22 marzo 2010, n. 119, in Giur. cost., 2010, 1324, e 11 giugno 2014, n. 166, in Riv. giur. edil., 2014, p. 927.
[32] Evidenzia che la norma è indice del «carattere intrinsecamente debole del potere urbanistico – specie quando viene in rapporto con interessi forti (quali appunto quelli legati alle grandi reti commerciali) –», F. Salvia, Manuale di diritto urbanistico, Padova, 2012, p. 82.
[33] Per una prima applicazione v. il d.m. 20 maggio 2014 (cd. decreto Terrevive). Il sostegno all’imprenditoria giovanile nel settore agricolo è perseguito dal legislatore statale con un’altra opzione, quella di favorire forme di affiancamento nell’attività di impresa agricola dei giovani agricoltori a quelli anziani, allo scopo del graduale passaggio della gestione d’impresa ai giovani: in questo senso il legislatore ha conferito delega al Governo per l’adozione di un apposito decreto legislativo con l’art. 6 d.lgs. 154/2016, delega che non è stata attuata, ma il contenuto dispositivo è stato ripreso dalla legge di bilancio 2018 con la disciplina del cd. contratto di affiancamento (legge 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, commi 119-120). Il tema è ripreso a livello regionale, in cui rileva anche quel filone normativo istitutivo delle cd. banche della terra, che implicano un censimento dei beni agricoli (terreni abbandonati, incolti o silenti e fabbricati dismessi), di proprietà pubblica e privata dichiarati disponibili per operazioni di locazione o di concessione: l.r. Toscana, 27 dicembre 2012, n. 80; l.r. Sicilia, 28 gennaio 2014, n. 5; l.r. Liguria 11 marzo 2014, n. 4; l.r. Veneto 8 agosto 2014, n. 26; l.r. Molise, 5 novembre 2014, n. 16; l.r. Lombardia, 26 novembre 2014, n. 30; l.p. Trento, 4 agosto 2015, n. 15; l.r. Abruzzo, 8 ottobre 2015, n. 26; l.r. Campania, 13 giugno 2016, n. 21; l.r. Lazio, 10 agosto 2016, n. 12; l.r. Friuli-Venezia Giulia, 29 dicembre 2016, n. 25; l.r. Puglia, 29 maggio 2017, n. 15; l.r. Basilicata, 14 dicembre 2017, n. 36. In dottrina v., specialmente, G. Strambi, La questione delle terre incolte e abbandonate e le leggi sulle “banche della terra”, in Riv. dir. agr., 2017, pp. 599 ss.
[34] L.p. Trento 26 gennaio 2018, n. 2, “Istituzione, promozione e finanziamento degli orti didattici in Trentino”; l.r. Liguria, 29 novembre 2018, n. 23, “Disposizioni per la rigenerazione urbana e il recupero del territorio agricolo”, art. 3, comma 1, n. 8; l.r. Veneto, 6 giugno 2017, n. 14, “Disposizioni per il contenimento del consumo di suolo e modifiche della legge regionale 23 aprile 2014, n. 11 “Nome per il governo del territorio e in materia di paesaggio”, art. 8, comma 2; l.r. Lombardia, 3 luglio 2015, n. 27, “Gli orti di Lombardia. Disposizioni in materia di orti didattici, urbani e collettivi”; l.r. Toscana, 28 dicembre 2015, n. 82, legge finanziaria per il 2016, art. 1 «Centomila orti in Toscana». Sul fenomeno degli orti urbani, v., specialmente, M. Gola, Pianificazione urbanistica e attività economiche. Cibo e spazio urbano: urbanistica e mercati agroalimentari, in Rivista giuridica dell’edilizia, 2016, pp. 210 ss.
[35] In dottrina si veda, soprattutto, G.F. Cartei – De Lucia (a cura di), Contenere il consumo del suolo. Saperi ed esperienze a confronto, Napoli, 2014; E. Boscolo, Il suolo quale matrice ambientale e bene comune: il diritto di fronte alla diversificazione della funzione pianificatoria, in Scritti in onore di Paolo Stella Richter, II, Napoli, 2013, pp. 1101 ss.; Id., Beni comuni e consumo di suolo. Alla ricerca di una disciplina legislativa, in www.pausania.it, 2014; P. Urbani, A proposito della riduzione del consumo di suolo, in www.astrid-online.it/rassegna, 2016; W. Gasparri, Consumo di suolo e sviluppo sostenibile nella destinazione agricola dei suoli, in Dir. pubbl., 2020, pp. 421 ss.
[36] Si vedano, ad esempio, Comunicazione della Commissione del 22 settembre 2006, Strategia tematica per la protezione del suolo, COM(2006) 231 def.; Comunicazione della Commissione del 20 settembre 2011, Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse, COM(2011) 571 def.; Documento di lavoro dei servizi della Commissione del 15 maggio 2012, Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo, SWD(2012) 101 final/2.
[37] La vocazione agricola dei suoli costituisce interesse primario e diretto del disegno di legge e la sua tutela assume una triplice valenza: il mantenimento della superficie agricola garantisce la produzione agricola utile per soddisfare il fabbisogno alimentare nazionale, nonché la preservazione delle connotazioni paesaggistiche e ambientali del territorio e un freno ai processi di consumo del suolo. Peraltro, è data una nozione ampia di “terreno agricolo”, in quanto sono considerati tali non solo quelli così qualificati dagli strumenti urbanistici, ma anche le aree di fatto utilizzate a scopo agricolo, indipendentemente dalla loro destinazione urbanistica, nonché le aree comunque libere da edificazioni e infrastrutture. È previsto il coordinamento delle misure previste per il contenimento del consumo di suolo con le politiche e gli strumenti di pianificazione paesaggistica e urbanistico-territoriale. Questi ultimi devono recepire i limiti quantitativi, fissati a livello statale, di consumo di suolo ammissibile, limiti che, a loro volta, devono essere conformi alle previsioni dei piani paesaggistici. La determinazione dei limiti quantitativi per la progressiva riduzione del consumo di suolo deve tendere, peraltro, al graduale azzeramento del consumo in coerenza con quanto stabilito dalla Commissione europea circa il traguardo da raggiungere (consumo zero) entro il 2050. Inoltre, spetta agli strumenti pianificatori l’individuazione delle aree già interessate da processi di edificazione, ma inutilizzate o suscettibili di recupero, quale presupposto per le iniziative di rigenerazione urbana. Ulteriori misure sono il divieto di mutamento, per un periodo non inferiore a cinque anni, della destinazione d’uso agricolo delle aree che hanno usufruito di aiuti di Stato o finanziamenti europei e il connesso divieto di interventi di trasformazione urbanistica o edilizia non funzionali all’attività agricola, ad eccezione della realizzazione di opere pubbliche, nonché le misure di natura premiale (priorità nella concessione di finanziamenti, misure di semplificazione, incentivi fiscali, ecc.) a favore dei comuni virtuosi – nonché dei soggetti privati –, particolarmente orientati verso la rigenerazione urbana e il contenimento del consumo del suolo.
[38] L.r. Puglia, 30 aprile 2019, n. 18, “Norme in materia di perequazione, compensazione urbanistica e contributo straordinario per la riduzione del consumo di suolo e disposizioni diverse”; l.r. Abruzzo, 1 agosto 2017, n. 40, “Disposizioni per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Destinazioni d’uso e contenimento dell’uso del suolo, modifiche alla l.r. 96/2000 ed ulteriori disposizioni”; l.r. Veneto, 6 giugno 2017, n. 14, “Disposizioni per il contenimento del consumo di suolo e modifiche della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”; l.r. Friuli-Venezia Giulia, 25 settembre 2015, n. 21, “Disposizioni in materia di varianti urbanistiche di livello comunale e contenimento del consumo di suolo”; l.r. Lombardia, 28 novembre 2014, n. 31, “Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato”; l.r. Puglia 20 maggio 2014, n. 26, “Disposizioni per favorire l’accesso dei giovani all’agricoltura e contrastare l’abbandono e il consumo dei suoli agricoli”; l.r. Abruzzo, 28 aprile 2014, n. 62, “Legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo” (sebbene dichiarata incostituzionale da Corte cost., 10 marzo 2015, n. 55, in Giur. cost., 2015, 486).
[39] L.r. Emilia-Romagna, 21 dicembre 2017, n. 24; l.p. Trento, n. 15/2015; l.r. Sardegna, 23 aprile 2015, n. 8; l.r. Marche, 13 aprile 2015, n. 16; l.r. Liguria, 2 aprile 2015, n. 11; l.r. Veneto, 16 marzo 2015, n. 4; l.r. Piemonte, 11 marzo 2015, n. 3; l.r. Umbria, n. 1/2015; l.r. Toscana, n. 65/2014; l.p. Bolzano, 19 luglio 2013, n. 10; l.r. Calabria, 10 agosto 2012, n. 35.
[40] Sottolineano il carattere oscillante e incoerente della legislazione regionale F. Salvia – C. Bevilacqua, Manuale di diritto urbanistico, cit., p. 87.
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