ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Magistratura giustizia società di Renato Rordorf: uno strumentario prezioso per il giurista del terzo millennio
di Claudio Scognamiglio
Sommario: 1. Magistratura giustizia società: una proposta di lettura - 2. ‘Sottrarre peso agli oggetti’: la spiegazione della realtà giuridica per mezzo di formule semplici - 3. La ‘rapidità’: un’indicazione di metodo per il ragionamento del giurista - 4. La ‘esattezza’: il linguaggio del giudice e la sua importanza nell’esercizio della giurisdizione - 5. La ‘visibilità’: un monito per il giurista - 6. La ‘molteplicità’: il giurista e la complessità del reale - 7. La ‘coerenza’ in Magistratura giustizia società: per una reale ‘consistenza’ della parola Giustizia.
1. Magistratura giustizia società: una proposta di lettura
Leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, coerenza: le parole intorno alle quali Italo Calvino, nelle ‘Lezioni americane’, aveva sviluppato – ovvero, quanto all’ultima, come diremo, solo pensato di aggregare – le sue “Sei proposte per il nuovo millennio” sono tornate alla mente di chi scrive quando, ultimata la lettura del volume di Renato Rordorf, Magistratura giustizia società (Cacucci, 2020), si è trovato a riorganizzare le note, le schede e gli appunti, che si erano venuti affollando intorno ai trentasei capitoli di cui si compone l’opera.
L’accostamento può sembrare, a prima vista, del tutto arbitrario, posto che Italo Calvino – a voler arrestarsi qui ad un primo livello di lettura delle ‘Lezioni’ – si proponeva con esse di consegnare al nuovo millennio un sistema di valori letterari che potessero risultare fondativi di esso; e certo non aveva, né poteva avere, a mente “tutti coloro che si adoperano perché la Giustizia non suoni come una parola vuota”, per riprendere l’evocativa dedica, ed esergo, del volume intorno al quale si svolgeranno queste notazioni. Esso diventa tuttavia meno implausibile già ove si consideri che, come ha dimostrato da tempo il metodo di analisi della law and litterature, vi è un intimo collegamento tra diritto e letteratura, essendo l’uno all’altro strettamente connessi proprio perché entrambi fondati e dipendenti sul linguaggio. Lo stesso libro del quale intendiamo qui discorrere (p. 263), ricorda, per il tramite di una citazione di un’opera di Martha Nussbaum che si inserisce nell’indirizzo metodologico appena evocato, “come la razionalità economica, nei suoi postulati rigorosamente seriali ed impersonali, non esaurisca mai l’intera complessità dell’atto del giudicare, in quanto il buon giudice, per essere veramente razionale, deve sapere altresì percepire e valutare, anche grazie all’educazione letteraria ed umanistica, l’intera gamma dei sentimenti, delle motivazioni e delle pulsioni che di volta in volta governano l’agire delle persone”.
D’altra parte, è noto che la riflessione critica sulle ‘Lezioni’ di Italo Calvino ha colto in esse, ben al di là di un semplice testo di critica letteraria, la capacità di antivedere gli snodi principali del dibattito culturale al passaggio tra secondo e terzo millennio. Sotto questo profilo, è la stessa linea ispiratrice di fondo della Biblioteca di cultura giuridica, nella quale ha trovato ospitalità il volume, a richiamare la nostra attenzione sulla circostanza che “il sapere giuridico è parte integrante della cultura di una società e per evolversi ha bisogno di una continua interazione con altri saperi”, così legittimando ulteriormente l’idea di svolgere un’analisi di Magistratura giustizia società attraverso una griglia cognitiva qual è quella offerta dalle lezioni calviniane.
2. ‘Sottrarre peso agli oggetti’: la spiegazione della realtà giuridica per mezzo di formule semplici
La leggerezza, dunque, e per cominciare.
La concretizzazione di questo valore si risolve in quell’operazione descritta da Calvino in termini di sottrazione di peso sia agli oggetti della sua narrazione, sia alla struttura del racconto e del linguaggio e che esprimeva, attraverso il mito di Perseo, l’idea che il compito della letteratura sia quello di dare uno sguardo indiretto, non già diretto, sulla realtà. Una realtà che non viene tuttavia per questo dimenticata, tanto che, nella prima lezione, ed in chiave antitetica alla leggerezza, trova spazio pure la pesantezza, che della realtà è appunto espressione.
Se, come è stato sottolineato, la leggerezza di Calvino, si estrinseca anche come capacità di esplicazione della realtà del mondo attraverso formule sempre più semplici, ecco che un esempio di leggerezza, intesa nel senso appena evocato ed applicata al discorso giuridico, mi sembra offerto dalle pagine del capitolo 13 dedicate a ‘La responsabilità civile in evoluzione ed i ‘danni punitivi’’, inserite all’interno della parte II, a sua volta intitolata “Giudici, leggi, società”. Infatti, l’illustrazione dell’evoluzione normativa e dell’approdo giurisprudenziale - che, secondo una formulazione largamente condivisa, può essere descritto in termini di apertura alla concezione polifunzionale della responsabilità civile - restituisce, in poche pagine, un’immagine nitida dell’assetto attuale dell’istituto aquiliano dal punto di vista della curvatura che può assumere la condanna risarcitoria; e perviene all’affermazione che i danni, o i risarcimenti, punitivi “non costituiscono una categoria giuridica generale, di cui l’interprete possa avvalersi liberamente nella determinazione del quantum del risarcimento (onde è superfluo indugiare sugli eventuali esiti applicativi), bensì un agglomerato di specifiche fattispecie diverse di volta in volta previste dal legislatore”. Viene così proposta una soluzione dove l’argomentare “per sottrazione di peso” alla stratificazione che ha assunto, negli ultimi decenni, il discorso sulle funzioni della responsabilità civile, si associa efficacemente con i valori della “precisione e della determinazione”, che Italo Calvino vedeva come complementi indispensabili della sua idea di leggerezza.
3. La ‘rapidità’: un’indicazione di metodo per il ragionamento del giurista
La ‘rapidità’ parrebbe, a prima vista, accanto alla ‘visibilità’, della quale diremo tra breve, la proposta calviniana meno compatibile con il ragionamento del giurista e, dunque, tanto più con quello di un giurista rigoroso come Renato Rordorf: almeno a voler restare al primo approccio a questo ‘valore’ letterario che Calvino propone nelle Lezioni, sottolineando che “la rapidità dello stile e del pensiero vuol dire agilità, mobilità, disinvoltura, tutte caratteristiche di una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento all’altro, a perdere il filo cento volte e a ritrovarlo dopo cento giravolte”.
Infatti, benché Renato Rordorf, nella introduzione (p. 12), con un tratto di signorile understatement, individui l’origine dei capitoli che compongono l’opera non già in“riflessioni svolte in modo sistematico, all’interno di un quadro di pensiero organico e con intenti propriamente speculativi”, ma in “pensieri scaturiti dall’agire quotidiano nel mondo della giurisdizione”, ancorché poi riordinati e, ove necessario, aggiornati, coglie senz’altro nel segno la notazione di chi (Nello Rossi, Magistratura giustizia società, sul libro di Renato Rordorf, in Questione Giustizia, 23 maggio 2020) ha scherzosamente smentito sul punto l’Autore del volume anche in quella sede recensito, sottolineando che “man mano che si procede nella lettura l’impressione che il lettore ricava è quella - esattamente opposta - di trovarsi di fronte ad un insieme di pensieri e di argomentazioni estremamente organico, perché ispirato e sorretto in ogni singolo passaggio da una visione coerente ed unitaria del diritto e della giustizia”.
Tuttavia, uno degli scrittori che Calvino cita per esemplificare il valore della rapidità ci fa comprendere come questo termine abbia un arco di significati assai più ricco di quello più sopra evocato: il riferimento è alla citazione del Saggiatore di Galileo Galilei, che conduce Calvino a chiosare che “la rapidità, l’agilità del ragionare, l’economia degli argomenti, ma anche la fantasia degli esempi sono la qualità del pensar bene”. Sono parole che potrebbero ben essere utilizzate a loro volta a mo’ di commento di parecchi tra gli snodi dell’opera che ha dato lo spunto a queste considerazioni. Basti pensare ai capitoli che compongono la parte IV del volume, “Corte di Cassazione e nomofilachia”, e che rappresentano in un certo senso il precipitato di uno degli aspetti forse più qualificanti del ricchissimo percorso professionale dell’Autore: quello che lo ha portato ad essere, per anni, prima Consigliere di Cassazione, poi Presidente della I sezione civile della Suprema Corte ed infine Primo Presidente aggiunto della stessa. In particolare, nel capitolo dedicato al precedente, lo sviluppo del discorso trascorre dal rapporto tra ‘Precedenti e nomofilachia’ alla riflessione circa la portata del precedente, quando si tratti di concretizzare i principi di diritto e le clausole generali, fino alla posizione, nella prospettiva di una questione di metodo, del problema del c.d. precedente influente. E di un pensiero agile, nel senso in cui Calvino descriveva quello di Galilei, viene fatto di parlare, tra l’altro, nel passaggio (p. 354) in cui l’Autore chiarisce, in pochi tratti, il modo in cui l’argomentazione sulla base dei precedenti opera quando vengano in considerazione le clausole generali, poiché allora “anche i principi di diritto ed i precedenti che li veicolano, si possono…intendere soltanto avendo riguardo ai singoli casi in cui la clausola potrebbe essere ed è stata effettivamente applicata”: ciò che rende necessario, ad avviso dell’Autore, utilizzare qui “piuttosto un criterio di riconduzione – la riconduzione del caso da decidere nel quale la medesima clausola generale ha trovato applicazione – che non…compiere una mera operazione di sussunzione del caso in esame sotto l’egida di una regula juris già in astratto ben chiarita dalla precedente interpretazione”. Così come dello stesso valore dell’agilità, intesa nel modo poc’anzi illustrato, sono espressione le righe (p. 357) nelle quali Renato Rordorf legge, dal punto di vista del giudice, il confronto con i precedenti più ancora che come “un vincolo al possibile contenuto della futura decisione…come un’esigenza di metodo”; ed in questa prospettiva rimarca che “non si può pensare di decidere una vertenza senza avere ricercato eventuali precedenti” - essendo questa una manifestazione, nella migliore delle ipotesi, di una inammissibile superbia intellettuale - così come non si deve guardare al precedente quasi fosse “una comoda scorciatoia”, tale da “esonerare da un maggiore sforzo di riflessione, dovendo invece il giudicante sempre vagliarne la pertinenza (con la tecnica del distinguishing) e la persuasività (in vista di un eventuale overruling)”.
4. La ‘esattezza’: il linguaggio del giudice e la sua importanza nell’esercizio della giurisdizione
Quando si passa a discorrere della ‘esattezza’, e di due, in particolare, delle tre declinazioni che ne descrive Calvino (sul piano del disegno dell’opera, che deve essere ben definito e ben calcolato, e su quello della scelta del linguaggio, affinché questo sia il più possibile preciso come lessico, così da rendere le sfumature del pensiero), il gioco di rimandi, dalle proposte calviniane all’opera della quale stiamo qui discorrendo, diventa assai più agevole.
Si è già detto del disegno complessivo del volume; e non è superfluo soggiungere (nel solco di una notazione proposta anche da un altro recensore di esso: Vincenzo Antonio Poso, in Judicium, La lezione di prudentia nell’esercizio della giurisdizione di un giurista aristocratico. Renato Rordorf) che esso è articolato sulla base di una sequenza progressiva della numerazione dei capitoli destinata a rafforzare, anche dal punto di vista puramente espositivo, l’idea di un disegno, appunto, ben definito e calcolato. Idea che trova, poi, una puntuale conferma pure nell’ordito dell’opera, caratterizzato da un gioco di rinvii impliciti interni che pongono sempre al centro del discorso il ruolo, e la responsabilità (e, dunque, anche i limiti), del giudice nella elaborazione della regola da applicare al caso concreto: che è, poi, il modo più lineare di concretizzare la funzione del diritto, la quale è appunto quella, parafrasando il titolo di una nota opera di Twining e Miers, di ‘fare cose’, e dunque risolvere problemi, con regole. Si pensi, ad esempio, in questa prospettiva, al capitolo 1 della parte I, e ad una delle conclusioni alle quali in esso perviene l’Autore, laddove (p. 24) afferma che “certamente non è la giurisprudenza a creare i diritti fondamentali, ma…il rango ad essi spettante ed il grado della loro effettività sono in larga misura dipendenti dal modo in cui le corti nazionali e quelle sovranazionali europee riescono a dialogare tra loro”. E si consideri ancora il capitolo 10 della parte II, nel quale, soffermandosi sul tema della prevedibilità delle decisioni giudiziarie anche alla luce dell’utilizzazione di sistemi di giustizia c.d. robotica, auspicati da qualcuno, si osserva (pp. 94 - 95) che “è sacrosanto…cercare di ricondurre il più possibile le decisioni giurisdizionali a criteri razionali che ne consentano la tendenziale prevedibilità, ma a patto di riconoscere che si tratta appunto pur sempre di una prevedibilità tendenziale, e perciò relativa, destinata eventualmente a recedere di fronte alla necessità di adeguare il giudizio alle peculiarità di ciascun singolo fatto”.
Sul piano del linguaggio, se ovviamente in uno studioso del livello di Renato Rordorf sarebbe davvero un fuor d’opera soffermarsi sulla precisione tecnica del linguaggio del giurista, può invece essere utile, a beneficio di chi stia per accostarsi all’opera, sottolineare il registro linguistico nitido, oltre che elegante, per mezzo del quale l’Autore accompagna il lettore, sia che si tratti di ripercorrere (pp. 19 – 27) la formazione dell’idea di diritti fondamentali, sia che il discorso verta sui problemi di regolazione del mercato, tratteggiati nella dimensione dell’esperienza europea e nordamericana (pp. 188 – 190), sia che l’esposizione si addentri nella complessa materia della disciplina delle società pubbliche tra inquadramento privatistico e normativa pubblicistica (pp. 309 – 323). E che Renato Rordorf sia ben consapevole del fatto che il diritto ha bisogno di esprimersi con parole, che siano al tempo stesso lessicalmente, e dunque tecnicamente, precise, ma anche tali da poter essere facilmente intese dai “destinatari del servizio giustizia”, senza che coloro i quali quel servizio amministrano siano “percepiti come una casta di mandarini che prendono decisioni in base a criteri esoterici, imprevedibili ed imperscrutabili” (p. 394) emerge limpidamente dalle pagine finali del volume, sul ‘linguaggio della Corte di cassazione’: pagine che meritano di essere ricordate anche per il nesso che condivisibilmente istituiscono tra la fiducia che i giudici sono in grado di suscitare nei cittadini e l’assetto democratico della giurisdizione (argomento che, da altro angolo visuale, trova un suo punto di emersione nel capitolo 18, dedicato a ‘Il Consiglio superiore della Magistratura’).
5. La ‘visibilità’: un monito per il giurista
Si è già accennato che, accostandoci alla ‘visibilità’, l’idea, che chi scrive ha fin qui coltivato, di offrire una lettura per scorci del volume di Renato Rordorf, ‘traguardato’, per così dire, per mezzo delle proposte di Calvino, rischia decisamente di apparire una forzatura; nella misura in cui Calvino, nella lezione corrispondente, si interroga sul valore dell’immaginazione visiva nell’elaborazione del pensiero umano, e cioè su un aspetto di quest’ultimo che sembra davvero estraneo al metodo del giurista.
Tuttavia, se si considera che la preoccupazione che, sul punto, muoveva Calvino era quella di offrire allo scrittore del XXI secolo uno strumento per districarsi dalle immagini che piovono continuamente nella fantasia dell’uomo contemporaneo, forse non è azzardato trasporre questa indicazione sul piano del ragionamento del giurista, chiamato ad indirizzare il proprio ragionamento scansando il rischio dell’argomentazione suggestiva ma che possa rappresentare un’affrettata fuga in avanti rispetto all’assetto attuale del sistema.
In questa prospettiva, è ancora una volta esemplare l’equilibrio con cui Rordorf si muove all’interno di una questione che, proprio nelle settimane immediatamente successive alla pubblicazione del volume, ha dato luogo ad un’importante ordinanza delle Sezioni Unite della Suprema Corte (il riferimento è a Cass. S.U. 18 settembre 2020 n. 19598), con la quale è stata sottoposta alla Corte di Giustizia una questione pregiudiziale che, al di là delle sue articolazioni tecniche – sulle quali non è possibile soffermarsi in questa sede – investe in pieno due snodi del discorso per l’illustrazione dei quali ci si può avvalere ancora una volta della guida dell’Autore (p. 379): e cioè “se la violazione del diritto eurounitario, quando si traduca nel diniego da parte del giudice di esaminare nel merito una vertenza della quale egli dovrebbe invece conoscere abbia di per sé carattere tale da generare una questione inerente alla giurisdizione” ed ancora “se inerisca alla giurisdizione una questione concernente il mancato rinvio pregiudiziale, obbligatorio per il giudice nazionale di ultima istanza, alla Corte di Giustizia quando sia in gioco l’interpretazione di norme del diritto dell’Unione”. Nelle pagine dedicate al tema (di tale, bruciante attualità da essere oggetto, poco dopo la pronuncia poc’anzi rammentata, di un altro intervento a Sezioni Unite, per mezzo dell’ordinanza di Cass. 30 ottobre 2020 n. 24107, ad una prima lettura divaricata rispetto alla precedente, ma in effetti molto precisa nell’operare il distinguishing da essa, senza disattenderne radicalmente le enunciazioni), l’Autore del volume, molto sobriamente ed appunto senza cedere alle suggestioni pure promananti dal calibro degli argomenti in gioco, osserva, così anticipando, in un certo senso, quanto sarebbe accaduto, di lì a pochi mesi, soprattutto per mezzo della prima delle ordinanze poc’anzi menzionate, che “il pendolo non ha ancora trovato il suo definitivo punto di arresto (p. 383).
6. La ‘molteplicità’: il giurista e la complessità del reale
L’idea di ‘molteplicità’ che emerge dalla lezione di Calvino in argomento è quella che ogni elemento della realtà è un groviglio di relazioni, di nessi, di legami: cosicché l’osservatore dovrebbe abbandonare la visione frontale dell’oggetto, che rischia di lasciarlo distante e passivo di fronte ad esso, per riguardare lo stesso da ogni angolo visuale che sia appunto in grado di restituire l’idea della complessità del reale. Ed in effetti anche nel discorso del giurista il confronto con la complessità del sistema costituisce un passaggio quasi ineludibile di ogni riflessione, almeno a partire da quando Angelo Falzea ha dedicato alla complessità giuridica una voce giustamente celebre (Complessità giuridica, in Enc. dir., Annali, I, Milano, 2007), inaugurando, così, una stagione di scritti che, negli ultimi contributi in argomento, esibisce una consapevolezza particolare dell’articolazione del sistema delle fonti e della decostruzione delle categorie tradizionali del pensiero giuridico (si veda, ad esempio, M. Trimarchi, Complessità e integrazione delle fonti nel diritto privato in trasformazione, in Jus civile, 2017, 5, 393 ss).
Anche in questo caso, la possibilità di utilizzare la proposta di Calvino come un filtro attraverso il quale leggere le pagine di Renato Rordorf appare, almeno a chi scrive, davvero evidente. Basti considerare tutta la parte I, dove quella che potremmo definire la dogmatica dei diritti fondamentali si articola in una sequenza serrata (pp. 45 – 77: dalle diseguaglianze ai beni comuni; dal diritto dei disabili all’ospite straniero; dal multiculturalismo al duro carcere) delineando – appunto, in tutta la sua complessità – l’immagine di una società nella quale la protezione di questi diritti è affidata ad una disciplina normativa multilivello, mediata dal dialogo tra corti nazionali e corti europee. E si vedano ancora le pagine dalle quali emerge la consapevolezza del ruolo del giudice in un sistema delle fonti sempre più articolato e mosso: come, in particolare, laddove (p. 86) l’Autore sottolinea che lo spazio sussistente “tra l’enunciato della regola e la realtà fattuale cui essa deve di volta in volta applicarsi” è divenuto più arduo da colmare, “sia perché la realtà è assai più dinamica che in passato ed offre sempre nuovi profili non facilmente riconducibili all’astratta previsione legale, sia perché le leggi sono meno organiche e sistematiche anche in conseguenza del moltiplicarsi e del sovrapporsi delle fonti di diritto nazionali o sovranazionali” e trae da questa premessa il corollario che “ciò ha finito per esaltare la dimensione integrativo – creatrice della giurisprudenza. La quale, però, pur costretta a ricercare la propria rotta in una difficile navigazione tra regole e principi, non può mai affrancarsi dalla necessità di fondare le proprie decisioni su una base legale, per mal certa che sia”. Oppure quando Rordorf, ponendosi di fronte all’interrogativo su a che cosa serva la Corte di Cassazione, offre un’immagine dialettica della costruzione della nomofilachia (p. 329), affidata al dialogo, oltre che con la dottrina, anche con la giurisprudenza di merito, poiché da quest’ultima “non foss’altro per il suo essere più immediatamente a contatto con la mutevole realtà sociale…spesso provengono le più stimolanti sollecitazioni al cambiamento”: una costruzione tale da consentire l’emersione di “isole d’ordine” (espressione che l’Autore mutua da uno scritto di Taruffo), “sia pure instabili e provvisorie”. E che quella appena evocata, della costruzione dialettica della nomofilachia, non resti un’enunciazione meramente astratta si coglie nelle pagine (pp. 252 – 253) dove il problema dell’usurarietà sopravvenuta viene scrutinato anche per mezzo del richiamo a pronunce dell’Arbitro bancario e finanziario.
7. La ‘coerenza’ in Magistratura giustizia società: per una reale ‘consistenza’ della parola Giustizia
L’ultima delle lezioni americane di Calvino è rimasta, com’è noto, incompiuta e di essa conosciamo solo il titolo, in inglese consistency, della cui più appropriata traduzione – se ‘consistenza’ o ‘coerenza’ – si è lungamente discusso nella critica, pervenendosi, infine, ed in larga maggioranza a ritenere preferibile la traduzione in termini di ‘coerenza’. Non sappiamo, dunque, con certezza cosa volesse esprimere Calvino con quella parola e non sarebbe qui certamente il luogo anche solo per accennare alle diverse interpretazioni che sono state proposte.
È invece certo che, stando al significato più immediato e del linguaggio comune del termine coerenza, il volume di Rordorf è davvero, e potentemente, coerente. Esso, infatti, ad avviso di chi scrive, rinviene un tratto unificante proprio nel punto di vista e nell’esperienza di chi, come l’Autore, si è sempre adoperato, in tutti i passaggi della sua carriera – anche in quelli che lo hanno visto operare come commissario della Consob e come componente di commissioni chiamate ad elaborare testi normativi di grande rilievo (dalla c.d. commissione Draghi per la predisposizione del testo unico sulla finanza alla commissione cui si deve l’elaborazione della bozza di riforma del diritto della crisi d’impresa, che ha posto capo alla L. 155/2017: esperienza, questa, che trova punti di emersione nei capitoli 27, 28 e 29, pure con cenni alla tragica contingenza della pandemia in atto) – per dare pienezza alla parola Giustizia e che ora ci ha voluto offrire, nel volume qui recensito, la testimonianza di questo suo così ricco percorso professionale. In questa prospettiva, debbono essere, a mio avviso, letti i capitoli, inseriti nella parte II, dove, ad esempio, di uno snodo all’apparenza soltanto organizzativo – come quello de ‘La formazione dei magistrati e la Scuola superiore della magistratura – si coglie il legame con la costruzione di una figura di magistrato che non sia solo “un raffinato conoscitore delle norme giuridiche e di come esse si rapportano concettualmente tra loro, ma anche che abbia un’adeguata comprensione dei molteplici aspetti – economici, sociali, psicologici, in breve: umani – della realtà su cui l’interpretazione e l’applicazione di quelle norme sono destinate ad incidere”. Ed allora davvero, per ‘giocare’ sulla duplice, possibile traduzione, del termine consistency, della quale poc’anzi si diceva, qui la coerenza del volume di Renato Rordorf dà una piena consistenza alla parola Giustizia, richiamata nella dedica/esergo dell’opera.
Parafrasando ancora, e per l’ultima volta, le Lezioni americane, se esse avevano lo scopo di offrire a quel viaggiatore nel tempo, che tanto spesso era stato protagonista della narrativa di Calvino, un bagaglio agile ed essenziale per approdare nel terzo millennio, Magistratura giustizia società mette a disposizione del giurista, che nel terzo millennio vive ormai da due decenni, uno strumentario davvero prezioso per orientarsi adeguatamente in un sistema che, come ricorda il volume in un passaggio in parte già menzionato, pare ormai a taluni così complesso da doversi definire senz’altro caotico; ma che la passione civile ed il rigore intellettuale di Renato Rordorf possono aiutare ciascuno di noi a rendere, quanto meno, più intelligibile.
Addio 2020
di Bruno Capponi
Nel generale sollievo, l’anno 2020 volge al termine. Che ricordi lascia, l’annus horribilis, all’operatore della giustizia civile?
Il legato forse più evidente è la conclamata incapacità del legislatore – e in particolare del Governo, che una volta tanto era stato chiamato a decretare per fronteggiare davvero «casi straordinari di necessità e d’urgenza» (art. 77, comma 2, Cost.) – di concepire norme chiare e di generale applicazione, vòlte a rendere meno distruttivo l’impatto della pandemia sulla realtà già asfittica dei nostri processi civili. I magistrati amministrativi degli uffici legislativi – abituati a concepire elaboratissimi dispositivi che entrano in vigore promettendo di divenire efficaci se e quando vedranno la luce i decreti delegati, i regolamenti attuativi, i provvedimenti amministrativi, i riordini, le ridefinizioni, i termini pluriprorogati etc.: ovviamente, se e quando l’attenzione politica sarà stata mantenuta viva – non tengono il passo di ciò che serve ora, anzi serviva già ieri. Spesso la terminologia utilizzata nei testi dell’emergenza è quella grezza dell’uomo della strada: e sarebbe troppo facile ironizzare, come molti si sono divertiti a fare, sull’uso di questa o quella espressione per richiamare istituti che nei codici hanno rigorose definizioni “tecniche”. Meglio prendere atto che, nonostante l’art. 12 disp. prel., l’intentio prevale sempre sulla littera, allorché ci si appresti a interpretare i corpora legum emergenziali: e il dato prepotentemente emergente – su cui c’è davvero poco da scherzare – è la lontananza, non soltanto lessicale, rispetto al problema da regolare (cioè: la questione non è tanto quella di dire «inefficace» un’intera procedura, quanto di capire quali ne siano le conseguenze, ora e nel futuro); ciò che ha indotto i magistrati ordinari della trincea – è il solito gioco della supplenza – a far da soli: emanando direttive, circolari, deliberati a firme congiunte, grida della sezione, “editti”, che hanno cominciato a invadere le schermate delle riviste on line. Spesso chiamati decreti, si tratta in realtà di provvedimenti di organizzazione (in senso lato) che non somigliano affatto a quelli di cui parla l’art. 135 c.p.c., perché non somigliano affatto a provvedimenti giurisdizionali. In questo modo le regole si sono frantumate ufficio per ufficio, sezione per sezione, stanza per stanza, territorio per territorio. Conseguenza inevitabile dell’assenza di un congruo reticolo di regole valide per tutti. Ma, così galleggiando sull’emergenza, il giudice s’è abituato a dettare le regole processuali che valgono dinanzi a sé: esattamente quanto l’art. 111, comma 1, Cost., vorrebbe impedire, parlando di processo «giusto … regolato dalla legge».
Altro dato prepotentemente emerso è la mancanza di informatizzazione della Corte di cassazione e degli Uffici del giudice di pace. Fenomeno inspiegabile, quantomeno per il vertice della nostra giurisdizione che ospita da sempre, col CED, uno degli esempi più apprezzati di elaborazione sistematica dei dati giurisprudenziali: l’informatizzazione avrebbe dovuto partire dal vertice, non lasciarlo triste fanalino di coda.
La Corte ha risposto con provvedimenti di autorganizzazione (l’ultimo, se non erro, è quello in data 26 novembre 2020 del primo presidente prot. n. 2906/2020/1, sull’accesso degli utenti e la regolamentazione dei servizi) e con nuovi “protocolli”, anomale fonti che già avevamo conosciuto, con efficacia para-normativa (evoluzione della soft-law da sinteticità e chiarezza, che pure inizia a mietere le prime vittime da inammissibilità), dopo la riforma estiva del 2012, che qualcosina aveva trascurato, e che impegnano i vertici della Cassazione, della Procura generale, dell’Avvocatura dello Stato e del Consiglio Nazionale Forense. Norme calate dall’alto, discusse con nessuno, autorizzate da nulla. Fonti a volte contraddittorie: ad es., nel protocollo in data 9 aprile 2020 veniva precisato (art. 6) che «la trasmissione della copia informatica dell’originale cartaceo non sostituisce il deposito nelle forme previste dai codici di rito, civile e penale»; ma con successivo protocollo in data 18 novembre 2020 è stato stabilito che le memorie e le conclusioni del PG vengono depositate in via telematica, con scambio diretto tra i difensori, i quali «avranno cura di conservare l’originale cartaceo, che verrà depositato nelle forme di rito per l’inserimento nel fascicolo d’ufficio». Si tratta di un futuro indeterminato e forse anche eventuale, non potendosi cogliere l’utilità di un deposito cartaceo una volta deciso il ricorso: ma ci si rassicura pensando che la dematerializzazione d’urgenza debba lasciare dietro di sé le tracce materiali di ciò che si conosceva prima. Tenuto conto che, per poter effettuare camere di consiglio da remoto, è stato necessario un provvedimento ad hoc del primo presidente in data 5 novembre 2020 (art. 7-bis ord. giud.), perché molti erano i dubbi circa la “fattibilità” delle camere di consiglio senza la presenza fisica, in sede, di tutti i componenti del collegio.
Pandemia e giustizia onoraria (non soltanto i giudici di pace “disinformatizzati”) hanno mostrato tutta l’ingiustizia delle inaccettabili sperequazioni esistenti coi togati: che finiscono per riguardare anche il bene fondamentale della tutela della salute, perché il sistema indennitario previsto per gli onorari (spesso giudici a tempo pieno) presuppone che essi in udienza ci vadano e che le carte le tocchino (cosa che i giudici togati, in tempi di Covid-19, spesso si rifiutano di fare: replicando scortesemente alla produzione in udienza delle copie di cortesia). Come del resto gli avvocati, che nei rari casi di udienza non da remoto si ammassano negli ingressi degli Uffici aspettando la chiama di sgarbati commessi o militari, per poter essere ammessi a piccoli gruppi nel deserto surreale degli uffici, in corridoio che sembrano concepiti da Stanley Kubrick. E non sembra un caso che proprio in tempi di pandemia sia esplosa vigorosa la protesta dei GOT ora GOP – cui la Rivista ha dedicato uno speciale – costretti ad appellarsi alle Istituzioni europee.
I giuristi del prossimo futuro, ossia gli attuali studenti, sono messi molto peggio di prima: senza o con pochi libri, senza biblioteche, senza seminari, senza contatti, privi di socialità si arrangiano – i più motivati – con le banche dati e i convegni on line. I docenti inviano loro quello che possono (con buona pace degli editori e della legge sulla protezione del diritto di autore); ma, certo, nessuno era stato abituato alla trasmissione del sapere vero via internet, e i docenti in primo luogo dovrebbero riprogrammarsi per rendersi, con profitto, “immateriali”.
L’anno 2020 volge al termine, coi guasti dovremo convivere un po’ più a lungo.
Le tormentate vicende delle norme di chiusura del diritto di asilo: Neverending story
di Rita Russo
Sommario: 1. Premessa - 2. La protezione umanitaria e i casi speciali - 3. Il non respingimento e la tutela della vita privata e familiare - 4. Considerazioni conclusive.
1. Premessa
Il 18 dicembre 2020 il Parlamento, dopo un aspro dibattito, ha convertito in legge (n. 173) con talune modifiche, il decreto legge del 21 ottobre 2020 n. 130, in materia di immigrazione.
Non poche le novità introdotte con l’intento, non particolarmente celato, di rimediare ai vulnera arrecati al sistema costituzionale dal precedente decreto sicurezza (D.L. 4 ottobre 2018, convertito in legge 132/2018). Ad esempio, si è intervenuti sulla disciplina della iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, riconducendola nell’ambito dei principi generali previgenti, dopo che la Corte costituzionale con sentenza del 31 luglio 2020 n. 186 ha dichiarato illegittima la disposizione dell’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2) del suddetto decreto legge, nella parte in cui stabiliva che il permesso di soggiorno “non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica”.
La Corte, in questa occasione, ha ricordato al legislatore che non può̀ porre gli stranieri in una condizione di minorazione sociale senza idonea giustificazione, e ciò̀ per la decisiva ragione che lo status di straniero non può̀ essere di per sé considerato “come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi”. Di conseguenza, privare i richiedenti asilo del riconoscimento giuridico della loro condizione di residenti incide irragionevolmente sulla “pari dignità̀ sociale, riconosciuta dall’art. 3 Cost. alla persona in quanto tale, a prescindere dal suo status e dal grado di stabilità della sua permanenza regolare nel territorio italiano”. Sebbene limitata ad una disposizione molto specifica, già in parte disattesa dai Sindaci dei Comuni italiani e talora disapplicata dalla giurisprudenza di merito, la sentenza della Corte ha una sua valenza generale, in quanto rimarca i confini entro i quali deve muoversi la discrezionalità del legislatore nazionale nel disciplinare la materia della immigrazione, ove peraltro egli è anche tenuto a rispettare la normativa eurounitaria.
In questi ultimi anni i paesi europei si sono trovati di fronte ad un fenomeno dirompente, denominato mixed migration, o flussi migratori misti: ondate di persone in fuga dalle persecuzioni individuali, da pratiche sociali opprimenti e lesive delle dignità personale, ma anche dalla guerra, dalle calamità naturali, da condizioni di povertà; ed ancora familiari al seguito di chi, per una ragione o l’altra, decide di migrare.
Si tratta di un fenomeno di particolare complessità che esercita molti e diversi effetti sulla società e che richiede molte e diverse risposte.
Le linee guida sulle quali si muove l’Europa sono quelle del rafforzamento della politica comune dell’asilo, ma anche di affrontare le cause profonde della migrazione irregolare e forzata direttamente nei paesi terzi al fine di contenere la migrazione economica[1].
Questi sono distinguo concettuali, la cui applicazione pratica non è però semplice: quando nel paese di origine vi sono condizioni di criticità sociopolitica, che rifluiscono sull’individuo non solo comprimendone i diritti politici, ma anche ed in primo luogo provocando disagio economico, le ragioni “miste” di migrazione si fondono in una unica vicenda individuale e la spinta alla migrazione è forte, anche se non determinata da una persecuzione rilavante ai fini della Convenzione di Ginevra, o da condizioni di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato.
L’effetto finale che viene poi portato alla attenzione del giudice dell’asilo è quello del radicamento sul territorio nazionale del migrante, talora con famiglia al seguito, o che ha formato famiglia in Italia, che non può allegare ragioni di persecuzione individuale ma che spesso giunge sul territorio nazionale dopo un viaggio durante il quale ha subito detenzione, torture, stupri e il cui rientro in patria potrebbe determinare comunque una lesione o esposizione a rischio dei diritti fondamentali.
Fenomeni complessi e di grande impatto sociale e politico: si evidenza in essi quella “enorme virulenza dei fatti, che hanno la vigorìa di condizionare il diritto e di plasmarlo”[2] e che spiega in parte la ragione per la quale le norme di chiusura del sistema ed in particolare quelle che riguardano il permesso di soggiorno per casi speciali e per motivi umanitari hanno tormentosamente impegnato il legislatore nazionale in questi anni, producendo norme talora molto discusse, in una storia che sembra non avere mai fine.
L’intervento operato con il D.L. 130/2020, da ultimo, ha ulteriormente rimaneggiato la materia e posto alla attenzione dell’interprete alcuni passaggi che riscrivono i testi, dopo il discusso intervento normativo del D.L. 113/2018, e tra questi due novità che meritano particolare attenzione sono le modifiche agli artt. 5 e 19 del D.lgs. 286/1998 (in acronimo T.U.I, testo unico dell’immigrazione).
2. La protezione umanitaria e i casi speciali
La prima novità saliente del decreto legge è il ripristino, nel testo dell’art. 5, comma 6, T.U.I., dell’inciso “fatto salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” ma non anche dell’inciso “salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario” già previsto nel testo vigente prima delle modifiche apportate dal D.L. 113/2018.
Le ragioni di questo parziale ripristino sono collegate alle osservazioni rese dal Presidente della Repubblica che, nella sua lettera di accompagnamento all’emanazione del decreto sicurezza del 2018, ha autorevolmente notato che il decreto non può far venire meno “gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’articolo 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia”.
Ma, solo per attenersi a queste qualificate indicazioni, l’inserimento normativo sarebbe in verità inutile, poiché come ricorda il Presidente, gli obblighi costituzionali e quelli internazionali sussistono comunque, a prescindere dal richiamo nel testo legislativo.
La posta in gioco sembra quindi essere un’altra, e riguardare la tassatività delle misure di protezione e l’applicazione diretta dell’art. 10 comma 3 della Costituzione.
La legislazione italiana in materia di asilo si è evoluta rapidamente nell’ultimo ventennio e nel tempo si è affermata l’idea che il diritto di asilo di cui all’art. 10 della nostra Costituzione non coincide con il riconoscimento dello status di rifugiato, introdotto dalla Convenzione di Ginevra del 1951, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge n. 722 del 1954 e dagli artt. 7, 8 del D.lgs. 251/2007, e rappresenta un ombrello protettivo più ampio anche rispetto alla misura della protezione sussidiaria disciplinata dalle direttive qualifiche (2004/83/CE e 2011/95/UE) e dall’art. 14 del D.lgs. 251/2007[3].
La norma costituzionale infatti estende il diritto di asilo ai richiedenti che provengono da paesi che negano le libertà fondamentali, e prescinde quindi dal requisito del pericolo di una persecuzione individuale, alla base del sistema della Convenzione di Ginevra[4], così come prescinde dal requisito della sussistenza di uno stato di conflitto armato o del rischio di pena di morte e trattamenti inumani e degradanti.
La giurisprudenza italiana, prima che la legislazione nazionale si evolvesse sotto la spinta delle direttive europee, si era pronunciata per la immediata portata precettiva del diritto di asilo costituzionale, anche in mancanza di una legge che ne specificasse le condizioni di esercizio e le modalità di godimento[5]. Soltanto dopo l’introduzione del comma 6 dell’art 5 del T.U.I. dei “seri motivi” di carattere umanitario la giurisprudenza di legittimità ha affermato che, data la piena attuazione del diritto di asilo costituzionale, non trovava più una autonoma diretta applicazione l’art. 10 Cost.[6]
É bene però chiarire che la protezione umanitaria non è stata ricostruita dalla giurisprudenza nazionale come una mera misura caritevole, rimessa alla discrezionalità dello Stato [7], ma come una misura di tutela di diritti fondamentali. L’esigenza qualificabile come umanitaria, secondo la giurisprudenza, è quella concernente diritti umani fondamentali protetti a livello costituzionale e internazionale[8].
Si è quindi affermato che questa misura è (era) una tutela a carattere residuale, in posizione di alternatività rispetto alle due misure tipiche di protezione internazionale[9], intesa come un “catalogo aperto” legato a ragioni di tipo umanitario non necessariamente fondate sul fumus persecutionis o sul pericolo di danno grave per la vita o per l’incolumità psicofisica, quanto su una condizione di vulnerabilità da accertare su base individuale; le situazioni di vulnerabilità da proteggere alla luce degli obblighi costituzionali ed internazionali gravanti sullo Stato italiano potevano avere l’eziologia più varia senza dover necessariamente discendere come un minus dai requisiti delle misure tipiche del rifugio e della protezione sussidiaria[10].
La Corte di Cassazione, nell’esaminare il caso forse più discusso, e cioè l'inserimento sociale e lavorativo in Italia e l’inevitabile regresso socioeconomico che comporterebbe il rimpatrio, ha fatto riferimento alla dignità, quale parametro essenziale di valutazione; si è cosi affermato che il giudice deve operare una valutazione effettiva al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell'esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d'integrazione raggiunta nel paese di accoglienza[11].
Da qui in poi il principio si è consolidato, pur con qualche difficoltà, fino alla affermazione definitiva della regola del giudizio comparativo, sempre su base individuale, enunciata dalle sezioni unite, secondo le quali “la orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione di integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza”[12].
Nonostante questa elaborazione rigorosa, la rilevanza statistica di questa misura ha contribuito a diffondere l’idea che la protezione umanitaria fosse riconosciuta con eccessiva larghezza a migranti meramente economici ovvero anche a soggetti immeritevoli, e da qui il progetto di abrogarla, realizzato con il decreto sicurezza del 2018.
Le sezioni unite, con la sentenza sopra citata, hanno precisato che la novella del 2018 non ha portata retroattiva, affermando che le domande introdotte prima del 5 ottobre 2018 continuano ad essere scrutinate secondo la norma previgente al D.L. 113/2018, ma il permesso di soggiorno eventualmente rilasciato è nominato “per casi speciali” e non più per motivi umanitari.
Questo porta con sé almeno due interrogativi: stat rosa pristina nomine? e ancora, quid iuris per le domande successive?
Parte della dottrina, in ciò confortata anche da un autorevole parere del Consiglio Superiore della Magistratura, ha ipotizzato che dopo il D.L. 113/2018 rientrasse in gioco la immediata applicazione dell’art. 10 Cost., evidenziando criticamente che la scelta di tipizzare le misure di protezione e configurare un sistema dell’asilo sfornito di una misura di chiusura atipica, che consenta di proteggere situazioni di vulnerabilità non codificate, ma saldamente ancorate al valore primo che è il rispetto della dignità umana, non sarebbe interamente attuativo dei principi costituzionali[13].
L’attuale versione dell’articolo 5, comma 6, T.U.I., non ripristinando quella parte di testo che costituiva il principale fondamento della protezione umanitaria “a catalogo aperto” sembra confermare la scelta della tipizzazione[14], ma al tempo stesso chiama l’interprete a verificare se si tratta di una tipizzazione delimitata strettamente dalle ipotesi legislative, ovvero dalle norme di rango superiore a quelle legislative e cioè dalla Costituzione, dalle norme eurounitarie e dal paramento interposto CEDU.
Gli obblighi costituzionali ed internazionali, infatti, impongono in primo luogo il rispetto e la tutela dei diritti fondamentali e pertanto è da capire se il legislatore ha inteso semplicemente dare un chiarimento formale, oppure riconoscere che l’attuazione del diritto di asilo costituzionale non può essere affidato ai soli istituti dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, e la necessità, dunque, che questi vengano integrati da altri istituti[15].
E, soprattutto, verificare se questi “istituti” possono essere solo i casi di permesso speciale elencati dalla legge, e cioè se è in potere del legislatore compilare un elenco tassativo e non meramente esemplificativo di casi cui riconoscere protezione, quando sono in gioco i diritti fondamentali.
Se si muove dall’idea che i diritti fondamentali ruotano introno al concetto di pari dignità riconosciuta agli esseri umani in quanto tali, la risposta dovrebbe essere negativa.
Il giudice dell’asilo dovrebbe avere la possibilità di stabilire, su base rigorosamente individuale, rifuggendo dal giudizio standardizzato, quando la negazione di un permesso di soggiorno comporta violazione degli obblighi costituzionali e internazionali, cagionando una lesione della dignità umana e della libertà morale e materiale dell’individuo: ad esempio, quando il trattamento inumano o degradante cui resterebbe esposta la persona in caso di rimpatrio non è diretto (il che comporta l’attivazione del principio di non refoulement) ma conseguenza di una estrema deprivazione materiale[16]. Lo stesso dovrebbe dirsi per quelle accertate situazioni di grave vulnerabilità, anche se determinate dalle violenze subite nei paesi di transito, che rendono intollerabilmente traumatico il ritorno nel paese di origine [17].
La valutazione delle ragioni di protezione è infatti operata su base individuale e da ciò discende non soltanto che non possono predeterminarsi con rigore i casi di protezione complementare, ma anche che non si può essere certi che in un determinato paese il rischio è per definizione escluso; diversamente la CGUE non avrebbe affermato che pure nei paesi della UE possono aversi casi di “gravi carenze sistemiche” che espongono a rischio alcune categorie di persone[18].
3. Il non respingimento e la tutela della vita privata e familiare
Altra rilevante modifica è quella intervenuta sul non respingimento.
Nell’art. 19 T.U.I. tra le cause di non respingimento, allargate oggi anche ai casi di trattamenti inumani e degradanti, sono state comprese anche quelle determinate da motivi familiari o comunque legati al rispetto della vita privata e familiare.
La nuova norma così recita: “Non sono ammessi il respingimento o l'espulsione o l'estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell'esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani. Non sono altresì ammessi il respingimento o l'espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l'allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, a meno che esso non sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica”.
Il comma 1.1. dell’art 19 oggi descrive quindi due diverse ipotesi di non respingimento, che presentano una sostanziale e differenza.
La regola di cui al primo inciso corrisponde al divieto di respingimento o non refoulement enunciato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra, e dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE: “Le espulsioni collettive sono vietate. Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti”.
Questa norma fonde ed armonizza i principi enunciati dalla CEDU rispettivamente nell’art. 4 prot. 4 (divieto di espulsioni collettive) e negli artt. 2 e 3 (diritto alla vita; divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti). La regola è quindi imperativa e non consente il bilanciamento con altre esigenze: può infatti venire in applicazione anche qualora sussistano cause di esclusione del riconoscimento della protezione internazionale, previste dagli artt. 10 e 16 del D.lgs. 251/2007 ed è applicabile non soltanto ai rifugiati o ai richiedenti asilo, ma anche a coloro che non hanno avuto ancora la possibilità di fare domanda per ottenere lo status, ovvero non hanno intenzione di presentarla[19].
Il divieto è rigoroso, e non va incontro ad eccezioni[20]; tuttavia non comporta l’obbligo per lo Stato di accogliere nel proprio territorio la persona, dal momento che lo Stato interessato può optare per la soluzione dell’avvio verso un paese terzo sicuro, cioè un paese dove il soggetto non corre il rischio di pena di morte, tortura o trattamenti degradanti o di un respingimento verso paesi ove è esposto a tale rischio.
Di contro, il (nuovo) non respingimento per motivi di rispetto della vita privata e familiare prevede espressamente un bilanciamento con le “ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica”.
Si tratta di una norma ibrida, di difficile inquadramento; non ha riscontro nell’art. 19 della Carta di Nizza e nonostante l’uso dell’endiadi “vita privata e familiare” di cui all’art 8 CEDU, neppure la coincidenza con questa ultima norma è perfetta. La norma CEDU, infatti, consente agli Stati di ingerirsi nella vita privata o familiare del cittadino o dello straniero sottoposto alla sua autorità in presenza di esigenze molto più ampie e composite[21]: l’ingerenza è consentita, sotto riserva di legge, nel rispetto del principio di proporzionalità quando “costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
Di contro il divieto di cui l’art. 19 nel testo odierno consente il bilanciamento del diritto alla vita privata e familiare solo per “ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica”. Il campo di applicazione della norma è quindi piuttosto ampio e sembra comprendere tutti quei casi di radicamento sul suolo nazionale, quale che sia la ragione della migrazione, in cui il rimpatrio può compromettere la vita privata e familiare.
Questo pone un problema di coordinamento con altre norme che tutelano, e in limiti più definiti, il diritto al permesso di soggiorno in deroga per motivi familiari (art. 31 T.U.I.), nonché con il testo dell’art 13 dello stesso T.U.I., laddove è previsto che il Ministro dell’Interno (e per lui il Prefetto) nell'adottare il provvedimento di espulsione nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto, debba “tenere conto” della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d'origine. Tenere conto dei legami familiari è qualcosa di meno di un divieto di respingimento, sia pure bilanciabile, perché impone una verifica connotata da un margine di discrezionalità, nel valutare la natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, la durata del suo soggiorno nel territorio nazionale, l'esistenza dei legami con il Paese di origine [22]. Infine e non ultimo, si dovrà definire esattamente il portato del diritto alla vita privata qui rilevante, poiché anche il radicamento sul territorio italiano, il lavoro dignitoso, la socialità conseguita, sono degli elementi indicatori di una “vita privata” che in ipotesi potrebbe essere lesa dal rimpatrio.
4. Considerazioni conclusive
È una sfida complessa quella che attende l’interprete sulle misure complementari della protezione internazionale. E’ complessa per la necessità di individuare il regime normativo applicabile alle domande che sono state proposte dopo il 5 ottobre 2018, parzialmente aiutato in questo dall’art. 15 del D.L. 130/2020 che prevede un regime transitorio, ed è complessa perché la portata applicativa della riforma dell’art. 5 e dell’art. 19 del T.U.I. non è del tutto chiara.
Si potrebbe infatti pensare che il legislatore, pur non esplicitamente impegnandosi nel ripristino del “catalogo aperto”, abbia riaffermato la possibilità di un’applicazione diretta dell’art. 10, comma 3, Cost., per le ipotesi residuali, affidata all’opera giurisprudenziale e dottrinale; se così è potrebbero essere recuperati gli arresti giurisprudenziali sulla “vecchia” protezione umanitaria, riconoscendo un permesso di soggiorno per casi speciali in relazione agli obblighi costituzionali e internazionali in quelle stesse ipotesi in cui in precedenza si riconosceva il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Così impostata le lettura del quadro normativo, non vi sarebbe sostanziale differenza tra il trattamento dei migranti che hanno proposto domanda prima del 5 ottobre 2018 e coloro che l’hanno inoltrata in un momento successivo.
Potrebbe anche sostenersi che il richiamo agli obblighi costituzionali e internazionali sia una norma di principio, che ha il compito esclusivo di porre le premesse per l’allargamento dell’art. 19 T.U.I. In questo modo, pur non accogliendosi pienamente la tesi della tassatività stabilita per via legislativa, la conclusione sarebbe che il legislatore avrebbe posto una “tassatività relativa”, poiché il nuovo comma 1.1. dell’art. 19 contiene un richiamo molto ampio al diritto al rispetto della vita privata e familiare, consentendo di “riempirlo” con ipotesi molto variegate[23].
Qui però, come si è detto, si tratta di definire bene non soltanto il concetto di vita familiare, ma anche quello di vita privata.
Sul punto non può che ricordarsi come la giurisprudenza della Corte di Cassazione abbia già offerto degli spunti in merito, perché nell’esplicitare, in tema di protezione umanitaria, il principio della comparazione tra le condizioni di vita ottenute in Italia e quelle cui il soggetto andrebbe come conseguenza di un rimpatrio nel paese di origine, ha fatto espresso riferimento all’art. 8 CEDU, inteso come diritto alla tutela della vita privata[24]. Seguendo questa linea interpretativa si potrebbe anche affermare che il comma 1.1. dell’art. 19 nella parte in cui introduce il permesso di soggiorno per divieto di respingimento ai sensi dell’art. 8 CEDU, altro non sarebbe che una riedizione della previgente protezione umanitaria, sottoposta però ad una doppia verifica dei presupposti, in positivo e negativo: la sussistenza di una condizione di vulnerabilità individuale, intesa nei termini già sviluppati dalla giurisprudenza di legittimità, e la assenza di “ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica”. In altre parole, una rosa che pur privata del nome mantiene lo stesso profumo, ma che richiede procedure molto più scrupolose per assicurarne la fioritura.
E’ quindi una strada non priva di asperità quella si presenta all’interprete, perché è necessario comunque assicurare, pur nel rispetto della vicenda individuale, una certa omogeneità oggettiva di trattamento per casi simili, e svincolarsi definitivamente dall’idea che i permessi di soggiorno per casi speciali abbiano a che vedere con motivi “caritatevoli” o con quella ricerca della felicità che fa parte del sistema costituzionale nordamericano e che invece non è accolta né dalla Costituzione italiana, né dalla comune cultura europea.
Al tempo stesso sarà necessario definire i confini tra la protezione complementare non nominata, derivante dagli obblighi costituzionali ed internazionali, e il divieto di respingimento, e sempre che si accetti l’idea che le due fattispecie non sono coincidenti, posto che anche il divieto di respingimento ruota intorno al rispetto della dignità umana, al divieto di trattamenti inumani e degradanti e -da oggi- anche al rispetto della vita privata e familiare.
[1] Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Agenda sulla migrazione, 13.5.2015, in https://eur-lex.europa.eu
[2] P. Grossi, Sulla odierna fattualità del diritto, in Giustizia civile, 2014, 1
[3] si veda P. Bonetti, Il diritto d'asilo in Italia dopo l'attuazione della direttiva comunitaria sulle qualifiche e sugli status di rifugiato e di protezione sussidiaria, in Dir. immig. cittad., 2008, 99 ss. G. Bascherini, Immigrazione e diritti fondamentali, Napoli, Jovene, 2007, 174 ss.
[4] R. Finocchi Ghersi, Il diritto di asilo in Italia e in Europa Riv. trim. dir. pubbl., fasc.4, 2011
[5] Cass.,sez. un., n. 4674/1997
[6] Cass.n.10686/2012; Cass.n.16362/2016; Cass.n. 11110/2019
[7] La direttiva qualifiche 2011/95/UE del 13 dicembre 2011 precisa, al considerando 15, che essa non si applica ai cittadini di paesi terzi o agli apolidi cui è concesso di rimanere nel territorio di uno Stato membro non perché bisognosi di protezione internazionale, ma per motivi caritatevoli o umanitari riconosciuti su base discrezionale. La direttiva 115/2008/CE, all’art. 6, par. 4, ha separatamente previsto che gli Stati possano rilasciare il permesso di soggiorno “per motivi umanitari, caritatevoli o di altra natura”
[8] Cass., sez. un., n. 19393/2009
[9] Cass., sez. un. n. 19393/2009 cit. ; Cass. civ. n. 4139/2011; Cass.n. 15466/2014; Cass.n. 15466/2014
[10] Cass., n. 23604/2017; Cass.n. 28990/2018; Cass.n. 13096/2019, Cass.n. 1104/2020
[11] Cass., n. 4455/2018
[12] Cass., sez. un. n. 29459/2019. Per approfondimenti v. E. CASTRONUOVO, Il permesso di soggiorno per motivi umanitari dopo la sentenza della Corte di Cassazione n. 4455/2018, in Diritto, immigrazione e cittadinanza on line, 2018, n. 3; M. BENVENUTI, La forma dell’acqua. Il diritto di asilo costituzionale tra attuazione, applicazione e attualità, P. MOROZZO DELLA ROCCA, Protezione umanitaria una e trina, pubblicati in Questione giustizia, 2018, n. 2
[13] Si rinvia anche per i richiami di dottrina a R. Russo, I diritti fondamentali sono diritti di tutti?, in questa Rivista 10.1.2020
[14] M.C. Contini Le novità del d.l. 21 ottobre 2020, n. 130 in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, in Il Foro Italiano (foronews), 2.11.2020
[15] C. De Chiara, Il diritto di asilo e il d.l. 130/2020: progressi e occasioni mancate, in Questione Giustizia, 9.12.2020
[16] CGUE, sentt. del 19.3.2019, nelle cause C-163/17 e C-297/17 e altre
[17] Cass.n. 1104/2020
[18] CGUE, sentt. del 19.3.2019, cit.
[19] Corte EDU, 21.10.2014, Sharifi and Others v. Italy and Greece.
[20] CGUE, Grande sezione, cause riunite C-391/16, C-77/17 e C-78/17, 14.5.2019.
[21] M. C. Contini, Le novità del d.l. 21 ottobre 2020, n. 130, cit.
[22] Cass., n.18608/2014
[23] Relazione del Massimario della Corte di Cassazione n. 94 del 20.11.2020
[24] Cass. n. 4455/2018 cit. “il parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale che merita di essere tutelata attraverso il riconoscimento di un titolo di soggiorno che protegga il soggetto dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale, quale quello eventualmente presente nel Paese d’origine, idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili. Con riferimento al caso di specie, il parametro di riferimento non può che cogliersi, oltre che nell’art. 2 Cost., nel diritto alla vita privata e familiare, protetto dall’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo”
In memoria di Ebru Timtik: la resistenza dell’Avvocatura in Turchia
Un reportage di Barbara Spinelli
Parte Seconda: L’Avvocatura alla prova dello stato di emergenza
Sommario: 1. Lo stato di emergenza, i decreti emergenziali e le “purghe” - 2. L’impatto sociale dei decreti emergenziali e la normalizzazione dell’emergenza - 3. La riforma presidenziale in Turchia - 4. La persecuzione dell’avvocatura in Turchia durante e dopo lo stato di emergenza.
(Qui il link alla parte prima del reportage)
In memoria di Ebru Timtik: la resistenza dell'Avvocatura in Turchia. Un reportage di Barbara Spinelli Parte Prima: Essere giovani avvocate/i in Turchia
https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/1476-in-memoria-di-ebru-timtik-la-resistenza-dell-avvocatura-in-turchia-un-reportage-di-barbara-spinelli-parte-i-essere-giovani-avvocate-i-in-turchia
1. Lo stato di emergenza, i decreti emergenziali e le “purghe”
Forse quanto fin qui condiviso è sufficiente ad esprimere la difficoltà di essere avvocati e di scegliere di difendere “il nemico” nella Turchia di Erdoğan.
Ma per certo è insufficiente a rendere idea della paranoia che ha caratterizzato la produzione legale emergenziale, e di conseguenza la difficoltà dell’esercizio del diritto di difesa e della professione legale dopo il “fallito colpo di Stato” del 15 luglio 2016.
Il 21 luglio si è riunito il Consiglio di Sicurezza, che ha dichiarato lo stato di emergenza, ai sensi degli articoli 15 e 120 della Costituzione Turca, ed il giorno stesso ha comunicato al Segretario Generale del Consiglio d’Europa di avvalersi della facoltà di sospendere gli obblighi derivanti dalla Convenzione europea per i diritti umani (CEDU) facendo ricorso alla clausola derogatoria contenuta nell’art. 15 della Convenzione stessa, ed altresì ha comunicato all’Ufficio OHCHR delle Nazioni Unite la deroga a numerosi articoli ICCPR[1].
La proclamazione dello stato di emergenza ha consentito l’estensione del “trattamento speciale” prima riservato agli avvocati di Ocalan e dei terroristi di sinistra, a tutta la categoria dell’avvocatura indipendente, identificata con il “nemico” di volta in volta difeso, e per ciò solo perseguitata. Si è registrato un vero e proprio passaggio da un utilizzo indiscriminato del diritto penale del nemico alla società del controllo totale.
Le parole migliori per descriverla sono quelle di un avvocato turco intervistato da HRW nel luglio 2018: “For courts to see no distance between a lawyer and their client is a new development. If a lawyer defends a Kurd these days that makes him a Kurdish nationalist. If he defends a FETÖ suspect he is a FETÖ member. As a lawyer you meet your client in prison and you have no possibility of confidential communication since there’s a prison guard present, a microphone, and a camera. In court, the judges accept none of your requests, such as hearing independent expert witnesses. We are seeing eight-hour trial hearings which are purely symbolic and in which nothing is taken seriously. The courts are completely unresponsive to lawyers. There is no equality of arms left, no possibility of being able to look the judge in the eye.”[2]
Vale la pena tuttavia ricordare sinteticamente in ordine cronologico tutti i provvedimenti che hanno colpito l’avvocatura durante lo stato di emergenza, che, ricordiamo, è stato prorogato in Turchia per sette volte, e cioè per due anni dopo il fallito colpo di stato, fino al 19 luglio 2018[3].
I 31 decreti emergenziali che si sono susseguiti dal 2016 al 2018[4], emessi ai sensi dell’art. 121 della Costituzione turca[5], oltre ad aver disposto le famigerate “purghe”, hanno introdotto fortissime compressioni al diritto di difesa. Qui sinteticamente si citano solo alcune delle disposizioni principali, al fine di intellegibile la portata della normazione emergenziale, sia per il numero di persone raggiunte da misure limitative della propria libertà personale e comunque incidenti sui propri diritti fondamentali in maniera significativa, sia per la compressione del diritto alla difesa ed al giusto processo.
Con il decreto emergenziale (d.e.) n. 667 del luglio 2016, è stata disposta l’estensione del fermo di polizia e la videoregistrazione e limitazione dei colloqui tra indagato/imputato e difensore. Sono state introdotte deroghe al diritto dell’imputato di comparire in udienza, anche se si tratta di udienza di convalida di misura cautelare personale. E’ stato imposto di omissare i nomi della polizia giudiziaria in tutti gli atti. Il Pubblico Ministero è stato autorizzato a presentare in udienza un capo di imputazione provvisorio. E’ stata estesa la possibilità di cancellazione del passaporto anche al coniuge della persona che sia licenziata o indagata per presunti legami terroristici.
Con il d.e. 668 del luglio 2016 sono stati chiusi 45 giornali, 16 televisioni, 15 riviste, 3 agenzie stampa, 23 radio e 29 editori, ed è statat autorizzata la polizia ad interrogare ed arrestare le persone senza previa delega della magistratura.
Con il d.e. 669 dello stesso mese sono stati licenziati oltre 2000 tra militari e poliziotti, e scarcerati 38mila detenuti.
Con i d.e. 670 e 671 dell’agosto 2016 sono state chiuse tutte le scuole militari e riordinato il sistema scolastico militare. Tutte le compagnie di telecomunicazioni sono state obbligate a provvedere entro due ore agli ordini che, in esecuzione dei d.e., dispongano intercettazioni e controllo di internet, con immediato trasferimento dei dati all’autorità richiedente.
Nel settembre 2016 sono stati emanati i d.e. n. 672, 673 e 674, con i quali sono stati imposti il rientro di giudici e pubblici ministero andati spontaneamente in pensione (672) ed il riassetto dell’organizzazione penitenziaria (673). E’ stato disposto il commissariamento delle municipalità i cui membri fossero stati indagati, il che potrebbe apparire una disposizione secondaria, ma non lo è se si considera che Erdoğan ha costruito il suo consenso interno identificando il partito filo-curdo di opposizione HDP come “braccio politico” del PKK, sicché il numero di sindaci[6], assessori e consiglieri delle municipalità a guida HDP indagati per terrorismo e rimossi dal loro incarico già prima del decreto, nel corso delle operazioni antiterrorismo del 2015, è impressionante. Per non parlare poi degli attacchi alle sedi del partito HDP, successivi alle elezioni del 7 giugno 2015[7], e che si sono susseguiti in tutto il Paese per mesi: ben 105 solo tra il 6 e l’8 settembre 2015[8], cioè una settimana dopo l’entrata in vigore del decreto emergenziale 672, con cui il governo turco ha commissariato tra il 2016 ed il 2018, 95 Comuni di 102 a guida curda (HDP), ed arrestato 93 sindaci. 15 di loro sono stati già condannati. La maggior parte di loro è ancora dietro le sbarre[9]. In totale, quasi 15'000 membri e rappresentanti eletti del partito HDP membri e rappresentanti eletti sono stati arrestati. 5'000 di loro sono ancora detenuti. In una conferenza stampa del 7 gennaio 2020, l'HDP ha dichiarato che nel solo 2019 ci sono stati 4567 arresti e 797 detenzioni. Cioè il governo turco ha continuato ad utilizzare i decreti emergenziali per perseguitare i politici curdi anche dopo la fine dello stato di emergenza, senza sottoporre le disposizioni emergenziali al vaglio del parlamento come prescritto dalla legge. Ad oggi, 20 co-sindaci HDP eletti nel marzo 2019 e almeno 27 sindaci curdi eletti alle elezioni amministrative del 2014 restano dietro le sbarre. Decine di altri sindaci eletti nel 2014 e nel 2019 hanno trascorso anni ìnteri in prigione prima di essere rilasciati, senza aver potuto assumere la loro carica.
Va poi osservato che da tale persecuzione non sono rimasti indenni i vertici nazionali del partito. Infatti prima ancora dell’adozione di tale decreto emergenziale, e prima ancora del colpo di stato, a maggio del 2016 era già stata approvata la riforma costituzionale che modificava l’art. 83 della Costituzione, prevedendo l’abolizione dell’immunità parlamentare nei confronti dei parlamentari indagati. A seguito di questo emendamento, il numero di procedimenti aperti nei confronti dei parlamentari di opposizione è aumentato del 200%. I co-presidenti del partito HDP e parlamentari Selahattin Demirtaş e Figen Yuksekdag sono stati arrestati il successivo novembre insieme ad altri 11 deputati HDP. Ad oggi, solo quattro di loro sono stati rilasciati. Nel settembre 2018 Demirtaş è stato condannato a quattro anni e otto mesi di carcere per aver diffuso propaganda terroristica, guidato un gruppo terroristico e incitato all'odio e all'ostilità del pubblico[10]. Tra dicembre 2015 ed aprile 2016, sono stati aperti 510 fascicoli di indagine nei confronti dei parlamentari curdi dell’HDP, la maggior parte dei quali per reati di opinione[11] collegati ai fatti occorsi durante i coprifuoco, per i quali è stata rimossa l’immunità. L’HDP ha commentato affermando che “Revocando le immunità dei deputati HDP il regime di Erdoğan ha ottenuto qualcosa che non avrebbe potuto raggiungere in precedenza tramite i mezzi legali e paralegali a sua disposizione: e cioè l’esclusione dell’opposizione dei curdi e dei loro alleati, che è basata su una piattaforma democratica, attraverso un colpo amministrativo ben architettato”. La portata della persecuzione è stata così significativa da venire criticata anche dall’IPU[12] e dalla Commissione Venezia del Consiglio d’Europa, che, con l’opinione del 14.10.2016 ha affermato che “L'attuale situazione nella magistratura turca rende questo il momento peggiore possibile per abolire l'inviolabilità” e che “L'emendamento costituzionale del 12 aprile 2016 è stato una misura ad hoc, un provvedimento “one shot”, ad homines, diretto nei confronti di 139 singoli deputati per cause già pendenti prima della costituzione del Parlamento. Agendo come potere costituente, la Grande Assemblea Nazionale ha mantenuto il regime di immunità come stabilito negli articoli 83 e 85 della Costituzione per il futuro, ma ha disposto la deroga a questo regime per casi specifici riguardanti persone identificabili, sebbene mediante l’utilizzo di un linguaggio generico. Si tratta di un uso improprio della procedura di modifica costituzionale.” [13]
Significative in tal senso le due pronunce della Corte Europea per i diritti umani relative al “caso Demirtaş”, che hanno confermato la natura strumentale e persecutoria della riforma costituzionale. Con la prima pronuncia del 20 novembre 2018, nel procedimento Selahattin Demirtaş c. Turchia, la Corte ha accertato la violazione degli articoli 5, par. 3, 18 e 3 del Protocollo n. 1 alla Cedu stabilendo che la detenzione di Selahattin Demirtaş doveva cessare, in quanto perseguiva il secondo fine predominante di reprimere il pluralismo e limitare la libertà del dibattito politico. Nello specifico la Corte aveva dichiarato all'unanimità, che ci era stata violazione dell'articolo 5 § 3 della Convenzione, e 5 § 4 perché, sebbene egli fosse stato arrestato e detenuto con "ragionevole sospetto" di aver commesso un reato, visti i motivi addotti dai tribunali nazionali, ha ritenuto che le autorità giudiziarie abbiano ingiustificatamente prolungato la durata della misura cautelare in carcere. La Camera ha inoltre ritenuto, all'unanimità, che vi era stata violazione dell'articolo 3 del Protocollo N. 1 (diritto a libere elezioni) della Convenzione in quanto, sebbene il signor Demirtaş avesse mantenuto il suo status di membro del parlamento per tutta la durata del suo mandato, ha riscontrato che la sua incapacità di prendere parte alle attività dell'Assemblea Nazionale a seguito della sua custodia cautelare avevano costituito un’ingiustificata ingerenza con la libera espressione dell'opinione popolare e con il suo diritto ad essere eletto e a sedere in Parlamento. La Camera ha inoltre dichiarato, con sei voti contro uno, che vi era stata violazione dell'articolo 18 (limitazione
sull'uso delle restrizioni sui diritti) in combinato disposto con l'articolo 5 § 3. Ha ritenuto che fosse stato stabilito oltre ogni ragionevole dubbio che il prolungamento della custodia cautelare in carcere del sig. Demirtaş, in particolare durante due campagne cruciali, vale a dire il referendum costituzionale e le elezioni presidenziali, aveva perseguito lo scopo ulteriore predominante di soffocare il pluralismo e limitare la libertà del dibattito politico, che è al centro del concetto di società democratica[14]. La sua avvocata Benan Molu ha affermato che si è trattato della prima volta che la Turchia è stata condannata per violazione dell’Articolo 18, l’unico non approvato all’unanimità. La violazione è stata infatti approvata con 6 voti a favore e uno contrario, dove Işıl Karakaş, la giudice che rappresenta la Turchia, si è dissociata dalla decisione[15]. Il 18.3.2019 la Grande Camera ha accettato di pronunciarsi su ricorso di entrambe le parti. Il 22.12.2020 è stata pubblicata la sentenza nel procedimento Selahattin Demirtaş c. Turchia (2), che è particolarmente significativa e merita in una disamina approfondita in separata sede. Basti qui ricordare che, con riferimento al giudizio circa l’illegittimità della rimozione dell’immunità parlamentare dal quale siamo partiti verso questa digressione, la Corte EDU richiama testualmente l’opinione del 14.10.2016 della Commissione Venezia, affermando che l'emendamento costituzionale del 20 maggio 2016 è un emendamento ad homines una tantum, senza precedenti nella tradizione costituzionale turca, che ha costituito un “uso improprio della procedura di modifica costituzionale”. La Corte ha quindi ritenuto che vi era stata violazione dell’articolo 10 della Convenzione, perché l'ingerenza nell'esercizio della libertà di espressione del ricorrente non soddisfaceva il requisito della prevedibilità, poiché difendendo un punto di vista politico, il ricorrente avrebbe potuto legittimamente aspettarsi di godere dei benefici del quadro giuridico costituzionale in vigore, e quindi dell'immunità per i discorsi pronunciati nell’esercizio delle sue funzioni, che gli è stata invece negata a seguito della riforma costituzionale. La Grande Camera ha poi confermato anche tutte le altre violazioni già riscontrate nel 2018 dalla Camera. La sentenza della Corte del 2020 può definirsi coraggiosa, in quanto riconosce la natura strumentale alla compressione dei diritti fondamentali del ricorrente del lungo periodo di detenzione, e quanto ciò incida sullo stato di diritto. La Corte ha attribuito un peso considerevole alle osservazioni dei terzi intervenienti, ed in particolare al Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, che aveva indicato l’utilizzo strumentale della legislazione nazionale per mettere a tacere le voci dissenzienti. La Corte ha rimarcato che il ricorrente in particolare era stato privato della sua libertà durante due cruciali campagne, quella del referendum del 16 aprile 2017 e quella delle elezioni presidenziali del 24 giugno 2018. A giudizio della Corte, la sua custodia cautelare gli aveva senza dubbio impedito di contribuire efficacemente alla campagna contro l'introduzione di un sistema presidenziale in Turchia. Inoltre, era evidente che gli oppositori politici del ricorrente erano stati avvantaggiati dal fatto che egli avesse dovuto condurre la sua campagna elettorale dal carcere. Secondo la Corte poi il fatto che non solo la voce del ricorrente, ma anche quella degli altri parlamentari HDP e sindaci eletti, fosse stata silenziata attraverso la detenzione cautelare, e per un periodo così lungo, non solo aveva privato migliaia di elettori di rappresentanza in Assemblea Nazionale, ma aveva anche mandato un pericoloso messaggio all'intera popolazione, riducendo sensibilmente l'ambito del libero dibattito democratico.
Ritornando alle misure introdotte con i decreti emergenziali, con i d.e. 675 e 676 dell’ottobre 2016, hanno disposto il licenziamento di oltre 10.000 pubblici impiegati, oltre 2700 impiegati del ministero della salute, ed oltre 1200 del ministero dell'educazione. E’ stata disposta la cancellazione dalle scuole pubbliche turche degli studenti presenti in Gran Bretagna, negli Stati Uniti ed in Canada, ed è stata tagliata la borsa di studio per coloro che si trovavano in programmi di scambio all’estero. C'è stata poi una stretta sul controllo delle università, con il licenziamento di oltre 1200 accademici scomodi e previsione in capo al Presidente della Repubblica del potere di nomina dei rettori. Sotto il profilo del diritto alla difesa, è stata imposta per legge la registrazione e la trasmissione al pubblico ministero dei colloqui tra difensori e detenuti.
Con riferimento al licenziamento degli accademici, vale la pena ricordare la portata massiccia dell’operazione punitiva portata avanti nei confronti dei c.d. “accademici della Pace”. Nel gennaio 2016, molti eminenti docenti di università pubbliche e private (medici, ingegneri, architetti, scienziati, economisti, letterati, giuristi), con una conferenza stampa, resero pubblico un appello dal nome “Non saremo parte di questo crimine” che chiedeva la fine delle operazioni militari dell’esercito turco nel sud est a maggioranza curda. L’appello ebbe 1.128 firmatari, tutti accademici turchi, cui si aggiunsero alcune centinaia di accademici e ricercatori di altre parti del mondo, fra cui intellettuali come Noam Chomsky e David Harvey. Gli accademici denunciavano come dietro la patina delle operazioni antiterrorismo si nascondessero in realtà violenze sproporzionate nei confronti dei civili: città assediate e distrutte, stragi, torture, definendo la violenza in atto “un massacro deliberato e pianificato”. Tutti i firmatari sono stati indagati per propaganda a favore di organizzazioni terroristiche (KCK/PKK) ai sensi dell'articolo 7/2 della legge turca contro il terrorismo e dell'articolo 53 del codice penale turco. Hanno tutti perso il loro lavoro, prelevati dalla polizia negli atenei, professori o all’alba dalle loro case davanti ai familiari, le porte dei loro uffici sigillate e in alcune casi vandalizzate. Alcuni sono stati arrestati, altri hanno “solo” ricevuto il divieto di uscire dal Paese. Nel 1984 il leader della giunta militare Kenan Evren aveva preso di mira gli intellettuali che chiedevano democrazia durante il colpo di stato militare. Kenan aveva definito gli intellettuali “traditori”. Dopo 32 anni il presidente turco Reccep Tayyip Erdoğan ha fatto la stessa dichiarazione affermando: ”Questi intellettuali chiedono a persone di altri paesi di seguire la situazione in Turchia. Sono dei traditori.” Il boss mafioso nazionalista Sedat Peker li ha minacciati con queste parole: "Faremo scorrere il vostro sangue" e "Faremo il bagno nel vostro sangue". Molti di loro oggi sono rifugiati in Europa[16].
Il numero totale di accademici vittime delle purghe in Turchia nel corso dello stato di emergenza è di 6081. 398 di loro erano gli “accademici per la pace”[17].
Molti degli accademici per la pace sono stati condannati a pene detentive comprese tra 15 mesi e 3 anni[18]. E’ stata sospesa l’esecuzione della pena nella maggior parte dei casi, ma per 29 accademici no, in quanto la pena detentiva in questione era superiore a 2 anni. Nel luglio 2019, la Corte costituzionale turca ha stabilito che i diritti di espressione dei firmatari della petizione erano stati violati, e nel settembre 2019 un tribunale turco per la prima volta ha assolto uno degli Accademici per la pace. Grazie all’intervento della Corte Costituzionale 171 accademici per la pace sono stati dichiarati innocenti da 17 tribunali separati a settembre 2019[19].
Con i d.e. 677 e 678 del novembre 2016 sono state chiuse 375 associazioni accusate di mettere in pericolo la sicurezza internazionale. Tra queste numerose associazioni di avvocati, di giudici e fondazioni per i diritti umani, le quali svolgevano una funzione cruciale nella promozione dell’applicazione dei principi del giusto processo, per la protezione dei diritti dei detenuti e nel rapportare sulle violazioni dei diritti umani ( ÖHD, CHD, MHD, IHD, TOHAV, YARSAV).
Con il medesimo decreto è stato previsto che tutti i dipendenti di scuole e istituzioni guleniste licenziati, indagati per presunti legami terroristici, con il passaporto proprio e del coniuge cancellato ed i beni già sequestrati, lasciassero entro 15 giorni gli alloggi pubblici dei quali disponevano e che non potessero mai più a vita avere lavori di pubblico impiego.
Con i d.e. n. 679, 680 e 681, 682 e 683 del gennaio 2017 sono state disposte ulteriori “liste di proscrizione” per pubblici ufficiali ed accademici sospettati di essere in contatto o affiliati di organizzazioni terroristiche, ed è stata disposta la revoca della cittadinanza a chi si trovasse all’estero ed entro 90 giorni non avesse risposto all’avviso a comparire.
Con il d.e. 684 del gennaio 2017 è stato diminuito il periodo di custodia di 30 giorni, a 7 giorni, prendendo in considerazione le raccomandazioni del Consiglio d'Europa, ed è stata abrogata la disposizione che prescrive che il colloquio con i loro avvocati delle persone arrestate possa essere limitato per un periodo di cinque giorni.
Con i d.e. 686 e 687 del febbraio 2017, sono state previste specifiche relative ai funzionari del pubblico impiego colpiti dalle misure ed alla gestione dei beni congelati durante le operazioni.
Con i d.e. 688 e 689 del marzo 2017 sono state revocate le misure adottate nei confronti di alcuni pubblici ufficiali e studenti che si trovavano all’estero.
Con il d.e. 690 dell’aprile 2017 sono state adottate disposizioni in materia di competenza giudiziaria e per la nomina dei membri della Commissione d'inchiesta sullo stato di emergenza.
Con il d.e. 691 del giugno 2017 vengono introdotte ulteriori misure accessorie alla legislazione antiterrorismo. Con il d.e. 692 del luglio 2017 sono state disposte nuove “purghe” e con i d.e. 693 e 694 dell’agosto 2017 sono continuate le “purghe” e sono state disposte nuove chiusure di associazioni ed agenzie stampa. Il periodo massimo di detenzione preventiva per i reati in materia di terrorismo è stato aumentato da tre a cinque anni. E’ stato introdotto il diritto all’esame in forma protetta degli investigatori. Si è prevista la possibilità di riservare la decisione e dare lettura del dispositivo della sentenza anche nelle ipotesi in cui l’avvocato difensore dell’imputato non sia in udienza e non abbia rassegnato le proprie conclusioni. Con il d.e. 695 del dicembre 2017 sono stati licenziati altri 115 pubblici ufficiali. Con il d.e. 696 dello stesso mese sono state introdotte modifiche al codice di procedura penale lesive del diritto alla difesa, come la previsione che è consentito il proseguimento del processo anche quando neppure l’avvocato d’ufficio si presenti in udienza senza giustificato motivo, o come l’introduzione per il pubblico ministero della possibilità di ricorrere avverso le decisioni che dispongano il rilascio del sospettato o dell’accusato. In materia di esecuzione della pena, è stato introdotto l’obbligo di indossare le divise fornite dall’amministrazione penitenziaria, a pena di sanzione disciplinare. E’ stata poi disposta l’immunità totale per tutte quelle azioni compiute dai civili “che hanno agito per proteggere la democrazia durante il tentativo di colpo di stato terroristico”. Con il d.e. 697 del gennaio 2018, è stata chiusa una radio e sono continuate le “purghe”. Alcuni pubblici ufficiali con gli ultimi decreti sono stati reimmessi nel loro impiego.
Si tenga conto che dei pubblici ufficiali vittime delle purghe, stando ai numeri ufficiali, il numero di giudici e pubblici ministeri licenziati ed indagati è stato di 3926, cioè il 30% circa dei magistrati in carica all’epoca in Turchia[20].
2. L’impatto sociale dei decreti emergenziali e la normalizzazione dell’emergenza
L’impatto dei decreti emergenziali sull’accesso alla giustizia, di sopra accennato, non può essere letto disgiuntamente all’impatto socio-economico delle misure disposte dai medesimi decreti: i decreti emergenziali hanno costituito uno strumento sistematico di
oppressione contro persone di tutte le età, generi, religioni, in generale per tutte/i coloro che non si adattavano all'ideologia, alle politiche, alle pratiche o all'agenda del governo, che per questo motivo sono state etichettate, accusate di coinvolgimento nella trama del colpo di stato o di essere nemici dello stato con vari pretesti. Per la loro “neutralizzazione” sono stati utilizzati i poteri di emergenza, associate alle già esistenti leggi sul terrorismo formulate in modo vago. Di conseguenza, le autorità governative sono state in grado di sospendere, licenziare ed eliminare più di 250.000 persone con posizioni nel settore pubblico e arrestare o detenere più di 130.000 di loro in un breve lasso di tempo. Inoltre centinaia di istituzioni del settore privato, imprese, associazioni, fondazioni, media, canali televisivi sono stati chiusi, persino confiscando alcuni dei loro beni o facendole rilevare da amministratori nominati dal governo. Azioni di questo tipo hanno creato danni incommensurabili e immense vittimizzazioni di uomini d'affari e lavoratori anche nel settore privato. Quindi, migliaia di persone che lavoravano nel settore pubblico, privato e volontario venivano arrestate, detenute o imprigionato in quei processi. Di conseguenza, volendo fare una stima delle vittime primarie e secondarie dell’abuso dei poteri emergenziali da parte del governo, il numero supera 1.200.000 persone[21].
Il governo ha goduto così tanto dei poteri dello stato di emergenza che lo ha prorogato più e più volte, avvicinando la sua durata di applicazione a due anni.
Finito lo stato di emergenza, le disposizioni liberticide introdotte con i decreti emergenziali sono state riassorbite nella legislazione ordinaria, normalizzando l’eccezione. Infatti, con le nuove leggi introdotte nel luglio 2018, ed in particolare con la legge n. 7145, è stato consentito al Presidente ed all'esecutivo di mantenere i poteri conferiti loro nel quadro dello stato di emergenza, che pertanto di fatto prosegue con tutte le limitazioni che ciò comporta per la compromissione definitiva della situazione dello Stato di diritto e dei diritti umani in Turchia, considerato che molte delle procedure in vigore durante lo stato di emergenza ancora oggi sono applicate dalle forze di polizia e dai funzionari locali.
3. La riforma presidenziale in Turchia
Non si deve poi dimenticare che medio tempore, ad un anno dal fallito colpo di stato, tra un decreto emergenziale e l’altro, con il leader dell’opposizione in carcere, si è tenuto, durante lo stato di emergenza, nell’aprile 2017, il referendum costituzionale che ha introdotto il sistema presidenziale in Turchia. Il giudizio che, a tre anni di distanza, è pervenuto da parte della Corte EDU nell’ambito del caso Demirtaş, è stato tranchant, circa la sua illegittimità. Infatti questa riforma elettorale è stata votata durante lo Stato di Emergenza, da un Parlamento in cui il leader dell’opposizione democratica Selahattin Demirtaş , la copresidente del partito HDP Figen Yüksekdağ e numerosi parlamentari si trovavano all’epoca (e si trovano tuttora) in custodia cautelare in carcere, in conseguenza dell’emendamento costituzionale votato il 20.5.2016 che aveva rimosso l’immunità per i parlamentari indagati. Sicché il Parlamento (monco) aveva iniziato a discutere la riforma costituzionale il 9 gennaio 2017. Quel giorno, una manifestazione pacifica di protesta davanti al Parlamento è stata dispersa dalla Polizia con la violenza. Il dibattito parlamentare è stato contrassegnato da episodi di violenza fisica tra i parlamentari del partito di maggioranza AKP e quelli del partito CHP. Sono state mosse accuse di violazione della segretezza del voto. Il Parlamento ha adottato la riforma costituzionale il 21 Gennaio 2017, con 339 voti a favore, 142 voti contrari, 5 voti bianchi e 2 voti nulli. Il Presidente ha firmato il testo della riforma il 10 febbraio 2017 e fissato il referendum elettorale il 16 aprile 2017. Molte fonti autorevoli ed istituzionali hanno evidenziato che nel merito la riforma costituzionale mira ad introdurre un “sistema presidenziale alla turca” irrispettoso del principio democratico fondamentale della divisione dei poteri e del bilanciamento dei poteri tra gli organi costituzionali. Numerose sono state le censure di illegittimità segnalate in particolare dalla Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa, con l’opinione 875/2017[22]. E’ stata censurata in primo luogo la tempistica e la regolarità della procedura costituzionale. La Commissione sul punto ha affermato senza mezzi termini che “se una riforma costituzionale deve essere necessariamente approvata durante uno stato di emergenza, devono essere rimosse tutte le restrizioni alle libertà politiche oppure il referendum deve essere rimandato dopo il termine dello stato di emergenza”. Infatti, sebbene la Costituzione turca non impedisca l’adozione di riforme costituzionali durante lo Stato di emergenza, a differenza di numerose altre costituzioni, è evidente che nessuna riforma elettorale può dirsi democratica se avviene in un contesto dove non è assicurata la libertà di espressione del pensiero e di manifestazione, in assenza della possibilità di un discorso democratico sul testo della riforma. La Commissione ha rilevato che con oltre 150 media chiusi per decreto emergenziale, è palese che i pochi altri rimasti aperti adotteranno una sorta di autocensura preventiva su un tema così scottante, con l’esito di una probabile campagna elettorale monolaterale. A ciò si aggiunga che la regolarità della procedura parlamentare è stata minata da molteplici fattori ed in particolare dalla sua breve durata, dall’assenza di 11 deputati di opposizione al momento del dibattito e della votazione, in quanto detenuti in custodia cautelare in carcere a seguito dell’eliminazione dell’immunità parlamentare (nonostante la Commissione di Venezia avesse già con sua precedente nota chiesto il ripristino dell’immunità parlamentare), dalla violazione del voto segreto, addirittura attraverso la videoregistrazione e la diffusione televisiva della procedura in forma integrale, che ha consentito di identificare gli astenuti dal voto e di mostrare deliberatamente il proprio voto ad altri parlamentari, ed è stata mandata in onda televisivamente. La Commissione di Venezia inoltre ritiene che il regime presidenziale “alla turca”, ben lontano dal sistema presidenziale statunitense, poiché attribuisce enormi poteri al Presidente, senza prevedere un idoneo sistema di contropoteri, rischia piuttosto di assomigliare a uno dei tanti regimi autoritari asiatici, africani o latinoamericani che hanno tratto solo ispirazione dal sistema statunitense, senza riproporre le medesime garanzie di separazione dei poteri, in particolare per quanto riguarda il controllo dell’operato del Presidente. Davanti all’impressionante numero di nuovi poteri attribuiti al Presidente, i contropoteri attribuiti al Parlamento sono stati ritenuti del tutto insufficienti. Anche per quanto riguarda l’indipendenza del potere giudiziario, la Commissione di Venezia ha ritenuto gli emendamenti costituzionali sottoposti al referendum si pongono in contrasto con gli standard europei in quanto riducono l'indipendenza del potere giudiziario nei confronti del presidente. Senza mezzi termini, la Commissione di Venezia ha rilevato che “le modifiche costituzionali rappresentano un pericoloso passo indietro nella tradizione costituzionale democratica della Turchia”, ed ha voluto sottolineare “i pericoli di degenerazione del sistema proposto verso un regime autoritario e personalistico”, rimarcando che “l’attuale stato di emergenza non garantisce il setting democratico dovuto per l’esercizio di un referendum costituzionale”. La campagna elettorale infatti è stata caratterizzata da incidenti diplomatici all’estero da parte dell’AKP, ed all’interno del Paese da numerosi episodi di repressione di ogni tentativo di campagna elettorale per il no. Basti pensare al licenziamento di Irfan Degirmenci, storico conduttore di programmi di in-formazione sull'emittente nazionale Kanal D, licenziato per aver dichiarato su Twitter il suo 'no' al referendum. O all’arresto del 21enne studente universitario Ali Gül, per essere comparso in un video - diventato virale in rete - in cui promuove il “No” al referendum. Un rapporto pubblicato dal quotidiano Cumhuriyet, che ha monitorato i passaggi televisivi e radiofonici dei vari partiti del panorama politico nazionale, riporta che in 22 giorni la tv e radio di stato turche hanno concesso al partito AKP 4.113 minuti, di cui solo ad Erdoğan 1309, al CHP 216 minuti, al Movimento nazionalista 48 minuti, all’HDP 1 minuto. Fanatici dell’AKP hanno colpito anche in Europa, con un’aggressione in danno di curdi che si recavano a Brussels in consolato turco per registrarsi per il voto. Tre sono le persone che hanno riportato conseguenze dall’aggressione, una donna in particolare è stata ferita al collo.
Il referendum costituzionale del 16 aprile 2017 ha costituito uno spartiacque storico in grado di segnare le sorti della democrazia in un importante Paese membro del Consiglio d'Europa e della NATO. Ha costituito l’occasione per Erdoğan di monopolizzare tutte le funzioni legislative, esecutive e giudiziarie.
Volendo spiegare in maniera elementare ed in pochi passaggi il contenuto della riforma in senso presidenziale[23], si può illustrare il venir meno della separazione dei poteri sintetizzando come segue: Il Presidente della Repubblica ha assunto i poteri del presidente del Consiglio dei ministri e del Consiglio dei ministri, e queste cariche sono state abolite. E’ il Presidente della Repubblica che indica il Parlamento una rosa dei ministri tra cui scegliere. Il Parlamento non ha più il potere di controllare o di istituire i ministri, e non ha più il potere di sfiducia nei confronti del Presidente della Repubblica. Il Presidente della Repubblica può essere anche il capo di un partito, assumendo il potere di scelta della lista dei deputati. Può sciogliere unilateralmente il Parlamento. Può porre il veto sul bilancio. Può emanare decreti anche aventi lo stesso contenuto di una legge respinta dal Parlamento. Il veto del presidente su una legge può essere superato solo da 301 parlamentari su 600. Il Presidente della Repubblica può creare per decreto nuovi ministeri, enti pubblici e paramilitari. Il Presidente della Repubblica elegge 12 dei 15 giudici costituzionali che hanno il potere di controllo sui decreti da lui emessi. Nomina funzionari, burocrati, dirigenti scolastici, rettori ed il Ministro dell’Istruzione. Ha il comando supremo delle forze militari del paese. Può proclamare lo stato di emergenza. Nomina ambasciatori. Nomina il Ministro della Giustizia e sei dei 12 Consiglieri del Consiglio Supremo della Magistratura. Nessuno se non la Corte Costituzionale, per metà da lui nominata, può controllare il suo operato e quello dei suoi eletti.
A mio parere, non sarebbe scorretto parlare di dittatura.
4. La persecuzione degli avvocati in Turchia durante e dopo lo stato di emergenza
Si è già detto della persecuzione subita dagli avvocati in Turchia per aver difeso le vittime dei crimini contro l’umanità e denunciato e perseguito le gravi violazioni dei diritti umani commesse dalle forze militari turche nel sud-est curdo durante le operazioni anti-terrorismo portate avanti dopo l’interruzione del processo di pace.
Si è già detto anche di come pure durante lo stato di emergenza, dal 2016 al 2018, gli avvocati siano stati in prima linea nella denuncia delle torture, dei trattamenti disumani e degradanti[24] e delle sparizioni forzate[25] di coloro che erano sospettati di legami con le organizzazioni terroristiche.
Se vogliamo invece prendere in esame esclusivamente l’impatto dei decreti emergenziali sulla classe forense, i numeri non sono meno impressionanti di quelli riferiti ad altre categorie: il report del gruppo “Arrested Lawyers Initiative”[26] ha documentato in Turchia tra il 2016 ed il 2020 l’arresto di 14 Presidenti dell’Ordine degli Avvocati, oltre 600 avvocati e l’avvio di indagini per terrorismo nei confronti di oltre 1500 di loro.
Gli avvocati sono stati senza dubbio uno dei gruppi più colpiti, perché colpire loro ha significato ostacolare la difesa dei “nemici” che loro assistevano, e con i quali sono stati indebitamente identificati.
Si è già detto di come i decreti emergenziali abbiano compresso il diritto alla difesa, eliminando la privacy nella relazione tra l’avvocato ed il suo assistito detenuto, e restringendo le possibilità di incontro[27]. Anche le possibilità di accesso al fascicolo di indagine sono state ristrette[28], ed è stato addirittura previsto che l’udienza possa svolgersi anche in assenza del difensore dell’imputato, e che il processo possa concludersi anche senza che egli abbia rassegnato le conclusioni[29]. E’ stato poi previsto che un avvocato indagato per aver fondato un'organizzazione criminale, fondato e guidato un'organizzazione armata e per accuse di terrorismo, possa essere escluso dal suo dovere di avvocato se difende una persona indagata o imputata per le medesime fattispecie[30].
Il rapporto di “The Arrested Lawyers Initiative” ha stimato che il numero di avvocati a cui è stato vietato rappresentare i propri clienti si è ormai avvicinato a 400, e che la maggior parte di questi è stata indagata in quanto membro di una delle associazioni di avvocati chiuse dai decreti emergenziali del novembre 2016[31]. Basti ricordare tra le associazioni chiuse la Progressive Lawyers Association (Çağdaş Hukukçular Derneği) della quale fanno parte Aytaç Ünsal ed Ebru Timtik, e molti membri della quale sono ad oggi ancora in carcere, incluso il Presidente, Selcuk Kozagacli, e la sorella di Ebru, Barkin Timtik, nonché purtroppo di nuovo anche lo stesso Aytaç Ünsal; e la Lawyers for Freedom Association (Özgürlükçü Hukukçular Derneği), della quale fanno parte Ramazan Demir , di cui sopra si è riferito, e Levent Puskin, collega attivo nella difesa dei diritti LGBTQI, di recente assolto dall’accusa a suo carico[32].
Oltre che agli avvocati attivi nelle associazioni forensi impegnati nella tutela dei diritti umani, l’attacco si è rivolto anche nei presidenti degli ordini forensi critici con la politica presidenziale, e numerose indagini sono state avviate anche a partire dalle dichiarazioni pubbliche rilasciate dagli esponenti dell’Ordine. Fatto di cronaca recente è l’apertura di un’indagine nei confronti degli esponenti degli Ordini forensi di Ankara, Izmir e Diyarbakır, per aver criticato una dichiarazione che costituiva un discorso d'odio contro gli omosessuali, pronunciata dal capo della direzione degli affari religiosi. L’indagine per “insulto ai valori religiosi di una parte della popolazione” è partita proprio a seguito della denuncia proposta dal Capo della Direzione Affari Religiosi[33].
Non solo agli avvocati indagati per terrorismo è stato impedito di rappresentare i propri assistiti indagati per la medesima fattispecie ma, cosa ancor più grave, a molti avvocati è stato impedito di raggiungere o mantenere il titolo solo in ragione del fatto di essere sottoposti ad indagini. I numeri, anche in questo caso, sono impressionanti: Secondo le statistiche ottenute dall'UTBA, al 13 agosto 2020, c'erano 1252 casi presentati dal Ministero della Giustizia contro decisioni di ammissione. In 376 casi è stata annullata l’iscrizione. In 175 casi la richiesta del Ministero è stata respinta. 701 casi erano ancora in sospeso[34].
Come evidenziato dai colleghi turchi che hanno denunciato la situazione: “È evidente che l'impossibilità di esercitare la professione di avvocato non riguarda solo il individuo interessato, ma anche altri che hanno bisogno di essere difesi. Laddove gli ordini degli avvocati rischiano la separazione secondo le opinioni politiche nel sistema recentemente modificato (di cui si dirà tra poco), questa ingerenza con la professione di avvocato mira a dissuadere gli studenti dissidenti all’università dall'esercizio dei propri diritti e libertà, ad escludere dalla professione individui che non sono ritenuti "graditi", per "pulire" il futuro della professione di avvocato da persone con determinate opinioni e per lasciare "un certo gruppo di persone" indifeso, senza avvocati”[35].
Ma come se non bastasse l’impatto dei decreti emergenziali sulla già misera vita degli avvocati turchi, altri colpi ulteriori hanno contribuito a smantellare definitivamente la labile parvenza di legalità rimasta, e ad indebolire il ruolo dell’avvocatura mediante ulteriori e gravi interferenze. Infatti con decreto presidenziale n.5/2018, la Presidenza turca si è arrogata l'autorità per ispezionare gli ordini degli avvocati e sospendere il loro presidente e membri del consiglio (articolo 6) 15. E’ chiaro che il potere della Presidenza turca di sospendere i dirigenti eletti di consiglio dell’Ordine ha compromesso in modo significativo la loro indipendenza.
Come se ciò non fosse sufficiente, al termine dello stato di emergenza, il 15 luglio 2020, è entrata in vigore la legge di riforma degli ordini forensi, che prevede che nelle province in cui gli avvocati iscritti agli ordini locali siano più di 5000, sia possibile creare più di un ordine forense, su richiesta di almeno duemila iscritti. Inoltre, aumenta il numero di delegati che ogni ordine può inviare a rappresentarlo all’Unione Turca degli Ordini Forensi (UTBA). La riforma è stata chiaramente pensata per privare di potere e mettere più facilmente a tacere i grandi Ordini forensi (Ankara, Izmir, Diyarbakir…) che si sono rivelati critici nei confronti del regime[36]. E’ evidente infatti che la creazione nella stessa provincia di organi multipli di rappresentanza dell’avvocatura ne favorisce la politicizzazione, e dunque mina l’indipendenza degli iscritti nell’esercizio della professione, introducendo nuovi criteri di scelta dell’Ordine a cui appartenere (come per noi, l’iscrizione è obbligatorio ai fini dell’esercizio della professione) che non siano il criterio “neutro” della competenza territoriale dell’Ordine, dando luogo a possibili discriminazioni. In tal senso si è espressa anche la Commissione Venezia del Consiglio d’Europa con l’opinione n. 991/2020[37] . Gli avvocati hanno protestato con una grande manifestazione nazionale, che è stata attaccata dalla polizia[38].
Alla luce di queste considerazioni sparse, sulle misere sorti riservate alla funzione dell’avvocatura in Turchia dal regime al potere, forse appare più chiaro il significato e la portata simbolica della lotta intrapresa dai due colleghi detenuti, Aytaç Ünsal ed Ebru Timtik.
[1] E di preciso agli articoli 2,3,9,10,12,13,14,17,19,21,25,26,27.
[2] https://www.hrw.org/report/2019/04/10/lawyers-trial/abusive-prosecutions-and-erosion-fair-trial-rights-turkey
[3] https://www.hrw.org/report/2019/04/10/lawyers-trial/abusive-prosecutions-and-erosion-fair-trial-rights-turkey
[4] https://rm.coe.int/cets-005-tur-decl-annex-list-of-laws-04-05-2018/16807c80de
[5] During the state of emergency, the Council of Ministers, meeting under the chairpersonship of the President of the Republic, may issue decrees having the force of law on matters necessitated by the state of emergency. These decrees shall be published in the Official Gazette, and shall be submitted to the Grand National Assembly of Turkey on the same day for approval; the time limit and procedure for their approval by the Assembly shall be indicated in the Rules of Procedure.
[6] https://en.wikipedia.org/wiki/List_of_arrested_mayors_in_Turkey
[7] https://www.hdp.org.tr/en/civilian-losses-and-assaults-at-hdp-offices-in-numbers-law-commission-report-17-june-26-august/8919/
[8] https://www.hdp.org.tr/en/attacks-against-the-peoples-democratic-party-since-september-6th-2015/8920/
[9] https://undocs.org/pdf?symbol=en/A/HRC/45/NGO/89
[10]Demirtaş è imputato in vari procedimenti e rischia condanne per un totale di 142 anni di reclusione. L'imputazione a suo carico è stata resa nota solo mesi dopo l'inizio della detenzione. Le accuse includono l'essere tra i fondatori del PKK, sebbene Demirtaş avesse solo cinque anni quando fu fondato il PKK. Le prove a suo carico derivano dai suoi discorsi pubblici, interviste ai media e persino dalla sua partecipazione alle celebrazioni kurde del Newroz. Al processo di Demirtaş è stato impedito a tutti gli osservatori stranieri di entrare nell'edificio del tribunale. Il tribunale si trovava in un edificio appositamente costruito in una prigione ad alta sicurezza ad alcuni chilometri da Ankara, per l'occasione circondato da polizia armata, cannoni ad acqua e con aree riservate ai membri dell'AKP, incoraggiati ad intimidire gli osservatori. Demirtaş ha condotto l'ultima campagna elettorale dal carcere, attraverso messaggi videoregistrati e sottoposti al vaglio della censura, telefonate e lettere.
[11] https://www.hdp.org.tr/Images/UserFiles/Documents/Editor/AnAssessmentReport.pdf
[12] https://www.hdp.org.tr/Images/UserFiles/Documents/Editor/IPUdecision.pdf
[13] https://www.venice.coe.int/webforms/documents/?pdf=CDL-AD(2016)027-e , parr. 78 e 80.
[14] http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=003-6255318-8141028
[15] https://www.balcanicaucaso.org/aree/Turchia/Sentenza-Cedu-Selahattin-Demirtaş-deve-essere-scarcerato
[16] B. Spinelli – R. Giovene di Girasole, “Manuale per osservatori internazionali dei processi. La difesa dei diritti umani”, Nuova Editrice Universitaria, p. 136. In distribuzione gratuita su richiesta al C.N.F. http://www.nuovaeditriceuniversitaria.it/Libro-la-difesa-dei-diritti-umani.html
[17] Human Rights Foundation of Turkey, “Akademisyen İhraçları: Hak İhlalleri, Kayıplar ve
Güçlenme Süreçleri Raporu”, November 2019, https://tihvakademi.org/wp-content/uploads/2020/02/akademisyenihraclariy.pdf .
[18] https://journals.sagepub.com/pb-assets/AcademicsForPeace-March2019%20%281%29.pdf Si veda anche: https://dipec.wp.unisi.it/wp-content/uploads/sites/14/2017/02/GROPPI-Universit%c3%a0-in-Turchia-che-fare-250217.pdf
[19] https://en.wikipedia.org/wiki/Academics_for_Peace
[20] European Commission, 2018 Turkey Report, 17 April 2018, https://ec.europa.eu/neighbourhood-enlargement/sites/near/files/20180417-turkey-report.pdf , p. 23.
[21] https://drive.google.com/file/d/1OvlRz8Gg5EEFaIUaiP_bJtwzD281X0OT/view , p.1.
[22] https://www.venice.coe.int/webforms/documents/?pdf=CDL-AD(2017)005-e
[23] Per una lettura più approfondita si rimanda a: http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/05/chiappetta.pdf .
[24] Human Rights Foundation of Turkey, Activity Report (June 2017-June 2018), 2 June 2018, https://
tihv.org.tr/wp-content/uploads/2019/07/%C3%87al%C4%B1%C5%9Fma-Raporu-2018_tihv.Pdf , p. 9-12; Human Rights Watch, “In Custody: Police Torture and Abductions in Turkey”, 12
October 2017, https://www.hrw.org/sites/default/files/report_pdf/turkey1017_web_0.pdf.
[25] İnsan Hakları Derneği, “2017 İnsan Hakları İhlalleri Raporu”, https://www.ihd.org.tr/2017-insan-haklari-ihlalleri-raporu-ohal-altinda-gecen-bir-yil/; Human Rights Watch, “In Custody:
Police Torture and Abductions in Turkey”, 12 October 2017, https://www.hrw.org/sites/default/
files/report_pdf/turkey1017_web_0.pdf.
[26] https://www.consiglionazionaleforense.it/documents/20182/688046/Rapporto+febbraio+2020+dell%E2%80%99associazione+Arrested+lawyers+Initiative+sulla+persecuzione+di+massa+degli+Avvocati+in+Turchia+-+INGLESE.pdf/a2253747-2655-44aa-bb5e-2c3a5bd1c64e
[27] Art. 6 d.e. 667.
[28] Art. 3 d.e. 668.
[29] Art. 1 e 5 d.e. 676 e d.e. 696.
[30] Art. 2 d.e. 676.
[31] The Arrested Lawyers Initiative, The Rights to Defense and Fair Trial Under Turkey’s Emergency Rule, https://arrestedlawyers.files.wordpress.com/2018/02/the-rights-to-defense-fair-trialin-turkey.pdf, p. 10.
[32] https://lawyersforlawyers.org/en/levent-piskin-acquitted/
[33] https://www.reuters.com/article/us-turkey-rights-homosexuality-idUSKCN2291LE
[34] Il problema è ampliamente affrontato in questa pubblicazione, p. 23 ss.: https://www.tahirelcivakfi.org/storage/files/ae36e3a1-90bd-44bf-8817-08321ade8533/Ruhsatsiz-Avukatlar---INGILIZCE-(1).pdf
[35] Ibidem, p.70.
[36] https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/europa/2020/06/30/turchia-in-parlamento-contestata-riforma-di-ordini-avvocati_045bab14-cf6b-43a8-a1e4-57d4eab0488f.html
[37] https://www.venice.coe.int/webforms/documents/?pdf=CDL-AD(2020)029-e
[38] https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/06/22/turchia-marcia-di-protesta-degli-avvocati-contro-Erdoğan-bloccata-dalla-polizia-le-immagini/5844030/
L'anno della pandemia e del distanziamento sociale volge al termine.
In Italia un'intera generazione è scomparsa ma quali saranno gli effetti del lutto? Quali saranno gli effetti economici della chiusura protratta delle attività produttive ? Delle scuole e dei luoghi di cultura?
Giustizia Insieme prosegue gli approfondimenti dedicati agli effetti della pandemia per fotografare e stimolare una riflessione comune - come abbiamo scritto ieri- su quell’incredibile esperimento sociale che, tra le altre cose, è stato il lockdown.
Oggi affrontiamo il tema della cultura e della formazione (La formazione ai tempi della pandemia).
Il tema segue gli approfondimenti di ieri su diseguaglianza (Gli effetti della pandemia su diseguglianza e crescita economica) e educazione (Gli effetti del lockdown su bambini e adolescenti).
Effetti della pandemia sulla cultura
Michela Petrini e Laura Reale intervistano lo scrittore ERRI DE LUCA
1.La pandemia in corso ci ha imposto il distanziamento sociale e relazioni virtuali, ma ha anche costituito l’occasione per accelerare processi già in corso, con particolare riferimento alla digitalizzazione avvenuta nel mondo del lavoro. Anche nel settore artistico e culturale sono stati messi a disposizione un’enorme quantità di contenuti in formato digitale enfatizzando l’importanza del web quale spazio civico, piazza ove è possibile trovare l’esperto d’arte ma anche il neofita. Possiamo veramente affermare che, così, la cultura abbia resistito alla crisi in atto e sia oggi più “fruibile” ? Siamo di fronte alla stessa “esperienza sensoriale” oppure si è modificato il rapporto dell’uomo con l’arte? Quale può essere in questo contesto digitale il ruolo nuovo dei luoghi di cultura?
La cultura non ha luoghi, si produce ovunque e di preferenza nelle periferie. Nei periodi di oppressione, di restrizioni, aumenta di valore. Prendo a esempio la prigione, un concentrato di isolamento dal mondo di fuori e di reclusione: la lettura di un libro aumenta di intensità, di protezione. Un libro davanti al naso fa scomparire la cella e permette anche di non sentire il rumore e l’odore intorno. Così fa l’offerta di cultura alle persone in stato di limitazioni, facendo aumentare per esempio la loro richiesta di libri alle biblioteche comunali e alle librerie. Perciò questi luoghi devono restare aperti e omologati alle farmacie.
2.Nel periodo del lockdown abbiamo assistito a flashmob spontanei in cui espressioni artistiche popolari e condivise, come le canzoni cantate dai balconi dei condomini, gli striscioni ed i disegni dei bambini appesi alle finestre, sono diventate il canale per una socializzazione a distanza, capace di ricostruire i rapporti comunitari ed identitari tra la popolazione. Queste sono, a suo avviso, manifestazioni di un processo duraturo, oppure il frutto occasionale di un contesto, al contrario, in cui individualismo ed egoismo stanno avanzando sempre di più?
Sono offerte spontanee di condivisione dalle proprie stanze, balconi. Ho partecipato a un programma dal titolo “The Decameron 2020 “ su canale YouTube, dove degli scrittori di varie parti del mondo offrono gratuitamente una breve storia relativa al loro isolamento e altrettanti attori e attrici la interpretano filmandosi dalle loro abitazioni. Il mio racconto per esempio è stato letto dall’attore inglese a Julian Sands. Tutti i filmati hanno sottotitoli in varie lingue. Dunque una collaborazione spontanea tra varie specialità, comprese quelle dei traduttori, svolte per offrire un intrattenimento alla platea del mondo rinchiuso. Si tratta per me di intensificate e non depotenziate socialità.
3.La scuola può definirsi una grande palestra di democrazia in cui la crescita culturale è costituita da un complesso di fattori, dal saper condividere spazi, luoghi, idee con gli altri, dibatterne e capirle insieme in sorta di grande opera “collettanea” che non annulla ma valorizza l’individuo. Don Milani affermava che la scuola “siede tra il passato ed il futuro e deve averli presenti entrambi”. Le generazioni più sacrificate da questo lockdown sono senza dubbio i più giovani, dai bambini della scuola materna agli adolescenti i cui luoghi di formazione, le scuole, sono stati chiusi per un periodo di tempo prolungato. Ancora oggi si assiste un massiccio ricorso alla didattica a distanza. Tale situazione ha determinato o determinerà secondo lei diseguaglianze sociali o comunque amplificato quelle già esistenti?
La scuola pubblica resta un luogo che, almeno nelle sue aule, cerca di praticare un’uguaglianza. Nelle lezioni a distanza invece l’allievo che si trova in condizioni abitative sovraffollate, risente della differenza con quello che ha migliori condizioni. La scuola ha tutte le possibilità di garantire un controllo sanitario al suo interno, non sono le sue aule a costituire assembramento contagioso, ma i mezzi di trasporto per raggiungerle. Siamo in un tempo sperimentale in cui le misure di contenimento dipendono dagli investimenti per migliorare comunicazioni e loro condizioni sanitarie. In simili periodo bisogna immaginare e credo che la nostra comunità sia attrezzata per adeguarsi alle necessità, per mentalità noi italiani siamo elastici, sopportiamo meglio le tensioni. Su scala di mondo ce la stiamo cavando meglio di altre nazioni.
4. Giovanna Melandri, presidente della fondazione Maxxi, ha lanciato sulle pagine del settimanale “L’Espresso” l’idea di rendere deducibili dalle tasse le spese per cinema, spettacoli teatrali, concerti e musei, come quelle per i farmaci, sulla base della convinzione che “la cultura fa bene” e che l’accentuazione delle disuguaglianze economiche e sociali prodottasi in questa fase storica potrà, in futuro, forse inibire a molti l’accesso alle tradizionali forme di arte. Esiste, secondo lei, un diritto alla cultura? E come andrebbe declinato?
Come chiedere se esiste un diritto alla felicità, che si trova del resto scritto nella costituzione americana. Da parte mia credo che la felicità sia un dovere. Va perseguita con impegno quotidiano, insieme al proprio miglioramento culturale.
5. La cultura diffusa e partecipata e la cultura del territorio. Si vanno diffondendo nel Paese i viaggi della cultura, gli itinerari turistici allietati da lettura di autori che aiutino a comprendere la bellezza del territorio del paesaggio, della storia dei luoghi del passato. Qual è il ruolo della società civile rispetto alla tutela di questo patrimonio culturale? Qual è in questo contesto il ruolo degli artisti?
Siamo il paese che ha in deposito e in consegna il più vasto patrimonio culturale del mondo. La nostra specialità dipende da questo lascito e dalla variegata bellezza del territorio e del clima: questa è la nostra offerta sul mercato del mondo. Il ministero della cultura e del turismo dovrebbe essere il principale destinatario di fondi. Al contrario è l’ultimo, a dimostrazione di incapacità di lungimirante pensiero politico ed economico. L’accesso ai luoghi d’arte, alle manifestazioni culturali dovrebbe essere gratuito, il cinema, il teatro, le librerie dovrebbero essere tutelati come siti d’interesse strategico nazionale
6. L’arte ha sempre rappresentato un avamposto per interpretare la complessità del presente. Quale insegnamento può dunque trarsi dal mondo della cultura, a suo giudizio, da questa esperienza pandemica?
Gertrude Stein diceva di Picasso che l’artista non è un anticipatore di tempi futuri, ma il primo ad accorgersi di quello sta accadendo nella sua generazione. Per ora non mi risulta che si sia manifestata questa specie di personalità individuale o collettiva, riguardo a questa epoca che ha sostituito al vertice gli economisti con i medici.
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