ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La revisione delle piante organiche della magistratura: ancora un’occasione mancata
di Marco Modena
Sommario: 1. Premessa - 2. I parametri scelti per dimensionare le piante organiche - 3. Il parametro più rilevante: le statistiche sulle iscrizioni - 4. Lo scostamento dalle statistiche nel dimensionamento delle piante organiche - 5. Conclusioni.
1. Premessa
Sosteneva Bismarck che meno le persone sanno come vengono fatte le salsicce e le leggi, e meglio dormono la notte. Lo stesso discorso si potrebbe fare per le piante organiche della magistratura. L’attuale presidente di una Corte d’Appello del Nord, che in passato ha ricoperto importanti incarichi al Ministero della Giustizia e al CSM, parlava qualche anno fa di “totale assurdità delle configurazioni degli organici che sembra rispondere più a sedimentazioni storiche e a ragioni casuali che a qualsiasi parametro razionale”[1]. L’opinione è perfettamente condivisibile, come si dimostrerà in questo articolo.
Negli ultimi anni, sono stati attuati due interventi di revisione in aumento delle piante organiche: limitando l’orizzonte agli uffici giudicanti di primo grado, il primo è avvenuto tramite il D.M. 1° dicembre 2016, che ha distribuito 136 nuovi posti[2], ed il secondo col D.M. 14 settembre 2020, che ha ripartito altre 175 unità, tra quelle previste in aumento dalla legge. Tali interventi potevano essere un’occasione per correggere quelle “assurdità” dovute alle sedimentazioni storiche o ad altre casuali ragioni. Il motivo, infatti, per cui è difficile correggere tali storture, consiste nella difficoltà nel far accettare delle riduzioni agli uffici sovra-dimensionati, onde reperire le risorse da destinare a quelli più in sofferenza. Sia perché in qualche caso ciò potrebbe comportare dei trasferimenti d’ufficio, sia perché, comunque, nessun dirigente accetta volentieri una riduzione del proprio organico. “Quando (…) per aumentare l’organico da una parte si decide di diminuirlo dall’altra, subito si manifestano innumerevoli opposizioni”, diceva sempre l’alto magistrato ricordato sopra[3]. L’aumento dell’organico complessivo consentirebbe invece, destinando le nuove risorse ai soli uffici che ne hanno davvero bisogno, di ripianare gradualmente le disparità evitando il fastidio di dover fare troppi tagli. Ma, anche questa volta come in passato, l’occasione sembra essere stata sprecata.
Si sono già esposti in altra sede[4] i motivi di critica alla revisione del 2016, basati soprattutto su un confronto tra gli aumenti “a pioggia” disposti dal Ministero, e le esigenze del settore civile individuate attraverso una puntuale analisi della situazione dei singoli uffici evinta dai dati statistici. Sinteticamente, riprendendo i risultati di quel precedente lavoro, si è visto come, mettendo in ordine crescente di durata media effettiva delle cause civili i 140 tribunali italiani, almeno in linea tendenziale (raggruppando i tribunali stessi in 4 quartili) la durata cresce in proporzione al numero di procedimenti iscritti per ciascun giudice effettivamente addetto al settore civile; solo nel passaggio dal secondo al terzo quartile sembra che la tendenza sia contraddetta, ma in apparenza, perché, se si guarda ad un altro fattore che determina il carico di lavoro (individuale e complessivo), e cioè la percentuale di cause che vengono definite con sentenza rispetto al totale delle cause definite, si vede che, anche in questo caso, la durata cresce al crescere del carico lavorativo (effettivo) pro-capite. Ne consegue un apparente paradosso: che la durata delle cause è mediamente più lunga (quindi la performance del tribunale è peggiore) proprio dove i giudici lavorano di più, e viceversa: il numero delle sentenze pro-capite emesse dai giudici di ciascun tribunale in un anno è infatti (almeno in linea di tendenza) inversamente proporzionale alla velocità delle cause. Questi primi risultati sembrano clamorosamente smentire le tesi (culturalmente egemoni negli ultimi 10-15 anni) secondo cui la crisi della giustizia civile non dipenderebbe da una mancanza di risorse, bensì solo da un difetto di organizzazione. Si erano anche formulate due proposte alternative di revisione delle piante organiche: una a “a saldi invariati”, ossia redistribuendo l’organico esistente in proporzione ai carichi di lavoro effettivi, come sopra individuati; ed una attribuendo a tutti i tribunali una forza lavoro tale da garantire il medesimo rapporto tra carico di lavoro e personale, che si ha nel tribunale più “veloce” (Aosta); nella prima ipotesi, a costo zero, si era visto che i tagli sarebbero avvenuti soprattutto nei tribunali con migliori performances, prevalentemente collocati al Nord, a vantaggio di quelli più “lenti” (ma non per questo meno efficienti, tenuto conto delle sentenze pro-capite), prevalentemente del Sud. Nel secondo caso, vi sarebbero stati egualmente dei tagli in alcuni tribunali sovra-dimensionati, ma in misura minore rispetto alla prima ipotesi, e sarebbe occorso un aumento di organico, limitatamente al settore civile, di 492 posti (che diventavano 890 rispetto ai posti effettivamente coperti)[5].
Il più recente intervento del 2020 consente di riprendere l’argomento, approfondendo l’analisi critica della metodologia impiegata e dei suoi esiti.
2. I parametri scelti per dimensionare le piante organiche
Rispetto alla revisione del 2016[6], rimangono numerosi aspetti criticabili, che vengono emendati solo in parte. Anzitutto resta, non condivisibile, la scelta di indicare numerosi parametri (quantitativi e qualitativi) potenzialmente confliggenti tra loro, senza attribuire a ciascuno di essi un determinato peso specifico quantitativo-numerico sulla determinazione del risultato finale, al fine di rendere trasparente e non discrezionale la scelta operata. I lavori preparatori del decreto sono stati condotti da un comitato paritetico Ministero-CSM, come si legge nella relazione tecnica[7] all’ultimo decreto, e come peraltro era avvenuto anche nel 2016; e sia il CSM che la dirigenza ministeriale fanno parte di quel “sistema” di porte girevoli e vasi comunicanti che è governato dal correntismo associativo e consociativo della magistratura, recentemente balzato all’attenzione della cronaca. In un campo nel quale ognuno degli interessati (soprattutto i capi degli uffici giudiziari) fa pesare la propria influenza, condizionata dai legami correntizi dell’uno o dell’altro dirigente, rinunciare a fissare criteri predeterminati e verificabili ex post (cioè a quelli che la relazione tecnica, pag. 22, definisce spregiativamente, per prenderne le distanze, “sterili calcoli matematici valoriali e di rapporti”) significa ridurre fortemente la credibilità di tutta l’operazione. Come emerso tragicamente e di recente anche nella gestione della pandemia (specie nell’individuare i “colori” delle Regioni), il potere politico-amministrativo[8] in Italia è restio ad affidarsi a dati semplici e verificabili, anche laddove le scelte debbano essere tecniche, preferendo confondere le acque con una serie di parametri sovrapponibili e ingarbugliati tra loro, per poter avere le mani libere nell’operare discrezionalmente secondo la propria innata vocazione clientelare.
I parametri presi in considerazione, che sono “quantitativi mitigati da fattori qualitativi”, come avverte la relazione tecnica, sono rappresentati, per quanti concerne i primi, dai dati di flusso delle iscrizioni e delle pendenze, “accordando prevalenza al dato delle iscrizioni”; per quanto concerne i secondi , si possono suddividere in due ulteriori sotto-gruppi: A) fattori qualitativi di ordine sociologico, ossia 1) i city users, 2) lo IOC, ossia l’indice di criminalità organizzata[9], 3) la concentrazione di imprese sul territorio; B) fattori di statistica giudiziaria diversi da quelli considerati come “dati quantitativi”, ossia 1) la clearance rate (o, come si potrebbe dire, evitando il solito inglesorum[10],tasso di ricambio), cioè il rapporto tra procedimenti definiti e procedimenti sopravvenuti in un anno; 2) la durata media dei procedimenti, misurata col metodo del disposition time (ossia col rapporto tra pendenti a fine anno, e definiti nello stesso); 3) il trend di riferimento delle iscrizioni (utile a verificare se il dato statico – media del triennio 2016-2018 - rilevato si inserisce in un andamento “calante” o “crescente”). Quindi, la relazione tecnica afferma che è stato dato un particolare rilievo alle sedi distrettuali, in quanto dotate di competenze aggiuntive. Infine, enuncia una serie di criteri “analizzati (più che altro ai fini dell’analisi del trend) ma non utilizzati ai fini distributivi”, ritenendoli più utili nel futuro intervento sulle piante organiche flessibili distrettuali, e che sono rappresentati dall’arretrato (inteso come pendenze di più antica data, indice di una durata superiore a quella “ragionevole” ai sensi della c.d. Legge Pinto), dal turnover dei magistrati, e dalla scarsa appetibilità della sede.
Si vuole subito dire come sia da condividere la scelta di abbandonare, rispetto al precedente D.M. del 2016, l’utilizzo dei due fattori della popolazione residente, e della classe dimensionale degli uffici, su cui sia consentito rinviare alla critiche già mosse in una precedente occasione[11], e che pertanto non si staranno qui a ripetere.
Su tutto il resto, invece, numerosi sono gli aspetti critici che devono essere evidenziati. A parere di chi scrive, uno solo doveva essere il fattore quantitativo da considerare, ossia quello delle iscrizioni, e uno solo poteva essere quella qualitativo da tenere in conto (ma attribuendogli una specifica valenza numerica) come correttivo, ossia la presenza di criminalità organizzata. Tutti gli altri, come meglio si vedrà, sono fonte di distorsione perché implicano una duplicazione di analisi, cioè rappresentano degli “esaltatori di sapidità” che nulla aggiungono, nella sostanza, alla situazione di un determinato ufficio, rappresentando soltanto fattori che del rapporto procedimenti/magistrati sono o la causa, o l’effetto, e che quindi dovrebbero ritenersi assorbiti dai dati sui flussi.
Cominciando dalle iscrizioni, che rappresentano il numero dei nuovi procedimenti introdotti in un anno in ciascun ufficio,si può ritenere che esse soltanto siano il dato rappresentativo della “domanda di giustizia” (ma meglio sarebbe dire del “bisogno di giustizia”), mentre il numero dei procedimenti pendenti, cioè quelli rimasti da definire a fine anno, se sproporzionato alle sopravvenienze, non può che essere il frutto o di situazioni contingenti (assenze per malattie o altro impedimento, turnover, etc.), o, al limite, di una scarsa laboriosità dei magistrati. Nel primo caso, rappresentano una situazione destinata a essere riassorbita col tempo, e che pertanto richiede non una modifica dell’organizzazione stabile dell’ufficio (le piante fisse), ma provvedimenti di carattere temporaneo, come le supplenze e le applicazioni, anche avvalendosi di strumenti quali le nuove piante organiche flessibili a livello distrettuale, oggetto di altro provvedimento. Nel secondo caso, pur potendosi accompagnare anche a misure come quelle appena descritte per far fronte all’emergenza, i rimedi dovrebbero essere principalmente di tipo sanzionatorio (in senso lato, comprendendo anche la mancata conferma dei dirigenti).
Si vedrà in seguito come anche il criterio delle iscrizioni (o sopravvenienze), che deve ritenersi l’unico accettabile, in realtà, per come adottato dal Ministero, presti il fianco a pesanti critiche. Per comodità di esposizione, è opportuno passare ora brevemente in rassegna gli altri criteri, cominciando da quelli qualitativi. Anche stavolta, il Ministero insiste nel voler prendere in considerazione, come criterio correttivo, quello dei city users, che possono essere definiti come le persone che utilizzano una città a vario titolo, senza esservi residenti: le categorie che vengono subito in mente sono quelle dei pendolari, dei turisti, degli studenti fuori sede[12]. Orbene, il criterio dei city users sembra plausibile soltanto come correttivo del criterio della popolazione residente: se, per ipotesi, si dovesse organizzare un nuovo servizio pubblico di cui non si sappia ancora quanti saranno gli utenti e come saranno distribuiti sul territorio, un criterio approssimativo ma pur sempre razionale, in mancanza d’altro, potrebbe essere quello di distribuire le risorse sul territorio in proporzione alla popolazione che astrattamente avrebbe diritto di beneficiarne; ma, se l’uso del servizio non fosse condizionato alla residenza anagrafica, allora sarebbe altrettanto razionale correggere il dato dei residenti considerando anche la presenza di chi, a vario titolo, trovandosi sul territorio, potrebbe alimentare la domanda (che ancora non si conosce)di quel servizio. Nel caso che interessa, invece, è la stessa relazione tecnica 17.12.2019 a dirci (pag. 24) che questa volta si è scelto di utilizzare le iscrizioni dei nuovi procedimenti, civili e penali, come fattore principale di dimensionamento degli organici “senza considerare il criterio tradizionalmente usato della popolazione che, come già evidenziato dall’analisi dei risultati dei precedenti interventi, si è rivelato fallace e comunque recessivo rispetto al criterio delle iscrizioni”. In altre parole, il Ministero constata finalmente che gli uffici giudiziari non possono essere dimensionati sulla base del numero dei potenziali fruitori (la popolazione interessata), essendo evidente che sia la litigiosità che la criminalità non sono rigidamente proporzionali al numero degli abitanti, ma sono influenzate da fattori sociali, economici e culturali di vario genere, e che pertanto per distribuire i magistrati sul territorio occorre avere riguardo al numero dei procedimenti, più che alla popolazione. Ma, se così è, quale correttivo può comportare al numero delle iscrizioni quello dei “city users”? Se questi ultimi alimentano il contenzioso o la criminalità, si è già tenuto conto del loro effetto contando i procedimenti di nuova iscrizione; e se non lo alimentano, è perfettamente inutile contarli (ammesso che si riesca a farlo in modo preciso).
Un discorso perfettamente identico va fatto in relazione al numero delle imprese sul territorio. Anche questo potrebbe essere un dato utile a prevedere il potenziale ricorso alla giustizia qualora il servizio giudiziario fosse (per assurdo) di nuova istituzione, e non si conoscesse il dato di esperienza dei procedimenti iscritti; oppure qualora di questi ultimi (sempre per assurdo) non si tenesse il conto, e mancassero le statistiche giudiziarie. Ma poiché nessuna delle due ipotesi è reale, allora non si vede cosa possa aggiungere la densità delle imprese sul territorio (che è solo un potenziale fattore di alimentazione del contenzioso, dei fallimenti, dell’esecuzione forzata, della criminalità economica, e così via) al numero dei procedimenti che già sconta il fatto di essere alimentato dalla presenza delle stesse imprese. Insomma, è un contare lo stesso fattore due volte, con un palese effetto distorsivo.
Del correttivo rappresentato dalla presenza di criminalità organizzata invece si è detto bene, e lo si ribadisce, perché (e qui si comincia ad introdurre un concetto che andrà ripreso in seguito, come si vedrà), tra i procedimenti giudiziari non si può dire che “uno vale uno”: la criminalità organizzata non solo comporta un maggior numero di procedimenti (e neanche sempre, poiché talvolta il suo controllo sul territorio può contribuire persino a tenere a freno la micro-criminalità), ma soprattutto comporta procedimenti più complessi. Un maxi-processo per mafia non richiede lo stesso impiego di tempo e di energie di un processo per guida senza patente. E’ corretto, pertanto, attribuire alla presenza di criminalità organizzata una funzione correttiva dei puri dati quantitativi. Anche qui, però, se l’operazione non vuole essere arbitraria, si dovrebbero adottare dei criteri di quantificazione oggettivi, anzitutto per dimensionare il fenomeno, e poi per attribuire allo stesso un preciso valore incrementale rispetto alle altre grandezze considerate. Si è visto sopra, alla nota 9, quanto siano divergenti i dati che il Ministero ha utilizzato in due occasioni ravvicinate (2016 e 2019) attingendoli da diversi istituti di ricerca privati. Forse sarebbe più razionale utilizzare dati già a disposizione dell’amministrazione, come le iscrizioni di procedimenti provenienti dalla DDA, attribuendo loro un valore percentualmente più alto (ad esempio del 10, del 20, o del 30%, anche qui tenendo conto di dati oggettivi, come il numero di udienze per ogni processo, o il numero dei capi di imputazione o degli imputati) del normale.
Passando ora all’esame dei correttivi di natura statistica, si può dire che clearance rate (rapporto tra definizioni e iscrizioni) e disposition time (rapporto tra pendenze e definizioni) altro non sono che la risultante di altri indicatori statistici già presi in considerazione, quali le iscrizioni e le pendenze, con l’aggiunta del dato di risultato, rappresentato dalle definizioni. Orbene, del motivo per cui non si dovrebbe tener conto delle pendenze nell’elaborare le piante organiche si è già detto. Quanto alle definizioni, si tratta di un dato che non dovrebbe essere utile a dimensionare gli organici, poiché dipende principalmente dall’impegno individuale nell’espletare il carico di lavoro assegnato, salvo considerare (nel settore civile) il dato offerto dalla distinzione tra definizioni con o senza sentenza, e che può servire come correttivo delle iscrizioni, secondo quanto si spiegherà meglio in seguito. Il disposition time (che indica, con molta approssimazione, la durata prevedibile; la Direzione di Statistica, da qualche anno, elabora anche i dati relativi alla durata effettiva dei procedimenti, ma i decisori hanno preferito non avvalersene) dovrebbe servire da correttivo, nel senso di far assegnare maggiori risorse laddove i tempi siano più lunghi: ma se la lunghezza dei tempi trovasse ragione nella minor produttività, la considerazione di tale fattore rischierebbe di premiare l’inefficienza (mentre, come detto in generale per il dato delle pendenze, se trovasse la propria ragione in situazioni contingenti, assenze e simili, il rimedio dovrebbe essere di tipo temporaneo). Il tasso di ricambio (o clearance rate) poi, sta ad indicare un buon funzionamento dell’ufficio: un tasso di ricambio superiore a 1, che si ha quando le definizioni superano le iscrizioni, quindi, potrebbe far considerare in modo riduttivo le esigenze dell’ufficio, e viceversa. Ma se tale dato dovesse dipendere da un impegno superiore (o, nel caso opposto, inferiore) alla media, rischierebbe anche in questo caso di premiare l’inefficienza e penalizzare la laboriosità.
Quanto poi al trend, ossia all’andamento tendenziale, fermo restando che, come avverte la stessa relazione tecnica, i flussi possono comportare mutamenti nel tempo, cosicché si afferma il “principio innovativo rappresentato dalla ‘revisione permanente’ delle piante organiche del personale di magistratura, inteso come esigenza di maggiore dinamicità delle medesime e di costante revisione temporale”, l’aver preso in considerazione i dati statistici di un arco di tempo abbastanza ampio (il triennio 2016-2018) sembra già soddisfare l’esigenza di tener conto dei dati in una prospettiva dinamica. Semmai, si potrebbe attribuire all’anno più recente del periodo preso in considerazione un maggior rilievo, moltiplicandolo per un dato fattore numerico (ad esempio, 1,10, o 1,05), e correlativamente all’anno più risalente un analogo fattore di demoltiplicazione. O, in un’ottica più riduttiva, tener conto del trend solo in funzione degli arrotondamenti dei decimali che risultassero dalla proporzione tra iscrizioni e piante organiche, nel senso di arrotondare il risultato per eccesso nel caso di trend in aumento, e per difetto nell’ipotesi opposta.
Venendo infine alla “particolare rilevanza” riconosciuta alle sedi distrettuali, per le maggiori competenze che le riguardano, e limitando lo sguardo ai tribunali, la valutazione deve essere articolata. Per quanto concerne il settore civile, le maggiori competenze previste da leggi speciali, come il cosiddetto “foro erariale”[13], o la sezione specializzata delle imprese[14], le considerazioni da fare sono simili a quelle svolte circa i city users o la concentrazione delle imprese: anche in questo caso ci si trova di fronte (stavolta grazie a un dato normativo, anziché sociologico) ad una fonte di maggior carico di lavoro, che viene già conteggiata nel numero delle iscrizioni. Attribuire un valore aggiuntivo a queste situazioni significherebbe contare due volte un medesimo fattore. Diversa è invece la considerazione da fare per quanto concerne le competenze del cosiddetto “tribunale del riesame”, che decide in secondo grado sulle misure cautelari emesse da tutti i giudici del distretto di corte d’appello. Qui, infatti, di tali maggiori (e gravose) competenze, le statistiche penali non tengono conto, perché, come si apprende dalla “Guida alle statistiche – area penale” della Direzione di Statistica del Ministero[15], nessun rilievo statistico è attribuito alla richiesta di misure cautelari penali, né tantomeno alle relative impugnazioni, in quanto i procedimenti del GIP-GUP vengono calcolati solo quando giungono con richieste “definitorie” (di archiviazione, di decreto penale, di rinvio a giudizio). Di conseguenza, per rimediare a tale lacuna, è condivisibile attribuire una maggior rilevanza a queste sedi, anche se: 1) la relazione tecnica, anche in questo caso, non spiega in che misura (quantitativa) si traduca tale maggior rilevanza che si afferma di riconoscere; 2) sarebbe più semplice, anziché enunciare formule di riguardo che sembrano ispirate anche al “prestigio” della sede, aggiungere un paragrafo alle statistiche penali per tener conto anche di questo tipo di lavoro (spesso duro e scomodo, anche per le polemiche mediatiche che spesso attira, oltre che per il fatto di affrontare casi delicati, e dover essere svolto entro termini giugulatori). E questo anche per un parallelismo con le statistiche dei procedimenti civili, che, come si vedrà, salvo le richieste di copie alla cancelleria, conteggiano di tutto.
3. Il parametro più rilevante: le statistiche sulle iscrizioni
Anche se l’unico criterio adottato per dimensionare le piante organiche fosse quello delle iscrizioni, tuttavia, non tutti i problemi sarebbero risolti. Perché, esaminando le statistiche allegate alla relazione tecnica del dicembre 2019[16], e comparandole con le statistiche che compaiono sul sito della Direzione di Statistica www.webstat.giustizia.it , sorgono numerose perplessità. Anzitutto, pur essendo evidenziati separatamente, nelle schede distrettuali, i procedimenti civili e penali (sia per quanto concerne le iscrizioni che le pendenze), poi i due insiemi vengono sommati tra loro, ottenendo una cifra complessiva che, par di capire, è quella utilizzata come base per determinare le piante organiche. Così facendo, si attribuisce un’importanza sproporzionata al settore civile, dato che, a livello nazionale, si contano, come media del triennio 2016-2018, 2.315.032 iscrizioni civili e 1.161.367 iscrizioni penali (anche a causa delle diverse impostazioni delle due statistiche, come sopra si accennava). Poiché, tradizionalmente, in base alle disposizioni “tabellari” adottate per ciascun ufficio, la quota dei magistrati assegnati ai due settori si aggira intorno al 50%[17], e tale distribuzione, essendo frutto di scelte che avvengono “sul campo” e da lungo tempo, può ritenersi in linea di massima aderente alle esigenze reali, prima di sommare mele e pere (non solo un procedimento civile e uno penale sono due cose diverse, ma l’incommensurabilità delle due grandezze si accentua se nel civile si conteggiano i procedimenti sommari e nel penale, invece, non si computano le misure cautelari) si sarebbe dovuto predeterminare una quota per ciascuno dei due settori, e determinare le piante di ciascun ufficio per una parte (che si può ipotizzare prossima al 50%) in base al volume degli affari civili, e per l’altra parte in base al volume degli affari penali. Il diverso peso attribuito al civile rispetto al penale comincia già a configurare uno squilibrio territoriale a danno del Sud, dove gli affari penali pesano più che al Nord. Ma su ciò si tornerà ampiamente.
Una seconda e grave criticità è data dalle modalità con cui sono state utilizzate le statistiche civili, che sommano non mele e pere, ma “mirtilli e meloni”[18]. I dati genericamente riferiti nelle schede distrettuali ai “procedimenti civili”, sia come iscrizioni che come pendenze, rappresentano infatti la sommatoria di ben sette diversi tipi di procedimento, ciascuno considerato secondo la regola “uno vale uno”: a) cause civili ordinarie; b) cause di lavoro e previdenza; c) procedimenti fallimentari e concorsuali; d) esecuzioni; e) procedimenti speciali e sommari (tra cui i monitori); f) volontaria giurisdizione; g) altri. La relazione tecnica del dicembre 2019 (pag. 24), che giustifica questo “minestrone” statistico-giudiziario con “la considerazione che la stima dei fabbisogni di personale vada parametrata al complesso delle attività svolte da ciascun ufficio viste in una prospettiva d’insieme”, precisa che sono stati computati anche i procedimenti del giudice tutelare, oltre agli accertamenti tecnici preventivi in materia previdenziale (ex art. 445-bis c.p.c., par di capire), “attività che per le loro specificità non sono normalmente incluse nelle statistiche sui flussi”; e che (nota 20) è stata esclusa soltanto “l’attività di ‘ricevimento e verbalizzazione di dichiarazione giurata’ trattandosi di attività di natura prevalentemente amministrativa” (infatti la svolge il cancelliere, non il giudice!). Ora, se i vari tipi di procedimento si distribuissero in maniera uniforme tra i diversi uffici, il danno potrebbe non essere grave. Ma così non è, perché, per una serie di motivazioni socio-economiche, l’incidenza di procedimenti-“fuffa” è molto maggiore al Nord, dove in questo modo gonfia le statistiche a dismisura, rispetto al Sud, dove è assai maggiore l’incidenza delle cause “vere”.
Come afferma Mario Barbuto, il celebrato ex Presidente del Tribunale prima, e della Corte d’Appello di Torino poi, nonché successivamente capo del Dipartimento Organizzazione Giudiziaria del Ministero, “altro è l’impegno di un giudice per gli affari non contenziosi di volontaria giurisdizione o per i procedimenti di separazione consensuale (impegno minimo), altro è l’impegno per le cause in materia testamentaria, societaria e industriale, in materia di opere pubbliche (impegno massimo che si protrae per anni)”[19]. Nel descrivere la propria esperienza organizzativa di Presidente di Corte, lo stesso Barbuto afferma che dalle tavole statistiche redatte per una relazione inaugurale dell’anno giudiziario aveva eliminato, sia pur conteggiandola a parte, “la cd ‘zavorra’ ovvero quella materia volatile che ha un tempo breve o brevissimo di giacenza negli uffici. Si pensi ai ricorsi per decreto ingiuntivo o ai procedimenti di volontaria giurisdizione, che spesso vengono esauriti ad horas” [20]; aggiungendo che “occorreva maggiore coraggio nella riclassificazione delle pendenze (e dell’arretrato), distinguendo tra ‘cause contenziose’, che rappresentano il nucleo centrale dell’attività di un ufficio giudiziario (core business o nocciolo duro, si direbbe in altri contesti)…e ‘altri procedimenti’, tra i quali gli affari di volontaria giurisdizione. Si noti che in sede europea questi ultimi vengono conteggiati come non-litigious cases, distinti dai litigious cases”[21]. L’opinione di Barbuto[22], in questo caso, merita di essere incondizionatamente condivisa. Ed infatti “ce lo dice l’Europa” che “in linea generale, gli affari non contenziosi, se possono appesantire il carico di lavoro dei tribunali, sono raramente la causa di una mancanza di efficacia delle giurisdizioni”[23]. E, se non ce lo dicesse l’Europa, basterebbe leggere le statistiche sulla durata dei procedimenti per comprenderlo: dal sito www.webstat.giustizia.it emerge, con riferimento al triennio considerato per la formazione delle piante organiche, il seguente quadro circa la durata media dei procedimenti espressa in giorni:
È chiaro che procedimenti la cui durata si misura mediamente in due o tre mesi non possono essere sommati a procedimenti la cui durata si misura in anni. Altrimenti, per usare un’altra metafora di Barbuto, ne verrebbe fuori “l’immagine di un silos in cui entravano chicchi di riso in grande quantità, insieme con pannocchie di granturco, zucche e angurie di volume più consistente, con rapida fuoriuscita del riso ed estrazione più complessa per gli altri prodotti. In realtà, nessun agricoltore di buon senso userebbe un silos simile”[24]. E comunque, essendo disomogenea nel territorio la distribuzione delle diverse tipologie di procedimenti, un tal tipo di misurazione ha effetti distorsivi sulla distribuzione delle risorse (a danno principalmente del Sud).
Del resto, la summa divisio tra procedimenti contenziosi e non contenziosi è adottata dall’Istat, che da molto tempo, nell’Annuario Statistico Italiano, edito annualmente, distingue le due categorie, descrivendo dettagliatamente le classi di procedimento appartenenti alluna e all’altra (salvo conteggiare poi separatamente le esecuzioni, che per l’Istituto rappresentano un tertium genus). Tra i contenziosi l’Istat comprende: i procedimenti civili di cognizione; le separazioni giudiziali tra coniugi; i divorzi con rito giudiziale; i procedimenti di lavoro e previdenza (compresi gli ATP ex art. 445-bis c.p.c.); le istanze di fallimento. Nel “non contenzioso” annovera: le separazioni consensuali (così scorporando, giustamente, tale materia dal “civile ordinario” in cui è compresa nelle statistiche ministeriali); i divorzi congiunti; le procedure fallimentari, e le altre procedure concorsuali; i procedimenti speciali e la volontaria giurisdizione[25]. E la distinzione rappresenta la base per i dati da comunicare alla Cepej, che distingue nettamente le due classi di procedimenti nei noti rapporti biennali sulla giustizia nei paesi membri del Consiglio d’Europa.
Certamente, oltre al contenzioso ordinario e a quello del lavoro, settori particolari come il fallimentare (ed in certa misura le esecuzioni) potrebbero meritare una valutazione nel dimensionamento delle piante organiche. E ciò potrebbe valere anche per l’attività del giudice tutelare (ricompresa nella volontaria giurisdizione), nonché per alcuni procedimenti speciali. Ma quel che non è accettabile è ll’identico peso attribuito indistintamente a tutti i tipi di procedimento. Occorrerebbe pertanto, se proprio l’analisi dei carichi di lavoro deve perseguire un obiettivo di assoluta completezza, attribuire previamente un punteggio ad ogni tipo di procedimento, sulla base di un’attenta analisi dell’impiego di tempo e di energia occorrenti per definire ciascuna tipologia in rapporto ai tempi ed energie medi occorrenti per definire una causa (si potrebbe pensare, ad esempio, per i fallimenti, a censire, nei tribunali dove esistono sezioni specializzate in tale materia, il numero dei giudici che ne fanno parte, comparandoli col numero dei giudici assegnati alle altre sezioni civili, e, raffrontando poi il numero dei procedimenti definiti nell’anno dall’uno e dall’altro settore, divisi per ciascun addetto, valutare il peso specifico della tipologia speciale rispetto all’ordinaria, attribuendo un “punteggio”: ad esempio, se risultasse che i fallimenti definiti in un anno da un giudice fallimentare fossero il doppio delle cause definite in un anno da un suo collega della sezione civile ordinaria, il coefficiente da attribuire ai fallimenti sarebbe pari a 0,50). Ma, se dovessero prevalere esigenze di semplificazione, meglio allora tagliare il nodo gordiano, e prendere in considerazione soltanto il “core business” (cause civili ordinarie e di lavoro), seguendo le indicazioni di Barbuto, piuttosto che perseguire in apparenza un perfezionismo che vuol prendere in considerazione tutto, per giungere poi ad un risultato paradossale dove il mirtillo pesa quanto il melone.
Ma non è finita qui, perché anche le cause (civili e di lavoro) non sono tutte uguali. Non solo perché tra le stesse sono conteggiati procedimenti come quelli di separazione consensuale o di divorzio congiunto che meriterebbero di essere computate (come fa l’Istat) nel non contenzioso. Non solo perché ce ne sono di più e di meno complesse, e qui soccorre la legge dei grandi numeri (si può presumere che la difficoltà media sia eguale in relazione a insiemi di grandezze omogenee sufficientemente ampi, come lo sono i gruppi di cause trattati in un anno da un tribunale; e comunque un’analisi più approfondita sarebbe praticamente impossibile da farsi). Ma perché, a seconda delle condizioni ambientali, diversa è la percentuale di cause che viene definita con sentenza, rispetto al totale delle cause che nelle statistiche vengono indicate come “definite”. Una notevole quota delle cause civili e di lavoro introdotte (pari, a livello nazionale, al 45% circa) viene definita senza sentenza, cioè, nella stragrande maggioranza di questi casi, con una cancellazione della causa dal ruolo per mancata comparizione delle parti, che nasconde una conciliazione stragiudiziale (preferita dalle parti a quella giudiziale perché evita loro il pagamento dell’imposta di registro). In questa categoria vanno poi ricomprese le cause di separazione consensuale, che, come è noto, non vengono definite con sentenza ma con decreti di omologazione. Le cause definite in questo modo non comportano, in genere, molto lavoro per il giudice (salvo che ciò non avvenga dopo l’assunzione delle prove), e possono considerarsi anch’esse “zavorra” statistica: da sempre è risaputo che il lavoro più impegnativo, per il giudice, è la stesura della sentenza. Al fine di valutare adeguatamente le esigenze dimensionali di ciascun ufficio, occorrerebbe pertanto considerare il numero delle iscrizioni nella sola percentuale in cui, in ogni ufficio, mediamente le cause vengono definite con sentenza. Tale percentuale si mantiene infatti abbastanza costante nel tempo per ogni ufficio, e dipende in gran parte da condizionamenti esterni di carattere economico, sociale e culturale, ivi comprese le attitudini del foro a questo riguardo (le conciliazioni sono infatti influenzate, almeno in parte, dal condizionamento che l’avvocato può esercitare a tale proposito sul cliente). Non è un caso che la percentuale di cause definite con sentenza salga man mano che si scende verso Sud (da un 40% circa al Nord ad un 50% circa al Sud)[26].
Per avere un quadro, parziale ma significativo, di quanto il criterio “uno vale uno” penalizzi i tribunali del Sud e favorisca invece quelli del Nord, è sufficiente esaminare i dati aggregati, relativi al 2020, dei tribunali degli otto distretti principali (per numero di affari), circa la percentuale in cui le cause (civili ordinarie, e di lavoro e previdenza) vengano definite con sentenza, e il rapporto esistente tra decreti ingiuntivi emessi e sentenze relative alle due “macromaterie” (civile ordinario e lavoro e previdenza), evincibili dal sito della Direzione di Statistica del Ministero[27]. Per quanto riguarda il primo aspetto, nel 2020 la percentuale in questione oscilla tra un 38 % circa dei tribunali dei maggiori distretti del Nord, ed un 56% dei tribunali del distretto di Napoli:
Le statistiche del settore penale presentano un’impostazione peculiare, ignorando tutti i provvedimenti diversi dalla definizione del processo, e quindi trascurando tutti i momenti di interlocuzione tra PM e GIP durante le indagini (richieste di intercettazione, di proroga delle indagini, di convalide di arresti e fermi etc.), tutte le misure cautelari, sia personali che reali, e le relative impugnazioni, oltre agl’incidenti di esecuzione, e alle misure di prevenzione (le statistiche dei tribunali di sorveglianza, e quelle relative alle intercettazioni, sono riportate a parte, al di fuori dei flussi dei procedimenti). Inoltre, dalle statistiche dei flussi penali sono totalmente esclusi i procedimenti nei confronti di ignoti, evidentemente ritenuti (non a torto) semplice “zavorra”. Tali statistiche si attestano insomma su una nozione riduttiva di procedimento, che è forse preferibile a quella eccessivamente estensiva adottata nelle statistiche civili[28], ma che comunque andrebbe da un lato almeno moderatamente integrata (in relazione alle misure cautelari e ai riesami) e dall’altro coordinata con le statistiche dell’altro settore, onde evitare che le i numeri dell’uno soverchino per importanza quelli dell’altro. Non sembra invece censurabile (anche se rappresenta un’anomalia, rispetto al civile) il fatto che un procedimento che giunga a dibattimento passando per l’udienza preliminare venga, in sostanza, contato due volte, una prima volta come iscrizione (e poi come definizione, con rinvio a giudizio) del GUP, e una seconda volta come iscrizione (e poi come definizione) del giudice dibattimentale (e lo stesso avviene, anche se con impatto numerico inferiore, per i decreti penali opposti), perché si tratta effettivamente di due fasi diverse che comportano ciascuna l’impegno di un giudice. Anche nel settore penale, però, emerge qualche aspetto critico. Il principale riguarda, anche in questo caso, un fenomeno di “zavorra” (o comunque, di provvedimenti meno impegnativi che sono però – come nel civile i decreti ingiuntivi – estremamente numerosi) che riguarda non tanto i decreti penali di condanna (discutibilmente equiparati alle sentenze, ma relativamente poco numerosi), quanto i decreti di archiviazione, che rappresentano grosso modo la metà di tutti i procedimenti definiti nei tribunali italiani (nel 2020, 392.304 archiviazioni su un totale di 838.157 definiti complessivamente nei tribunali, di cui 600.685 dai GIP-GUP; il peso dei decreti penali è invece trascurabile, essendo pari a 17.808). Anche in questo caso, per voler dare una più adeguata rappresentazione della realtà, si dovrebbe assegnare un coefficiente riduttivo ai decreti di archiviazione, calcolando quanto impegno richiedano mediamente rispetto ad un processo definito con sentenza. Oppure, per semplicità, si potrebbero anche espungere tali provvedimenti (come già lo sono quelli contro ignoti) dal calcolo ai fini delle piante organiche. Come già si è visto a proposito del civile, è meglio approssimare per difetto, limitandosi al “nocciolo duro” degli affari, che gonfiare le statistiche con procedimenti-zavorra, specie qualora ciò possa alterare la proporzione tra i carichi di lavoro degli uffici, e quindi tra gli organici. Per tornare agli otto principali distretti presi in esame, si osserva che il confronto Nord-Sud rappresenta disparità meno evidenti che nel settore civile, poiché ad avere più decreti di archiviazione, in misura superiore al 50% del totale delle iscrizioni, nel 2020, sono i distretti di Torino (51,18%) e Venezia (50,97%), mentre Milano, col 43,96%, riporta la stessa percentuale di Bari (43,48%), e gli altri si situano in un livello intermedio (Firenze, 48,87%; Napoli, 47,90%; Roma, 45,64%; Bologna, 47,39%). Un effetto distorsivo sussiste però anche in questo caso, anche se più causale (ossia meno dipendente da fattori socio-economico-culturali) e meno vistoso che nel caso delle statistiche civili.
4. Lo scostamento dalle statistiche nel dimensionamento delle piante organiche
A questo punto, premesse tutte le critiche che si sono rivolte ai criteri utilizzati dal Ministero per conteggiare le sopravvenienze, si deve esaminare se, di tali dati così grossolani e approssimativi, nel definitivo disegno della pianta organica il Ministero abbia tenuto conto, oppure da tali risultanze si sia discostato, e perché. Esaminando le piante organiche dei tribunali, quali risultano dal D.M. 14.9.2020, e comparandole con quello che dovrebbe essere il risultato teorico, se si fosse tenuto fede alla premessa di dover dimensionare gli uffici almeno tendenzialmente in proporzione alle iscrizioni medie del triennio 2016-2018 (risultato ottenibile moltiplicando il dato delle iscrizioni totali, ossia civili più penali – media 2016-2018 – di ciascun ufficio[29] per 5.422, numero dei posti complessivamente assegnati ai tribunali ordinari, e dividendo il risultato per 3.476.399, dato delle iscrizioni totali della media del triennio in tutta Italia) si scopre che su 140 tribunali italiani appena 10, alla fin dei conti, hanno esattamente il numero che loro “spetterebbe” in base a quella proporzione, ossia appena il 7% del totale (si tratta dei tribunali di Rovereto, Sciacca, Cremona, Vercelli, Alessandria,La Spezia, Gorizia, Spoleto, Tempio Pausania e Avellino, tutti, come si vede, di dimensioni medio-piccole). Il restante 93% si vede assegnato un numero di giudici diverso, maggiore o minore che sia. In 16 casi (l’11% del totale) lo scostamento è a due cifre, cioè superiore a 9. In un caso, quello del Tribunale di Napoli, lo scostamento è addirittura di 99, mancando solo di un’unità le tre cifre.
A differenza che nel 2016, stavolta il Ministero non ha operato alcuna riduzione di organico, come chiarisce la stessa relazione tecnica, affermando (pag. 18) che “per scelta condivisa con il Consiglio superiore della magistratura[30], il presente intervento si caratterizza per l’assenza di riduzioni di pianta organica, in quanto, nell’ipotesi meno favorevole, non verranno assegnate risorse agli uffici che risultano adeguatamente ‘dimensionati’ sulla base dei parametri presi in considerazione”. Più marcatamente che nella precedente occasione, quindi, traspare la preoccupazione dell’apparato amministrativo, sottoposto ai condizionamenti ambientali di tipo correntizio, di non suscitare reazioni nei possibili destinatari di “tagli”, sempre sgraditi ai dirigenti degli uffici, a qualsiasi corrente essi appartengano. Anzi, in quei rari casi in cui nel 2016 erano stati operati timidissimi tagli, il D.M. del 2020 fa marcia indietro, “restituendo” alcuni dei posti ridotti allora: guarda caso, a beneficiare delle parziali “restituzioni” sono essenzialmente i tribunali di Torino (4 posti in meno nel 2016, 1 in più nel 2020), Milano (5 posti in meno nel 2016, 3 in più nel 2020), Roma (12 posti in meno nel 2016, 3 in più nel 2020) e Napoli (9 posti in meno nel 2016, 2 in più nel 2020), tribunali che risultano, a seguito dell’ultima revisione, e in base alla proporzione tra iscrizioni considerate nei lavori del Ministero, eccedentari rispettivamente di 13 posti Torino, 36 Milano, e , come si è detto, 99 Napoli (Roma, invece, resterebbe tuttora deficitaria di 9 posti). I grossi tribunali, come già si è commentato in altra sede[31], sono importanti bacini elettorali, e conviene sempre, al “sistema” correntizio e ai suoi addentellati, tenerseli buoni. Per il resto, le eccedenze più vistose, oltre ai casi già visti, riguardano i tribunali di Genova (13 posti), Caltanissetta (19), Palermo (11), Locri (13), Reggio Calabria (31), Catania (14). Le “carenze” (rispetto al risultato della sopra descritta proporzione) a due cifre riguardano invece i tribunali di Bologna (-12), Brescia (-20), Verona (-10), Velletri (-11), Tivoli (-11), Nocera I. (-11), Lecce (-15), tre dei quali capoluoghi di distretto, per i quali la relazione tecnica afferma anche di aver avuto un occhio di riguardo. Naturalmente, posto che il dato statistico preso a base (sommatoria delle iscrizioni di procedimenti civili e penali, piccoli e grandi, oves et boves, secondo la regola “uno vale uno”) è, come si è visto, estremamente grossolano, non deve troppo sorprendere che nel distribuire i posti non sia stato seguito rigidamente. Ma la sostanziale inattendibilità dei dati statistici utilizzati (non perché manchi un buon servizio statistico, ma perché i dati non vengono opportunamente filtrati e utilizzati in modo razionale) rende possibile tenerne conto in modo soltanto approssimativo, correggendone i risultati secondo le pressioni più o meno clientelari che vengono da una parte o dall’altra, con motivazioni che invocano ora l’uno ora l’altro dei parametri correttivi, ai quali non viene attribuito alcun valore predeterminato, in modo da torcerli all’occorrenza per assecondare la decisione che di volta in volta appare più “politicamente” opportuna.
Da ultimo, si accenna brevemente al fatto che la revisione ha previsto l’aumento di 25 posti nella magistratura minorile (18 giudicanti e 7 requirenti) e di 20 posti nella magistratura di sorveglianza, nonostante che dal 1971 (anno in cui gli uffici minorili si configurarono come uffici autonomi rispetto ai tribunali ordinari e alle relative procure) al 2017 la magistratura minorile avesse già visto aumentare i propri organici del 140%, nello stresso tempo in cui l’organico della magistratura nel suo complesso era aumentato del 78%, e quello degli uffici giudicanti di primo grado del 39%; la magistratura di sorveglianza, invece, dal 1976 (anno in cui anch’essa si articolò in uffici autonomi) al 2017, era passata da 70 unità a 233, con un aumento del 232%. Per gli uffici minorili, la relazione tecnica riporta soltanto i dati statistici del quinquennio 2014-2018, che mostrano una situazione sostanzialmente stabile, con una contrazione del 6,7% degli affari penali, e un temporaneo aumento di quelli civili nel 2017, seguiti da un calo nell’anno successivo. Ancora più netto il calo delle iscrizioni nelle procure minorili (-14%). Per quanto concerne la sorveglianza, i dati mostrano un calo fino al 2017, seguito da una ripresa nel 2018. Più significativo sarebbe però un confronto con epoche più risalenti, cioè quando gli organici erano, come si è visti, molto più ridotti: nel 1971 i “provvedimenti circa la patria potestà” furono 68.854, e le dichiarazioni di adottabilità 3.261; nel 2010 gli interventi sulla potestà dei genitori, sommati ai provvedimenti di urgenza a protezione del minore sono stati in totale 20.346, e le dichiarazioni di adottabilità 1.177. Nel 1971 i procedimenti nei confronti di minorenni iscritti nelle procure furono 36.872, nel 2014 sono stati 37.402. I detenuti in Italia erano 31.081 alla fine del 1976, 53.364 alla fine del 2020[32]. Senza nulla togliere all’importanza e delicatezza delle funzioni in questione, occorrerebbe che gli interventi in tali settori non fossero considerati delle variabili indipendenti, e facessero i conti con le compatibilità del sistema (di cui anche gli uffici minorili e di sorveglianza fanno parte), nella consapevolezza che ogni posto aumentato dove non risulta strettamente necessario rappresenta un posto sottratto laddove necessario lo è, e senza prescindere da una pur difficile (per la diversa tipologia degli affari trattati) comparazione coi carichi di lavoro degli uffici ordinari.
5. Conclusioni
La conclusione è amara. La logica che prevale nella distribuzione dei posti in aumento negli organici della magistratura è simile a quella che presiede alla ripartizione di risorse tra diversi ambiti territoriali in relazione a molti servizi pubblici, cioè quella della “spesa storica”. Vale a dire che chi ha sempre avuto di più, continua ad avere (in proporzione) di più, e viceversa chi ha sempre avuto di meno continua ad avere di meno. L’occasione per ripianare le disparità anche attraverso riduzioni, laddove sia il caso, viene ripetutamente sprecata, un intervento dopo l’altro, tramite continui interventi “a pioggia”, mossi soprattutto dalla preoccupazione di non scontentare nessun ufficio, specie se grande e quindi importante come bacino elettorale, ma senza risolvere davvero i problemi degli uffici più gravemente sottodimensionati, e ciò potrebbe dar ragione a chi paventa che l’aumento di risorse “rischia di essere l’alimentazione di un buco nero che tutto assorbe senza alcuna resa”[33]. Nel frattempo la vulgata corrente, influenzata dai pregiudizi degli economisti neo-liberisti che nulla sanno di giustizia, propone l’immagine di una giustizia inefficiente perché insufficientemente organizzata secondo criteri aziendalistici e manageriali, per introdurre i quali sarebbe necessario divulgare le best practices, diffuse negli uffici del Nord, soprattutto tra i pigri magistrati del Sud, refrattari all’organizzazione, come sembra presupporre il recente decreto interministeriale, del Ministro della Giustizia e di quello per il Sud, in data 14 maggio 2021, che ha istituito una Commissione per la giustizia nel Sud. L’opinione è stata nel tempo confortata dalla nota esperienza del “progetto Strasburgo” del Tribunale di Torino, la cui immagine non tiene conto della favorevole situazione in cui si è sempre trovato e si trova tuttora tale Tribunale, che, come molti altri tribunali del Nord, gode di dotazioni organiche sovrabbondanti, il che permette a quegli uffici di fare bella figura con poco sforzo. La base tecnica di tutto ciò sta, come si è visto, nell’adozione di criteri statistici questi sì davvero incompatibili con una visione organizzativa razionale, che lasciano spazio alla discrezionalità più assoluta di Ministero e CSM. Se è vero che l’organizzazione è importante, essa lo è anche a livello di amministrazione centrale, e non può esserlo solo nel microcosmo degli uffici periferici. La più importante riforma di cui necessita l’amministrazione della giustizia è l’introduzione di criteri razionali e rigorosi per la distribuzione delle risorse, non la divulgazione di pur utili accorgimenti, come ad esempio quello di mettere ai fascicoli copertine di diverso colore per notare meglio qual è più risalente. Ma tutto ciò ha anche a che vedere con quel “sistema” associativo-correntizio che influenza non solo il CSM ma anche il Ministero, e che difficilmente potrebbe tollerare una redistribuzione che elimini privilegi e rendite di posizione sui cui molti elettori, e grandi elettori, campano. Se tale situazione dovesse perdurare, allora, nonostante la diffusa sfiducia nella politica, sarebbe paradossalmente preferibile che il Parlamento si riappropriasse del potere di legiferare nel dettaglio sulle piante organiche degli uffici giudiziari, in tal modo adottando decisioni trasparenti e alla luce del sole, anziché delegarle alle chiuse e ovattate stanze dei palazzi governativi.
[1] Claudio Castelli, Standard, carichi esigibili, carichi sostenibili, in Questione Giustizia, 24 giugno 2015.
[2] L’originaria proposta riguardava 118 posti, che sono poi saliti a 136 per accogliere alcune richieste avanzate nel parere del CSM.
[3] In un’audizione presso la Commissione Parlamentare Antimafia l’11 marzo 1997 (resoconto stenografico, pag. 53), da cui era stato convocato in qualità di presidente della commissione per l’organizzazione degli uffici giudiziari del CSM.
[4] Modena, Giustizia civile – le ragioni di una crisi, Aracne, 2019, in particolare pagg. 208-210, e 236-237.
[5] Giustizia civile, cit., pagg. 222-236, e 299-300.
[6] Illustrata nella relazione tecnica che accompagna la proposta: https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/organico_magistrati_dm1dic2016_relazione.pdf
[7] https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/rideterminazione_pianteorganiche_relazione_tecnica_17dic2019.pdf
[8] Sull’intreccio perverso tra politica e alta amministrazione, e su come “manine” e “manone” intervengano a manipolare anche gli atti normativi più importanti, si veda Io sono il potere – confessioni di un capo di gabinetto, raccolte da Giuseppe Salvaggiulo, Feltrinelli, 2020
[9] Evinto da un rapporto dell’Eurispes, alle cui pagg. 135 ss. la relazione (pag. 26, nota 23) rinvia per illustrarne la metodologia: https://eurispes.eu/themencode-pdf-viewer-sc/?tnc_pvfw=ZmlsZT1odHRwczovL2V1cmlzcGVzLmV1L3dwLWNvbnRlbnQ-vdXBsb2Fkcy8yMDE5LzAyL-zIwMTZfYWdyb21hZmllXzRfcmFwcG9ydG9fY3JpbWluaV9hZ3JvYWxpbWVudGFyaS5wZGYmc2V0dGluZ3M9MDAxMTEwMTExMTAxMDAmbGFuZz1pdA==#page=&zoom=auto&pagemode. Al D.M. 1.12.2016 era invece allegata una tabella O, che riportava un indice di presenza mafiosa elaborata dal centro universitario “Transcrime” dell’Università cattolica di Milano, https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/organico_magistrati_dm1dic2016_allegato1.pdf, pag. 54, riferita agli anni 2000-2011 che contiene dati profondamente discordanti con quelli elaborati dall’Eurispes. Nella tabella Eurispes, riferita agli anni 2008-2013, figura in testa la provincia di Ragusa, con indice 100,0, alla quale nella tabella Transcrime viene dato il punteggio di appena 7,12. Napoli è in testa alla classifica Transcrime, con punti 101,57, mentre nella tabella Eurispes ha solo 78,9 punti (pur essendo al terzo posto). A Nuoro vengono assegnati 46,3 punti nella classifica Eurispes, che la vede al 21° posto, mentre nella tabella Transcrime riporta appena 0,10, trovandosi tra le ultime province in classifica (11.a dal basso).
[10] L’abuso di anglicismi nel linguaggio corrente svolge oggi analoga funzione a quella che svolgeva l’uso del latino ai tempi di Don Abbondio: fare sfoggio di cultura, e porre uno schermo tra il linguaggio elitario e quello comune, al fine di rendere meno trasparente la comunicazione.
[11] Giustizia civile, cit., pag. 209.
[12] Una stima Istat dei “city users” è contenuta nella tabella M allegata al D.M. 1.12.2016, https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/organico_magistrati_dm1dic2016_allegato1.pdf, pagg. 48 ss., che però non sembra tener conto dei pendolari, ma solo dei residenti di fatto (occupati e studenti) oltre che dei turisti.
[13] Si tratta della competenza territoriale sulle cause dell’amministrazione statale, attribuita al giudice del luogo dove ha sede il più vicino ufficio dell’Avvocatura dello Stato (ossia il capoluogo del distretto di corte d’appello), ai sensi dell’art. 25 c.p.c.
[14] Istituite dal D.L.vo n. 168/2003, e riformate dall’art. 2 del D.L. 14 gennaio 2012 n. 1, con competenza in materia di proprietà industriale ed intellettuale, nonché, a seguito della riforma, in materia societaria e di appalti pubblici di rilevanza comunitaria, presso alcuni capoluoghi di distretto (tutti quelli che coincidono coi capoluoghi di regione, tranne Aosta, e oltre a Brescia, Catania, e Bolzano)
[15] https://webstat.giustizia.it/SiteAssets/SitePages/StatisticheGiudiziarie/penale/Area%20penale/Guida%20alle%20Statistiche%20PENALE.pdf
[16] https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/all3_rideterminazione_pianteorganiche_requirenti_giudicanti_17dic2019.pdf
[17] Lo conferma un “censimento” del CSM riferito all’ottobre 2015, http://www.csm.it/documents/21768/137951/Numero+di+giudici/967db0db-c2b7-4392-aff0-1e5a1180b511 che indica nel 54,6% la quota dei magistrati di tribunale assegnati al civile; la percentuale sale al Nord (fino a raggiungere, nel distretto della Sezione Distaccata di Corte d’Appello di Bolzano il 76,9%), e scende al Sud (52,1%; mentre nel resto del Paese sale al 56,4%), dove in alcuni distretti è maggioritaria la quota di addetti al penale (Reggio Calabria 55,1%, Caltanissetta 54,5, Palermo 54,2%)
[18] L’espressione, quanto mai efficace, è di Mario Barbuto, L’efficienza della giustizia passa da Strasburgo – Storia di un progetto organizzativo di livello europeo, Aracne, 2017, pag. 177
[19] Barbuto, op. cit., pag. 177
[20] Ibidem, pag. 183
[21] Ibidem, pag. 184
[22] dalla cui “narrazione” (oltre che dalla cui opera come capo-dipartimento ministeriale) si è in altra sede dissentito, trovando eccessiva l’enfasi posta sugli aspetti micro-organizzativi, cioè di organizzazione dei singoli uffici, piuttosto che sulle risorse ad essi assegnate, e reputando il successo del “programma Strasburgo” dovuta in gran parte alla favorevole situazione delle piante organiche del Tribunale di Torino; ma a cui comunque va riconosciuta una grande acutezza nell’analisi dei problemi gestionali degli uffici giudiziari.
[23] Rapporto Cepej 2014, pag. 273.
[24] Barbuto, op.cit., pag. 183
[25] Annuario statistico Italiano 2020, pag. 223, tavola 6.4 e relative note
[26] Cfr. la tabella 4.3 a pag. 224 in Giustizia civile, cit.
[27] https://webstat.giustizia.it/SitePages/StatisticheGiudiziarie/civile/Procedimenti%20Civili%20-%20flussi.aspx
[28] A rigore, anche nel computo dei procedimenti civili sono esclusi i provvedimenti interlocutori (cautelari in corso di causa, reclami, ordinanze istruttorie); tuttavia la vasta congerie dei “procedimenti civili” annovera, di fatto, molta più “zavorra” di quanto non avvenga nel penale.
[29] rinvenibile nelle già menzionate schede distrettuali: https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/all3_rideterminazione_pianteorganiche_requirenti_giudicanti_17dic2019.pdf
[30] E non c’era da dubitarne: in occasione della precedente revisione il CSM nel suo parere interlocutorio del 23 novembre 2016 non aveva chiesto alcuna riduzione di organico rispetto al progetto ministeriale – salvo che per gli uffici di Salerno – chiedendo sempre, laddove avanzava osservazioni, soltanto aumenti (o minori riduzioni): si veda sul punto Giustizia Civile, cit., pag. 210
[31] Giustizia civile, cit., pag. 211
[32] Cfr. Giustizia civile, cit., tab. 2.31, pag. 104, e pagg. 106-107
[33] C. Castelli, Un piano straordinario per la giustizia nel Sud, in Questione Giustizia, 1.10.2015; il che, però, può essere vero solo se si rinuncia preventivamente a contrastare con efficacia l’andazzo descritto.
Un colpo d’ala per una moderna affidabile giustizia tributaria.
di Claudio Consolo
Sommario: 1. Uno sguardo d’assieme sui lavori della Commissione della Cananea - 2. Le ragioni della divisione - 3. Una proposta alternativa - 3.1 Salvaguardare e rivitalizzare il giudizio di legittimità - 3.2 Fondere innovazione e continuità per la giurisdizione di merito: l’impiego delle sezioni specializzate imprese quali giudici di appello.
1. Uno sguardo d’assieme sui lavori della Commissione della Cananea
Con la pubblicazione della relazione finale si conclude il primo momento di studio e di riflessione pro futuro della commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria.
In un forte clima di pulsioni ed esigenze riformatrici, che interessa tutti i principali plessi giurisdizionali, incardinare e sviluppare un discorso orientato alla crescita nella razionalizzazione anche della giustizia tributaria, volto a superarne i principali elementi di stallo spesso forieri, peraltro, di un grave vulnus qualitativo nella tutela ivi apprestata, risulta quanto mai necessario e ineludibile. Ciò è pacifico, pur fra vivaci dissensi programmatici, tanto più vero se osservato all’interno dell’attuale contesto di interventi straordinari, nazionali e sovranazionali, apprestati per risvegliare il tessuto economico e produttivo, ancora tramortito dal forte shock subito. Ripresa e resilienza non possono che passare attraverso la definizione di un ordinamento giuridico idoneo a supportarle, in modo quasi funzionale e che non le sia più d’ostacolo, come negli ultimi lustri accaduto per vari gravosi versi. La concreta efficacia di una giustizia tributaria - che sia intimamente tale – assume rilievo primario per la realizzazione dei targets di rilancio prefissati in questa fase di rinascita.
Senza ulteriori indugi, pertanto, è necessario salutare con pubblica riconoscenza il lavoro svolto della commissione Della Cananea, meticoloso e positivo soprattutto se commisurato agli esiti cui esso ha condotto.
Questo pregevole lavoro, tuttavia, si è caratterizzato per una forte polarizzazione delle soluzioni proposte al suo interno, con l’emersione ormai notoria di due filoni già prima facie inconciliabili, proprio in merito alla concezione prodromica che si ha della giustizia tributaria e, in special modo, dei giudici che sono chiamati ad amministrarla.
Da una parte, infatti, la prima proposta “tiene fermo il tratto saliente della normativa vigente, cioè la configurazione della magistratura tributaria come onoraria, pur introducendo il requisito della laurea magistrale in giurisprudenza o in economia o al titolo di dottore di ricerca in materie giuridico-aziendali per quanti non appartengono alla magistratura ordinaria, amministrativa o contabile”[1]. Questa scelta è la mediata conseguenza di una lettura assai rigida delle disposizioni costituzionali rilevanti in materia, che era emersa inizialmente nei lavori della Commissione, in forza della quale non sarebbe stato possibile nemmeno modificare in meglio gli attuali meccanismi di reclutamento dei giudici tributari. La Costituzione non prevede espressamente una compiuta ed autosufficiente giurisdizione tributaria, dunque non consente la creazione di un nuovo giudice speciale in aggiunta a quelli esistenti (amministrativo, contabile, militare). Specularmente, sulla base di tali considerazioni, non sarebbe possibile immettere nella Corte di Cassazione esperti esterni alla magistratura ordinaria al di fuori dei limitati casi previsti. “Da tutto ciò deriva che va tenuta ferma la natura onoraria della magistratura tributaria” a monte della consueta fase di cassazione. Di conseguenza, l’azione di riforma dovrà orientarsi - e limitarsi – ad introdurre alcuni correttivi, senza stravolgere, di fatto, l’attuale configurazione sistematica.
Dall’altra parte, la seconda soluzione prospettata è assai più radicale ed ambiziosa, con alcuni tratti tuttavia non realistici ed in prospettiva asfittici.
Essa si basa su una lettura più elastica dei portati della Costituzione, suffragata in parte dalle più importanti pronunce della Corte Costituzionale in materia, secondo cui non sarebbe preclusa a prescindere qualsiasi tipo di modificazione nella configurazione e nel funzionamento delle commissioni tributarie. “Discende da ciò la possibilità d’istituire una magistratura tributaria assunta per concorso”. Con lampanti, benefiche, conseguenze ne discenderebbero: “il consolidamento della vocazione specialistica della giurisdizione tributaria, estesa all’intero corpo di magistrati, non al solo secondo grado; il venir meno della disparità tra i giudici tributari provenienti – rispettivamente – dalle varie magistrature e dalle professioni; l’apporto che un personale di magistratura più specializzato può fornire alla sezione tributaria della Corte di Cassazione”. In questo quadro, solo la competenza per le liti minori, di valore fino a 3.000 euro, sarebbe ricondotta ad un giudice onorario monocratico, non togato, una sorta di giudice di pace tributario.
Riassumendo le proposte sul campo: a) da una parte, si suggerisce un leggero lifting delle commissioni tributarie le quali, tuttavia, rimarrebbero di fatto come sono, specialmente nel primo grado, da mantenere quasi totalmente invariato. Il processo resterebbe articolato in due gradi di giudizio, a livello provinciale e regionale, il secondo dei quali subirebbe una piccola modifica, consistente nell’istituzione di una sezione specializzata competente per le liti di un determinato e consistente valore, ma pur sempre presso le attuali CTR; b) la seconda valorizza il principio di specializzazione e si spinge fino all’istituzione di un giudice speciale – i tribunali tributari e le corti d’appello tributarie - e al rafforzamento - in realtà non facile e dal tenore un poco illuminista - sia del meccanismo di reclutamento, sia della scelta da parte di quanti intendano ricoprire gli uffici della giurisdizione tributaria. L’accesso è fondato su un pubblico concorso, riservato ai laureati in giurisprudenza e – entro certi limiti quantitativi e a determinate condizioni – ai giudici tributari in servizio. “In sostanza, i giudici tributari non sarebbero più giudici onorari, ma professionali e a tempo pieno”. Quelli che sono già magistrati potrebbero optare per il travaso, e quindi realisticamente, per la parte preponderante, rimanerne del tutto esclusi, salva solo la ricongiunzione.
2. Le ragioni della divisione
Le ragioni giustificatrici di queste due antipodiche soluzioni sono ampiamente intuibili e note ai più, ma forse non è ancora emerso quanto la seconda finirebbe con il forgiarsi in termini non meramente specialistici quanto indesiderabilmente appartati e poco dialogici con il complessivo judicial process nazionale (e, per vederne solo un minimo aspetto rivelatore, con la disciplina costituzionale della Consulta). Si darebbe vita ad un repentino e forse non poi qualificatissimo corpo di neofiti giudiziali, fatalmente financo in appello.
Per quanto riguarda la prima – meno radicale - soluzione, i suoi sostenitori osservano con una certa qual saviezza che “il perimetro della discrezionalità del legislatore nel riordino della giurisdizione tributaria, che rientra tra quelle preesistenti all’entrata in vigore della Carta Costituzionale e conservate ai sensi della VI disposizione transitoria, è ben definito dall’ordinanza 23 aprile 1998, n. 144 della Consulta, in base alla quale i due limiti invalicabili per non infrangere il principio di tendenziale unità della giurisdizione sul quale si fonda il nostro ordinamento (e non far ritenere nuovo il giudice tributario in modo tale da ravvisarsi un diverso giudice speciale) sono rispettati ove non vengano snaturati “né il sistema di estrazione dei giudici, né la giurisdizione nell’ambito delle controversie tributarie”. In relazione al primo profilo, quello cioè del sistema di estrazione dei giudici, la Consulta ha ritenuto legittimi gli interventi legislativi migliorativi “dal punto di vista dei requisiti di idoneità e di qualificazione professionale e delle incompatibilità”. Al contrario, questa parte della Commissione ritiene che la tesi sostenuta dalla restante parte della stessa, ossia la costituzione d’abord di un giudice professionale specializzato, correrebbe di certo il rischio di snaturare il sistema di estrazione dei giudici, il loro statuto sistematico stesso, e, pertanto, richiederebbe un intervento legislativo di rango costituzionale, oggi impensabile. Per quanto riguarda gli obiettivi, invece, che si vorrebbero conseguire, soprattutto ad esempio con l’istituzione della sezione specializzata presso la CTR, elemento di maggiore innovazione – su cui prestare attenzione per i motivi che meglio si comprenderanno infra nel prosieguo -, vi è certamente e lodevolmente quello di “migliorare la qualità del prodotto giurisdizionale che eventualmente dovrà essere esaminato dalla Corte di legittimità, che come noto si trova in uno stato di profonda sofferenza per l’enorme mole della pendenza tributaria certamente in larga misura determinata da decisioni di merito spesso scarsamente motivate e di scadente livello sul piano dell’elaborazione giuridica”.
Quanto invece alla seconda proposta, essa muove dal presupposto secondo cui “la prima e principale riforma dell’ordinamento della giustizia tributaria debba riguardare l’inquadramento dei giudici. Dal 2013 ad oggi sono stati presentati 9 disegni di legge al Senato e 8 alla Camera aventi ad oggetto tale riforma e in tutti si prevede che il giudice tributario debba essere un giudice professionale a tempo pieno (dei 17 disegni di legge 14 accolgono la medesima soluzione qui proposta, mentre i restanti 3 prevedono la devoluzione della materia tributaria ad altre giurisdizioni esistenti). In effetti, che la giustizia tributaria sia tuttora affidata ad un giudice onorario appare anacronistico retaggio della primigenia natura di contenzioso amministrativo del processo, pienamente e definitivamente superata quasi 50 anni fa con il pieno riconoscimento del carattere giurisdizionale della funzione svolta dai giudici tributari (cfr. Corte cost. n. 287/1974)”. In quest’ottica, la giustizia tributaria e il sottostante ramo del diritto risulta invero mortificata da un metodo di reclutamento non mediante apposito concorso, dalla natura onoraria dell’incarico e dalla struttura e dal ridotto ammontare dei compensi erogati ai giudici delle attuali commissioni. La soluzione di riforma in ipotesi, con la realizzazione del Tribunale Tributario e della Corte d’Appello Tributaria, non violerebbe in alcun modo il ben noto limite dell’art. 102, primo comma Cost. del divieto di istituzione di nuovi giudici speciali. “Anche in ragione del fatto che la proposta accentua il carattere giurisdizionale degli organi giudicanti, influendo positivamente sull’indipendenza, terzietà e preparazione professionale del giudice”.
L’inconciliabilità delle due soluzioni emerse dai lavori della Commissione, peraltro, non riguarda solo la scelta attinente ai primi due gradi di merito e in generale al ruolo e alle modalità di selezione del giudice tributario, ma riecheggia fino all’ultimo grado del giudizio, involgendo anche le soluzioni da fornire per riformare il giudizio di legittimità della Suprema Corte in materia tributaria.
Per i primi è sufficiente, dopotutto, lasciare la Corte di Cassazione così com’è, magari assegnando alla sezione tributaria un maggior numero di magistrati del Massimario, previa valutazione del CSM, ma al solo fine di fronteggiare l’immane arretrato in cui è impantanata detta Sezione. Magari anche con utilizzo dei pensionati (futuri o forse anche passati) fino ai 75 anni di età, sinonimo ormai di piena funzionalità mentale e accresciuta preziosa esperienza. Qui emerge la proposta di inserire anche in materia tributaria, condividendo la soluzione prospettata dalla Commissione Luiso per la riforma del processo civile, del rinvio pregiudiziale interpretativo (ruling), ossia un meccanismo che assicuri un tempestivo intervento della Corte di Cassazione, coerente con il ruolo di jus dicere proprio del giudice di legittimità orientato all’armonico sviluppo del diritto nell’ordinamento, in materie o su normative nuove sulle quali non si è ancora pronunciata la giurisprudenza di legittimità, al fine di prevenire la proliferazione del contenzioso[2]. Si legge nella relazione illustrativa: “un'interpretazione autorevole e sistematica della Corte resa con tempestività, in poco tempo ed in concomitanza alle prime pronunzie della giurisprudenza di merito, può svolgere un ruolo deflattivo significativo, prevenendo la moltiplicazione dei conflitti e con essa la formazione di contrastanti orientamenti territoriali. Nella materia del diritto tributario, peraltro, l’esigenza di assicurare una tempestiva interpretazione uniforme è particolarmente avvertita per due ordini di ragioni: il continuo succedersi di norme di nuova introduzione, rispetto alle quali il giudice del merito non ha un indirizzo interpretativo di legittimità cui fare riferimento e la serialità dell’applicazione delle norme che si riflette sulla serialità del contenzioso”.
Anche in riferimento al giudizio di legittimità, i fautori della riforma più radicale, auspicano un totale superamento delle forme e delle strutture come fino ad ora concepite, proponendo per legge, con una disciplina autonoma, l’istituzione di una sezione ordinaria specializzata tributaria. Accordo che manca, tra le varie anime della Commissione, finanche sul rinvio pregiudiziale per saltum, fortemente osteggiato da Cesare Glendi – sostenitore dall’esterno di una riforma maggiormente incisiva - il quale, senza troppi giri di parole, la definisce una proposta stravagante, basata su un macroscopico errore direzionale che si “appalesa tecnicamente “infelice ed eversiva” a livello di sistema ordinamentale”[3]: con questo salto “(mortale?)” dai giudici tributari di merito direttamente al vertice della Suprema Corte, infatti, piuttosto che ridurre l’eccessivo carico di lavoro in ultimo grado si rischia di aggravarlo.
3. Una proposta alternativa
Abbiamo fin qui ricapitolato, con chiose, evocato indirettamente i già tanti e pregevoli saggi, ma ora per essere concisi e chiari ecco la nostra differente propensione, espressa nella apposita audizione (e da implementare, se mai le arridesse qualche fortuna di consenso di fondo, in altra sede): le due proposte sul campo, per quanto lucide e a tratti anche meritevoli di condivisione su più punti, risultano eccessivamente, diametralmente, opposte tra loro e non immaginano una via non già di mediazione ma di composizione. Si fronteggiano a cori duofonici battenti con esposizione ad un grave rischio da sventare ad ogni costo: la radicale diversità delle soluzioni prospettare e la loro inconciliabilità potrebbe rischiare, in ipotesi, di scoraggiare il legislatore da un intervento quanto mai necessario, come evidenziato in apertura.
Con la consapevolezza di non poter far cadere nel vuoto questo necessario tentativo di riforma, magari a causa dell’impossibilità di trovare sintesi tra le due diverse contrapposte formulazioni viste supra, è necessario compiere un colpo d’ala di superamento in avanti con fantasia ricostruttiva. Si badi bene, non si tratta di proporre un artificioso compromesso al ribasso di mediazione tra le prospettate soluzioni della Commissione; ma del tentativo - pensando alle potenzialità per l’appello delle sezioni imprese collegiali presenti nei più importanti tribunali, portatrici di modernità interdisciplinare e grande competenza sul diritto dell’economia - di cogliere questo spirito innovatore del momento e cristallizzarlo in concreto, intimo, non “appartante” miglioramento di cui la giustizia tributaria possa godere e giovarsi tenendo fermo che radici e tronco del diritto tributario e dei suoi rami e fonde mutevoli si ancorano al diritto amministrativo e a quello privato, con una forte coloratura di diritto giustiziale materiale da cui muovevano i suoi indiscussi Patres.
Inoltre e correlatamente Natura non facit saltum e per questo motivo, di diffidenza per mutazioni artificiali, sarà preliminarmente doveroso tener conto che qualsiasi tipo di soluzione prospettata per la riforma in oggetto deve valutare attentamente le tempistiche necessarie ad attuarla, i periodi transitori e la loro durata, dunque, in buona sostanza, fare i conti con la realtà.
La previsione di stravolgimenti radicali oltre a non essere del tutto proporzionata, e sul punto si tornerà fra breve, non risulta allo stato opportuna per diverse ragioni. La più importante è senza dubbio la massima di esperienza che deve guidare ogni processo innovatore secondo cui non v’è riforma migliore di quella realmente possibile: auspicare la nascita di nuovi plessi giurisdizionali senza tradizione ed integralmente con neofiti, come sopra evidenziato, costituirebbe un salto nel buio che rischierebbe, per l’appunto, di far naufragare ogni nobile proclama rifondativo di rinnovamento qualitativo. Altra ragione attiene alle tempistiche di durata delle cd. soluzioni transitorie che, tanto più impegnative quanto più è grande lo stravolgimento operato, rischiano di protrarsi a tal punto nella loro provvisorietà da diventare soluzioni ordinarie e sopperire, di fatto, una riforma che nel frattempo è diventata irrealizzabile. Ma vi è di più. Istituire il Tribunale tributario, ma più ancora la omonima Corte di appello, è inopportuno soprattutto perché non proporzionale, come sopra accennato, all’obiettivo prefissato, comunque raggiungibile con un progetto alternativo di riforma, meno dispendioso e sicuramente più facilmente realizzabile con i talenti sperimentati e collaudati già in parte all’opera, che si disperderebbero in massima parte.
3.1 Salvaguardare e rivitalizzare il giudizio di legittimità
Innanzitutto, il punto fermo da cui muovere è quello di non rimettere minimamente in discussione il giudizio di legittimità di terzo grado come attualmente strutturato. Si deve evitare, di converso, di agire per legge sulla sezione tributaria della Corte di Cassazione[4], istituendone una speciale, magari annebbiati da un fuorviante parallelismo con l’esperienza della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione la quale, è bene sempre ricordare, rientrava nel più ampio disegno riformista dell’introduzione ex novo della giustizia del lavoro del 1973, e che ad ogni modo toccava pochissimo la relativa sezione della Suprema Corte.
Un tale disegno rischierebbe di specializzare eccessivamente la sezione tributaria della Cassazione, allontanandola dalle altre sezioni della Corte, mentre a ben vedere essa si avvantaggia non poco del fatto di essere in collegamento con altre sezioni, in quanto erede legittima della Sezione Prima, che si è occupata a lungo e bene di diritto tributario e di processo tributario, dalla cui esperienza, specialmente di diritto civile e di diritto processuale civile, proveniva peraltro, per tacere di altri e fare un solo nome, il primo presidente della Sezione Tributaria, nonché vero ispiratore e organizzatore della stessa, Michele Cantillo (assai solido processualista, dalla cui penna originò la durevole soluzione del grande dibattito fra art. 18 St. Lav. e art. 336 c.p.c.).
Recidere il legame con le altre sezioni della Cassazione produrrebbe la nefasta conseguenza di rendere il diritto tributario non tanto una materia con proiezione specialistica, come si vorrebbe, piuttosto un compartimento stagno insensibile a quelle necessarie e positive connessioni osmotiche di cui si nutre tutta la scienza pratica del diritto.
Il diritto tributario, infatti, non può essere considerato in alcun modo campo di elettiva esclusività di pochi iperfocalizzati, né tanto meno, bisognerà pur riconoscerlo, autosufficiente rispetto invece alla necessità di un background giuridico più vasto e soprattutto da ciascuno già sperimentato (Glendi pure, a tacer di molti altri, non ne è riprova?). In modo quasi banale, la corretta applicazione di una norma tributaria ad un determinato negozio giuridico di cui si compone un’operazione complessa e multi-strutturata passa inevitabilmente dalla sussunzione e qualificazione da operare a monte, per la quale è inevitabile essere muniti di adeguati strumenti privatistici; il controllo sulla P.A., pur in assenza per solito di discrezionalità e del classicamente inteso interesse legittimo, invoca una cornice anche amministrativistica. Il discorso solo esemplificativo acquisisce ulteriore vigore se si pensa, ad esempio, all’abuso del diritto in materia tributaria: per evitare incoerenti digressioni, è sufficiente mettere in luce che la sostanza economica di un’operazione, la cui prova è richiesta dal dettato normativo, non può essere definizione solo economicistica e specialistica ma deve essere costantemente raffrontata all’esperienza giuridica di tutte le altre branche del diritto con il suo motore nella autonomia contrattuale dei privati, imprese o cittadini.
Tornando al caso che ci occupa, il giudizio di legittimità come strutturato attualmente non è la causa dei problemi quanto piuttosto, a valle di tutto, la vittima[5].
Il proliferare di decisioni qualitativamente inaccettabili nei primi due gradi del giudizio di merito - per tacere delle brame condonizie di varia fattura e mascheratura - alimenta la necessità del costante esperimento del riscorso per cassazione e rende la giustizia tributaria uno dei settori con il più elevato numero di sentenze cassate. Dunque, la Cassazione tutt’al più va difesa dall’assedio cui è sottoposta, non introitata in nuovo sistema isolante.
3.2 Fondere innovazione e continuità per la giurisdizione di merito: l’impiego delle sezioni specializzate imprese quali giudici di appello
Per evitare quindi che sia la Corte di Cassazione a dover troppo spesso (come richiama il Pres. Pietro Curzio) “mettere giustizia” dove altri invece hanno fallito, bisogna intervenire sulle fasi ad essa precedenti e dunque soprattutto e prioritariamente ed in profondità sul fondamentale giudizio di secondo grado. Questo è il Kernpunkt da mettere a fuoco ben di più.
Il secondo grado del giudizio tributario è infatti secondo me, e spero di non rimanere a lungo in ciò isolato, il cardine su cui farà congruamente leva l’intero disegno riformatore.
Per farlo è necessario, semplicemente, riconoscere la competenza a decidere in materia tributaria ad una - e per fortuna in gran parte esiste già, con una storia breve ma di successo e quindi con un sentimento innervante - sezione collegiale specializzata presso l’Autorità giudiziaria ordinaria, coerente ed omogenea in relazione all’epilogo disegnato dall’art. 111 Cost. Dunque, non una sezione speciale, di nuova costituzione e in quanto tale difficile da realizzare in tempi brevi. Basterebbe invece investire di tale funzione di giudice d’appello tributario la Sezione specializzata Imprese, già dotata del giusto know how in materia societaria e commerciale in genere, al cui interno c’è senza dubbio forte capacità di approfondimento specialistico e che potrebbe essa stessa trarre giovamento da tale nuova attribuzione di una materia comunque affine, per molti versi, al mondo giuridico dell’impresa, per diventare una realtà competitiva sul piano europeo e il retroterra ideale, ed addirittura rinvigorente e talora compensativo, rispetto alla stessa Cassazione. La premessa per una nomofilachia tributaria maggiormente partecipativa, vicina inoltre sempre al mondo del fare impresa e più latamente della produzione di ricchezza in senso ampio.
Peraltro, già oggi la competenza delle sezioni specializzate si estende alle cause ed ai procedimenti che presentano ragioni di connessione con le materie assegnate alla cognizione del Tribunale delle Imprese, così come specificate all'art. 3, comma 1 e 2, del D.lgs. 27 giugno 2003, n. 168. La soluzione qui avanzata, pertanto, non rischia di snaturare, anche se certo farà progredire ed allargare, il ruolo dell’attuale Tribunale delle Imprese il quale, come visto, ha già una forte vocazione di approfondimento specialistico basato anche sulle eventuali interconnessioni con la materia trattata. E non v’è dubbio che quello tributario sia un fenomeno che si lega fortemente, e spesso si pone perfino a valle, rispetto alle questioni giuridiche precedentemente trattate e risolte.
Com’è noto, l'art. 2 del D. Lgs. 27 giugno 2003, n. 168, così come sostituito dall'art. 2, comma 1, lett. b), del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, stabilisce che i Giudici che compongono le sezioni specializzate imprese debbano essere scelti tra i magistrati dotati di specifiche competenze, con conseguente affermazione di un alto livello di specializzazione, qualità quanto mai necessaria anche in materia tributaria. Con la competenza delle sezioni imprese, ovviamente potenziate nella loro struttura – pur sempre già esistente e non da organizzare da zero, al pari di quello che un tempo dicevasi spirito di corpo – sarà possibile conseguire quell’incremento qualitativo, deciso ed omogeneo rispetto al terzo grado, necessario alle decisioni in materia tributaria per evitare che confluiscano quasi tutte, indistintamente, direttamente in Cassazione ove dei loro indirizzi si terrà ben poco conto, con largo e peculiarissimo utilizzo, ad evitare troppi rinvii in un contesto disomogeneo, della cassazione sostitutiva di merito ex art. 384 c.p.c.. Insomma, o cambia il senso del secondo grado (mia proposta) o cambia quello del giudizio di cassazione (proposta cara a molti cari e sapienti amici, che mi rimproverano invero non da oggi la massima di vita culturale: Amicus Plato - nulla di meno, con il viso michelangiolesco - sed…).
In altri termini, la magis Amica percepita come odierna Verità applicativa e di indirizzo ci induce a fare riflettere ognuno sul come soluzioni di tal guisa renderebbero il secondo grado di giudizio tributario ben di più di quell’agognato filtro necessario a ridurre un indiscriminato abbruttente confluire di tutte le controversie dal primo grado fino alla Cassazione, iter che a quel punto acquisirebbe di fatto la conformazione di un imbuto con incedere qualitativo che via via si restringe nel percorso che conduce le liti dalle conciliazioni al primo giudizio e poi se del caso ad un appello anticipatorio e funzionale rispetto all’ultimo grado di giudizio, ma debitamente attento al fatto, ed in special modo al fatto economico, complesso.
In aggiunta, attribuire la competenza di giudice d’appello tributario ad una sezione dell’autorità giudiziaria ordinaria rappresenta, anche figuratamente, quel percorso che incanala la lite tributaria da un processo inizialmente celebrato nelle riformande e decentrate Commissioni Tributarie tout court, a poco a poco, verso una vera specializzazione non settoriale.
La soluzione qui prospettata avrebbe considerevoli conseguenze positive.
Innanzitutto, una volta raggiunto l’adeguato standard qualitativo necessario nel giudizio e avendo già proceduto ad un radicale, ma pur sempre possibile, restyling della giustizia tributaria in secondo grado, non sarebbe più nemmeno così tanto necessario rivoluzionare il primo grado di giudizio. Lo si potrebbe lasciare, in sostanza al part time, salvo ovviamente dei correttivi sulla selezione dei giudici di maggior valore ed esperienza ritraibili dal vecchio secondo grado, i quali, a questo punto, potrebbero ben rimanere ad impiego “a scavalco” ma ben collaudati.
Peraltro, questa conformazione ben si coniuga con un ruolo che deve essere finanche rafforzato per altri versi in capo al giudice di primo grado che è quello di conciliazione e di poter formulare una proposta transattiva. Con il dichiarato intento deflattivo di ridurre ulteriormente le cause che proseguono fino al secondo grado, dopo aver già posto l’argine suddetto al loro indistinto approdo in Cassazione.
Dall’attribuzione della competenza di giudice d’appello alla sezione imprese, poi, deriverebbe la possibilità di riorganizzare e rinvigorire le Commissioni Tributarie Provinciali, sfruttando le migliori energie e risorse liberate delle vecchie Commissioni Tributarie Regionali. E ancora, anche l’organo di autogoverno dei magistrati tributari, il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, avendo ridotto l’area della sua competenza, potrebbe rivolgere il proprio lavoro e tutta l’attenzione necessaria alle sole CTP.
Un’ultima necessaria considerazione, ex multis but not least.
Il nuovo ruolo della Sezione imprese come giudice d’appello tributario non risponde solo ad esigenze di mera riorganizzazione materiale e logistica della macchina della giustizia.
In realtà, la principale motivazione di questa opzione è determinata da una forte concezione teorica e giuridica che riguarda il processo tributario.
A differenza di com’è magari nato nella sua fase speciale semigiurisdizionale, e anche di come s’è sviluppato nel tempo pur dopo il fatidico 1972, il giudizio tributario non può più da gran tempo essere inteso come un mero giudizio caducatorio puro e semplice in cui il giudice tributario è chiamato solo a decidere se annullare o se non annullare un atto impugnato[6].
La consapevolezza – e aggiungerei, il recente interesse che tale questione continua a destare[7] – che trattasi piuttosto di un giudizio di tipo particolare poiché in sintesi costitutivo-sostitutivo discende soprattutto dalla giurisprudenza, saggia e quanto mai condivisibile, della Suprema Corte che ormai non ha più dubbi al riguardo[8].
La scelta di avvicinare sempre più la giustizia tributaria all’archetipo non tanto della giustizia civile ma di quella Ordinaria, alle sue regole e, come si auspica in queste pagine, anche alle sue strutture sia oggettuali sia organiche, varrà ad emancipare il processo tributario dalla concezione che se ne aveva di semplice giudizio d’annullamento, la quale è ormai superata anche in relazione al giudizio amministrativo, ormai disancorato dalla figura degli interessi solo oppositivi. E di riconoscergli quella di giudizio volto alla fissazione del dovuto nell’ambito di un complesso rapporto giuridico tributario che in esso è riflesso attraverso lo spettro selettivo delle causae petendi del ricorso del contribuente[9].
Anche in questa prospettiva, la funzione di giudice d’appello alla sezione specializzata presso l’A.g.o. garantirà un’uniformità di giudizio tra quelli di primo grado, magari ancora fermi ad una visione obsoleta e superata di mero annullamento, e la risposta che il ricorrente vedrà darsi in Cassazione, dove si è ben consci, a ragione, della natura anche sostitutiva del processo tributario, pur nella insostenibilità anche in sede giudiziale degli stilemi antichi della obbligazione tributaria[10].
[1] Relazione Finale – Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria – Ministero dell’economia e delle finanze e Ministero della Giustizia, 30 giugno 2021, p. 16.
[2] Si veda sul punto l’interessante contributo di L. SALVATO, Verso la riforma del processo tributario: il “rinvio pregiudiziale” ed il ricorso del P.G. nell’interesse della legge, in Giustizia insieme, 2021, (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-tributario/1867-verso-la-riforma-del-processo-tributario-il-rinvio-pregiudiziale-ed-il-ricorso-del-p-g-nell-interesse-della-legge), dove l’A. osserva i presupposti di tale intervento, ossia che “la durata dei giudizi e la loro stessa proliferazione, anche con riguardo al numero delle impugnazioni, è prodotta anche dalle incertezze causate da una normativa alluvionale, spesso non razionalmente inserita in un ordinamento oramai privo di organicità, di non facile ricostruzione (in particolare, nella materia tributaria), alla base di interpretazioni divergenti e di orientamenti contrastanti, soprattutto in mancanza di pronunce della Corte di cassazione. Garantire il tempestivo intervento nomofilattico della Corte di legittimità potrebbe contribuire ad ovviare a detto inconveniente”.
[3] Per questa ed altre serrate critiche al rinvio pregiudiziale proposto dalla Commissione si vd. C. GLENDI, Riforma della giustizia tributaria: così non va!, IPSOA, 2021 (https://www.ipsoa.it/documents/fisco/contenzioso-tributario/quotidiano/2021/07/17/riforma-giustizia-tributaria-non-va). Per l’A. tale rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione produrrebbe soltanto un traumatico allontanamento per le parti dal proprio giudice naturale di merito.
[4] Si veda quanto proposto da C. GLENDI, La “speciale” specialità della giurisdizione tributaria, 2021, 423 dove si auspica un forte intervento, assai innovatore, sulla sezione tributaria della S.C. “onde meglio rimarcarne la relativa maggiore autonomia intersezionale, disegnandone, quindi, la ristrutturazione compositiva con la predeterminazione normativa di un numero fisso e stabile di membri, dislocati in cinque o sei sezioni, ognuna delle quali dotata di proprio presidente, con scelte di carica tutte rigorosamente improntate a criteri di capacità organizzativa e di conoscenza della materia, ratione competentiae, insomma, con la previsione altresì, sempre legislativamente regolata, di un’adunanza plenaria supersezionale, formata da tutti i presidenti delle sottosezioni o da un loro componente all’uopo formalmente delegato (per i soli casi di oggettiva impossibilità di presenza da parte del presidente titolare), quale focus istituzionale stabilmente incardinato, con al vertice lo stesso presidente della Sezione tributaria, per la responsabile formazione di una costantemente monitorata, comunque aggiornata e accurata nomofilachia tributaria di alto livello, riservata, invece, pur sempre alle Sezioni Unite, così come ora esistenti, magari meglio funzionalmente disciplinate, ogni decisione sui conflitti intergiurisdizionali. Con l’aggiunta, infine, di una pur contenuta semplificazione unificata del rito per la trattazione e la decisione delle controversie tributarie, tenuto conto della loro serialità e specificità pure sul piano formale”.
[5] Per una condivisibile panoramica delle ragioni di tale stallo e, più in generale, dei più rilevanti problemi che affliggono la giustizia tributaria si vd. A. MARCHESELLI, Aspettando Godot. Note minime e minoritarie a margine della proposta di riforma della Giustizia tributaria, in Giustizia insieme (https://www.giustiziainsieme.it).
[6] Il riferimento è alla teoria cd. costitutiva, per lungo tempo seguita e condivisa ma invero da qualche anno, pare, passata in secondo piano a fronte della sempre crescente complessità del fenomeno fiscale, Cfr. C. GLENDI, L’oggetto del processo tributario, Padova, 1984; F. TESAURO, Manuale del processo tributario, Torino, 2009; M. BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e forme di tutela. Lezioni sul processo tributario, Torino, 2018; ID., Giudice tributario e atto impositivo in Rivista trimestrale di diritto tributario, 2012, fascicolo 4, 1067 ss.
[7] Cfr. il più recente contributo in materia di oggetto e natura del processo tributario di M. AGOSTINELLI, La duplice natura costitutiva del processo tributario, in Giurisprudenza Italiana, 2021, 5, 1091 e ss., dove il giovane Autore riaffaccia una soluzione di evoluzione tra le contrapposte tesi dottrinali nella quale risalta la funzione non solo costitutiva d’annullamento della sentenza tributaria, ma soprattutto quella costitutivo-sostitutiva del singolo capo decisorio specie estimativo del dovuto, oggetto della cognizione giudiziale come delineato dalle stringenti causae petendi del ricorso del contribuente.
[8] Si vd. a commento di Cass. Civ., Sez. Un., 16 giugno 2006, n. 13916, E. MANZON, I limiti oggettivi del giudicato tributario nell’ottica del «giusto processo»: lo swing-over della Cassazione, in Corriere Giuridico, 12, 2016, 1701 e ss., il quale A., peraltro giudice estensore della stessa pronuncia, afferma nella nota 32 a p. 1706: “la sentenza è ampiamente “debitrice” delle tesi di Russo e di Fransoni sul giudicato tributario sostanziale. Appare peraltro a tal fine preferibile la costruzione teorica della fattispecie tributaria ricavabile dalla “fusione” tra gli approdi teorici della c.d. “scuola romana” e le recenti riflessioni di C. Consolo (Cfr. Fantozzi, Diritto tributario, cit., 198-199; Consolo, Processo ed accertamento, cit., 1045; Consolo-D’Ascola, Giudicato tributario, cit., 473, 483-483). È infatti più chiaramente percepibile e contornata l’idea che, strutturalmente e funzionalmente, il tributo consista in un “rapporto giuridico pubblicistico di contribuzione”, anche “complesso” e “di durata”, c.d. “rapporto di cornice”, che deriva direttamente dal presupposto (fatto-indice della capacità contributiva), quale normativamente configurato; che poi si concretizza secondo i relativi moduli attuativi pure normativamente predeterminati, secondo uno schema “a gradini” (eventuali, nel modulo ormai generalizzato della c.d. “autotassazione”: dichiarazione «accertamento «sentenza). Talché ogni “gradino” (sentenza compresa) è, nel procedimento attuativo standard (per intendersi, quello delle imposte reddituali e dell’IVA), pur eventualmente, collegato a quello successivo, ma tutti sono “pregiudizialmente dipendenti” dal “rapporto di cornice”. I cui elementi di base dunque, ove non mutino, se rientrano nell’area oggettiva di un giudicato, non possono essere ridiscussi”.
[9] Per un’ampia analisi non solo del profilo processuale tributario ma anche delle vicende sostanziali si rinvia a C. CONSOLO, Appendice giuridico-sistematica su natura e oggetto del processo tributario (in generale e nella nuova disciplina dell'abuso del diritto), in Abuso del diritto e novità sul processo tributario, a cura di GLENDI – CONSOLO - CONTRINO, 2016, Milano, 323 ss.; CONSOLO, Della inammissibilità di una integrazione o rettifica della motivazione dell’accertamento in sede giudiziale e dei correlati limiti ai poteri istruttori del giudice tributario, in Rassegna tributaria, 1986, vol. I, 135 e successivamente pubblicato in CONSOLO, Dal contenzioso al processo tributario, Studi e casi, 1992, Milano; CONSOLO, Limiti alla rinnovazione della imposizione dopo e alla stregua del giudicato di annullamento del primo avviso di accertamento. (Un soffio di aria nuova nella giurisprudenza sull' oggetto del processo tributario), in Dal contenzioso al processo tributario, cit., 223 e ss..
[10] Come ormai emerso da anni in dottrina, sull’inadeguatezza della figura di una monolitica obbligazione tributaria, per una ricostruzione delle diverse posizioni si v. F. PAPARELLA, Le situazioni giuridiche soggettive e le loro vicende in A. FANTOZZI (a cura di), Diritto Tributario, Torino, 2012, 478 e ss.: “la questione principale e più discussa attiene alla possibilità di riferirsi ad un’unica situazione soggettiva passiva di fondo, relativa al presupposto, quale modello di riferimento a cui correlare la pluralità di fattispecie della riscossione e del rimborso”.
Pandemia e processo civile: l’insostenibile leggerezza della proroga (d.l. 23 luglio 2021, n. 105).
di Franco Caroleo
La trattazione scritta e il collegamento da remoto saranno le modalità di celebrazione dell’udienza civile che ci accompagneranno per tutto il 2021.
Così è deciso nel d.l. n. 105/2021 con cui si procrastina l’efficacia delle disposizioni processuali emergenziali fino al 31 dicembre 2021.
Analizziamo qui di seguito le norme del nuovo d.l. che riguardano il processo civile.
Titolo
DECRETO-LEGGE 23 luglio 2021, n. 105
“Misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19 e per l'esercizio in sicurezza di attivita' sociali ed economiche” (21G00117) (GU Serie Generale n.175 del 23-07-2021)
La norma riguardante il processo civile
- art. 7, co.1
La proroga delle disposizioni processuali di cui agli artt. 23 d.l. 137/2020 e 221 d.l. n. 34/2020
L’art. 7, co.1, del d.l. n. 105/2021 recita:
“Le disposizioni di cui all'articolo 221, commi 3, 4, 5, 6, 7, 8, e 10 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, nonche’ le disposizioni di cui all'articolo 23, commi 2, 4, 6, 7, 8, primo, secondo, terzo, quarto e quinto periodo, 8-bis, primo, secondo, terzo e quarto periodo, 9, 9-bis, 10, e agli articoli 23-bis, commi 1, 2, 3, 4 e 7, e 24 del decreto-legge 28 ottobre 2020 n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, continuano ad applicarsi fino alla data del 31 dicembre 2021”.
La vigenza delle norme processuali stabilite per il periodo pandemico viene così posticipata al 31 dicembre 2021.
Come nel d.l. n. 44/2021, il legislatore individua un termine fisso, scegliendo di non ancorare la proroga al termine dello stato di emergenza.
Tuttavia, a differenza del precedente d.l. di proroga, non viene direttamente novellato l’art. 23, co. 1, d.l. n. 137/2020 (contenente il termine ultimo per l’applicazione dei commi da 2 a 9 ter del medesimo art. 23 nonché delle disposizioni di cui all’art. 221 d.l. n. 34/2020), ma è lo stesso d.l. a indicare il termine di protrazione delle previsioni emergenziali.
Effetti
In ogni caso, gli effetti sono analoghi a quelli degli scorsi decreti e devono quindi ritenersi prorogati al 31 dicembre 2021:
- l’obbligo del deposito telematico di tutti gli atti (anche quelli introduttivi) e documenti, per come previsto dall’art. 221, co. 3, d.l. n. 34/2020;
- la celebrazione a porte chiuse che il giudice può disporre per le udienze pubbliche, per come previsto dall’art. 23, co. 3, d.l. n. 137/2020;
- la trattazione scritta che il giudice può disporre per le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti, per come previsto dall’art. 221, co. 4, d.l. n. 34/2020; tale modalità di trattazione può essere adottata anche per le udienze in materia di separazione consensuale e di divorzio congiunto, nel caso in cui tutte le parti che avrebbero diritto a partecipare all’udienza vi rinuncino espressamente, come ammesso dall’art. 23, co. 6, d.l. n. 137/2020;
- la celebrazione con collegamento da remoto che il giudice può disporre per le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice, per come previsto dall’art. 221, co. 7, d.l. n. 34/2020; in questi casi, il giudice può essere collegato anche da un luogo diverso dall’ufficio giudiziario (art. 23, co. 7, d.l. n. 137/2020);
- il giuramento telematico del c.t.u., con dichiarazione sottoscritta con firma digitale da depositare nel fascicolo telematico (in luogo dell’udienza all’uopo fissata), per come previsto dall’art. 221, co. 8, d.l. n. 34/2020;
- la possibilità per gli organi collegiali di assumere le deliberazioni in camera di consiglio mediante collegamenti da remoto, per come previsto dall’art. 23, co. 9, d.l. n. 137/2020;
-la decisione in camera di consiglio sui ricorsi proposti davanti alla Corte di Cassazione per la trattazione in udienza pubblica a norma degli articoli 374, 375, ultimo comma, e 379 del codice di procedura civile, senza l'intervento del procuratore generale e dei difensori delle parti, salvo che una delle parti o il procuratore generale faccia richiesta di discussione orale (art. 23, co. 8 bis, d.l. n. 137/2020); ció a meno che si tratti di procedimenti per i quali l'udienza di trattazione sia fissata tra il 1° agosto 2021 e il 30 settembre 2021 (deroga espressamente stabilita dal comma 2 dell’art. 7 d.l. n. 105/2021[1]);
- la possibilità di deposito telematico degli atti e dei documenti da parte degli avvocati nei procedimenti civili innanzi alla Corte di Cassazione, per come previsto dall’art. 221, co. 5, d.l. n. 34/2020;
- la possibilità del cancelliere di rilasciare in forma di documento informatico la copia esecutiva delle sentenze e degli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria di cui all’art. 475 c.p.c., previa istanza telematica dell’interessato, per come previsto dall’art. 23, co. 9 bis, d.l. n. 137/2020.
Conclusioni
Quella sancita con il d.l. in commento è l’ennesima proroga nell’arco di due anni.
Il piano vaccinale è a regime, l’evoluzione cromatica delle regioni segue una linea definita, mentre il processo civile dell’emergenza non ha ancora trovato un ordine.
I segni della titubanza istituzionale sono piuttosto evidenti: quattro distinte discipline processuali (in origine fu l’art. 2 d.l. n. 11/2020, poi venne l’art. 83 d.l. n. 18/2020, ancora il d.l. n. 34/2020 con l’art. 221 e da ultimo il d.l. n. 137/2020 con l’art. 23) finalizzate a regolare i medesimi istituti; variegate tecniche prorogative, scandite da plurimi e intricati rimandi normativi (si pensi al balletto intermittente dell’appiglio al termine dello stato di emergenza); appuntamenti di proroga trimestrali (dal d.l. n. 2 di gennaio al d.l. n. 44 di aprile, all’ultimo d.l. di luglio) e sempre quasi allo scadere (con buona pace degli operatori di giustizia che subiscono inerti l’improgrammabilità delle udienze).
Perraltro, a più di un anno dal varo delle modalità alternative di trattazione processuale, siamo qui a discutere del loro nuovo prolungamento di vita, senza sapere se avranno dignità di una pur minima stabilità.
Forse potrebbe avere senso rimetterne la possibilità di ricorso al giudice se vi è consenso delle parti (anche da manifestare in forma silenziosa, non depositando un atto di dissenso entro un dato termine).
Non si tratta certo di una grande ipotesi riformativa; ma sarebbe un tentativo per preservare quanto di buono può trarsi da strumenti processuali che tanto inutili non sono stati in questo periodo eccezionale.
Come sosteneva Carnelutti, le “nuove norme si affermano quasi sempre modestamente sotto forma di eccezioni”, e in esse possono addirittura nascondersi i germi della “evoluzione degli istituti giuridici”[2].
Per il momento, non ci resta che prorogare.
[1] Per un’analisi più specifica di questa previsione si veda Frasca R., “Brevi considerazioni sull’art. 7 del d.l. n. 105 del 2021 e la Cassazione Civile”, su Giustizia Insieme, 26.7.2021: https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1884-brevi-considerazioni-sull-art-7-del-d-l-n-105-del-2021-e-la-cassazione-civile
[2] Carnelutti F., Infortuni sul lavoro, Studi, I, Athenaeum, Roma, 1913.
Proposta di riforma del processo in area famiglia, relazioni familiari e minorenni: un passo avanti condivisibile in the long, long way to il giusto processo minorile
di Maria Giovanna Ruo
Sommario: 1. Premessa - 2. La situazione di partenza: polverizzazione dei riti - 3. The long long way to il giusto processo minorile: l’insostenibile irragionevolezza del sistema attuale - 4. La filosofia di sistema della proposta di riforma.
1. Premessa
La Proposta di Riforma della Commissione Luiso e il maxiemendamento governativo al d.d.l. n. 1662/S/XVIII che dalla stessa trae le norme non senza qualche incomprensibile modifica) intervengono opportunamente nel processo di famiglia per emendarlo da alcune più macroscopiche criticità, aporie, lacune e contraddizioni.
Si delinea così una profonda riforma del sistema della tutela dei diritti in area persone, relazioni familiari e minorenni, la cui filosofia ispiratrice è condivisibile così come, a parte alcune perplessità, gli strumenti normativi individuati per attuarla.
La problematica situazione di partenza si trascina da decenni, nonostante le richieste di intervento dell’avvocatura specializzata e nonostante i richiami della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, in più di una sentenza di condanna dell’Italia per violazione dell’art. 8 CEDU (Diritto alla vita privata e familiare), da solo o in combinato disposto con gli artt. 6 (Diritto all’equo processo) e talvolta 13 (Diritto al ricorso effettivo) e 14 (Divieto di discriminazione), ha rilevato come il nostro Paese debba dotarsi di un arsenale giuridico adeguato[1]
L’attuale sistema processuale soffre infatti di una serie di gravi criticità -non emendabili se non con un profondo intervento strutturale- che si possono così sintetizzare: polverizzazione dei riti; inattuazione nei processi minorili del principio costituzionale del giusto processo per assenza delle piene garanzie costituzionali del contraddittorio e dei diritti di difesa delle parti che alimenta prassi distorsive; frantumazione delle competenze.
2. La situazione di partenza: polverizzazione dei riti
Non esiste infatti ad oggi un solo processo di famiglia: esistono più procedimenti che riguardano la materia familiare, sparsi tra codice civile, codice di rito, legislazione speciale, nel necessario quadro anche della normativa convenzionale (mi riferisco in particolare alla Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, 20.11.1989, rat. con l. 176/1991 e alla Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti dei minori, 25.01.1996, rat. con l. 77/2003, di cui la Corte Costituzionale ha sancito la precettività generale con sent. 83/2011) e della giurisprudenza della Corte di Strasburgo che, in forza dell’art. 117 Cost., costituiscono fonte interposta dell’ordinamento e parametro di costituzionalità e che, benché richiamate costantemente ormai da lustri dalle Corti Superiori, non ricevono sempre adeguata attenzione nelle decisioni di merito.
In concreto la pluralità di processi che possono interessare anche simultaneamente la crisi delle relazioni familiari di un nucleo familiare per i quali non può essere disposta la riunione in ragione delle differenze di rito, comporta dispersione di risorse, dilatazione dei tempi, possibile (o meglio probabile) accavallarsi di decisioni incoerenti, difformi o, peggio, divergenti e contraddittorie, costi inutili per l’erario, il che si risolve in spese e tempi insostenibili per le persone coinvolte che sono per lo più in condizioni di vulnerabilità: in parole povere diventa “giustizia negata”.
Emblematico quanto attualmente può succedere in casi di violenza domestica e di genere che coinvolgano anche figli di età minore: la vittima presenta denuncia-querela. Se vi sono minori coinvolti, grazie ai benemeriti protocolli che sono stati stipulati tra procure ordinarie e procure minorili, la situazione viene comunicata al Pubblico Ministero Minorile che potrà iniziare un procedimento ex artt. 330-336 c.c. dinanzi al Tribunale per i minorenni; la vittima di violenza può richiedere ordine di protezione in sede civile (artt. 342 bis e ter c.c: rito speciale ex art. 736 bis c.p.c.). Se la vittima è coniugata, può richiedere la separazione giudiziale dall’autore di violenza (rito disciplinato dall’art. 706 e sgg. c.p.c.): in tale contesto verranno anche tutelati i diritti dei figli minorenni alla genitorialità, alla stabile residenza, al mantenimento -anche dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente senza loro colpa- oltre ai diritti patrimoniali del coniuge vittima di violenza. Ma se invece la vittima non è coniugata dovrà chiedere che siano disciplinati gli identici diritti dei suoi figli minorenni in un procedimento disciplinato dal mero rito camerale (artt. 737 e sgg. c.p.c.) privo di garanzie perché disegnato per la volontaria giurisdizione. Sempre se la vittima non è coniugata e si trova nelle condizioni ai sensi della cd. Legge Cirinnà, dovrà richiedere gli alimenti per sé in ulteriore autonomo procedimento disciplinato invece dal rito ordinario. Il quadro si complica ulteriormente se vi sono figli maggiorenni non ancora autonomi senza loro colpa. La vittima di violenza -coniugata o no, in questo in identica posizione- potrà poi richiedere il risarcimento del danno in autonomo procedimento ordinario.
Quanti processi per un'unica situazione che coinvolge persone in condizioni di vulnerabilità? Quanti provvedimenti di quanti giudici con quale dispersione di tempi e costi? E così spesso, troppo spesso, si arriva ad accordi che tali non sono, ma una resa incondizionata della vittima che, dopo esserlo stato all’interno delle mura domestiche, lo è anche della irragionevolezza del sistema: e, sia detto per inciso ma non troppo, giunge persino il plauso del giudice di merito per aver superato “la conflittualità”. E sul misunterstanding tra conflittualità e violenza si rimanda alla spietata ma veritiera ma Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere comunicata alla Presidenza il 23 giugno 2021.
3. The long long way to il giusto processo minorile: l’insostenibile irragionevolezza del sistema attuale
The long long way to il giusto processo minorile, così intitolai un mio articoletto 11 anni fa[2]: era il 2010. A distanza di oltre un decennio il percorso di giurisdizionalizzazione del processo minorile tarda e compiersi, nonostante oggi sia largamente condiviso che i procedimenti minorili riguardino diritti personalissimi di rango costituzionale (artt. 2, 3, 30, 31 e 32 Cost.) di persone che, per l’età, si trovano in condizioni di particolare vulnerabilità e necessitano di tutela rafforzata e di piena attuazione delle garanzie costituzionali del giusto processo. Invece si tratta di procedimenti disciplinati dalle poche e scarne regole del procedimento camerale (artt. 737 e sgg. c.p.c.), insufficienti in tale materia a garantire il contraddittorio e i diritti di difesa di tutte le parti, in specie la persona di età minore che non può esservi rappresentata dai genitori suoi rappresentanti legali quando si trova in conflitto di interessi con loro, in specie -ma non solo- nei procedimenti che riguardano la cosiddetta area del pregiudizio disciplinati dagli artt. 330-336 c.c.
Tale ultima norma, che integra la disciplina camerale nei procedimenti cd. de potestate -che riguardano l’esercizio della responsabilità genitoriale così disfunzionale al miglior sviluppo psico-fisico del figlio minorenne, da recargli danno-, fu interessata dalla miniriforma di cui alla l. 149/2001. Fu all’epoca parzialmente riformulato l’art. 336 c.c: intenzione del legislatore era prevedere la necessità della difesa tecnica per genitori e minore, ma il tenore letterale della norma riformata è così ambiguo da aver necessitato oltre tre lustri per giungere alla pronuncia della Cassazione 5256/2018[3] che, riconoscendo immanente in questi casi il conflitto di interessi tra figlio minorenne e genitori suoi rappresentanti legali, ha previsto come necessaria la nomina di un curatore speciale. In ogni caso la norma non è sufficiente per garantire un procedimento a contraddittorio pieno, e sono proliferate -come purtroppo proliferano ancora- quelle che sono state definite “prassi distorsive”.
All’indomani dell’entrata in vigore dell’art. 111 Cost. nel testo novellato, la Corte di appello di Genova e la Corte di appello di Torino sollevarono una serie di questioni di costituzionalità sui procedimenti de potestate consistenti, in estrema sintesi, nell’assenza di contraddittorio pieno e di garanzie della difesa non solo per le parti adulte coinvolte ma anche per il minore. La Consulta, con la sentenza interpretativa di rigetto n. 1/2002, dichiarò inammissibili o non fondate le relative questioni, affermando però che il minore è parte di tali procedimenti e segnando con ciò l’inizio del percorso di giurisdizionalizzazione del processo minorile di cui fu tappa fondamentale anche la già ricordata sentenza della Consulta n. 83/2011 in materia di autonoma difesa e rappresentanza in giudizio del figlio minorenne nella fattispecie di cui all’art. 250. VI co., c.c. (autorizzazione al secondo riconoscimento).
Benché dopo le numerose pronunce succedutesi da allora non sia più lecito dubitare che il minorenne sia parte nei procedimenti che riguardano i suoi diritti fondamentali legati al suo status di figlio e alla relazione affettiva ed educativa con i genitori che, pur essendone rappresentanti legali, non possono rappresentarlo se in conflitto di interesse con lui; benché la Corte di Cassazione abbia disegnato con una serie di pronunce nel 2010[4][5] in tema di procedimento di adottabilità un paradigma interpretativo sulla necessità di nomina del curatore speciale[6]applicabile in altre fattispecie in cui si profili tale conflitto di interesse tra minore e suoi genitori; benché la Consulta abbia dichiarato la citata Convenzione di Strasburgo (che prevede la necessità di nomina di un rappresentante autonomo del minore, se del caso un avvocato -art. 9 lett. B) pienamente operativa nel nostro ordinamento; tuttavia nelle Corti di merito ancora il curatore speciale non viene sempre nominato anche nelle ipotesi in cui il conflitto di interessi[7] è palmare e anzi, quello che è forse ancora peggio, con disomogeneità anche in casi identici: in alcuni casi viene nominato, in altri, con identica contrapposizione di interessi, non viene invece nominato.
E tutto ciò nonostante la Cassazione abbia individuato una serie di fattispecie in cui il conflitto di interessi può effettivamente sussistere[8]: la nomina del curatore speciale sarebbe quindi necessaria in queste fattispecie, ma non avviene sempre. Da ultimo la condanna all’Italia da parte di Strasburgo anche per aver omesso la nomina del curatore speciale in un procedimento de potestate (Affaire R.B et. M c. Italie, req n. 41382/2019, 22 aprile 2021[9], appena divenuta definitiva).
Non solo: nei Tribunali per i minorenni persistono ulteriori prassi distorsive evocate dalle Autorità rimettenti nel lontano 2000. Non sempre i ricorsi presentati dal Pubblico Ministero Minorile che richiede ablazione o limitazione della responsabilità genitoriale vengono notificati ai genitori i quali si trovano coinvolti nel procedimento senza sapere perché; l’attività istruttoria viene frequentemente delegata ai giudici onorari, esperti in altre discipline (pedagogia, psicologia, neuropsichiatria, scienze sociali etc.) il cui apporto nel collegio è essenziale per individuare nel caso concreto quale sia the best interest of the child ma, proprio per la loro formazione professionale così distante da quella giuridica, non sempre in grado di disciplinare l’attività istruttoria.
Sopravvive un monstrum come il procedimento di allontanamento previsto dall’art. 403 c.c.. La norma legittima la Pubblica Autorità ad allontanare un minore dalla famiglia quando si trovi in una condizione di grave pericolo per la sua incolumità e a collocarlo “in un luogo sicuro sino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione”. Un intervento così intrusivo della Pubblica Amministrazione nella vita privata e familiare delle persone è ammissibile solo in casi di emergenza e solo se il controllo giurisdizionale è immediato, vagliandone legittimità e fondatezza, stabilendo immediatamente percorsi di recupero per la genitorialità fragile e di assistenza psico-pedagogica mirata per il figlio minorenne allontanato, individuando le migliori modalità perché il legame affettivo venga conservato e mirando comunque al ricongiungimento. Ma così non è: nulla è previsto in tal senso, con violazione dei diritti fondamentali della persona di età minore e dei suoi genitori.
Così come non vi è ancora, a 8 anni dalla riforma sulla filiazione che avrebbe abolito ogni differenza di trattamento giuridico dei figli nati dentro o fuori dal matrimonio, un procedimento per stabilire affidamento, mantenimento, residenza, relazione con il genitore non prevalentemente convivente dei figli dei genitori non coniugati: viene applicato il rito camerale, con garanzie ovviamente minori di quelle previste nei procedimenti di separazione e divorzio. Non sempre vengono assunti i provvedimenti provvisori ed urgenti anche perché non sussiste una fase presidenziale e il tutto deve essere deciso dal Collegio con strutturale appesantimento dei tempi del procedimento le cui fasi non sono scandite e si può consumare anche in una sola udienza, se il giudice relatore non ritiene di accogliere le istanze istruttorie delle parti o di dare loro termine per articolarle. I procedimenti sono definiti con decreto invece che con sentenza, con tutte le ovvie conseguenze del caso.
Si potrebbe continuare a lungo: sono solo esempi dell’insostenibile irragionevolezza del sistema attuale.
3. Aporie e discriminazioni anche in ambito di negoziazione assistita dagli avvocati
Nemmeno la procedura di negoziazione assistita dagli avvocati, introdotta dal d.l. 132/2014, come modificato dalla l. 162/2014, è indenne da aporie e illogicità o da discriminazioni incomprensibili. Lo strumento, proprio in materia di crisi della coppia, ha avuto un discreto successo, anche per la sua duttilità; consente con snellezza di costruire accordi relativi alla fine della relazione coniugale includendo anche una serie di questioni che nella separazione consensuale sarebbero escluse per l’oggetto determinato del procedimento. Vengono così definiti nell’accordo negoziato anche tutta una serie di questioni che necessiterebbero di ulteriori procedimenti: oltre che accordi che definiscano il regime di comunione dei beni, di cui la separazione è una delle cause dello scioglimento della comunione dei beni ai sensi dell’art. 191 c.c. se tale era il regime patrimoniale tra i coniugi, anche tutte quelle transazioni mobiliari e immobiliari che definiscono la sistemazione dei patrimoni costruiti prima e durante la vita insieme: ad es. cessione di quote societarie, transazioni immobiliari e mobiliari a favore di terzi (figli di solito), restituzioni di beni, accordi per alienare a terzi parte del patrimonio comune etc. indipendentemente dal regime patrimoniale prescelto.
Ma l’art. 6 la prevede la possibilità di tale procedura solo in caso di separazione, divorzio e relative modifiche: quindi la limita alle questioni di crisi di coppia coniugale, ancorché nemmeno tutte: resta infatti esclusa la possibilità di definire con accordi negoziati anche il divorzio con una tantum per la necessità prevista dalla legge divorzile del vaglio di congruità del Tribunale (art. 5 l.div.).
E - manco a dirlo - ancora una volta resta esclusa la possibilità di definire con tale procedura i diritti dei figli dei genitori non coniugati in caso di crisi della relazione di questi che sono ancora obbligati, in caso di accordo, a presentare ricorso congiunto al Tribunale ordinario per ottenerne ratifica e sussunzione in un provvedimento che quantomeno possa avere natura di titolo esecutivo (procedimento in realtà non previsto dalla normativa, inventato dall’avvocatura e dalla magistratura “specializzate”, ma con diverse varianti nel territorio nazionale). E restano conseguentemente escluse anche tutte le questioni relative alla sistemazione patrimoniale delle coppie non coniugate, per quel che concerne una serie di questioni non dissimili a quelle sopra descritte per le coppie coniugate in separazione dei beni. Si tratta di un inutile appesantimento della giurisdizione e dei costi per le parti. Ugualmente sono esclusi i procedimenti relativi al mantenimento dei figli maggiorenni, e quelli per il riconoscimento degli alimenti. Le questioni relative al riconoscimento della quota di TFR per l’ex coniuge divorziato e di ripartizione della pensione di reversibilità.
Resta esclusa infine per tutte le questioni la fascia dei cittadini non abbienti in quanto non è attualmente previsto il patrocinio a carico dello Stato. Cosicchè i più poveri, per avere assistenza legale per raggiungere un accordo che disciplini la crisi della loro coppia e gli assetti futuri, debbono necessariamente ricorrere alla giurisdizione.
Tutto ciò non ha un senso, è irragionevole, tanto più che lo strumento nasce con espliciti intenti deflattivi: ma poi fallisce nell’individuare solo alcuni dei procedimenti che potrebbero essere definiti, lasciandone senza fuori un logico motivo, una larga fascia. Inutili fin ad ora gli appelli al legislatore dell’avvocatura specializzata e le mozioni congressuali approvate più volte.
4. La filosofia di sistema della proposta di riforma
La proposta di riforma muove dalla condivisibile consapevolezza della peculiarità del processo che riguardi l’area persona, relazioni familiari, minorenni. Si tratta infatti di procedimenti che riguardano diritti personalissimi e di rango costituzionale di soggetti in condizioni spesso di vulnerabilità, che mal tollerano preclusioni e decadenze. Anzi è necessario che il giudice possa esercitare, per la miglior tutela dei soggetti vulnerabili, poteri officiosi istruttori e decisori: insomma sono procedimenti che, per le caratteristiche dei diritti che ne sono oggetto, non possono che sottrarsi al principio della rispondenza tra chiesto e pronunciato.
Si tratta inoltre di procedimenti che non guardano al passato, non mirano a stabilire “torti e ragioni” come altri procedimenti civili, ma guardano al futuro per costruire, sulla base delle condizioni attuali (rebus sic stantibus), il miglior assetto delle relazioni familiari, personali, patrimoniali future in funzione di the best interest of the child che costituisce criterio preminente e determinante di giudizio.
Si tratta infine di procedimenti che hanno ad oggetto una materia esistenziale magmatica e in perenne divenire, che non è possibile cristallizzare all’inizio del procedimento. Persino i presupposti in fatto dei diritti patrimoniali dei soggetti adulti e pienamente capaci, non in condizioni di vulnerabilità, non possono essere fotografati come immutabili all’inizio del procedimento perché le condizioni personali e patrimoniali possono mutare anche durante il suo svolgimento: si perde il lavoro, si ha una promozione, si eredita o si fallisce.
Sono quindi inapplicabili discipline processuali che prevedano sistemi decadenziali, come il rito ordinario o, peggio, il rito del lavoro. Necessario disegnare un procedimento ad hoc che tenga conto della specificità della materia e che sia un rito unico, per consentire la concentrazione delle tutele in un unico procedimento per la decisione delle questioni che riguardano la stessa persona, le stesse relazioni familiari e gli stessi assetti patrimoniali senza quella dispersione di risorse, tempi, costi che l’attuale “polverizzazione” del sistema comporta.
Questa la condivisibile filosofia di sistema adottata dalla proposta di riforma: un rito per la persona e la famiglia, introdotto con ricorso in cui sono forniti tutti gli elementi in fatto e le prove documentali anche relative all’assetto patrimoniale di ciascuna delle parti; ma al contempo un procedimento privo di preclusioni e decadenze, salvo che per i diritti disponibili (che però, per quanto consta, come già illustrato, sono comunque soggetti a variazioni nel corso del processo. E questo appare a chi scrive uno degli elementi di criticità di quanto proposto, anche se è previsto un correttivo all’art. 15 bis lett. G del maxiemendamento governativo). Un rito che preveda la possibilità di assunzione immediata di provvedimenti provvisori e urgenti, perché si tratta di situazioni che non possono attendere lo svolgimento del processo per ricevere una prima disciplina che accompagni le parti durante il suo svolgimento; provvedimenti sempre revocabili e rivedibili e sempre reclamabili (occorrerebbe il rinvio al sistema dei procedimenti cautelari) in cui il contraddittorio sia pieno anche nei confronti del minore, rappresentato dal curatore speciale cui sono attribuiti anche poteri ad acta oltre che ad processum, da nominarsi dal giudice d’ufficio ogni qualvolta vi sia conflitto di interessi anche potenziale. Un processo fortemente diretto da un giudice relatore delegato dal collegio il quale assume provvedimenti provvisori ed urgenti, stabilisce le fasi del processo, ammette ed assume le prove, sempre in contraddittorio tra le parti, provocandolo anche quando le prove sono disposte d’ufficio. Viene eliminato l’attuale necessario dualismo tra i procedimenti di separazione e divorzio che possono essere unificati. Viene tenuta in debita considerazione la violenza domestica e di genere, che resta anzi l’unico motivo di addebito della separazione, con espresso riferimento alla Convenzione di Istanbul: il che fa ben sperare che tutte le forme di violenza, anche quella economica ivi espressamente prevista, vengano finalmente prese in considerazione. Un procedimento che valorizza la mediazione, ma la esclude appunto in tali casi, sintonicamente con tale Convenzione.
Analogamente vengono superate le aporie e discriminazioni in tema di procedura di negoziazione assistita dagli avvocati prima accennate.
Non che la proposta di riforma sia priva di criticità[10]: i rapporti tra relatore e collegio sono appena abbozzati (ma è legge delega); al giudice relatore viene attribuita una forse eccessiva discrezionalità nella direzione del processo e non sono individuati i diritti disponibili che sarebbero soggetti al sistema delle preclusioni e decadenze. Nei Tribunali per i minorenni è prevista la delega di determinati atti ai giudici onorari senza escludere gli incombenti istruttori (delega che è fonte, come già illustrato, di prassi distorsive). Non viene disciplinata l’esecuzione o attuazione dei provvedimenti in materia di relazioni personali del minore, che hanno guadagnato all’Italia varie condanne a Strasburgo [11].
Rimane il dualismo Tribunale per i minorenni/Tribunale ordinario e la pur migliorativa riformulazione dell’art. 38 disp, att. c.c. - che attrae i procedimenti de potestate alla competenza del giudice ordinario davanti al quale pendono procedimenti relativi alla crisi di coppia- non risolve il problema della frantumazione delle competenze. In tema negoziazione assistita non tutto è stato risolto.
Tuttavia il maxiemendamento governativo al d.d.l. n. 1662/S/XVIII in ambito processuale famiglia costituisce un decisivo passo avanti per una presa in carico olistica della crisi delle relazioni personali e familiari, che -nell’equo contemperamento degli interessi in gioco per dirla con la Corte di Strasburgo- apre anche la strada al decisivo e – ad avviso di chi scrive ma non solo[12]- ineludibile ulteriore obiettivo del giudice unico specializzato e più prossimo possibile per la persona, le relazioni familiari e i minorenni.
[1] Per le varie condanne all’Italia e agli altri Paesi per non avere un arsenale giuridico adeguato cfr. http://www.ceduincammino.it/cgi-bin/ceduincammino/cerca.cgi. Per L’Italia in particolare: cfr. Piazzi c. Italia, 1 febbraio 2010 http://www.ceduincammino.it/cgi-bin/ceduincammino/vscheda.cgi?i=MMAMEMPMKMLMZMXMFMDLAP; Lombardo c. Italia, 29 gennaio 2013 http://www.ceduincammino.it/cgi-bin/ceduincammino/vscheda.cgi?i=JJSJPJNJHVCJVJXJKSZHDV; Strumia c. Italia, 23 giugno 2016, http://www.ceduincammino.it/cgi-bin/ceduincammino/vscheda.cgi?i=SSJSPSBSYSZSMSISDJQIJI
[2] M. G. RUO, ‘The long, long way’ del processo minorile verso il giusto processo, in Il diritto di famiglia e delle persone, 2010, nr. 1, pp. 119-141.
[3] Cass. 5256/2018: È ravvisabile il conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale ogni volta che l'incompatibilità delle rispettive posizioni sia anche solo potenziale, con conseguente necessità della nomina d'ufficio di un curatore speciale che rappresenti ed assista il minore.
Il minore è parte necessaria dei procedimenti de potestate che lo concernono, sicché, a pena di nullità, deve essere sempre rappresentato da un tutore o comunque da un curatore speciale, designato anche d'ufficio dal giudice (nella specie, il tutore provvisorio era stato designato dal tribunale per i minorenni solo all'esito del procedimento di primo grado, con il decreto con il quale aveva disposto, su istanza del pubblico ministero, la decadenza di entrambi i genitori dalla responsabilità genitoriale; decreto confermato in appello, con provvedimento cassato dalla Suprema corte, che ha rimesso il processo al giudice di primo grado perché provveda all'integrazione del contraddittorio nei confronti del minore).
[4] Le sentenze della Corte di Cassazione (3804 e 3805 e 7281/2010) configurarono la rappresentanza del minore nel procedimento di adottabilità secondo i seguenti principi :se è nominato un tutore -e questi non è in conflitto di interesse con il minore- sarà questi a rappresentare il minore nel processo e a essere difeso nella qualità da un avvocato, assicurando così al minore sin dall’inizio la difesa tecnica prevista dall’art. 8 l. 184/1983 come modificata dalla l. 149/2001;se è il tutore non è nominato, o si trova in conflitto di interessi con il minore, sarà nominato un curatore; sarà questi a rappresentare il minore nel processo e a essere difeso nella qualità da un avvocato assicurando al minore sin dall’inizio la difesa tecnica prevista dall’art. 8 l. 184/1983 come modificata dalla l. 149/2001; sia il tutore sia il curatore possono essere avvocati; in ogni caso le funzioni di rappresentanza e di difesa tecnica restano diverse anche se espletate dallo stesso soggetto; se il rappresentante del minore (tutore o curatore che sia) non nomina un difensore tecnico al minore, provvede il giudice a nominargli un avvocato d’ufficio. La Cassazione afferma che il minore è parte del procedimento, che le funzioni di rappresentante e avvocato sono diverse ma cumulabili nella stessa persona, così come d’altronde prevede la Convenzione di Strasburgo che agli artt. 4 e 9 afferma che il rappresentante del minore è, “se del caso, anche un avvocato” Cfr. anche sempre nel 2010 Cass. 19 luglio 2010, n. 16870; Cass., 14 luglio 2010, n. 16553; Cass., 14 giugno 2010, n. 14216; Cass. 11 giugno 2010, n. 14063; Cass., 19 maggio 2010, n. 12290).
[5] Cass. 12962/2016 individua i procedimenti di applicazione tradizionale o necessaria dell’istituto (adottabilità e azioni di stato persNel procedimento ablativo della responsabilità genitoriale anche il minore è parte necessaria e devono essere assicurati la difesa tecnica, il diritto all'audizione ed all'ascolto. Ragioni di effettività della tutela giurisdizionale impongono, poi, di nominare al figlio un curatore speciale, nei cui confronti instaurare il contraddittorio e, contro il provvedimento che definisce il giudizio, è ammesso il ricorso straordinario in Cassazione, per la sua idoneità ad incidere sulla sfera giuridica delle parti) in cui il conflitto di interessi è presunto ex lege ed altri in cui il conflitto di interessi va valutato caso per caso.
[6] Sul tema: Ciardi, https://www.giustiziainsieme.it/en/news/129-main/minori-e-famiglia/1767-il-curatore-speciale-del-minore-nel-conflitto-e-nella-relazione-di-cura-prospettive-di-riforma. Mi permetto di citare anche Ruo (a cura di), Autori: Attenni, Grazioli, Menicucci, Piazzoni, Ruo Il curatore del minore. Compiti, procedure, responsabilità. Maggioli, 2014, https://www.maggiolieditore.it/9788891603517-il-curatore-del-minore.html?gclid=Cj0KCQjw3f6HBhDHARIsAD_i3D_tIUjKfzCJIuMNzgqX4PIjHk5FAqzE4tsT6DaCQUFD53ciiShDQUcaAj7qEALw_
[7] Cass. 5256/2018: È ravvisabile il conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale ogni volta che l'incompatibilità delle rispettive posizioni sia anche solo potenziale, con conseguente necessità della nomina d'ufficio di un curatore speciale che rappresenti ed assista il minore.
[8] Nell’adozione in casi particolari, la Cassazione non ritiene nell’adozione in casi particolari la nomina del curatore sia sempre necessaria, ma non la esclude l’applicabilità dell’istituto (Cass. 19.10.2011, n. 21651). Cass. 12962/2016 la ha però esclusa nel caso della compagna omosessuale della donna compagna della madre che aveva presentato ricorso –accolto- per l’adozione ai sensi dell’art. 44 lett. D) della bambina nata in Spagna da un progetto comune di genitorialità. Nell’autorizzazione al secondo riconoscimento ex art. 251, IV comma, la corte Costituzionale ha riconosciuto l’applicabilità dell’istituto con sent. 83/2011; il Tribunale per i minorenni di Brescia ha dato inizio alla corrente giurisprudenziale per cui si nomina il curatore speciale all’infrasedicenne genitore per richiedere l’autorizzazione al riconoscimento al Tribunale ordinario ai sensi dell’art, 250, ultimo comma, c.c.; adozione del maggiorenne, in rapresentanza dei figli minorenni dell’istante (Tr. Torino 5.08.2020 e Tr. Roma, 11.10.2016); nei procedimenti ex art. 317 bis c.c. relativi alla tutela della relazione del minorenne con i nonni (Cass. N. 5097/2014). Procedimenti relativi alla crisi della coppa genitoriale ad alta conflittualità (Cass. Cass. Ord. 11554/2018; e molte corti di merito)
[9] http://www.ceduincammino.it/cgi-bin/ceduincammino/vscheda.cgi?i=LLQLXLULZIYLALILDUPLKK
[10] Cfr. D’Alessandro, La riforma della giustizia civile secondo il Piano nazionale di ripresa e resilienza e gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII. Riflessioni sul metodo. Su questa rivista https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1758-la-riforma-della-giustizia-civile-secondo-il-piano-nazionale-di-ripresa-e-resilienza-e-gli-emendamenti-governativi-al-d-d-l-n-1662-s-xviii-riflessioni-sul-metodo-di-elena-d-alessandro
[11] Ex multis, recentemente, oltre alla già ricordata R.B. e M.B. c. Italia, 22 aprile 2021, anche A.V.C. c. Italia, ric. 36936/2018, sent. 10 dicembre 2020 http://www.ceduincammino.it/cgi-bin/ceduincammino/vscheda.cgi?i=YYLYNYKYVCEYCYZYWKSKBR
[12] Cfr. mozione congiunta CAMMINO-ONDIF approvata a larghissima maggioranza (85,3%) al Congresso nazionale forense tenutosi a Roma il 23-24 luglio 2021, https://www.cammino.org/cammino-per-la-riforma-nellarea-persona-relazioni-familiari-e-minorenni/
La lesione dell’affidamento: i dubbi sulla giurisdizione e sulla tutela del privato (Nota a margine dell’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria n. 3701 del 2021)
di Giorgio Capra
Sommario: 1. Il caso dinanzi alla Quarta Sezione e i quesiti rimessi alla Plenaria - 2. Il problema della giurisdizione sulla domanda risarcitoria da lesione dell’affidamento: il ragionamento della Sezione remittente - 3. La seconda e la terza questione rimesse all’Adunanza Plenaria: le condizioni per configurare un affidamento giuridicamente tutelabile e la colpa dell’Amministrazione - 4.1. Prime riflessioni a margine dell’ordinanza: in tema di giurisdizione… - 4.2. (segue) e in tema di affidamento e colpa dell’Amministrazione - 5. Rilievi conclusivi in attesa dell’Adunanza Plenaria.
1. Il caso dinanzi alla Quarta Sezione e i quesiti rimessi alla Plenaria
L’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria si inscrive in una complessa vicenda di cui è necessario dare sommariamente conto. La pronuncia trae origine da una domanda risarcitoria proposta dinanzi al TAR Marche da un privato che lamentava di aver subito dei danni in conseguenza dell’annullamento giurisdizionale[1] degli atti di pianificazione urbanistica e dei titoli edilizi rilasciati dal Comune a favore del proprio dante causa. Inoltre, in sede di ottemperanza era stata dichiarata nulla[2] anche la successiva delibera del Consiglio comunale che, ritenendo di poter applicare l’art. 38 d.p.r. n. 380 del 2001, aveva riapprovato la variante annullata.
Nello specifico, la ricorrente – che aveva acquistato il terreno nelle more del giudizio sulla legittimità della variante urbanistica – deduceva a fondamento della propria domanda risarcitoria la lesione dell’affidamento dalla stessa riposto sulla legittimità degli atti emanati dall’Amministrazione.
Il TAR accoglieva il ricorso[3] e condannava il Comune al risarcimento del danno, quantificato nella differenza tra il prezzo pagato dalla ricorrente ed il valore agricolo del terreno nonché nelle spese di costruzione e demolizione dalla stessa sopportate. Infatti, nei giudizi aventi ad oggetto gli atti di pianificazione urbanistica ed i titoli edilizi, la sospensione cautelare del permesso di costruire[4] consentiva comunque la prosecuzione dei lavori fino al livello del piano di campagna.
Il Comune, non costituito in primo grado, appellava quindi la sentenza, lamentando, in via pregiudiziale, il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo e, nel merito, l’erroneità della pronuncia del TAR sotto due distinti profili: da un lato, il giudice di prime cure non avrebbe adeguatamente considerato il comportamento del privato, il quale avrebbe proceduto alla realizzazione delle opere nonostante pendesse un giudizio sul titolo edilizio; dall’altro, il TAR non avrebbe correttamente valutato il requisito della colpa in capo al Comune, nel caso concreto insussistente alla luce della complessità dell’iter amministrativo e giudiziario che aveva interessato, dapprima, la variante al piano regolatore generale e, poi, il permesso di costruire.
La Quarta Sezione investita dell’impugnazione ha rimesso all’Adunanza Plenaria la risoluzione di tre importanti questioni: in primo luogo, se della domanda con cui il privato chiede il risarcimento del danno derivante dall’affidamento dallo stesso riposto sulla legittimità del provvedimento amministrativo annullato giudizialmente debba conoscere il giudice amministrativo; in secondo luogo, in caso di risposta affermativa, quali siano i presupposti perché possa configurarsi un affidamento giuridicamente tutelabile; infine, in presenza di quali condizioni possa escludersi la colpa dell’Amministrazione.
L’ordinanza in commento è ricca di contenuti ulteriori rispetto a quelli che vengono qui presi in considerazione, cionondimeno si reputa opportuno soffermarsi esclusivamente sulla posizione dell’affidamento e sulla giurisdizione sulla domanda risarcitoria da lesione dello stesso per l’indubbia rilevanza che tali profili rivestono da un punto di vista di ricostruzione del sistema di tutela del privato nei confronti della Pubblica Amministrazione.
2. Il problema della giurisdizione sulla domanda risarcitoria da lesione dell’affidamento: il ragionamento della Sezione remittente
Come accennato, il primo quesito sottoposto all’attenzione dell’Adunanza Plenaria è quello relativo all’individuazione del giudice fornito di giurisdizione sulla domanda di risarcimento del danno proposta da un privato, avente causa del destinatario di una favorevole variante urbanistica, per i pregiudizi conseguenti all’annullamento giurisdizionale dell’atto di pianificazione e del conseguente permesso di costruire.
La Sezione ritiene opportuno investire la Plenaria in quanto la querelle appare tutt’altro che risolta, stante l’inesistenza di un univoco orientamento sul punto della Cassazione e del Consiglio di Stato. Del resto, il Collegio rileva che la risoluzione della questione non interessa solamente i casi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ma anche le controversie soggette alla giurisdizione generale di legittimità. Della centralità del problema è prova evidente che proprio la questione della giurisdizione sul danno da affidamento era stata già, poco più di due mesi prima dell’ordinanza in commento, rimessa all’esame della Plenaria[5].
La Sezione rimettente, prima di formulare il quesito, procede alla sintetica ricostruzione degli orientamenti emersi in giurisprudenza. Come noto, si contrappongono due indirizzi specularmente opposti: l’uno attribuisce la giurisdizione sulle controversie risarcitorie del ‘danno da affidamento’ al giudice ordinario, l’altro al giudice amministrativo.
Entrambi gli orientamenti muovono dall’assunto per cui la giurisdizione amministrativa è volta ad apprestare tutela contro l’agire pubblicistico dell’Amministrazione – e, quindi, presuppone che si controverta in ordine alla legittimità dell’esercizio del potere amministrativo in relazione alla lesione di un interesse legittimo – e che l’azione risarcitoria costituisce uno strumento ulteriore per rendere piena ed effettiva la tutela del cittadino nei confronti della P.A..
Invero, il primo indirizzo[6] attribuisce la giurisdizione al giudice ordinario sul presupposto che in tali casi la causa petendi dell’azione di risarcimento non sarebbe l’illegittimità del provvedimento: il danno, in altri termini, non sarebbe causalmente ricollegato all’illegittimo esercizio del potere, bensì alla lesione dell’affidamento dell’attore nella legittimità del provvedimento.
Il secondo orientamento[7], invece, afferma la giurisdizione del giudice amministrativo, tenuto conto che, a ritenere il contrario, si introdurrebbe una inversione logica tra causa petendi della domanda risarcitoria e illegittimità del provvedimento, ritenendo la prima non causalmente ricollegata all’annullamento del provvedimento. Inoltre, la tesi favorevole alla giurisdizione del giudice ordinario finirebbe con l’operare una non condivisibile distinzione nell’ambito dell’interesse legittimo pretensivo tra il conseguimento legittimo dell’atto ed il suo successivo mantenimento, trascurando del tutto la natura relazionale del nesso che si instaura tra Amministrazione e privato nel rapporto giuridico procedimentale.
Allontanandosi incidentalmente dalla pronuncia in commento, si reputa opportuno, al fine di meglio comprendere le critiche mosse dalla Sezione remittente all’indirizzo favorevole alla giurisdizione del giudice ordinario, riepilogare brevemente i principali nodi argomentativi sviluppati negli arresti inquadrabili nel primo indirizzo, partendo dall’analisi delle ordinanze gemelle del 2011 e, successivamente, delle pronunce nn. 17586 del 2015 e 8236 del 2020.
In particolare, le ordinanze nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011 motivano la sussistenza della giurisdizione ordinaria in ragione del fatto che, nel caso di danno da provvedimento amministrativo illegittimo favorevole annullato, in via di autotutela o all’esito di un giudizio, la parte che invoca una tutela risarcitoria non lamenterebbe “un esercizio illegittimo del potere consumato in suo confronto con sacrificio del corrispondente interesse sostanziale, ma la colpa che connota un comportamento consistito per contro nella emissione di atti favorevoli, poi ritirati per pronuncia giudiziale o in autotutela, atti che hanno creato affidamento nella loro legittimità e orientato una corrispondente successiva condotta pratica, poi dovuta arrestare”[8].
In sintesi: nel caso di danno da provvedimento favorevole illegittimo non potrebbe esservi giurisdizione del giudice amministrativo in quanto il danno, di cui il privato chiede il ristoro, non sarebbe causalmente ricollegato all’illegittimità dell’atto o del provvedimento amministrativo. L’indirizzo viene, poi, meglio specificato con la successiva, e meglio argomentata[9], ordinanza n. 17586 del 2015. Con tale pronuncia le Sezioni Unite, a seguito del vivace dibattito scaturito dopo le ordinanze del 2011, confermano la giurisdizione del giudice ordinario sulla base di due ulteriori argomenti.
In primo luogo, le Sezioni Unite ritengono che nel contenuto e nell’oggetto della situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo pretensivo rientrerebbe esclusivamente l’interesse positivo ad ottenere il provvedimento, mentre resterebbe fuori l’interesse a che l’Amministrazione provveda legittimamente[10]. Sicché, da un lato, con il rilascio del provvedimento favorevole illegittimo, l’interesse legittimo non potrebbe dirsi leso, e, dall’altro, dopo l’annullamento dello stesso disposto dal giudice o dall’Amministrazione in autotutela, l’interesse legittimo non potrebbe dirsi insoddisfatto illegittimamente.
Di conseguenza, l’impossibilità di riscontrare nel caso di specie una ingiusta lesione dell’interesse legittimo conduce le Sezioni Unite ad individuare in capo al privato una diversa situazione giuridica soggettiva: il danno patito dall’amministrato sarebbe ricollegato alla “lesione di una situazione di diritto soggettivo rappresentata dalla conservazione dell’integrità del suo patrimonio”[11].
Alla luce di questi due argomenti, la Cassazione esclude altresì che nelle materie di giurisdizione esclusiva di tali controversie possa conoscere il giudice amministrativo, posto che, in questi casi, non verrebbe in rilievo alcuna controversia sul potere dell’Amministrazione ma solamente una questione relativa alla “attitudine del pregresso esercizio del potere siccome sfociato nel provvedimento illegittimo a determinare come conseguenza causale l’insorgenza di un incolpevole affidamento del privato beneficiario nella permanenza della situazione di vantaggio”[12].
Le Sezioni Unite, da ultimo con l’ordinanza n. 8236 del 2020, hanno portato ‘a compimento’[13] l’indirizzo in esame, affermando la giurisdizione del giudice ordinario anche nel caso in cui l’affidamento non fosse ingenerato da un precedente provvedimento, bensì da un mero comportamento dell’Amministrazione.
Tale ultima pronuncia si segnala per due ulteriori ragioni: in primis, per l’affermazione che, nei casi di danno da affidamento, la lesione non discende dalla violazione delle regole pubblicistiche che disciplinano l’esercizio del potere amministrativo ma dalla violazione delle regole di diritto privato di correttezza e buona fede – la cui violazione non dà vita a invalidità ma a responsabilità – e, in punto di situazione giuridica soggettiva lesa, per la sostituzione della nozione di ‘diritto alla conservazione dell’integrità del patrimonio’ con un quella di ‘affidamento della parte privata nella correttezza della condotta della pubblica amministrazione’.
Riepilogate sinteticamente le ragioni della giurisprudenza favorevole alla giurisdizione del giudice ordinario e tornando all’ordinanza in commento, la pronuncia si segnala per le interessanti obiezioni mosse a tale indirizzo.
Infatti, la Sezione ritiene debba affermarsi in materia la giurisdizione del giudice amministrativo sulla base di tre argomenti.
Primo: la natura del ‘diritto all’affidamento’ e quella relazionale dell’interesse legittimo.
Il giudice rimettente ritiene che la situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo pretensivo esprima al contempo due posizioni: un interesse ‘sostanziale’, rappresentato dalla pretesa ad ottenere il ‘bene della vita’, e un interesse che viene definito ‘procedimentale’ a che il provvedimento venga emanato nel rispetto della legge. L’interesse legittimo non può essere ritenuto, utilizzando una locuzione tipica degli albori del diritto amministrativo, un interesse occasionalmente protetto, tutelato esclusivamente – e nei limiti in cui – ciò consenta di soddisfare l’interesse pubblico alla legalità dell’azione amministrativa.
Nella ricostruzione della Sezione, infatti, l’interesse legittimo è la posizione giuridica soggettiva correlata all’esercizio del potere amministrativo ed esso deve essere necessariamente riferito al rapporto, complessivamente inteso, tra richiedente e P.A.: risulterebbe artificioso sovrapporre a tale posizione giuridica soggettiva la diversa situazione sostanziale del ‘diritto all’affidamento’.
Ciò posto, la Sezione remittente vuole dimostrare che, nel caso di danno da provvedimento illegittimo favorevole, non potrebbe neanche configurarsi in astratto una lesione di un diritto soggettivo.
La lesione potrebbe, infatti, essere riferita unicamente ad un interesse legittimo in ragione del fatto che, una volta annullato l’atto abilitativo, verrebbe meno il diritto ad esso conseguente e, quindi, il soggetto che si era visto attribuito il provvedimento annullato, tornerebbe ad essere titolare di un mero interesse legittimo.
Secondo: la nozione di potere amministrativo e il ruolo del giudice amministrativo come giudice naturale dell’esercizio della funzione pubblica.
Ad avviso della Sezione rimettente, l’esercizio di un potere amministrativo si configura, non solo nel caso di diniego illegittimo di un atto amministrativo, ma altresì quando l’istanza venga assentita con un provvedimento illegittimo, con conseguente piena riconducibilità delle controversie de qua all’ambito dell’art. 7 c.p.a..
A tal proposito, il Collegio afferma espressamente che “la pretesa risarcitoria – quando si basa su quanto è accaduto in sede di esercizio del potere amministrativo ‘autoritativo’ o nel corso del procedimento amministrativo’ – non è riconducibile ad un comportamento o a una condotta di rilievo privatistico o svolta in via di mero fatto […] ma si duole dell’esercizio del potere amministrativo, disciplinato dal diritto pubblico”[14] sotto gli aspetti oggettivo, soggettivo e funzionale. In questi casi, la domanda risarcitoria non si basa sulla illiceità di un comportamento ma sull’emanazione – anche se illegittima – del provvedimento amministrativo.
Terzo: incompatibilità con il criterio di riparto della giurisdizione previsto dall’art. 103 della Costituzione.
Assegnando la giurisdizione al giudice ordinario, si introdurrebbero dei criteri di riparto della giurisdizione non compatibili con il dettato costituzionale. E ciò, sia a ritenere che vi sarebbe lesione dell’interesse legittimo – e quindi giurisdizione del giudice amministrativo – solo laddove il provvedimento sia stato illegittimamente negato e non anche nel caso in cui sia stato illegittimamente rilasciato; sia ad aderire alla tesi per cui, nel caso di danno da affidamento, le regole violate avrebbero natura privatistica – in quanto riconducibili ai principii di buona fede e correttezza – e le controversie in materia dovrebbero essere conosciute esclusivamente dal giudice ordinario.
Invero, si finirebbe per veicolare un criterio di riparto basato, nell’un caso, sul carattere satisfattivo o meno del provvedimento e, nell’altro, sulla natura privatistica ovvero pubblicistica delle regole violate, il che, non solo contrasta apertamente con l’art. 103 Cost., ma anche con il principio di concentrazione delle tutele che governa il processo amministrativo.
3. La seconda e la terza questione rimesse all’Adunanza Plenaria: le condizioni per configurare un affidamento giuridicamente tutelabile e la colpa dell’Amministrazione
Nel caso in cui l’Adunanza Plenaria dovesse affermare la giurisdizione del giudice amministrativo, la Sezione ritiene debba essere altresì chiarito in presenza di quali condizioni possa insorgere un affidamento giuridicamente rilevante, anche in relazione al fattore temporale.
Il Collegio sostiene che non si potrebbe riconoscere al privato un affidamento risarcibile in tutti i casi in cui il provvedimento amministrativo favorevole sia stato poi annullato, ma dovrebbe sempre tenersi conto delle peculiarità della fattispecie concreta, da apprezzarsi caso per caso, alla luce delle vicende occorse nell’ambito del procedimento amministrativo.
A ritenere diversamente, infatti, qualsivoglia affidamento del privato potrebbe essere posto a fondamento di una domanda risarcitoria.
La Sezione, a questo punto, procede a richiamare i passaggi logico-argomentativi della precedente ordinanza di rimessione n. 2013 del 2021, distinguendo due orientamenti: un primo indirizzo, più restrittivo, secondo cui la sentenza di annullamento del provvedimento amministrativo illegittimo, avendo acclarato la non spettanza del bene della vita, determinerebbe l’assenza del danno ingiusto e, conseguentemente, l’irrisarcibilità dell’affidamento; un secondo indirizzo che, invece, non nega a priori la tutelabilità dell’affidamento nel caso di provvedimento annullato in sede giurisdizionale, ma condiziona la domanda risarcitoria del privato alla dimostrazione di stringenti requisiti quali la colpa dell’amministrazione, il danno subito dall’istante e il nesso di causalità.
Il Collegio ritiene espressamente che gli esiti interpretativi del primo orientamento siano maggiormente condivisibili.
In particolare, affinché vi sia un affidamento tutelabile, occorre che il privato, oltre a versare in una situazione di buona fede ed assenza di colpa, ritenga di avere titolo a conseguire o mantenere un bene della vita[15]. Sul punto, la Sezione precisa che non si potrebbe configurare un affidamento giuridicamente tutelabile non solo nel caso in cui il provvedimento sia stato annullato giudizialmente, posto che in tale caso sarebbe accertata la non spettanza del bene della vita, ma anche qualora l’illegittimità del provvedimento poteva essere riscontrata dallo stesso beneficiario.
Tale conclusione sarebbe imposta sia alla luce del principio di autoresponsabilità, per cui chi propone un’istanza non accoglibile non può chiedere alcun risarcimento, sia in quanto si verrebbero a determinare inaccettabili conseguenze con riguardo all’assetto del potere di autotutela: l’Amministrazione, in quanto esposta a conseguenze risarcitorie, potrebbe temere di esercitare il proprio potere di secondo grado.
Inoltre, la Sezione rimettente ritiene che nel caso di specie si dovrebbe escludere un affidamento risarcibile: lo stesso potrebbe essere ravvisato solo a condizione che sia trascorso un adeguato lasso di tempo dal conseguimento del provvedimento, tale da ingenerare una ragionevole un’aspettativa alla sua conservazione. Il requisito temporale, invero, difficilmente potrebbe essere soddisfatto nel caso in cui il provvedimento ampliativo venga immediatamente impugnato da un controinteressato.
La terza ed ultima questione rimessa all’Adunanza Plenaria è volta, poi, a chiarire le condizioni in presenza delle quali si possa escludere la colpa dell’Amministrazione.
Nel caso sub judice, infatti, non potrebbe dirsi sussistente la colpa del Comune, in quanto l’annullamento dei provvedimenti sarebbe in concreto dipeso non dalla superficialità dell’Amministrazione nella fase di emanazione dei permessi di costruire, ma esclusivamente per la complessa vicenda amministrativa e giudiziaria riguardante la variante urbanistica; sicché dovrebbe escludersi la rimproverabilità dell’agire dell’Amministrazione e, con essa, la risarcibilità del danno.
4.1. Prime riflessioni a margine dell’ordinanza: in tema di giurisdizione…
L’ordinanza di rimessione appare condivisibile laddove sostiene le ragioni dell’attribuzione alla giurisdizione amministrativa delle controversie in tema di danno da affidamento.
Sin dal 2011, la dottrina giuspubblicistica ha evidenziato – pur con diversità di posizioni[16] – le criticità dell’indirizzo volto ad attribuire la giurisdizione al giudice ordinario. E, a testimonianza di un proficuo dialogo tra accademia e giurisprudenza, gli argomenti utilizzati dalla Sezione rimettente per sostenere le ragioni della giurisdizione del giudice amministrativo sembrano recepire le riflessioni della dottrina.
Il primo argomento utilizzato dalla Sezione rimettente è quello relativo alle posizioni giuridiche soggettive che vengono in rilievo nel rapporto con l’Amministrazione. È un argomento che, nonostante la perdurante difficoltà nel delineare le nozioni di interesse legittimo e di affidamento, dà l’opportunità di inquadrare il problema in un’ottica più generale: v’è, infatti, il serio rischio che la figura del danno da lesione dell’affidamento del cittadino nei confronti dell’Amministrazione, così come ricostruita dalla Cassazione, “manc[hi] di un reale fondamento sistematico e si confond[a] con altre ipotesi, ricondotte al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi”[17].
Come accennato, la questione viene impostata dalla Sezione rimettente nei seguenti termini: l’interesse legittimo è la posizione che si correla all’esercizio del potere, l’interesse legittimo pretensivo esprime sia l’interesse ‘sostanziale’ all’ottenimento del bene della vita, sia l’interesse ‘procedimentale’ a che il provvedimento sia emanato seguendo il procedimento previsto dalla legge. La natura sostanziale, e non meramente processuale, della posizione di interesse legittimo renderebbe improprio sovrapporre a tale situazione giuridica soggettiva la diversa figura dell’affidamento.
Date queste premesse, il ragionamento della Sezione appare pregevole ma non del tutto lineare.
Deve essere necessariamente condiviso nella parte in cui afferma la natura relazionale dell’interesse legittimo. L’interesse legittimo è, infatti, la posizione giuridica soggettiva che si confronta con il potere amministrativo[18] e la relazione che si viene ad instaurare tra il potere e l’interesse legittimo non può che dare luogo ad un particolare rapporto giuridico[19], regolato dal diritto pubblico.
Ed è proprio alla luce della particolare natura della relazione che si instaura tra Amministrazione e privato che non risulterebbe sistematicamente corretto introdurre all’interno di una tale dinamica pubblicistica una diversa situazione di diritto soggettivo, avente ad oggetto il comportamento dell’Amministrazione da un punto di vista prettamente privatistico.
Il ragionamento, invece, appare non del tutto lineare laddove il giudice remittente, ponendo l’accento sia sull’aspetto ‘sostanziale’ sia su quello ‘procedimentale’ dell’interesse legittimo, sembra aderire all’opzione interpretativa che riconduce all’interno della nozione di interesse legittimo, oltre all’interesse all’ottenimento del bene della vita, anche la pretesa alla legittimità dell’agire della pubblica amministrazione. Se questa è la ricostruzione fatta propria dalla Sezione – secondo la tesi già autorevolmente sostenuta da Carlo Emanuele Gallo a margine dell’ordinanza n. 17586 del 2015[20] – se ne dovrebbe logicamente dedurre che il rilascio di un provvedimento favorevole ma illegittimo leda non un diritto soggettivo[21], ma direttamente la posizione di interesse legittimo del privato, con conseguente e obbligata attribuzione della controversia de qua alla giurisdizione del giudice amministrativo.
A questo punto, però, non si comprende la ragione per cui la Sezione abbia ritenuto necessario approfondire la questione, soffermandosi sulla impossibilità di rinvenire diritti soggettivi nelle vicende in cui vengono in rilievo danni da affidamento. L’assenza di diritti soggettivi viene motivata in base alla circostanza per cui, una volta annullato l’atto abilitativo, non sarebbe più configurabile il diritto ad esso conseguente e l’originario richiedente tornerebbe ad essere titolare di un mero interesse legittimo.
Sembra che la Sezione, per superare la giurisdizione del giudice ordinario, avverta la necessità di escludere in concreto la presenza di diritti soggettivi.
In realtà, la controversia dovrebbe spettare alla giurisdizione del giudice amministrativo non tanto per l’impossibilità di riscontrare diritti soggettivi in conseguenza dell’annullamento dell’atto abilitativo, ma, piuttosto, perché non può ragionevolmente ritenersi che l’interesse legittimo pretensivo esprima esclusivamente l’interesse al conseguimento del provvedimento e non anche l’interesse alla sua conservazione.
Del resto, il privato che entra in relazione con l’Amministrazione non solo vuole che la stessa gli riconosca il provvedimento favorevole, ma ha anche un interesse alla stabilità del provvedimento, a mantenerlo una volta ottenuto[22]. Sicché l’annullamento del provvedimento favorevole illegittimo, disposto all’esito di un giudizio amministrativo, lede non un diritto soggettivo all’integrità del patrimonio o un diritto all’affidamento ma direttamente l’interesse legittimo pretensivo del privato. E la lesione dell’interesse legittimo – più che riconducibile all’illegittimità del provvedimento favorevole – sembra determinata dal fatto che la rimozione del provvedimento si riverbera direttamente sull’interesse alla stabilità dello stesso.
Gli altri argomenti richiamati dalla Sezione per affermare la giurisdizione del giudice amministrativo sono quelli relativi al collegamento della controversia con il potere amministrativo e all’incompatibilità dei criteri di riparto derivanti dall’attribuzione della giurisdizione al giudice ordinario con il dato costituzionale.
Com’è noto, l’art. 103 Cost. stabilisce che il criterio di riparto della giurisdizione sia quello della situazione giuridica soggettiva che viene in rilievo: assegna al giudice ordinario le controversie in materia di diritti soggettivi e alla giurisdizione del giudice amministrativo la tutela degli interessi legittimi. La Corte costituzionale ha ulteriormente chiarito che la natura delle materie devolute alla giurisdizione generale di legittimità “è contrassegnata dalla circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino dinanzi al giudice amministrativo”[23]. La presenza e l’esercizio del potere autoritativo sono, dunque, indicatori della presenza di una situazione di interesse legittimo[24], la cui tutela anche risarcitoria è assegnata alla giurisdizione del giudice amministrativo[25].
La Sezione rimettente, del tutto condivisibilmente, ritiene che le controversie relative al danno da affidamento siano riconducibili all’esercizio del potere, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo.
Del resto, questo profilo era stato evidenziato, sin dal 2011, dalla migliore dottrina che ha affermato che “il provvedimento favorevole giustamente annullato è comunque espressione del potere pubblico”[26] e che la tesi della Cassazione “non convince in quanto la controversia è pur sempre collegata all’esercizio di poteri nel quale l’Amministrazione è presente come autorità”[27].
È, infatti, del tutto evidente che tra gli atti di esercizio di un potere amministrativo rientrano non solo il diniego illegittimo di un atto amministrativo ma, altresì, l’assenso ad un’istanza per mezzo di un provvedimento illegittimo[28]. Affermare che la giurisdizione spetterebbe al giudice ordinario in quanto la causa pretendi del risarcimento risiede “non nel cattivo esercizio del potere amministrativo, bensì, […] in un comportamento (nel cui ambito l'atto di esercizio del potere amministrativo - provvedimentale o adottato secondo moduli convenzionali - rileva come mero fatto storico) la cui illiceità venga dedotta prescindendo dal modo in cui il potere è stato (o non è stato) esercitato e venga prospettata come violazione di regole comportamentali di buona fede e correttezza alla cui osservanza è tenuto qualunque soggetto, sia esso pubblico o privato”[29] sarebbe del tutto improprio.
E ciò a tacer del fatto che l’attribuzione al giudice ordinario delle controversie relative al ‘danno da affidamento’ si accompagna, inevitabilmente, alla prospettazione di criteri di riparto che sembrano inconciliabili con l’art. 103 Cost. così come interpretato dalla Corte costituzionale. A tale risultato si perviene, sia nel caso in cui la giurisdizione venga fatta dipendere dalla satisfattività o meno del provvedimento, sia nel caso in cui si ritenga che la lesione derivi “dalla violazione delle regole di correttezza e buona fede, di diritto privato, cui si deve uniformare il comportamento dell’Amministrazione”[30]. Nel primo caso, si verificherebbe una frantumazione della giurisdizione anche in relazione a vicende unitarie, perché un provvedimento satisfattivo per il destinatario potrebbe non esserlo con riferimento alla posizione dei terzi[31] e viceversa; nel secondo, si opererebbe un’artificiosa differenziazione, sezionando “in due parti un procedimento che si presenta unitario e orientato, nella sua destinazione, all’interesse pubblico e che non sembra poter essere scisso, a tal punto da determinare l’osservanza di regole differenti aventi diversa destinazione”[32].
4.2. (segue) e in tema di affidamento e colpa dell’Amministrazione
Affrontato il tema della giurisdizione, è ora possibile soffermarsi sulla ricostruzione dell’affidamento proposta nella ordinanza in commento.
Come accennato, la Sezione rimettente muove dalle affermazioni per cui il mero annullamento di un provvedimento favorevole non potrebbe, di per ciò solo, essere posto a base di una domanda risarcitoria e che, affinché possa dirsi sussistente un affidamento, occorrerebbe sempre tenere conto delle peculiarità del caso concreto.
Partendo da questa prima considerazione, la Sezione sviluppa il suo ragionamento, che è in parte non del tutto lineare e in parte solleva alcune perplessità.
Appare ambiguo nella parte in cui, richiamata la precedente ordinanza di rimessione n. 2013 del 2021 e i due orientamenti in tema di danno da affidamento in caso di annullamento giurisdizionale del provvedimento favorevole, ma illegittimo, il Giudice ritiene di accogliere l’indirizzo più restrittivo, secondo il quale, una volta acclarata, con la sentenza di annullamento del provvedimento, la non spettanza del bene della vita, dovrebbe escludersi sia l’ingiustizia del danno che, conseguentemente, la sua risarcibilità[33]. Infatti, non sembra possibile sostenere che la accertata non spettanza del bene della vita escluda il risarcimento e, contemporaneamente, che il mero annullamento non possa, di per sé solo, essere posto a base della domanda risarcitoria, dovendosi valutare le circostanze del caso concreto. Se, infatti, l’annullamento giurisdizionale del provvedimento esclude l’ingiustizia del danno, non possono – neanche astrattamente – configurarsi particolari circostanze occorse nell’iter procedimentale che consentano di fondare un affidamento giuridicamente tutelabile.
Il Collegio, quindi, pur dichiarando di aderire all’orientamento restrittivo, sembra discostarsene laddove procede, poi, alla disamina dei requisiti della posizione di affidamento per suggerirne la insussistenza nel caso di specie. A prescindere dal fatto che non ci si avvede della ragione per cui, accolta la tesi che nega la tutela risarcitoria del legittimo affidamento in caso di annullamento giurisdizionale del provvedimento favorevole, il Collegio si soffermi nella ricostruzione della posizione di affidamento, gli esiti interpretativi cui la Sezione rimettente perviene suscitano talune perplessità.
Com’è noto, affinché possa insorgere una posizione di affidamento devono sussistere congiuntamente tre requisiti[34]: uno di carattere soggettivo, consistente nella buona fede e nell’assenza di colpa dell’amministrato; uno di carattere oggettivo, nel senso che l’affidamento deve trovare la propria fonte in un provvedimento o in un comportamento tenuto dall’Amministrazione; e uno temporale, nel senso che l’aspettativa alla stabilità deve essere ritenuta tanto più forte quanto maggiore sia il tempo trascorso.
Ebbene, con riferimento al requisito c.d. soggettivo, la Sezione ritiene che “per aversi affidamento giuridicamente tutelabile in capo al privato, occorra che questi – in buona fede e senza sua colpa – ritenga di avere titolo al conseguimento o alla conservazione di un bene della vita”[35].
Se non può che concordarsi su questa affermazione, non essendo possibile che l’ordinamento tuteli l’interesse – maturato colposamente o, addirittura, in mala fede[36] – alla conservazione del provvedimento favorevole, appaiono discutibili gli approdi successivi.
Il Giudice, infatti, ritiene condivisibile la deduzione difensiva per cui chi si avvale di un provvedimento tempestivamente impugnato lo fa ‘a suo rischio e pericolo’: non potrebbe sussistere un affidamento risarcibile quando il beneficiario dell’atto, dopo l’impugnazione ad opera di un controinteressato, ritenga di effettuare spese che ragioni di prudenza imporrebbero di evitare. La Sezione prosegue affermando che tale principio dovrebbe rilevare a maggior ragione quando l’interessato abbia cominciato l’attività sulla base di una d.i.a./s.c.i.a. e poi il giudice abbia ravvisato l’insussistenza dei relativi presupposti, censurando la mancanza di provvedimenti repressivi dell’amministrazione.
Queste considerazioni, oltre a porsi in contrasto con il principio di presunzione di legittimità dei provvedimenti amministrativi, nonché con la regola per cui, in pendenza di giudizio e in assenza di misura cautelare di sospensione[37], il provvedimento amministrativo continua ad essere pienamente efficace, rischiano di rappresentare un vero e proprio boomerang sulla ripresa economica, specie a seguito della crisi pandemica.
Se, in ragione della impugnazione avverso il provvedimento favorevole, la tutela risarcitoria dell’affidamento venisse esclusa de plano – sulla base della circostanza che l’operatore economico accorto, in una ottica prudenziale, non dovrebbe effettuare spese – si verificherebbero conseguenze non certo auspicabili. Infatti – a portare alle naturali conseguenze l’affermazione della Sezione – sembra che la semplice proposizione di un ricorso giurisdizionale da parte di un soggetto controinteressato valga a determinare una sorta di surrettizia sospensione dell’efficacia del provvedimento: non v’è operatore economico che – a seguito del ricorso di un controinteressato – si accollerebbe, per tutto il tempo necessario a definire il giudizio, il rischio di effettuare spese di importi anche considerevoli laddove, sopraggiunto l’annullamento, verrebbe a trovarsi privo di tutela.
In sostanza, in presenza di un ricorso proposto avverso il provvedimento ampliativo rilasciato a proprio favore, l’operatore economico non intraprenderebbe alcuna attività giacché la risarcibilità del proprio interesse alla stabilità del provvedimento sarebbe sic et simpliciter esclusa, a prescindere da qualsiasi valutazione in concreto della vicenda.
La criticità di siffatta interpretazione del requisito soggettivo dell’affidamento è tanto più grave laddove il Giudice ritiene che una simile soluzione si imporrebbe, a maggior ragione, per le attività avviate a seguito di segnalazione certificata di inizio attività. E ciò, non solo in quanto le norme di liberalizzazione “celano in realtà l’ingiusto trasferimento dalle amministrazioni ai privati delle responsabilità della ricerca e della lettura delle regole applicabili alle singole fattispecie”[38], ma soprattutto perché tale ricostruzione del requisito soggettivo – se intesa nel senso di escludere la tutela dell’affidamento nel caso in cui l’istanza di sollecitazione dei poteri di controllo dell’Amministrazione sia stata proposta dal controinteressato dopo sessanta giorni dalla presentazione della segnalazione – renderebbe definitivamente la s.c.i.a. uno strumento del tutto inadeguato ai fini del superamento dei regimi autorizzatori ex ante. Dal disposto dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, infatti, sembra emergere che il segnalante debba sopportare il rischio che la propria attività possa essere vietata, inibita o sospesa, esclusivamente per i sessanta giorni successivi alla presentazione dell’istanza. Trascorso quel momento – e stante la fondamentale diversità dei presupposti dell’esercizio dei poteri di controllo dopo i sessanta giorni – deve potersi ammettere, in linea generale, che il segnalante possa maturare un affidamento sulla stabilità del titolo.
Con riferimento al requisito oggettivo, la Sezione osserva che non potrebbe configurarsi un affidamento giuridicamente tutelabile ogniqualvolta il richiedente abbia presentato un’istanza non assentibile. Nel ragionamento del giudice, affermare che il beneficiario del provvedimento annullato possa chiedere il risarcimento del danno significherebbe esonerarlo dalle conseguenze di tale illegittimità: anzi ne trarrebbe vantaggio in relazione alla possibilità di ottenere il ristoro economico dall’Amministrazione[39].
Anche sotto tale profilo, la ricostruzione proposta suscita alcune perplessità.
L’Amministrazione, lungi dall’essere un soggetto incapace per il quale l’ordinamento deve apprestare una particolare tutela[40], occupa una posizione che genera di per sé un affidamento – lato sensu inteso – in capo ai cittadini[41], vieppiù quando riscontra l’istanza del privato con un provvedimento espresso.
Del resto, subordinare la tutela dell’affidamento alla assentibilità dell’istanza e, quindi, alla spettanza del bene della vita, pone un rilievo critico difficilmente superabile: si andrebbe, infatti, a risarcire non l’affidamento ma, direttamente, l’interesse al bene della vita.
Infine, con riferimento all’elemento temporale, si può in linea di massima condividere il principio affermato dalla Sezione, per cui l’affidamento necessita di un certo lasso di tempo per consolidarsi e difficilmente, nel caso di provvedimento favorevole tempestivamente impugnato dal controinteressato, tale requisito potrebbe dirsi integrato.
Tuttavia, occorre osservare come la valutazione circa la sufficienza dell’elemento temporale per maturare un affidamento debba essere, comunque, effettuata alla luce della fattispecie concreta, considerando anche gli altri due elementi: non si dovrebbe negare una tutela risarcitoria dell’affidamento sul solo presupposto dell’esiguità del lasso temporale intercorso dall’emanazione del provvedimento favorevole.
Analizzato il tema della posizione di affidamento è ora possibile soffermarsi brevemente sull’argomento della colpa dell’Amministrazione, oggetto della terza questione rimessa all’Adunanza Plenaria.
In merito si può condividere quanto sostenuto dalla Sezione rimettente: la colpa dell’Amministrazione ben potrebbe non sussistere nel caso in cui il danno sia imputabile alla particolare complessità della vicenda amministrativa.
5. Rilievi conclusivi in attesa dell’Adunanza Plenaria
L’ordinanza in commento rimette alla Plenaria alcune questioni connesse ad un tema complesso e, al contempo, fondamentale nella ricostruzione del sistema di tutela del privato nei confronti dell’Amministrazione, e lo fa sia sotto il profilo della giurisdizione sull’azione risarcitoria da lesione dell’affidamento, sia con riguardo alla ricostruzione di tale posizione sul piano sostanziale.
Sotto il profilo della giurisdizione, non può non auspicarsi che l’Adunanza Plenaria confermi la giurisdizione amministrativa nelle controversie relative al danno da affidamento. Si sono sopra evidenziate le convincenti ragioni che impongono tale soluzione: la giurisdizione del giudice ordinario rischia di non essere sostenibile sotto il profilo sistematico, svalutando la connessione delle controversie con il potere amministrativo e introducendo criteri di riparto che sembrano avulsi da quello previsto dall’art. 103 della Costituzione.
Venendo, invece, alla posizione di affidamento sembra che la ricostruzione proposta dalla Sezione sia eccessivamente restrittiva. È opportuno che la Plenaria si esprima sul punto in modo da non impedire a priori la tutela contro i danni patrimoniali sopportati dall’amministrato che abbia confidato nella stabilità del provvedimento amministrativo. In particolare, i requisiti oggettivo, soggettivo e temporale dovrebbero essere valutati sempre in concreto, alla luce delle vicende del caso specifico. In altri termini: sarebbe opportuno considerare i tre requisiti non come dei compartimenti stagni, bensì come dei vasi comunicanti in grado di compensarsi a vicenda. Dovrebbe, quindi, riconoscersi un affidamento suscettibile di ristoro anche nel caso in cui il provvedimento favorevole, seppur tempestivamente impugnato, sia stato accompagnato da un contegno dell’Amministrazione volto a rassicurare il privato circa la legittimità dello stesso, così da sopperire all’esiguo lasso di tempo entro cui l’affidamento in questione si è consolidato.
Con riferimento alla terza questione rimessa alla Plenaria, pur dovendosi concordare, in linea di principio, con le argomentazioni della Sezione, occorrerà che il giudice amministrativo applichi tale scusante in modo rigoroso ed equilibrato. È, infatti, evidente che riconoscere sic et simpliciter l’assenza di colpa dell’Amministrazione per errore scusabile determinerebbe un vuoto di tutela a danno dell’amministrato.
Infine, corre l’obbligo di rilevare che nell’economia complessiva dell’ordinanza sembrano non essere stati adeguatamente valorizzati due rilevanti elementi del caso concreto: da un lato, la ricorrente aveva acquistato il terreno quando era già pendente il ricorso giurisdizionale per l’annullamento dell’atto di pianificazione – situazione ben diversa rispetto a quella in cui versa il destinatario originario del provvedimento favorevole impugnato – e, dall’altro, successivamente all’annullamento della variante urbanistica e del permesso di costruire, era intervenuta una delibera di riapprovazione della variante, finalizzata alla sanatoria delle opere edilizie ex art. 38 d.p.r. n. 380 del 2001.
Se la prima circostanza, insieme con la sospensione cautelare dei provvedimenti impugnati, potrebbe far ritenere insussistente l’elemento soggettivo dell’affidamento[42], alla luce del fatto che non può certo definirsi non colposo il contegno di chi acquista un terreno edificabile sulla base di una variante urbanistica tempestivamente impugnata, il sopravvenire della ‘sanatoria’ introduce un elemento di ulteriore complicazione, potendo – in astratto – fondare un affidamento distinto rispetto a quello maturabile sul permesso di costruire.
Non sembra che la questione sia risolvibile unicamente sulla base del criterio della spettanza del bene della vita.
Infatti, da una parte, in difetto della reintrodotta variante, si potrebbe dubitare della sussistenza, oltre che dell’elemento soggettivo, anche dell’elemento oggettivo su cui maturare un affidamento. Questo dubbio riporta alla annosa questione della trasmissibilità dell’interesse legittimo[43] e non è certo questa la sede per soffermarsi su un argomento che presenta profili di indubbia complessità. Tuttavia, si deve evidenziare che, eccezion fatta per la voltura[44] del permesso di costruire, in assenza della nuova variante la ricorrente non avrebbe avuto direttamente alcun ‘rapporto amministrativo’ con il Comune, in quanto sia la prima variante urbanistica che il titolo edilizio impugnati erano stati rilasciati a favore del suo dante causa[45].
D’altra parte, la ricorrente aveva comunque ottenuto la ‘sanatoria’ e, quindi, si tratterà di valutare se, ed in che termini, il contegno dell’Amministrazione comunale, insieme agli altri requisiti, avrebbe potuto integrare un affidamento giuridicamente rilevante.
[1] Annullamento avvenuto con sentenza TAR Marche, sez. I, 1.8.2011, n. 630 e confermato con sentenza Cons. St., sez. IV, 19.6.2014, n. 3114.
[2] Con sentenza TAR Marche, sez. I, 8.10.2015, n. 698.
[3] Cfr. TAR Marche, sez. I, 6.5.2020, n. 268.
[4] Concessa con ordinanza TAR Marche, sez. I, 8.7.2010, n. 444 e confermata con ordinanza Cons. St., sez. IV, 29.9.2010, n. 4458.
[5] Con ordinanza Cons. St., sez. II, 9.3.2021, n. 2003. Per un commento all’ordinanza si rinvia a C. Napolitano, Risarcimento e giurisdizione. Rimessione alla plenaria sul danno da provvedimento favorevole annullato in www.giustiziainsieme.it, 2020.
[6] Come noto l’indirizzo ha preso avvio dalle ordinanze Cass., SS.UU., 23.3.2011, nn. 6594, 6595 e 6596 – su cui si veda la relazione al convegno svoltosi presso l’Università di Roma Tre l’11 maggio 2011, intitolato “L'azione risarcitoria nei confronti delle pp.AA. e l'eterno dibattito sulle giurisdizioni”, di F. Patroni Griffi, L’eterno dibattito sulle giurisdizioni tra diritti incomprimibili e lesione dell’affidamento in Foro amm. TAR, 2011, 9, LXVII, nonché M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e la nascita di nuove questioni in Federalismi.it, 2011, 7, 1 e ss. – ed è stato successivamente confermato con ordinanze Cass., Sez. Un., 4.9.2015, n. 17586; 22.5.2017, n. 12799; 22.6.2017, n. 15640; 23.1.2018, n. 1654; 2.3.2018, n. 4996; 24.9.2018, n. 22435; 13.12.2018, n. 32365; 19.2.2019, n. 4889; nonché, da ultimo con ordinanze Cass., Sez. Un.,28.4.2020, n. 8236 e 22.1.2021, n. 615. Anche il Consiglio di Stato ha aderito a questo indirizzo, sul punto, si vedano: Cons. St., sez. V, 27.9.2016, n. 3997; Id., sez. IV, 25.1.2017, n. 293; Id., 20.12.2017, n. 5980; Id., sez. VI, 13.8.2020, n. 5011.
[7] In particolare, si vedano: ordinanze Cass., Sez. Un., 21.4.2016, n. 8057 e 29.5.2017, n. 13454 nonché Cons. St., sez. V, 23.2.2015, n. 857; TAR Abruzzo, sez. I, 20.6.2012, n. 312.
[8] cfr. punto n. 3 di Cass. civ., Sez. Un., ord. 23.3.2011, n. 6596.
[9] C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della Pubblica Amministrazione in Dir. Proc. Amm., 2016, 2, 564.
[10] Questa è la ricostruzione dell’interesse legittimo autorevolmente sostenuta da Franco Gaetano Scoca. Sul punto, funditus, si veda: F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017.
[11] Cfr. il punto n. 8.3 dell’ordinanza delle Sezioni Unite n. 17586 del 2015.
[12] Così sempre il punto n. 8.3 dell’ordinanza delle Sezioni Unite n. 17586 del 2015.
[13] G. Tropea, A. Giannelli, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del g.o. Note critiche in www.giustiziainsieme.it, 2020.
[14] Cfr. il punto n. 28.8 dell’ordinanza in commento.
[15] Secondo la Sezione, non potrebbero dirsi sussistenti gli estremi per configurare un affidamento tutelabile, non solo, nel caso in cui il privato abbia dolosamente o colpevolmente indotto in errore l’Amministrazione, ma anche laddove la sua pretesa non sia conforme al quadro ordinamentale e non possa, quindi, essere assentita. Si vedano i punti nn. 33.1 e 33.7 della ordinanza in commento.
[16] A favore della giurisdizione del giudice amministrativo si sono, negli anni, espressi: R. Villata, F.G. Scoca, C.E. Gallo, A. Travi. Si distingue la posizione di M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e la nascita di nuove questioni in Federalismi.it, 2011, 7, 11; per cui la giurisdizione dovrebbe spettare al giudice amministrativo “almeno nelle materie di giurisdizione esclusiva”.
[17] Così A. Travi, Il giudice amministrativo come risorsa? in Questione Giustizia, 2021, 1, 27. La mancanza di reale fondamento sistematico della figura citata e la confusione con altre ipotesi di risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi è stato un profilo su cui si è ampiamente soffermata la dottrina amministrativistica. Sul punto, si vedano: M. Mazzamuto, La Cassazione perde il pelo ma non il vizio: riparto di giurisdizione e tutela dell’affidamento in Dir. Proc. Amm., 2011, 2, 899-900, per cui la Cassazione, nel delineare un diritto all’affidamento sulla legittimità dell’atto amministrativo, in realtà sta configurando “un a pretesa al corretto svolgimento dell’azione amministrativa, cioè una posizione che si confronta con l’esercizio del potere, e che dunque non può non dare luogo, secondo le correnti qualificazioni, che ad un interesse legittimo”; A. Travi, Annullamento del provvedimento favorevole e responsabilità dell’amministrazione in Foro it., 2011, I, 2398, in cui “l’utilità della figura dell'affidamento non deve andare a detrimento della possibilità di identificare una ordinaria situazione soggettiva di interesse legittimo (esattamente come non vi è bisogno di scomodare la figura dell'affidamento, per ammettere il risarcimento nel caso di violazione di obbligazioni contrattuali)”; C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della Pubblica Amministrazione in Dir. Proc. Amm., 2016, 2, 569; G.P. Cirillo, La giurisdizione sull’azione risarcitoria autonoma a tutela dell’affidamento sul provvedimento favorevole annullato e l’interesse alla stabilità dell’atto amministrativo in Riv. giur. ed., 2016, 5, 484, per il quale “la Cassazione sembra volersi ritagliare uno spazio di giurisdizione in questioni che sono chiaramente di interessi legittimi” .
[18] Il rapporto tra potere e interesse legittimo è riconosciuto da tutta la letteratura. Sia da coloro che sostengono che l’interesse legittimo sia una posizione giuridica soggettiva sostanziale strumentale (su tutti: F.G. Scoca, Interesse legittimo: storia e teoria, Torino, 2017, passim) sia da coloro che sostengo la tesi c.d. finale (su tutti G. Greco, Il rapporto amministrativo e le vicende della posizione del cittadino in Dir. Amm., 2014, 4, 585) sia, infine, dalla Scuola che riconduce l’interesse legittimo ad un diritto di credito (su tutti: L. Ferrara, Statica e dinamica dell’interesse legittimo: appunti in Dir. amm., 2013, 475; Id., Le ragioni teoriche del mantenimento della distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo e quelle del suo superamento in Dir. Pubbl., 2019, 3, 725).
[19] Tale relazione è stata espressamente definita dall’Adunanza Plenaria n. 7 del 2020 in termini di ‘rapporto amministrativo’. Di ‘rapporto amministrativo’ parlano apertamente anche: M. Nigro, Ma che cos’è questo interesse legittimo in Foro it., 1997, V, 469, per cui v’è “un contatto amministrazione-privato che non si esaurisce nel momento di sintesi autorità-libertà, costituita e espressa dall’atto amministrativo, ma si prolunga nel tempo prima e oltre quel momento […] un rapporto amministrativo perché non si saprebbe come definire altrimenti questo contatto durevole in cui si manifestano da una parte e dall’altra poteri, soggezioni, oneri, aspettative, ecc.”; F.G. Scoca, Interesse legittimo: storia e teoria, Torino, 2017, 458 e G. Greco, Il rapporto amministrativo e le vicende della posizione del cittadino in Dir. Amm., 2014, 4, 589.
[20] C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della Pubblica Amministrazione in Dir. Proc. Amm., 2016, 2, 564 e ss.
[21] E ciò a prescindere dal fatto che lo stesso venga ricostruito come diritto all’integrità del patrimonio, come nell’ordinanza n. 17856/2015, o diritto all’affidamento, come da ultimo sostenuto dalle Sezioni Unite con l’ordinanza n. 8236/2020.
[22] Cfr. F.G. Scoca, L’interesse legittimo cit., pag. 466-467 e G.P. Cirillo, La giurisdizione sull’azione risarcitoria autonoma a tutela dell’affidamento sul provvedimento favorevole annullato e l’interesse alla stabilità dell’atto amministrativo in Riv. giur. ed., 2016, 5, 495.
[23] Cfr. il punto n. 3.2. della sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004.
[24] F. Caringella, Il riparto di giurisdizione in www.giustizia-amministrativa.it, 2008.
[25] Sui ‘rischi’ che la tutela risarcitoria comporta per il giudice amministrativo si veda F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria in Questione Giustizia, 2021, 1, 133 e ss.
[26] M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e la nascita di nuove questioni in Federalismi.it, 2011, 7, 11.
[27] R. Villata, «Lunga marcia» della Cassazione verso la giurisdizione unica («Dimenticando» l’art. 103 della Costituzione)? in Dir. Proc. Amm., 2013, 1, 349.
[28] M. Mazzamuto, La Cassazione perde il pelo ma non il vizio: riparto di giurisdizione e tutela dell’affidamento in Dir. Proc. Amm., 2011, 2, 898-899; sostiene che all’origine dell’affidamento vi è comunque un provvedimento e, ai fini del riparto, “poco importa che questo sia stato annullato, così come poco importa che si sia trattato un provvedimento illegittimo «favorevole»” mentre “ciò che conta è che l’azione dell’amministrazione, la si qualifichi come si preferisce (atto o comportamento), rimanga pur sempre da collegare, immediatamente o mediatamente, all’«esercizio» del potere pubblico”. Per F.G. Scoca, Il processo amministrativo ieri, oggi, domani (brevi considerazioni) in Dir. Proc. Amm., 2020, 4, 1103; con riferimento, però all’ordinanza n. 8236 del 2020 (che, come accennato, ha assegnato alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia risarcitoria anche nel caso in cui l’affidamento sia maturato non su un previo provvedimento ma su un comportamento della P.A.), ha affermato – con un ragionamento a maiori ad minus estensibile anche al caso di cui occupa – che la Cassazione erroneamente ritiene “vi sia esercizio del potere solo con l’adozione del provvedimento e non nel corso del procedimento, con l’adozione, o non adozione, degli atti endoprocedimentali, o anche con assunzione di comportamenti significativi [e, quindi,] non vede il collegamento (se si vuole indiretto, ma forse anche diretto) tra l’affidamento e l’esercizio del potere, appunto, nel corso del procedimento”.
[29] cfr. il punto 27.2. dell’ordinanza n. 8236/2020 cit..
[30] cfr. il punto n. 26.1 dell’ordinanza n. 8236 del 2020 cit.. Cfr. G. Tropea - A. Giannelli, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del g.o. Note critiche in www.giustiziainsieme.it, 2020 che hanno evidenziato come “l’iter prodromico all’esercizio (o al non esercizio) di un potere non possa essere privato della sua prima materia pubblicistica, e dunque derubricato alla stregua di un mero comportamento materiale”.
[31] Sul punto si veda: M. Mazzamuto, op. cit., 906 e C.E. Gallo, op. cit., 575.
[32] A. Di Majo, La responsabilità pre-contrattuale della Pubblica Amministrazione tra tutela dell’interesse pubblico e privato in Riv. giur. ed., 2020, 4, 2, 291.
[33] Sulla criticità di questa interpretazione si veda C. Napolitano, Risarcimento e giurisdizione. Rimessione alla plenaria sul danno da provvedimento favorevole annullato in www.giustiziainsieme.it, 2021. L’A. ha altresì rilevato una contraddittorietà nel ragionamento della Sezione rimettente laddove, in controversia del tutto analoga a quella che ha dato avvio all’ordinanza in commento, il Giudice, da un lato, “sostiene la connessione del danno al potere amministrativo per richiamare a sé la giurisdizione” e, dall’altro, “sembra negare la risarcibilità del danno [sul presupposto che] non sussisterebbe il comportamento tipico che fonda la lesione dell’affidamento legittimo per ius commune ovvero per la violazione del divieto di venire contra factum proprium”.
[34] Da ultimo, si veda, anche se con riferimento ad una fattispecie relativa all’autotutela, la sentenza Cons. St., sez. III, 8.7.2020, n, 4392 in cui il Giudice afferma “affinché un affidamento sia legittimo è necessario un requisito oggettivo, che coincide con la necessità che il vantaggio sia chiaramente attribuito da un atto all’uopo rivolto e che sia decorso un arco temporale tale da ingenerare l’aspettativa del suo consolidamento, e un requisito soggettivo, che coincide con la buona fede non colposa del destinatario del vantaggio (l’affidamento non è quindi legittimo ove chi lo invoca versi in una situazione di dolo o colpa)”. In dottrina, nel fondamentale testo di F. Merusi, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni “trenta” all’“alternanza”, Milano, 2001, 127; si definisce l’affidamento come “una situazione giuridica soggettiva caratterizzata da un’aspettativa generata dall’altrui comportamento (che può essere anche inerzia) e tutelata dal principio di buna fede che, in questo caso, prescrive che il successivo comportamento dell’affidante sia coerente con quello che, in precedenza, ha generato l’altrui fiducia”.
[35] Cfr. punto n. 33.1. dell’ordinanza in commento.
[36] Ad esempio, nel caso di provvedimento ictu oculi illegittimo.
[37] Che, si ricorda, nel caso sub judice era stata concessa, pur consentendo la prosecuzione dei lavori fino al livello del piano di campagna.
[38] M.A. Sandulli, La “risorsa” del giudice amministrativo in Questione Giustizia, 2021, 1, 39. Sul tema della liberalizzazione e dei rischi derivanti per il privato si rinvia a: M.A. Sandulli, La “trappola” dell’art. 264 del dl 34/2020 (“decreto Rilancio”) per le autodichiarazioni. Le sanzioni “nascoste”, in Giustizia insieme, 2 giugno 2020 nonché a M.A. Sandulli, La semplificazione della produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio, in Id. (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2020.
[39] Secondo le argomentazioni già contenute nella sentenza Cons. St., sez. V, 29.10.2014, n. 5346, in cui: “nel caso di proposizione di una domanda non accoglibile, il ‘bene della vita’ non spetta ab origine e il successivo annullamento del titolo abilitativo illegittimamente formatosi non consente di chiedere un risarcimento del danno per la perdita di un quid sostanzialmente non spettante” e, quindi, “non può […] dolersi del danno chi – per una qualsiasi evenienza e con un provvedimento espresso, ovvero a seguito di un silenzio assenso o una s.c.i.a. – abbia ottenuto un titolo abilitativo presentando un progetto oggettivamente non assentibile: in tal caso il richiedente sotto il profilo soggettivo ha manifestato quanto meno una propria colpa (nel presentare il progetto assentibile solo contra legem) e sotto il profilo oggettivo attiva con efficacia determinante il meccanismo causale idoneo alla verificazione del danno”.
[40] Come sembra emergere dal punto 33.7 dell’ordinanza in commento laddove si legge che “il controinteressato soccombente […] vanta indubbiamente una pretesa risarcitoria nei confronti del progettista che ha elaborato la domanda, la quale è accolta (de plano o previ accertamenti) perché l’Amministrazione la ha considerata attendibile, ‘fidandosi’ del titolo professionale di chi la ha predisposta”. L’ordinanza, sempre al punto 33.7, afferma che in questi casi sarebbe esclusivamente responsabile il progettista: “il controinteressato soccombente – a seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale del titolo – vanta indubbiamente una pretesa risarcitoria nei confronti del progettista che ha elaborato la domanda”.
[41] E. Casetta, Buona fede e diritto amministrativo in L. Garofalo (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese, I, Padova, 2003, 380.
[42] Come ha ritenuto – estendendo impropriamente tale principio anche alla posizione dell’originario destinatario del provvedimento – la Sezione al punto n. 34.2. dell’ordinanza in commento.
[43] In dottrina, si rinvia ai già citati F.G. Scoca, Interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, 468-475; G. Greco, Il rapporto amministrativo e le vicende della posizione del cittadino in Dir. Amm., 2014, 4, 616-625; nonché ad A. Nicolussi, Diritto soggettivo e rapporto giuridico. Cenni di teoria generale tra diritto privato e diritto pubblico, in A. Travi (a cura di), Colloquio sull’interesse legittimo, Napoli, 2014, 76 e ss..
[44] Che, comunque, è atto vincolato. Sul punto, si vedano, ex multis: Cons, St., sez. VI, 20.10.2014, n. 5159; TAR Sicilia, Catania, sez. III, 22.10.2020, n. 2736; Id., sez. I, 15.2.2007, n. 276; Cass. civ., sez. un., 22.10.2003, n. 15812.
[45] In questa ipotesi, ben diverso sarebbe stato se la ricorrente avesse ricevuto rassicurazioni dal Comune circa la legittimità della variante e del titolo edilizio rilasciati al suo dante causa oppure se la stessa – acquistato il terreno dopo che l’atto di pianificazione e il titolo edilizio fossero divenuti inoppugnabili – fosse stata destinataria di un annullamento d’ufficio, casi in cui – a rigore – dovrebbe riconoscersi un affidamento giuridicamente rilevante.
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