ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Diritti negati: supplenza dei giudici nell’inerzia del Parlamento?
di Chiara Saraceno
Sono molti i cambiamenti che dal dopoguerra ad oggi hanno modificato la percezione di ciò che è normale e socialmente accettabile, anzi necessario e di ciò che non lo è, investendo la stessa configurazione dei diritti e di conseguenza hanno messo in questione norme giuridiche che vuoi li negano, vuoi li ignorano... Alcuni di questi cambiamenti riguardano i mutati rapporti tra uomini e donne, che hanno reso sempre più inaccettabili norme e comportamenti prima dati per scontati – dalle differenze salariali al prevalere del cognome paterno su quello materno, dalla illiceità dell’aborto all’idea che il sesso nel matrimonio sia un debito che la donna deve onorare e l’uomo può esigere. Altri riguardano la crescente diversificazione di ciò che è considerato normale (e moralmente e socialmente accettabile) nella sfera della sessualità e della formazione della famiglia, a partire dall’orientamento sessuale. Altri ancora riguardano le opportunità offerte dalle tecnologie mediche nel campo della riproduzione e le loro conseguenze sul modo di concepire la filiazione da un lato, chi ha diritto ad avere figli dall’altro. Ed altri riguardano – in quella che mi sembra una riformulazione del diritto alla base di tutti i diritti civili, l’habeas corpus - la crescente richiesta di avere un controllo sul proprio corpo, che si tratti del diritto alla contraccezione o viceversa all’aborto, di decidere a quali cure sottoporsi e quando rifiutarle, del diritto ad essere aiutati a por fine alla propria vita se questa è diventata intollerabile e non si è in grado di farlo da soli. Stefano Rodotà ha parlato di diritti di terza generazione, riferendosi al fatto che riguardano ambiti della vita e comportamenti prima ignorati come possibili ambiti di diritti, anche se in molti casi ciò avviene perché soggetti prima esclusi dalla piena cittadinanza (quando non criminalizzati nel caso degli omosessuali e transessuali) chiedono di uscire dallo status di denizen, di persone a cittadinanza limitata. Denunciano il dato per scontato di uno standard unico, cui risponde una gerarchia di “differenti”, come base delle norme e dell’accesso al riconoscimento. Forse per questo i temi sollevati da questa rottura sono definiti “sensibili”: perché toccano i modelli di normalità dati per scontati in sfere della vita la cui regolazione è stata a lungo sottratta alla discussione pubblica. Anche se con il tempo alcuni di questi temi, ad esempio l’uguaglianza tra uomini e donne, sono usciti dall’ambito di quelli “sensibili” ed entrati a far parte di quelli condivisi almeno a livello di principi, stante che sul piano pratico è tutt’ora un’altra storia. Per altro, proprio la definizione di un tema come “sensibile” è servita e serve come legittimazione per non affrontarlo, o solo parzialmente, per non urtare la “sensibilità” di chi è messo a disagio, quando non è più o meno violentemente contrario, dall’idea che non esista uno standard compattamente omogeneo, con buona pace delle conseguenze discriminatorie e limitanti la libertà e dignità derivanti dall’abuso di questa nozione.
Ma non sono soltanto i temi cosiddetti sensibili ad interrogare l’attuale configurazione dei diritti (o la loro mancanza) e delle norme. La presenza di cittadini stranieri, oltretutto con uno statuto diverso a seconda che facciano o meno parte della UE, e la stessa appartenenza ad una comunità sovranazionale come la UE, con le sue norme e i suoi principi, mentre mette in questione l’idea di uno stato chiaramente circoscritto da confini univocamente individuabili e con un’unica fonte normativa, non consente più la sovrapposizione quasi automatica tra cittadinanza nazionale e cittadinanza sociale, richiedendo di normare la seconda anche a prescindere dalla prima. E se consente ai cittadini di un paese in cui alcuni diritti sono negati (ad esempio il matrimonio tra persone dello stesso sesso, o la filiazione omosessuale) di muoversi in un altro dove invece sono riconosciuti, richiede anche di regolare come integrare queste difformità, così come richiede di decidere quanto delle regolazioni – legali, o anche solo culturali – di altri paesi possano essere accettate senza, vuoi mettere in discussione i propri principi fondamentali, vuoi ledere gravemente diritti di libertà di qualcuno.
Se spetta al Parlamento legiferare, eventualmente innovando nelle norme, spetta ai giudici prima, alla Corte Costituzionale poi verificare se le norme esistenti sono coerenti con il dettato costituzionale, anche quando i casi presentati non facevano sicuramente parte dell’orizzonte cognitivo dei costituenti e della cultura in cui essi erano radicati.
Stanti questi sommovimenti nel campo delle aspettative e le tensioni che ne derivano, non deve stupire che i tribunali siano sempre più frequentemente investiti da questioni che riguardano la legittimità delle norme esistenti, che i giudici ordinari le sottopongano alla Corte Costituzionale e che questa demandi al Parlamento di modificare questa o quella norma. Aggiungo che ciò avviene tanto più quanto meno il Parlamento prende autonomamente l’iniziativa di modificare norme non più adeguate o accettabili, o individuando nuovi settori che richiedono regolazione, rispondendo a cambiamenti culturali, a movimenti di opinione o di pressione, come è avvenuto in passato, per quanto tardivamente, per il divorzio, l’aborto, la riforma del diritto di famiglia. La periodica lamentazione sulla prevaricazione normativa da parte del sistema giudiziario dovrebbe piuttosto diventare riflessione autocritica sulla difficoltà che il Parlamento incontra nell’affrontare le conseguenze dei cambiamenti sociali e culturali.
Nella conferenza stampa seguita alla sua elezione a presidente della Corte Costituzionale, Amato ha indicato come uno dei problemi che si presentano oggi nel rapporto tra Corte Costituzionale come soggetto che verifica la costituzionalità delle norme e il Parlamento come soggetto legislatore la crescente mancanza di cooperazione tra i due. Alle indicazioni della Corte in merito alla incostituzionalità di alcune norme e alla necessità di modificarle il Parlamento risponde con una forte difficoltà, quando non riluttanza, a darvi seguito, formulando norme costituzionalmente più adeguate. Ciò avviene particolarmente, direi quasi sempre, quando sono in gioco diritti civili – ad esempio il fine vita e il suicidio assistito – o i modelli di famiglia – dal cognome materno al diritto dei figli di genitori dello stesso sesso ad avere un rapporto istituzionalmente riconosciuto con entrambi coloro che li hanno voluti. Questa resistenza del Parlamento a dar seguito alle indicazioni della Corte lascia nell’incertezza le persone ed è occasione di sistematico arbitrio interpretativo da parte delle istituzioni. Il caso più drammatico al momento è quello del suicidio assistito, dove all’indicazione della Corte dei criteri entro i quali può essere ammesso, il Parlamento non ha ancora risposto con una legge che regoli puntualmente la cosa, definendo chiaramente le responsabilità e i doveri delle istituzioni, lasciando chi, secondo la Corte, avrebbe diritto ad accedere al suicidio assistito alla mercè di istituzioni sanitarie che si negano. Ma anche questioni meno “eticamente sensibili”, e sicuramente meno drammatiche per la vita delle persone coinvolte, come il diritto a trasmettere il cognome materno, rimangono da anni irrisolte dal Parlamento.
Vi sono, tuttavia, anche questioni in cui il Parlamento, non volendo o potendo decidere stanti i propri conflitti interni, dopo aver legiferato in modo palesemente anticostituzionale e/o contro la normativa europea, demanda implicitamente alla Corte (e prima ancora a ricorsi in sede giudiziaria) di pronunciarsi, in modo da far apparire una eventuale modifica alla norma come un atto dovuto sotto costrizione. È stato, in parte, il caso della legge 40 sulla fecondazione assistita, progressivamente smantellata a suon di sentenze. È il caso, oggi, di norme discriminatorie nei confronti degli stranieri. E’ recente la doppia sentenza – prima della Corte di Strasburgo poi della Corte Costituzionale, che dichiara contraria sia al diritto europeo sia alla Costituzione italiana (articoli 3 e 31) la norma che richiede il requisito di lunga residenza per accedere al bonus bebé e all’assegno di maternità (nel caso di madri non altrimenti indennizzate e appartenenti a famiglie a basso reddito). Che questa norma fosse illegittima non solo sul piano etico, ma anche su quello del diritto europeo e dei principi costituzionali era chiaro fin da principio. Ma il legislatore ha preferito farla passare comunque, per guadagnare punti nell’elettorato contrario ai migranti, salvo poi doversi mostrare costretto a modificarla da un’autorità esterna. Lo stesso sta avvenendo nel caso del Reddito di cittadinanza, dove l’asticella per gli stranieri è stata posta ancora più in alto: dieci anni di residenza, il doppio di quanto richiesto per il permesso di lungo soggiorno. A fronte delle richieste di modifica avanzate da più parti e da ultimo anche da parte del Comitato di valutazione del RdC, il governo ha dichiarato l’impossibilità di farla accettare dalla maggioranza che lo sostiene e quindi di sottoporla all’approvazione del parlamento, rimandando la cosa ad un possibile (auspicato?) ricorso alla Corte Europea e al pronunciamento di questa, eventualmente con seguito nella Corte Costituzionale. Ha quindi buttato ancora una volta la palla nel campo della giurisdizione e prima ancora della capacità di iniziativa di individui e gruppi, e dei loro avvocati, di dare forma giuridicamente accettabile alla contestazione di una norma legalmente sbagliata in partenza. È un modo non solo di non assumersi le proprie responsabilità di legislatore, ma anche di prendere tempo e risparmiare soldi, lasciando il più a lungo possibile senza sostegno le mamme, le famiglie, i bambini stranieri poveri, che pure si sa già in partenza che ne avrebbero diritto in base sia al diritto europeo sia ai principi costituzionali.
Il Parlamento riapra il cantiere sulla ratifica del Protocollo n.16 annesso alla CEDU -Gruppo Area Cassazione-
Sommario: 1. I prodromi - 2. L’esame della dottrina dopo lo stop al Prot.n.16 - 3. La riflessione avviata all’interno del gruppo Area Cassazione - 4. Che fare? - 5. Il convegno di Area Cassazione su “Protocollo n.16. Riaprire il cantiere in Parlamento” del 22 giugno 2021 - 6. La proposta del gruppo Area-Cassazione: il Parlamento riparta dal Prot.n.16!
Gruppo Area Cassazione
1. I prodromi
Il 23 settembre 2020 si arenava, innanzi alle Commissioni riunite II e III della Camera dei Deputati, il progetto di legge relativo alla ratifica del Protocollo n.16 annesso alla CEDU, iniziato con l’esame del disegno di legge C. 1124 Governo e C. 35, Schullian, relativo alla Ratifica ed esecuzione del Protocollo n. 15 recante emendamento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, fatto a Strasburgo il 24 giugno 2013, e del Protocollo n. 16 recante emendamento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, fatto a Strasburgo il 2 ottobre 2013, entrato in vigore per effetto delle ratifiche operate da 15 Paesi del Consiglio d’Europa.
Nel corso dei lavori assembleari relativi al testo licenziato dalle Commissioni innanzi all’Assemblea della Camera la relatrice del provvedimento dichiarava che il rinvio della ratifica del Protocollo n.16 era sorto a “causa di profili di criticità connessi al rischio di erosione del ruolo delle alti Corti giurisdizionali italiane e dei principi fondamentali del nostro ordinamento.” Il Senato, successivamente, approvava in via definitiva il ddl n.1958 relativo alla ratifica del Protocollo n.15 contenente modifiche della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo nella seduta del 12 gennaio 2021.
2. L’esame della dottrina dopo lo stop al Prot.n.16
Nel silenzio dell’Accademia, dei gruppi associativi della magistratura, dell’Avvocatura e dell’Accademia, Giustizia insieme segnalava, con un editoriale dell’ottobre 2020, gli effetti negativi che quella decisione parlamentare avrebbe provocato sul ruolo delle Alte Corti nazionali italiane, private della possibilità di richiedere, se ritenuto necessario rispetto al giudizio pendente, un parere non vincolante alla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ed invitava ad accendere i riflettori sul tema ed a riaprire il dibattito nell'Accademia e nelle giurisdizioni.
Particolarmente vivace è risultato il successivo dialogo a distanza sviluppatosi fra studiosi prestigiosi provenienti da diversi settori accademici - costituzionalisti, processualcivilisti, filosofi del diritto, internazionalisti e studiosi del diritto UE -.
Questo dibattito è stato studiato ed esaminato dai componenti del gruppo Cassazione, i quali hanno realizzato dei report volti a sintetizzare le posizioni assunte dalla dottrina - Antonio Ruggeri, Cesare Pinelli, Elisabetta Lamarque, Carlo Vittorio Giabardo, Enzo Cannizzaro, Paolo Biavati, Sergio Bartole, Andreana Esposito e Bruno Nascimbene- all’indomani della decisione parlamentare di sospendere l’esame del Protocollo n.16.
La premessa dalla quale sono partiti alcuni degli interpreti (Ruggeri, Bartole) è stata quella del principio di apertura al diritto internazionale e sovranazionale voluto dalla Costituzione, aprendosi il diritto interno ai sistemi di protezione dei diritti sovranazionali che a loro volta si integrano nei primi, essendo comunemente ispirati al meta-principio che è la massimizzazione della tutela dei diritti fondamentali, vera e propria Grundnorm della costruzione inter-ordinamentale.
È infatti difficile comprendere come la vocazione universale del discorso sui diritti dell’uomo (e, dunque, la sua naturale inclinazione al dialogo comparatistico) possa costringersi entro i ristretti confini di una singola dimensione politica nazionale (Giabardo).
In questa prospettiva i commentatori si sono ritrovati d’accordo nell’evidenziare le potenzialità “buone” dello strumento rappresentato dalla richiesta di parere preventivo alla Corte edu.
Si è subito sgombrato il campo dai dubbi in ordine alla ritualità dello strumento legislativo ordinario per ratificare il Protocollo, messa in dubbio nel corso dei lavori preparatori, è smentita dall’ordinamento costituzionale ‘vivente’ secondo il quale la conformazione dell’ordinamento interno agli obblighi derivanti dalla adesione a Trattati o Convenzioni internazionali tramite legge ordinaria è del tutto pacifica e la – ipotizzata – rivalutazione di tale assetto appare del tutto strumentale ed eversiva -Bartole -.
Si è poi convenuto sull’improduttività del sovranismo costituzionale che sembra avere ispirato la decisione del Parlamento (Ruggeri) dovendosi scongiurare, attraverso il sostegno alla ratifica del protocollo 16, l’ingiustificata esclusione o l’emarginazione delle Corti italiane da un dialogo culturale al quale il nostro paese non può permettersi di rinunciare (Pinelli, Giabardo). Senza nemmeno dimenticare il valore “filosofico” dell’istituzionalizzazione del dialogo tra le diverse Corti europee (Giabardo).
Non si tratta, dunque, secondo Pinelli, di depotenziare il ruolo della Corte costituzionale o di restringere la capacità interpretativa del giudice nazionale, come sostenuto dal Prof. Luciani, ma, al contrario, dell’attivazione del ruolo istituzionale della Conv. edu che proprio la Corte costituzionale riconosce per prima, vale a dire quello dell’interpretazione della Convenzione. Né il giudice nazionale può ritenersi impedito, dopo il parere, dal rivolgersi alla Corte costituzionale - osserva Cannizzaro - ove non sia convinto della conformità del suo contenuto all’assetto costituzionale dei valori. Senza dire che le sentenze della Corte costituzionale hanno carattere vincolante, come quelle della Corte di giustizia, il che impedisce che il giudice nazionale possa ad esse ribellarsi formulando successivamente una richiesta di parere alla Corte edu (Cannizzaro).
Del resto, le posizioni contrarie alla ratifica del protocollo 16 finiscono con l’ipotizzare un effetto vincolante del parere per il giudice interno che non solo non è nella formulazione del testo (Nascimbene), ma che tradisce il senso di sfiducia verso il senso di responsabilità e lo spirito di indipendenza delle alte Corti nazionali posto a base del meccanismo pregiudiziale (Bartole, Lamarque).
Non si è mancato poi di sottolineare come il parere Cedu possa offrire preziosi elementi per verificare se l’interpretazione della Cedu e della Carta di Nizza-Strasburgo offerta, in parallelo, dalla CGUE sia in linea con la Convenzione edu (Ruggeri).
Inoltre, sul piano delle possibili interferenze, in caso di plurime pregiudizialità, Ruggeri, Pinelli e Cannizzaro si sono ritrovati nel respingere le preoccupazioni di quanti hanno intravisto in questo strumento un pericolo per la centralità della Corte costituzionale, soprattutto nell’ipotesi in cui la richiesta di parere preceda l’incidente di legittimità costituzionale.
Più articolata la posizione espressa da Nascimbene sui rapporti fra richiesta di parere preventivo e rinvio pregiudiziale. I problemi nascerebbero dal vincolo per il giudice nazionale rispetto alla pronunzia resa in sede di rinvio pregiudiziale dalla Corte di giustizia ove il parere reso dalla Corte edu fosse con lo stesso contrastante. Ipotesi che, secondo Nascimbene, determinerebbe la necessità di un nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE per chiedere chiarimenti ovvero un rinvio alla Corte costituzionale, considerato il possibile contrasto fra obblighi che discendono da due fonti diverse, la CEDU e i Trattati UE, e considerato il precetto contenuto nell’art. 117, 1° comma Cost., che impone il rispetto, quanto all’esercizio della potestà legislativa, “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Quanto all’ulteriore ipotesi di rinvio contemporaneo alla Corte di giustizia – in sede di rinvio pregiudiziale – ed alla Corte edu – in seno ad una richiesta di parere preventivo – la stessa non appesantirebbe la durata del processo, ma creerebbe maggiori incertezze per il giudice nazionale qualora le due interpretazioni fossero divergenti, pur non essendo vincolante quella della Corte EDU.
Pinelli, Bartole e Lamarque si sono poi trovati d’accordo nell’escludere che sia solo formale il potere del giudice nazionale di dissentire dal parere reso dalla Corte, se si considera, per un verso, la “circolarità della produzione normativa fra le Corti (Esposito) e la continua interazione fra giurisprudenza della Corte di Strasburgo e quella prodotta dalla giurisdizione italiana e, per altro verso, il ruolo che la Corte costituzionale ha rivendicato quale unico risolutore del potenziale conflitto fra l’interpretazione della Convenzione e quella dei principi costituzionali del nostro ordinamento.
Riguardo all’argomento inerente al paventato “rischio di erosione del ruolo delle alte Corti giurisdizionali italiane”, i timori sono stati considerati privi di rilievo ed espressione di sovranismo giurisdizionale, perché la mancata partecipazione attiva di alcune Corti al dialogo con la Corte edu rischia di renderne alcune mute e passive rispetto ad altre (Lamarque, Esposito).
Nemmeno può ritenersi che l’adesione al Protocollo “eroda i principi fondamentali dell'ordinamento”, secondo un’ottica di sovranismo ordinamentale, lasciando impregiudicato il principio dell’interpretazione conforme della legge italiana al sistema Cedu, come pure il sistema dei contro-limiti (Lamarque).
Molti interpreti hanno poi insistito sulle potenzialità della richiesta di parere preventivo in termini di negoziabilità reciproca fra Corti nazionali e Corte edu, cogliendosi nel dialogo diretto e non mediato dal ricorso della parte a Strasburgo un mezzo capace, nella fase ascendente, non solo di veicolare i cardini del sistema interno all’interno della Corte edu e di esporre la propria visione della questione al giudice che poi dovrà rispondere, ma anche, nella fase discendente, di avere l’ultima parola sulle modalità di attuazione del parere (Lamarque).
La manifestazione di sfiducia verso forme di utilizzo non corrette dei contenuti del protocollo tradisce, secondo Bartole, non confessate paure di alterazione di un desiderato equilibrio di tipo gerarchico – nell’esercizio della giurisdizione - in realtà costantemente contraddetto dalle concrete e costanti forme di interazione tra gli ordinamenti e tra le Corti (Bartole).
Il Protocollo n. 16 sarebbe così divenuto un altro fantasma persecutorio del “sovranismo simbolico” (Pinelli), con il risultato, certamente opposto a quello voluto, di privare le Corti italiane dell’opportunità di giocare un ruolo attivo nella formazione della giurisprudenza europea e di dover eventualmente accettare il parere reso dalla Corte EDU su istanza delle Corti dei paesi che lo hanno ratificato (Pinelli, Ruggeri,Giabardo, Bartole, Biavati e Lamarque).
È dunque la libertà di attivare o meno la richiesta di parere preventivo a rappresentare il dato distintivo tra rinvio pregiudiziale e richiesta di parere preventivo (Biavati).
Infatti, a differenza che per il rinvio pregiudiziale, per cui le parti hanno diritto di arrivare a Lussemburgo orientando la discrezionalità del giudice nazionale, la richiesta di parere ai sensi del Protocollo 16 può al massimo essere sollecitata, ma non pretesa dalle parti.
Quanto poi al rischio del grave ritardo che il processo subirebbe nell’attesa del parere, è stata evidenziata la strumentalità di tale critica - altrimenti estensibile ad altri strumenti di dialogo (Ruggeri) - ipotizzandosi in ogni caso la possibilità di adottare meccanismi volti a favorire la trattazione rapida dei processi interessati dalla richiesta di parere o la introduzione di un divieto di sospensione del processo (Biavati e Lamarque).
In definitiva, il rischio di isolamento dell’ordinamento italiano e delle sue alte Corti dal circuito di dialogo con la Corte edu che deriva dalla mancata ratifica è già palpabile, una volta che si è già da subito riconosciuta piena valenza ai pareri resi dalla Corte edu, anche da parte della Corte costituzionale (sent.n.230/2020, par.6) e dalla stessa prima sezione civile della Corte di Cassazione n.8325/2020 in materia di trascrizione dell'atto di nascita canadese conseguente a gestazione per altri.
3. La riflessione avviata all’interno del gruppo Area Cassazione
L’esame del tema ha condotto il gruppo Cassazione di Area ad una riflessione ampia.
È sembrato opportuno evidenziare, in termini generali, che lo scopo del Protocollo n.16 non era stato adeguatamente valutato dal legislatore, essendo indirizzato non già a sottrarre nicchie di sovranità e di potere giurisdizionale agli organi interni, quanto ad introdurre uno strumento destinato a recuperare segmenti di certezza e prevedibilità al sistema di tutela dei diritti fondamentali, addirittura accentuando il ruolo di autonomia e indipendenza delle giurisdizioni superiori nazionali.
La discrezionalità nel chiedere il parere e la piena autonomia nel disattenderne i contenuti denotano in maniera inequivocabile i tratti caratterizzanti del meccanismo dialogico che sta alla base del Protocollo 16, il quale tanto nella fase ascendente che in quella discendente offre alle giurisdizioni nazionali di ultima istanza la possibilità di sfruttare a fondo il loro ruolo di protagonisti del sistema di garanzia a presidio dei diritti imposto dalla Costituzione.
Le considerazioni appena espresse si accentuano in modo particolare se si pensa al ruolo della Corte di Cassazione nel sistema di protezione dei diritti fondamentali e la sua centralità nell’applicazione uniforme del diritto.
Prospettiva, quella fissata dall’art.65 della legge sull’ordinamento giudiziario che, riletta ed attualizzata alla luce dell’entrata in vigore della Costituzione e della sua apertura alle fonti sovranazionali, agli obblighi internazionali ed alla limitazioni di sovranità finalizzate alla garanzia di pace e sicurezza delinea in modo marcato la funzione di nomofilachia europea che la nostra Corte è andata assumendo e che proprio grazie agli strumenti di dialogo sempre più sfruttati con la Corte costituzionale e con la Corte di Giustizia consente ad essa di essere rappresentata anche all’esterno come organo centrale nel sistema di protezione dei diritti.
Ciò che non intende in alcun modo rivendicare posizioni di primazia o di egemonia nei confronti di altre giurisdizioni interne né di quelle sovranazionali, ma soltanto attestare che proprio attraverso le forme di dialogo la strada di una cooperazione equiordinata fra le giurisdizioni nazionali e sovranazionali deve essere implementata e non già impoverita o erosa secondo una prospettiva ben presente nella mancata ratifica del Protocollo n.16.
Si tratta di una prospettiva necessitata dal fatto che il diritto è sempre più affidato ai principi costituzionali, interni, dell’Unione europea e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e dunque collegato a tecniche di argomentazione giuridica che proprio attraverso il dialogo si costruiscono continuamente e progressivamente, in un ordine giuridico che non è più dato e fissamente orientato su scale gerarchiche, ma si compone, seppur con accenti di complessità sicuramente elevati, anche grazie all’opera del giudici interni e di quelli sovranazionali, parte attiva di un processo costituzionale nel quale il ruolo dagli stessi svolti di garanti della legalità è espressione democratica dello Stato costituzionale. Ciò perché si considerano tutti i giudici come “orizzontali”, siccome distinti tra di loro unicamente per le funzioni esercitate o, se si preferisce, per la tipicità dei ruoli, senza dunque alcuna “graduatoria” tra di loro: siano giudici comuni e siano pure giudici costituzionali o materialmente costituzionali, quali ormai in modo sempre più marcato e vistoso vanno conformandosi le stesse Corti europee. Dunque, la logica ispiratrice non può che essere quella della leale cooperazione, essa riuscendo a perseguire il miglior risultato possibile per chi si trova davanti al giudice.
Non può tacersi che l’avvento della protezione dei diritti fondamentali in chiave convenzionale da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo è stato per lunghi anni vissuto a livello nazionale come una sorta di aggressione di una giurisdizione altra ed esterna al perimetro dei plessi giurisdizionali riconosciuti dalla Costituzione.
La progressiva assimilazione del corretto ruolo della CEDU nel sistema interno e dei suoi rapporti con la Costituzione, dispiegatosi anche attraverso l’intervento della Corte costituzionale, a partire dalle sentenze gemelle del 2007 e poi via via che i vari seguiti, ha consentito però di comprendere appieno le finalità e potenzialità della Convenzione dei diritti umani, anche grazie all’opera di conoscenza svolta dai protocolli conclusi fra le Corti nazionali e la Corte edu. E non può essere senza significato che sia stata la Corte di Cassazione italiana a concludere, seconda in Europa, un protocollo d’intesa con la Corte edu nel dicembre del 2015, alla quale hanno fatto seguito le altre Corti apicali italiane e la stessa Corte costituzionale nel gennaio 2019.
Anzi, è stato sottolineato che proprio in occasione della firma del Protocollo fra Corte costituzionale e Corte edu al Palazzo della Consulta l’11 gennaio 2019 si auspicò la rapida ratifica del Protocollo n.16, come emerge dal comunicato stampa della Corte costituzionale reso l’11 gennaio 2019 in cui si afferma testualmente che “…dalla discussione è emersa anzitutto la necessità che le Corti europee – in una fase storica di debolezza, in alcuni Paesi, dei diritti fondamentali – dialoghino tra loro per la piena tutela di questi diritti, anche assicurando l’armonizzazione delle rispettive giurisprudenze. A questo scopo è stata sottolineata l’urgenza dell’approvazione, da parte del Parlamento italiano, del Disegno di legge di ratifica e di attuazione del “Protocollo 16”, che consente un effettivo dialogo con la Corte di Strasburgo attraverso la richiesta di pareri sulle questioni oggetto di giudizio nelle Corti italiane”.
Posizione, quest’ultima, che del resto trova piena conferma in quanto già ritenuto dalla Corte costituzionale nella sentenza n.49/2015, allorché si chiarì che “…È perciò la stessa CEDU a postulare il carattere progressivo della formazione del diritto giurisprudenziale, incentivando il dialogo fino a quando la forza degli argomenti non abbia condotto definitivamente ad imboccare una strada, anziché un’altra. Né tale prospettiva si esaurisce nel rapporto dialettico tra i componenti della Corte di Strasburgo, venendo invece a coinvolgere idealmente tutti i giudici che devono applicare la CEDU, ivi compresa la Corte costituzionale. Si tratta di un approccio che, in prospettiva, potrà divenire ulteriormente fruttuoso alla luce del Protocollo addizionale n. 16 alla Convenzione stessa, ove il parere consultivo che la Corte EDU potrà rilasciare, se richiesta, alle giurisdizioni nazionali superiori è espressamente definito non vincolante (art. 5). Questo tratto conferma un’opzione di favore per l’iniziale confronto fondato sull’argomentare, in un’ottica di cooperazione e di dialogo tra le Corti, piuttosto che per l’imposizione verticistica di una linea interpretativa su questioni di principio che non hanno ancora trovato un assetto giurisprudenziale consolidato e sono perciò di dubbia risoluzione da parte dei giudici nazionali.”
In definitiva, si avverte sempre di più l’esigenza di cercare modalità operative e tecniche decisorie che, anche in ragione della pluralità di fonti che governano i diritti, tanto in chiave nazionale che in prospettiva sovranazionale, attenuino o riducano le possibilità di conflitti fra i diversi plessi giurisdizionali, proprio in una prospettiva che prima ancora di essere orientata all’alleggerimento del contenzioso da parte di un sistema giudiziario sempre più in crisi sul versante dei tempi, offra a chi ha a che fare con la giustizia risposte tendenzialmente prevedibili proprio grazie alla conoscenza della posizione della Corte edu.
Se, dunque, il meccanismo del ricorso a Strasburgo contro le decisioni dei giudici nazionali costituisce la valvola di sfogo finale consentita dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, il Protocollo n.16 intende prevenire quella possibile ulteriore lungaggine processuale alla quale sarebbe sottoposta la persona che reclama la protezione dei suoi diritti consentendo al giudice nazionale che, nell’esercizio delle sue prerogative dovesse ritenere rilevante un parametro convenzionale, di interloquire prima che l’eventuale conflitto fra le Corti diventi manifesto per effetto dell’accoglimento del ricorso da parte della Corte edu.
4.Che fare?
Al termine di questa prima ricognizione del panorama dottrinario e della successiva riflessione che ha ripercorso buona parte delle ragioni espresse da autorevole dottrina contro la ratifica del Prot.n.16 (cfr, per tutti, M. Luciani, Note critiche sui disegni di legge per l’autorizzazione alla ratifica dei Protocolli n. 15 e n. 16 della CEDU, 26 novembre 2019, in www.SistemaPenale.it; F. Vari, Sulla (eventuale) ratifica dei Protocolli n.15 e16 alla CEDU, in Dirittifondamentali.it,2019,6; G. Cerrina Feroni, Il disegno di legge relativo alla ratifica dei Protocolli 15 e 16 alla CEDU, in Federalismi), la scelta di chiudere le porte al Protocollo 16 era già parsa fortemente inopportuna, tralasciando di considerare le finalità virtuose sottese al varo di tale strumento e l’idea stessa di un diritto che si compone della legge e della sua applicazione e attuazione nel caso concreto.
Da qui, l’organizzazione del convegno da parte del gruppo Area Cassazione sulla piattaforma Zucchetti dal titolo Riaprire il cantiere in Parlamento” del 22 giugno 2021, al quale hanno preso parte esponenti dell’Accademia, dell’Avvocatura e del Parlamento.
5. Il convegno di Area Cassazione su “Protocollo n.16. Riaprire il cantiere in Parlamento” del 22 giugno 2021
Il convegno si è rivelato un serbatoio di idee e di preziosi spunti ricostruttivi.
Il Segretario generale Luigi Marini, in rappresentanza del Primo Presidente della Cassazione, ha evidenziato la centralità dell’incontro sul Protocollo n.16 rispetto al ruolo della Corte di Cassazione, inserita stabilmente nel circuito delle Corti sovranazionali, e l’importanza di avere tenuto acceso l’interesse sul tema, contribuendo a favorire anche prese di posizione diverse da quelle che legittimamente sono state fin qui espresse dalle forze parlamentari.
L’Avvocato generale Luigi Salvato, in rappresentanza del Procuratore generale della Cassazione, ha evidenziato la centralità del tema del convegno, ritenendo che la riapertura dei lavori parlamentari sulla ratifica del Protocollo n.16 sarà un logico e naturale sbocco, volto a rafforzare il confronto fra le Corti. Ha sottolineato l’opportunità di superare logiche ideologiche, evidenziando che l’affermazione del diritto giurisprudenziale non può che determinare l’approfondimento dei meccanismi che ne consentano la formazione. Nessuna preoccupazione può sorgere sulla questione dell’erosione della sovranità nazionale, inoltre auspicando che i problemi connessi all’attuazione del Protocollo n.16 non potranno essere tutti risolti in fase parlamentare, dovendo l’elaborazione giurisprudenziale e proprio l’attività di sollevazione delle richieste di parere e dei pareri stessi contribuire, progressivamente, alla soluzione dei problemi concreti.
Dopo i saluti di Paola Filippi e di Roberto Conti, Maria Cristina Ornano, segretaria generale di Area, dopo avere evidenziato i rischi di marginalizzazione della giurisprudenza italiana nel processo di costruzione di un sistema di tutela dei diritti fondamentali che deve essere sempre più improntato ad una dimensione sovranazionale, ha auspicato la pronta ripresa dei lavori parlamentari sul Prot.n.16, evidenziandone l'importanza e la centralità rispetto al tema dei valori dell'uomo.
Il Presidente Guido Raimondi, che ha coordinato i lavori del convegno, ha messo in evidenza i notevoli vantaggi connessi all’attuazione del Prot.n.16, in ragione della finalità che esso incarna. La ratifica del Prot. 16, secondo Raimondi, non può pregiudicare l’autonomia delle giurisdizioni nazionali, né tanto meno la sovranità del Parlamento ritenendo al contrario che il dialogo fra le giurisdizioni non potrà che sortire effetti positivi attraverso i principi di sussidiarietà e di responsabilità condivisa fra livello europeo e livello nazionale nell’applicazione della CEDU, i quali costituiscono stimolo e violano della giurisprudenza della Corte edu ed alla accresciuta volontà di offrire alle Corti nazionali la possibilità di fare corretta applicazione del diritto vivente della Corte edu, altresì consentendo nel medio periodo uno sgravio del peso dell’arretrato sulla corte di Strasburgo. Un’ultima considerazione è stata espressa da Raimondi a proposito del ruolo centrale che la giurisprudenza consultiva assumerà rispetto alle nuove frontiere dei diritti dell’uomo per le quali non esiste una giurisprudenza della Corte stessa, sicché è proprio un peccato tagliar fuori la sapienza giuridica italiana da questo dialogo, inoltre sottolineando che i problemi che pure si porranno in sede di applicazione del Protocollo non possono incidere in alcun modo sull’opportunità che esso sia comunque celermente ratificato.
Particolarmente rilevanti sono risultati gli interventi degli esponenti del mondo politico, ai quali è mancato, per l’insorgenza di seri problemi di natura familiare, l’apporto dell’On.Pierantonio Zanettin (Forza Italia).
La senatrice Anna Rossomando (PD) si è espressa in modo esplicito nel senso di auspicare il ritorno in aula del progetto di ratifica del Prot.n.16 non confondendo le criticità esistenti con l’opportunità di ratificare tale strumento.
Il riferimento alla sovranità, sventolato come valore da difendere con il vento sovranazionale è secondo la senatrice un feticcio, non cogliendo la realtà delle politiche dei paesi europei, sempre più condizionate da aspetti che oltrepassano i confini nazionali. Anzi, proprio l’universalità dei diritti fondamentali e la prospettiva che questi ultimi facciano capo alla persona non indefettibilmente legata al concetto di cittadinanza rende evidente l’opportunità di scelte di politica giudiziaria dotate di sano realismo che antepongano la protezione dei diritti fondamentali rispetto ad altri interessi non primari.
Occorrerà dunque affrontare i nodi della sospensione del processo interna, del tempo connesso al rilascio del parere ed al ruolo della Corte costituzionale.
Anche la senatrice Grazia D’Angelo (Mov.5 Stelle) ha messo in evidenza come l’idea che deve essere sviluppata, ben lungi dal rappresentare un attacco alla sovranità, finisce con l’esaltarla proprio per effetto della possibilità delle Corti nazionali di ultima istanza di interagire con la Corte edu, dovendosi escludere che tale strumento costituisca una “perdita di tempo”, anzi, dimostrando l’utilità del dialogo
Il Prof. Guido Alpa, anche a nome dell’Associazione civilisti italiani, si è detto ampiamente favorevole alla ratifica del Protocollo n.16, esso inscrivendosi all’interno di una prospettiva che anche nell’ambito del diritto civile tende a favorire l’immediata efficacia dei diritti umani nell’ordinamento interno. Il fatto che all’interno dell’Accademia si discuta sulle modalità con le quali attuare tale esigenza e cioè ricorrere alle forme della tutela diretta dei diritti fondamentali ovvero attraverso forme di tutela mediata- attraverso la clausola generale dell’ordine pubblico – non elide la centralità del meccanismo teso a favorire il dialogo fra le Corti ed un clima di feconda cooperazione.
Anche il Prof. Filippo Donati si è espresso con l’auspicio di una celere riapertura dei lavori parlamentari sul Protocollo n.16 ritenendo errata la prospettiva volta a sostenere la postulata lesione della sovranità che dallo stessa deriverebbe, ricordando come già la giurisprudenza costituzionale tiene conto dei pareri resi dalla Corte in sede consultiva-Corte cost. nn-32 e 33 del 2021-.
Né occorre attendere la ratifica di altri stati, già delineandosi l’erosione di possibilità di dialogo con la Corte edu. Ha poi ricordato la diversità ontologica fra il parere preventivo della Corte edu e la decisione della Corte di giustizia in sede di rinvio pregiudiziale, sottolineando il carattere non vincolante del primo e la sua efficacia affidata all’interpretazione del giudice nazionale in fase discendente.
Il Prof. Bruno Nascimbene, dopo aver messo in evidenza i fattori strettamente giuridici che già oggi, in assenza della ratifica del Preot.n.16, comunque sottoscritto dall’Italia anche se non ratificato, rendono rilevante dal punto di vista del diritto internazionale e dei Trattati detto strumento- già pienamente considerato anche dalla Corte costituzionale italiana in diverse recenti occasioni, ha stigmatizzato l’atteggiamento di alcuni esponenti politici volto a sostenere che il Prot.n.16 costituisce un vulnus alla sovranità del nostro Paese ed alla autonomia ed indipendenza delle autorità giurisdizionali, in ogni caso sottolineando che se critica andava fatta al sistema di tutela convenzionale, si dovrebbe avere il coraggio di denunciare al Consiglio d’Europa la Convenzione europea, della quale il Protocollo n.16 è semplice gemmazione dotata peraltro di ridotta portata. Richiamando i contenuti del suo approfondimento già ricordato, Nascimbene ha quindi auspicato la riapertura dei lavori parlamentari proprio ripartendo dal parere reso dalla Commissioni politiche comunitarie della Camera, peraltro sottolineando che non solo il parere lasciano un naturale margine di apprezzamento al giudice nazionale, come dimostrato nel primo caso fatto oggetto di richiesta di parere preventivo.
L’Avv. Anton Giulio Lana, pur evidenziando la fragilità delle ragioni esposte da una parte della dottrina costituzionalistica in ordine ai pericolo derivanti dalla ratifica del Prot.n.16, non ha mancato di sottolineare l’esistenza di alcune ombre, collegate essenzialmente ai tempi dei processi, destinati ad allungarsi, all’assenza di una richiesta di parere in favore dei giudici di merito che sono più legati al fatto rispetto al giudice di ultima istanza, al rischio che il parere non sia rispondente rispetto alla vicenda concreta, l’esistenza di nodi irrisolti in ordine alle modalità di redazione della richiesta, alla traduzione della stessa e del parere eventualmente reso dalla Corte edu. Elementi che potrebbero anch’essi porsi in antitesi con l’esigenza di una pronta definizione dei processi.
Lana ha peraltro sottolineato che in ogni caso dal varo del Protocollo n.16 non potrebbe che derivare l’esigenza di una formazione continua e comune fra Avvocatura e giurisdizione attorno al tema dei diritti fondamentali e della CEDU.
Il Prof. Cesare Pinelli si è detto favorevole all’immediata riapertura dei lavori parlamentari, ricordando che gli argomenti evocato da chi ha espresso l’auspicio della mancata ratifica del Protocollo n.16 trovano evidente smentita nella finalità dello stesso, visto che la Corte edu non sarà verosimilmente più chiamata a pronunziarsi sulle questioni decise con i pareri. Pinelli ha poi radicalmente escluso che il parere costituisca un nuovo strumento decisorio nelle mani della Corte edu, non potendosi disconoscere che esso, per un verso, è meno incisivo di altre decisioni della Corte edu- sentenze pilota- che pure vanno verso la direzione di rendere più funzionale l’operato della Corte edu. Pinelli si chiede poi come possa sostenersi che i pareri siano vincolanti se la sentenza n.49/2015 della Corte costituzionale ha chiarito la rilevanza della sola giurisprudenza consolidata della Corte edu.
Né assume specifico rilievo il richiamo al tema del margine d di apprezzamento che, seguendo le coordinate della Corte edu, è riferito alla discrezionalità politica nell’interpretare un diritto come garantito dalla CEDU. In definitiva, secondo Pinelli sarebbe grave escludere l’Italia dal processo di confronto con le Corti sovranazionali già dimostratosi assai fecondo in altre occasioni, nelle quali i giudici italiani hanno dimostrato di avere ben chiaro il loro ruolo di cooperazione con le altre giurisdizioni senza rinunziare ad esprimere posizioni collidenti con le altre istanze giudiziarie sovranazionali.
Il Prof. Giorgio Spangher ha insistito sul fatto che il Prot.n.16 rappresenta un tassello fondamentale della costruzione di un nuovo ordine costituzionale europeo che, pur evidentemente contrastato da più parti, non può che rappresentare il modello virtuoso e l’obiettivo del nostro tempo, nel quale la prospettiva di protezione sovranazionale dei diritti umani ed il dialogo fra le Corti appaiono esigenze prioritarie e necessarie. Malgrado le condanne ripetutamente inflitte dalla Corte edu e malgrado la diversità di vedute che spesso emerge fra giurisdizione nazionale e giudici sovranazionali rispetto alle modalità di tutela dei diritti fondamentali, secondo Spangher occorre investire nelle forme di dialogo e di cooperazione, senza che esiste un concreto rischio circa il fatto che la Corte costituzionale possa perdere il suo ruolo nella protezione dei diritti fondamentali.
II rimedio del parere consultivo potrebbe in definitiva deflazionare i ricorsi stabilizzare il consolidamento degli orientamenti giurisprudenziali quando c’è una autorità e diventa vincolante ecco il senso della facoltatività e nulla esclude che sia recepito
Il Presidente Vladimiro Zagrebelsky, per esordendo col dire che il protocollo n.16 non ha la capacità di realizzare lo scopo primario che lo stesso intende perseguire- ridurre il carico di lavoro della Corte edu- né si porrebbe in coerenza con lo scopo della CEDU- essenzialmente collegato alla reazione del ricorrente danneggiato nei propri diritti sul piano nazionale, ha comunque sottolineato l’erroneità delle argomentazioni espresse contro la ratifica del protocollo, destinate ad avere un effetto suicidario nei confronti dei giudici italiani, tagliati fuori dal dialogo con la Corte edu – che si alimenterà dei pareri r
Il Presidente Valerio Onida nel trarre le conclusioni del dibattito, ha evidenziato che l’esistenza di problemi pratici sulle modalità di attuazione del Protocollo n.16 non elidono l’anima dell’istituto, che non è diversa da quello che emerge dai rapporti costruiti fra Costituzioni nazionali, legislazione e giurisprudenza della Corte edu. Due elementi base sono rappresentati dalla pluralità di ordinamenti che supera la logica del singolo ordinamento. Ciò che orienta verso una logica di universalità dei diritti dell’uomo. Vi è la necessità di mettere insieme la pluralità degli ordinamenti con l’universalità dei diritti umani che riguardano l’universalità delle persone. La soluzione dei possibili conflitti richiede dunque l’apprestamento di tecniche di tutela diverse. Per il diritto convenzionale, dopo che il nostro sistema ha trovato un equilibrio quanto alle relazioni fra diritto interno e diritto UE .
L’obiezione politica di fondo circa la lesione della sovranità è dunque mal posta e fuori luogo.
Universalità dei diritti fondamentali non vuol dire che la declinazione dei diritti in ogni ordinamento debba essere la stessa in ogni sistema. Ci possono dunque essere conflitti, ha ricordato Onida, ma non si può rimanere meravigliati da questi conflitti, essendo questi fisiologici, occorre elaborare la soluzione dei conflitti nel modo migliore possibile. Il coordinamento fra le Corti è dunque fisiologico senza che un clima di incertezza debba disturbare, richiedendo anzi il confronto dialogico fra le Corti e senza che si possa individuare una figura giudiziaria capace di risolvere in forma piramidale il conflitto. Il Protocollo n.16 introduce dunque un parere su una “questione di principio” ed in questo vi è un’evidente novità rispetto alle forme di tutela dei diritti fondamentali rispetto alle ipotesi ordinarie, innovazione capace di arricchire il dialogo fra le Corti.
Il senso dell’intervento del Prof. Onida è dunque di guardare con ottimismo al Protocollo n.16, non potendosi immaginare una soluzione di chiusura al Protocollo, se non giungendo alla negazione stessa del ruolo della CEDU.
6. La proposta del gruppo Area-Cassazione: il Parlamento riparta dal Prot.n.16!
A leggere gli esiti del convegno e le opinioni espresse quasi unanimemente in punto di ratifica o meno del Protocollo n.16, appare chiaro come il richiamo alla lesione di sovranità connessa all’erosione del ruolo delle Corti nazionali sia risultato fuori bersaglio, imponendo di ricercare il senso ultimo, probabilmente non del tutto manifestato apertamente, che ha condizionato la discussione accademica ed anche parlamentare già ricordata.
Le accuse di lesione alla sovranità attengono dunque, se colte nella loro intrinseca essenza e nemmeno tanto celata prospettiva, al modo con il quale le Corti nazionali hanno fin qui favorito l’ingresso del diritto vivente della Corte edu, vissuto in termini di forte contrazione del diritto interno e del giudice naturalmente chiamato ad applicarlo, finendo con l’apparire strumentali nel porre in discussione l’architrave sulla quale si fondano i rapporti fra ordinamento interno e CEDU.
Ed in questo non è tanto in discussione l’autonomia – espressiva di sovranità interna - delle Istituzioni giudiziarie verso le quali sembrerebbero venire in difesa i critici del protocollo n.16 quanto, ancora una volta, il “modo” con il quale tale autonomia viene esercitata.
Quel che non appare gradito, in termini ancora più chiari, non è la Corte edu, il suo Protocollo n.16 e la sua giurisprudenza, quanto l’uso che se ne fa nel diritto interno. Un uso che va al contrario vigorosamente protetto.
Il gruppo Area Cassazione, alla luce delle premesse e dei contenuti del convegno svoltosi lo scorso 22 giugno, si rivolge alle più alte cariche istituzionali del Parlamento e del Governo affinché esse si attivino, ciascuno nel proprio ruolo istituzionale, per riprendere l’iter di approvazione del progetto di ratifica del Protocollo n.16.
Un’idea, quella alla base del Prot.n.16, nella quale una singola vicenda processuale contribuisce alla costruzione di un nuovo ordine costituzionale europeo, marginalizzando una concezione statica del diritto, uno e primo, rispetto a ciò che, alimentandosi delle pronunzie di una
Una prospettiva, quella sottesa al Prot.n.16, secondo cui tutti i giudici, in tutte le loro articolazioni- nazionali e sovranazionali- partecipano attivamente, senza scale gerarchiche, ad un’idea di giurisdizione al servizio dei diritti improntata ad un principium cooperationis, al cui interno implementare le occasioni di reciproca conoscenza e confronto, seguendo l’idea di una nuova nomofilachia che, nel tentativo di rimediare alle fisiologiche incertezze nascenti dalla prospettiva universale propria dei diritti fondamentali, tende a divenire sempre più orizzontale, discorsiva, dialogica, circolare con i giudici sovranazionali e con quelli di merito.
La pretesa di risolvere i nodi problematici che in tema di richiesta di parere preventivo alla Corte edu non ratificando il Protocollo n.16 già entrato in vigore risulta fallace per plurimi motivi, il primo dei quali correlato al fatto che i pareri resi dalla Corte edu confluiscono comunque all’interno della giurisprudenza della Corte di Strasburgo e dovranno, pertanto, essere presi in considerazioni ed utilizzati dai giudici italiani, allo stesso modo di qualunque altro precedente di quella Corte sovranazionale.
Sicché indicare la prospettiva della ratifica del Protocollo non vuol dire prospettare una strada di automatica trasposizione di tale strumento ma, al contrario, prefigurare una ripresa parlamentare della discussione sul progetto di legge, al cui interno le forze parlamentari avrebbero dovuto offrire eventuale soluzione ad aspetti problematici o tesi a rendere ancor più utile e proficuo lo strumento di cui qui si discute.
Molti sembrano essere gli vantaggi sottesi alla richiesta di parere preventivo alla Corte edu da parte delle Alte giurisdizioni.
Per un verso, la possibilità che esso offra preziosi elementi per verificare se l’interpretazione della CEDU e della Carta di Nizza-Strasburgo fatta propria, in parallelo, dalla Corte di Giustizia -sia in linea con la CEDU e con la stessa Costituzione attraverso uno strumento che esalta, piuttosto che comprimere, la indipendenza e la sovranità delle autorità giudiziarie nazionali, dovendo poi escludersi, che sia solo formale il potere del giudice nazionale di dissentire dal parere reso dalla Corte se si considera, per un verso, la continua interazione fra giurisprudenza della Corte di Strasburgo e quella prodotta dalla giurisdizione italiana e, per altro verso, il ruolo che la Corte costituzionale ha rivendicato quale unico risolutore del potenziale conflitto fra l’interpretazione della CEDU e quella dei principi costituzionali del nostro ordinamento.
Nemmeno può ritenersi che l’adesione al Protocollo 16 eroda i principi fondamentali dell' ordinamento, secondo un’ottica che nulla a che vedere con la salvaguardia della sovranità invece inscrivendosi in quel poco commendevole sovranismo ordinamentale, lasciando impregiudicato il principio dell’interpretazione conforme della legge italiana al sistema Cedu, come pure il sistema dei contro-limiti.
Troppo intensi risultano i benefici di un confronto in fase ascendente e discendente dall’attivazione del dialogo fra giudice nazionale e Corte edu per anestetizzare il Protocollo n.16 e, con esso, il valore del diritto praticato in Italia, come si è detto capace di contribuire in modo determinante alla formazione di un “diritto vivente europeo” improntato al rispetto dei diritti fondamentali in favore delle persone.
D’altra parte, proprio l’intervenuta ratifica, nel febbraio 2021, del Protocollo n.15 appena ricordato dimostra come proprio le preoccupazioni circa la deriva europeista e le pesanti limitazioni di sovranità che deriverebbero dalla ratifica del Protocollo n.16 avrebbero dovuto risuonare anche nei confronti dello strumento ratificato, nel quale si riconosce apertamente il ruolo primario della Corte edu nella protezione dei diritti fondamentali di matrice convenzionale, e si insiste sul margine di apprezzamento attribuito ai Paesi aderenti, “sotto il controllo della Corte edu”.
Il gruppo Area è dunque persuaso del fatto che proprio la natura non vincolante del parere non incida affatto sulla sovranità dello Stato e dei suoi giudici, rappresentando piuttosto un complemento alla CEDU, la cui ratifica portò ad una rinunzia parziale alla sovranità in presenza di ragioni giustificatrici, rappresentate dapprima dall’art. 11 Cost. e, successivamente, dall’art. 117, 1°comma Cost. Come si è convinti che nessun rischio di marginalizzazione della Corte costituzionale dal Protocollo n.16 che si innesta in uno scenario ormai svezzato rispetto a quello descritto dalle remote sentenze gemelle quanto ai rapporti fra ordinamento interno e CEDU.
Privare le Corti italiane di ultima istanza dell’opportunità di giocare un ruolo attivo nella formazione della giurisprudenza europea e di dover eventualmente accettare il parere reso dalla Corte EDU reso su istanza di altre Corti europee significa impedire le contaminazioni fra gli organi nazionali e sovranazionali che hanno per statuto il compito di salvaguardare i diritti fondamentali nella loro proiezione universale, arginandone le possibilità di contatto, erigendo i muri, invece che costruendo ponti e porti capaci di accogliere i diversi naviganti, rendendo effettivo il rischio di isolamento del nostro sistema ordinamentale.
Tutte queste circostanze dimostrano quanto ampi siano gli spazi per riannodare i fili del ragionamento, depurandolo da precondizioni che, come emerso dal dibattito dottrinario, sembrano poco solide e scarsamente persuasive.
L’attenzione mostrata da ampi settori della dottrina italiana e di un gruppo di consiglieri della Corte di Cassazione costituisce già un elemento sul quale le Istituzioni potranno riflettere in modo proficuo, superando preconcetti e logiche ideologiche ed invece imboccando la via della più ampia tutela dei diritti fondamentali.
E' dunque il clima costruttivo sul tema "riforme della giustizia" che sembra animare l’intero Parlamento dopo l’intervento del Presidente della Repubblica Matterella reso a Camere riunite in occasione della sua rielezione a favorire la riattivazione del circuito parlamentare su una riforma anch'essa “ineludibile” per una giustizia che potrà essere più efficace e giusta con la ratifica del Prot.n.16. Una riforma che, insieme alle altre in cantiere, assume valore parimenti centrale per la difesa dei diritti nella loro vocazione naturalmente universale.
Roberto Giovanni Conti
Paola Filippi
Giacinto Bisogni
Gabriella Cappello
Gaetano De Amicis
Marco Dell’Utri
Franco De Stefano
Francesca Fiecconi
Raffaello Magi
Anna Rosaria Pacilli
Brevi osservazioni sulla proposta di direttiva relativa al miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme digitali
di Tiziana Orrù
Sommario: 1. Introduzione - 2. Nuovi modelli di organizzazione del lavoro e nuove forme di sfruttamento dei lavoratori - 3. Prospettive di tutela.
1. Introduzione
Il 9 dicembre del 2021 la Commissione Europea ha proposto un pacchetto di misure che mirano a migliorare le condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme digitali e a rinforzare la crescita sostenibile delle aziende tra le quali la preparazione di una Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio per la tutela dei lavoratori delle piattaforme digitali.
Contestualmente è stata approvata una comunicazione che definisce l’approccio e le misure dell’Ue sul lavoro mediante piattaforme digitali. Queste ultime sono integrate da azioni che le autorità nazionali, le parti sociali e altri soggetti interessati dovrebbero adottare al loro livello. La Comunicazione mira inoltre a gettare le basi per lavorare a future norme globali per un lavoro di alta qualità mediante piattaforme digitali.
Infine è stato presentato un progetto di orientamenti che chiariscono l’applicazione del diritto dell’Ue in materia di concorrenza ai contratti collettivi dei lavoratori autonomi individuali che cercano di migliorare le loro condizioni di lavoro, compresi coloro che lavorano mediante piattaforme di lavoro digitali.
L’iniziativa della Commissione segue ed accompagna il contenuto di altri significativi interventi volti a regolare il lavoro nell’era della rivoluzione digitale caratterizzata da una società in rapida evoluzione nella quale nuove opportunità e nuove sfide emergono dalla globalizzazione, dal mutamento dell’organizzazione del lavoro e dagli sviluppi sociali e demografici.
Una prima risposta alle nuove sfide è sicuramente inserita nella c.d. Direttiva trasparenza - DIRETTIVA (UE) 2019/1152 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 20 giugno 2019 relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea.
Più di recente la Commissione Europea ha adottato, il 28 Giugno del 2021, La strategia Ue per la salute e sicurezza sul lavoro (Ssl)[1] che prevede tre obiettivi principali:
1) Anticipare e gestire il cambiamento nel mondo del lavoro determinato dalle transizioni verde, digitale e demografica.
2) Migliorare la prevenzione agli incidenti e alle malattie sul lavoro.
3) Accrescere la preparazione per ogni potenziale futura crisi sanitaria.
La Commissione ha messo l’accento sulla circostanza che la robotizzazione, l'uso dell'intelligenza artificiale e la maggiore prevalenza del lavoro a distanza riducono i rischi di attività pericolose, ma pongono anche una serie di criticità dovute sia all’aumento dell'irregolarità nel momento e nel luogo in cui viene svolto il lavoro, sia ai rischi relativi a nuovi strumenti e macchinari ed anche ai rischi psico-sociali.[2]
La situazione di fatto che l’Unione Europea sta tentando di regolare è legata in sintesi alla nascita di nuove forme organizzative, modelli aziendali e tipologie di contratto che hanno determinato un mutamento radicale del concetto stesso di lavoro determinando la necessita di un impegno globale per gestire il cambiamento garantendo dignità al lavoro e maggiori diritti alle persone che lavorano soprattutto quando si chiede ai lavoratori di adattarsi alle innovazioni ed alle rapide trasformazioni che investono il mondo del lavoro.
2. Nuovi modelli di organizzazione del lavoro e nuove forme di sfruttamento dei lavoratori
L’ingresso massiccio dell’utilizzo delle tecnologie digitali ha incoraggiato l’espansione delle imprese, soprattutto nel settore logistico dove è attualmente presente un processo di estrazione del profitto dal lavoro in grado di catalizzare la precarietà dell’occupazione. È sempre più attuale il fenomeno dell’intermediazione illegale della forza lavoro e del meccanismo delle finte cooperative costituite ed estinte per la durata di un appalto o di un subappalto e la spasmodica ricerca di risparmio dei costi attuata a svantaggio della sicurezza sul lavoro.
Occasioni illecite sfruttate soprattutto dalle multinazionali del settore della logistica, alle quali occorre prestare particolare attenzione vista la loro rapida estensione anche ad altri settori quali quello manufatturiero e dei servizi, tutti accomunati dall’utilizzazione di manodopera irregolare o dall’applicazione di contratti collettivi che garantiscono ai lavoratori meno diritti e meno tutele di quelli previsti dal contratto nazionale di categoria[3].
Sono ambiti socio-economici nei quali la figura del datore di lavoro, sempre più evanescente, costituisce spesso l’occasione favorevole per la nascita di nuovi fenomeni di sfruttamento del lavoro quale ad esempio il caporalato digitale dove i lavoratori della gig economy hanno sostituito i braccianti agricoli.
Il luogo e l’orario di lavoro sono oggi concetti fluidi, affrancati dalle classiche nozioni normative che necessitano di una disciplina specifica in grado di tutelare le nuove esigenze di sicurezza. [4]
Le nuove tecnologie stanno mutando radicalmente la dimensione spaziotemporale dei luoghi di lavoro. Per i rider, i luoghi di lavoro sono le città, per i nuovi operai dell’Industria 4.0 vi sono i cosiddetti cyberphysical workplace – luoghi di lavoro in cui software ed algoritmi sono complementari agli hardware: macchine, robot, computer, braccialetti o visori di realtà aumentata. Per entrambi, il tempo di lavoro è ormai calcolato minuziosamente sul tempo effettivamente lavorato e valutato da scrupolosi ed invasivi strumenti di performance metrics.
Ma il pericolo più profondo è che l’algoritmo e, più in generale, l’intelligenza artificiale possano diventare uno strumento prescrittivo senza controllo.
Gli algoritmi funzionano principalmente come sistemi atti a produrre canoni da considerare lo standard al quale adeguarsi per massimizzare le performance dei lavoratori. Questi congegni, inoltre, utilizzano i medesimi standard anche per dirigere, controllare ed eventualmente sanzionare i lavoratori.
Nell’organizzazione dei fattori di produzione l’utilizzo dell’algoritmo si traduce sostanzialmente in una gestione dei lavoratori affidata quasi totalmente ai computer che assicurano processi di selezione e gestione del lavoro più efficaci poiché riducono drasticamente i tempi ed evitano l’intervento umano.
3. Prospettive di tutela
L’automazione del lavoro prodotta dalle nuove tecnologie, un fenomeno che investe l’economia mondiale e travalica i confini nazionali riguardando perlopiù imprese multinazionali, necessita senz’altro di una disciplina idonea a tutelare i prestatori di lavoro garantendo loro condizioni migliori in termini di diritti e garanzie.
E’ la nuova sfida che impone di aggiornare la disciplina vigente a salvaguardia della dignità e salute dei lavoratori sia, con specifico riguardo al momento ed al luogo in cui viene svolto il lavoro per i rischi connessi ai nuovi strumenti e macchinari, sia con riferimento alle possibili problematiche psico-sociali derivanti dallo stress generato nell’ambiente di lavoro dalla connessione continua, dalla mancanza d’interazione sociale, dall’espansione dell’uso delle tecnologie d’informazione e comunicazione, tutti fenomeni in grado di generare l’insorgere di rischi addizionali.
In Italia e nei Paesi dell’Unione il tema non è stato sinora affrontato con interventi generali di disciplina sistematica ma, attraverso interventi settoriali dedicati essenzialmente ai ciclofattorini, che sono diventati la figura emblematica del conflitto sociale accesosi attorno al lavoro su piattaforma. [5]
In ambito nazionale nella Gazzetta Ufficiale n. 257 del 2 novembre 2019 è stata pubblicata la L. n. 128/2019, di conversione del D.L. n. 101/2019 (cd. “D.L. tutela lavoro e crisi aziendali”). La disciplina interviene in particolar modo in favore di alcune categorie di lavoratori particolarmente deboli, quali i riders qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme digitali. Le tutele prevedono la copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e la previsione di una retribuzione di base, senza tuttavia garantire che la situazione occupazionale delle persone che lavorano nelle piattaforme di lavoro digitali corrisponda, a livello giuridico, ai loro effettivi contratti lavorativi.[6]
Ma è soprattutto in ambito eurounitario che si sta cercando di affrontare i cambiamenti determinati dalla trasformazione digitale nei mercati del lavoro con interventi più generali volti a migliorare le condizioni di lavoro e i diritti sociali delle persone che lavorano con piattaforme (art. 1, par. 1).[7]
A questo proposito, la Proposta di Direttiva individua tre obiettivi specifici: 1) garantire che le persone che lavorano mediante piattaforme digitali abbiano, o possano ottenere, la corretta situazione occupazionale alla luce del loro effettivo rapporto con la piattaforma di lavoro digitale e abbiano accesso ai diritti applicabili in materia di lavoro e protezione sociale;
2) garantire l'equità, la trasparenza e la responsabilità nella gestione algoritmica nel contesto del lavoro mediante piattaforme digitali; e
3) accrescere la trasparenza, la tracciabilità e la consapevolezza degli sviluppi nel lavoro mediante piattaforme digitali e migliorare l'applicazione delle norme pertinenti per tutte le persone che lavorano mediante piattaforme digitali, comprese quelle che operano a livello transfrontaliero.
L’intervento europeo è volto innanzitutto ad escludere ai lavoratori su piattaforma il riconoscimento di un terzo status speciale rispetto al lavoro subordinato e a quello autonomo, garantendo a tutti la corretta qualificazione giuridica del rapporto di lavoro con la previsione di una presunzione relativa di subordinazione se la piattaforma di lavoro digitale controlla determinati elementi dell'esecuzione del lavoro. [8]
È previsto, a tal fine un elenco di criteri di controllo volti a determinare in concreto l’ambito della presunzione: nel caso in cui la piattaforma soddisfi almeno due dei criteri specificamente indicati, si presume che si sia in presenza di un “worker” ossia, nel linguaggio nazionale, di un lavoratore subordinato.[9]
La Proposta chiarisce inoltre che spetta al presunto datore di lavoro dimostrare l’assenza di un rapporto di lavoro subordinato alla luce delle definizioni nazionali sancite dalla legislazione o dagli accordi collettivi del rispettivo Stato membro.[10]
La piattaforma dovrà dimostrare la sussistenza dell’autonomia della prestazione fornendo alle autorità giurisdizionali o amministrative tutte le informazioni pertinenti con un palese obiettivo di contrasto oltre che allo sfruttamento lavorativo anche all’evasione e all’elusione fiscale e contributiva.
In maniera ancora più significativa la direttiva prevede un aumento della trasparenza nell’uso degli algoritmi da parte delle piattaforme di lavoro digitali, garantendo che l’insieme dei parametri che regolano l’algoritmo usato per “valutare” il lavoratore vengano resi pubblici con una comunicazione formale. Un modo per rendere consapevole il lavoratore del metro con cui il suo lavoro viene giudicato con conseguente garanzia di contestazione delle decisioni automatizzate.[11]
Gli artt. 7 e 8 pongono un altro importante principio circa la sorveglianza dei sistemi automatici basati su algoritmi vietando, tra l’altro alle piattaforme di usare sistemi di gestione algoritmica idonei ad esercitare una pressione indebita sui lavoratori della piattaforma o a mettere altrimenti a rischio la salute fisica e mentale dei lavoratori della piattaforma. Inoltre è garantito al lavoratore di ottenere dalla piattaforma di lavoro digitale una spiegazione o una rettifica di una decisione presa o sostenuta da sistemi automatizzati che incida significativamente sulle sue condizioni di lavoro.
All’obiettivo della trasparenza sono dedicati gli artt. 11 e 12 della Proposta di Direttiva. Il primo obbliga le piattaforme a condividere con le autorità pubbliche dello Stato membro in cui la prestazione di lavoro è seguita il lavoro affidato ai lavoratori delle piattaforme e ogni dato pertinente, secondo le previsioni dei diritti nazionali. Il secondo specifica che le informazioni in questione, da rendere semestralmente sia alle autorità pubbliche vigilanti sul lavoro sia alle rappresentanze sindacali dei lavoratori e delle lavoratrici con piattaforma, attengano al numero delle persone che lavorano continuativamente con la piattaforma e alla qualificazione giuridica del loro rapporto, nonché i termini e le condizioni contrattuali applicati, e possano essere oggetto di richieste di chiarimento cui le piattaforme hanno obbligo di rispondere.
Infine la Proposta di Direttiva dedica gli artt. 13-19 agli aspetti processuali e rimediali, tra i quali viene in rilievo per l’assoluta novità la legittimazione alla sostituzione processuale delle organizzazioni sindacali rispetto ai lavoratori rappresentati, con il consenso di questi ultimi, per le violazioni della Direttiva (art. 14).
Altri creano diritti inediti sul piano sostanziale, come quello di usufruire della infrastruttura della piattaforma per comunicazioni tra i lavoratori, e tra i lavoratori e i loro rappresentanti (art. 15); o sul piano processuale, come l’obbligo per gli Stati di consentire alle autorità che giudichino della corretta qualificazione del rapporto di lavoro di ordinare alle piattaforme di fornire ogni elemento di prova rilevante, anche di natura riservata: con una significativa applicazione del principio di vicinanza della prova, e un notevole allargamento rispetto alle previsioni dell’art. 210 c.p.c. (art. 16).
Sono inoltre previste tutele per le persone che lavorano con piattaforme, e per i loro rappresentanti, contro rappresaglie per aver invocato l’applicazione delle disposizioni della Direttiva (art. 17), e in particolare contro il licenziamento, tra le quali ultime vi è il passaggio dell’onere della prova in capo alla piattaforma (art. 18).[12]
Infine l’art. 19 richiede agli Stati membri di prevedere un sistema sanzionatorio effettivo, proporzionato e dissuasivo, oltre ad indicare la responsabilità delle autorità che vigilano sull’applicazione del Regolamento (EU) 2016/679, cioè il Regolamento privacy, per l’imposizione di sanzioni amministrative nei casi di violazioni degli att. 6, 7, parr. 1 e 3, 8 e 10.
La sia pur superficiale analisi dei contenuti e degli scopi della Proposta di Direttiva, fa emergere con tutta chiarezza la volontà di creare un apparato normativo completo ed efficace, sicuramente idoneo a superare nel nostro ordinamento quello contenuto nella legge 128/2019.
Il fine di tutelare e porre in sicurezza al più presto una parte cospicua e finora trascurata di lavoratori è inoltre garantito dall’art. 21, par. 1 delle disposizioni transitorie della Proposta di Direttiva che pongono il termine biennale per il recepimento da parte degli Stati membri ma, nulla impedisce al nostro legislatore nazionale di anticipare i tempi dell’emanazione della Direttiva e così adeguare le norme italiane alle aspettative eurounitarie.
[1] Con l’obiettivo di anticipare e gestire il cambiamento, la Commissione dedica particolare attenzione alla necessità per la Ssl di rispondere alle innovazioni generate dalle transizioni verde e digitale, accelerate anche dai piani di ripresa e resilienza, nonché dalle dinamiche demografiche che stanno già determinando un invecchiamento della popolazione lavorativa. In proposito, richiama a riferimento il proprio studio Industria 5.0 - verso un’industria più sostenibile, resiliente, incentrata sull’umano del 7 gennaio 2021 che propone una visione per conciliare diritti e bisogni dei lavoratori con i processi di transizione verde e digitale e il libro verde sull’invecchiamento demografico del 27 gennaio 2021.
[2] Attualmente si stima che i problemi di salute mentale affliggano 84 milioni di europei, metà dei lavoratori considerano lo stress una criticità comune del loro ambiente di lavoro. Si valuta che lo stress genera il 50% delle giornate lavorative perse in Ue.
Gli effetti della pandemia hanno portato il 40% dei lavoratori a lavorare da remoto a tempo pieno con l’effetto di confondere la separazione tra tempo di vita privata e tempo del lavoro, generando problemi quali la connessione continua, la mancanza d’interazione sociale, l’espansione dell’uso delle tecnologie d’informazione e comunicazione (Tic), che hanno generato l’insorgere di rischi addizionali per gli aspetti psicosociali ed ergonomici.
[3] L’articolo 29 D.lgs 276/03 che disciplina la responsabilità solidale nell’ambito dell’appalto ampliando la previsione dell’art. 1667 c.c., appare ora – dopo innumerevoli modifiche - insufficiente a salvaguardare i lavoratori utilizzati all’interno di processi produttivi frammentati che prevedono il frequente ricorso a catene di appalti e subappalti.
La norma, infatti, contrariamente a quanto prevedeva l’abrogato art.3 della legge 1369/60 per gli appalti interni, non prevede alcuna garanzia di parità di trattamento per i lavoratori impiegati nell’appalto diversamente da quanto previsto dall’art. 23 d.lgs. 276/03 per i lavoratori somministrati e da quanto ora disposto dal D.L. n. 77/2021 (convertito dalla legge n. 108/2021) nella regolamentazione degli appalti in ambito pubblico. In particolare il comma 1 lett. b punto 2 dell'art. 49 che ha modificato il comma 14 dell'art. 105 del D.lgs n. 50/2016, ha previsto che “il subappaltatore, per le prestazioni affidate in subappalto, deve garantire gli stessi standard qualitativi e prestazionali previsti nel contratto di appalto e riconoscere ai lavoratori un trattamento economico e normativo non inferiore a quello che avrebbe garantito il contraente principale, inclusa l'applicazione dei medesimi contratti collettivi nazionali di lavoro, qualora le attività oggetto di subappalto coincidano con quelle caratterizzanti l'oggetto dell'appalto ovvero riguardino le lavorazioni relative alle categorie prevalenti e siano incluse nell'oggetto sociale del contraente principale”.
[4] Il 7 dicembre 2021, è stato sottoscritto – all’esito di un approfondito confronto con le Parti sociali promosso dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, il “Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile” con lo scopo di fornire a imprese e lavoratori del settore privato le linee guida con cui disciplinare, nella contrattazione collettiva, il lavoro agile. I punti di principale attenzione del protocollo sono: - accordo individuale; - organizzazione del lavoro agile e regolazione della disconnessione; - luogo di lavoro; - strumenti di lavoro; - salute e sicurezza sul lavoro; - infortuni e malattie professionali; - diritti sindacali; - parità di trattamento e pari opportunità; - lavoratori fragili e disabili; - welfare e inclusività; - protezione dei dati personali e riservatezza; - formazione e informazione; - osservatorio bilaterale di monitoraggio; - incentivo alla contrattazione collettiva. Di particolare rilevanza l’abbandono della nozione di orario di lavoro, e quindi di lavoro straordinario nei periodi di smart working, l’obbligo di individuare sempre, in ogni caso, la fascia di disconnessione, la possibilità per il lavoratore sospendere la prestazione lavorativa fruendo di permessi, la libertà per il lavoratore Il lavoratore di individuare il luogo ove svolgere la prestazione in modalità agile, purché lo stesso abbia caratteristiche tali da consentire condizioni di sicurezza e riservatezza lasciando alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare i luoghi inidonei per motivi di sicurezza personale o protezione, segretezza e riservatezza dei dati. Restano in ogni caso confermati gli obblighi del datore di lavoro, già previsti dalla legge, in tema di salute e sicurezza, di formazione e di informazione, di divieto di discriminazione.
[5] Finora la risposta più rilevante a questa naturale conflittualità è venuta dalla giurisprudenza della maggior parte dei Paesi Europei interessati dal fenomeno: Cass. 24 gennaio 2020, n. 1663; Tribunale di Bologna 31 dicembre 2020 in materia di discriminazione; Cour de Cassation, Chambre social, 28 novembre 2018, n. 1737, per i riders di Takeaway, e Cour de Cassation, Chambre sociale, 4 marzo 2020, n. 374, per i drivers di Uber in Francia; BundesArbeitsGericht (Bag), 1° dicembre 2020, 9 AZR 102/20, a proposito dei crowdworkersin Germania; Tribunal Supremo Sala de lo Social, Pleno, 25 settembre2020, n. 805, per i repartidores di Glovo in Spagna.
[6] Secondo una stima, contenuta nella relazione (Explanatory memorandum) alla Proposta di Direttiva, fino a cinque milioni e mezzo di persone che lavorano mediante piattaforme di lavoro digitali potrebbero essere a rischio di errata classificazione della situazione occupazionale.
[7] La relazione (stima che circa 28 milioni di persone lavorino attualmente su piattaforme digitali nell’Unione Europea come lavoratori autonomi, con una previsione di crescita di circa 43 milioni di addetti entro il 2025. Le piattaforme di lavoro digitali sono presenti in diversi settori economici. Alcune offrono servizi "in loco", come ad esempio servizi di trasporto a chiamata, consegna di merci, servizi di pulizia o di assistenza. Altre operano esclusivamente online fornendo servizi quali la codifica di dati, la traduzione o il design.
[8] Le disposizioni relative sono contenute negli artt. 3-5 della Proposta di Direttiva: l’art. 3, par. 1 impone agli Stati di prevedere una procedura di qualificazione del rapporto di lavoro delle persone che svolgono un lavoro mediante piattaforme digitali, in modo da consentire alle persone che potrebbero essere erroneamente classificate come lavoratori autonomi, di essere riclassificate come lavoratori subordinati in base ad una valutazione dei fatti relativi all'effettiva esecuzione del lavoro e alla retribuzione (art.3, par. 2).
[9] Art. 4, par. 1. Va ricordato che la presunzione relativa non si applica a qualunque piattaforma, ma soltanto a quelle (digital labour platforms) che controllino l’esecuzione del lavoro, intendendo per controllo, ai sensi dell’art. 4, par. 2, quello che comporti la presenza di almeno due degli indici seguenti: a) determinando effettivamente o fissando limiti massimi per il livello di remunerazione; (b) imponendo alla persona che esegue il lavoro di piattaforma di rispettare specifiche norme vincolanti per quanto riguarda l’aspetto, il comportamento nei confronti del destinatario del servizio o l'esecuzione del lavoro; (c) controllando l'esecuzione del lavoro o verificando la qualità dei risultati del lavoro anche con mezzi elettronici; (d) limitando di fatto la libertà, anche mediante sanzioni, di organizzare il proprio lavoro, in particolare la discrezionalità di scegliere il proprio orario di lavoro o i periodi di assenza, di accettare o rifiutare compiti o di ricorrere a subappaltatori o sostituti; (e) limitando efficacemente la possibilità di crearsi una clientela o di eseguire lavori per terzi.
[10] L’art. 5 pone a carico delle piattaforme l’onere della prova dell’autonomia del lavoro prestato a loro vantaggio: anche nel caso di sussistenza di tutti gli indici che, ex art. 4, evidenziano il controllo sul lavoro da parte della piattaforma, specificando l’irrilevanza dell’eventuale accordo tra le parti del rapporto di lavoro per escludere la subordinazione.
[11] Nella proposta di Direttiva, l’art. 6 prevede l’obbligo degli Stati membri di introdurre un diritto di informazione in capo ai singoli lavoratori sia sui sistemi di controllo delle prestazioni lavorative, sia su quelli che prendono decisioni sulle condizioni di lavoro, come l’accesso alle singole prestazioni di lavoro, la loro retribuzione, la sicurezza e salute sul lavoro, l’orario di lavoro, il loro orario di lavoro, e il rapporto di lavoro in genere, compresa, la limitazione, la sospensione o la cessazione del loro account (par. 1).
[12] Con previsione analoga a quella italiana contenuta nell’art. 5 della legge 604/1966.
Attribuzione al figlio del (solo) cognome materno (nota a App. Potenza, sez. civ., ord. 12 novembre 2021)
di Maria Alessandra Iannicelli
Sommario: 1. Il caso. – 2. L’attribuzione del cognome al figlio. – 3. Gli orientamenti della giurisprudenza. – 4. L’opportunità di una soluzione legislativa.
1. Il caso
Nell’ordinamento italiano la vicenda del cognome familiare e, più precisamente, dell’attribuzione del cognome al figlio, può ritenersi una questione ancora tutta chiarire.
Concorrono in tale direzione il vivace dibattito dottrinale, le insistenti e costanti pressioni della giurisprudenza, nonché il confronto con le esperienze statali europee[1].
Il cognome – quale elemento costitutivo del nome unitamente al prenome, ai sensi dell’art. 6, comma 2, c.c. – non si limita ad assolvere una funzione pubblicistica preordinata a garantire la certezza delle relazioni giuridiche ed un ordinato vivere civile, quale espressione dell’interesse della collettività a poter identificare i propri componenti[2], ma ha anche e soprattutto una funzione privatistica, quale segno identificativo della discendenza familiare, finalizzata alla tutela dell’identità personale di ciascun individuo[3].
A differenza del prenome, il cognome – oltre a svolgere una funzione identificativa – è dunque elemento che caratterizza il singolo in ambito sociale, poiché espressivo dell’identità della persona sotto il profilo della discendenza (biologica o affettiva). Motivo per cui il cognome, quale strumento idoneo non soltanto ad identificare una data persona ma anche a ricollegare ad essa una determinata identità, deve essere attribuito tenendo conto del fatto che ciascun individuo discende da una determinata coppia di genitori. Cosicché può affermarsi che ogni persona ha diritto non ad un cognome qualsiasi, ma a “quel” cognome che testimoni il legame con i genitori. E di conseguenza, che ciascuno dei genitori ha diritto a che il cognome del figlio testimoni tale legame[4].
Nella fattispecie in esame, la Corte di appello di Potenza, con ordinanza del 12 novembre 2021, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 237, 262, 299 c.c. e 33 e 34 d.P.R. n. 396/2000, nella parte in cui non consentono ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, il solo cognome materno, per violazione degli artt. 2, 3, 29, comma 2, oltre che dell’art. 117, comma 1°, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritto dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).
La questione di legittimità con riferimento alle norme suindicate è stata sollevata nell’ambito di un procedimento di reclamo avverso decreto del Tribunale di Lagonegro del 4 novembre 2020, con cui si dichiarava inammissibile il ricorso proposto da una coppia di coniugi che aveva richiesto, in via principale – previa disapplicazione della «norma consuetudinaria» che dava prevalenza al cognome paterno in quanto contra legem – che si ordinasse al proprio Comune di residenza di iscrivere il figlio presso i registri dello stato civile con il solo cognome materno (già proprio delle altre figlie, nate quando i ricorrenti non erano ancora coniugati, e riconosciute dalla madre per prima); iscrizione, invece, denegata dall’ufficiale di stato civile, il quale aveva registrato il neonato con il cognome di entrambi i genitori.
In subordine, i ricorrenti chiedevano – ove si aderisse alla tesi della «natura legislativa» della norma in base alla quale il figlio assume il cognome del padre – che ne fosse sollevata la questione di legittimità costituzionale nella parte in cui prevede la prevalenza del cognome paterno e (per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 286/2016)[5] il doppio cognome in caso di accordo dei coniugi, residuando la preclusione di attribuire il solo cognome della madre.
Il giudice di prime cure basava fondamentalmente la propria decisione sul rilievo che la «norma consuetudinaria» dell’attribuzione del cognome paterno al figlio nato in costanza di matrimonio potesse essere superata esclusivamente da un intervento legislativo, non potendo il giudice sostituirsi al legislatore in un ambito riservato a scelte di politica legislativa; inoltre, non poteva rimettersi la questione alla Corte costituzionale, non ravvisandosi profili di illegittimità nel vigente assetto normativo.
Avverso il decreto del Tribunale di Lagonegro, i coniugi hanno proposto tempestivo reclamo.
In primo luogo, i reclamanti si sono doluti della mancata disapplicazione della “regola del patronimico”, pur avendo essa natura consuetudinaria e non legislativa.
La Corte di appello di Potenza ha ritenuto il suindicato motivo infondato.
2. L’attribuzione del cognome al figlio
Sebbene nel nostro ordinamento non esista una previsione normativa espressa in base alla quale al figlio (nato da genitori coniugati) è attribuito il cognome del padre, si tratta senza alcun dubbio di una regola operativa, osservata e fatta rispettare dalle istituzioni preposte. Ci si è allora interrogati in ordine alla natura di questa disposizione[6].
Sull’alternativa tra norma consuetudinaria (fondata sulla risalente tradizione dell’attribuzione ai figli del cognome paterno) e norma implicita di sistema (presupposta da una serie di disposizioni regolatrici di fattispecie diverse), l’orientamento privilegiato dalla giurisprudenza prevalente aderisce alla seconda tesi[7].
La soluzione elaborata dai giudici identifica una serie di previsioni normative, pur eterogenee e regolatrici di fattispecie diverse, dalle quali «si desume (…) l’immanenza di una norma che non ha trovato corpo in una disposizione espressa, ma che è pur presente nel sistema e lo completa» e che «si configura come traduzione in regola dello Stato di un’usanza consolidata nel tempo», alla stregua della quale «il cognome del figlio legittimo non si trasmette di padre in figlio, ma si estende ipso iure da quello a questo»[8].
Le norme che, in combinato disposto fra loro, porterebbero a ritenere che esista una regola di sistema ovvero un principio desumibile da diverse disposizioni dell’ordinamento, conformi agli usi, in base al quale il figlio assume il cognome del padre, sono gli artt. 143-bis, 236, 237, comma 2, 262, 299, comma 3, c.c. nonché gli artt. 33, 34, d.P.R. n. 396/2000, sia pure con le rilevanti modifiche introdotte dalla riforma della filiazione[9].
Secondo l’ordinanza della Corte di appello di Potenza in esame, la regola del patronimico desumibile dai suindicati articoli non è evidentemente suscettibile di una diversa interpretazione costituzionalmente orientata. Siffatta regola è infatti caratterizzata da «automatismo» e, d’altronde, la Corte costituzionale nel 2016 è intervenuta su analoga questione con sentenza di accoglimento: il che presuppone, appunto, l’impossibilità di una diversa interpretazione della norma denunciata.
3. Gli orientamenti della giurisprudenza
Con il secondo motivo i reclamanti si sono doluti del mancato accoglimento da parte del giudice di prime cure della eccezione di legittimità costituzionale della norma “implicita” di sistema in materia di attribuzione del cognome al figlio e ne hanno ribadito la rilevanza e la fondatezza.
Secondo la Corte di appello di Potenza il motivo deve essere accolto e la controversia non può essere decisa indipendentemente dalla risoluzione della suddetta questione di legittimità costituzionale.
A ben vedere, come sopra segnalato, la questione è analoga a quella sollevata dinanzi alla Consulta dalla Corte di appello di Genova nel 2013[10] ed accolta dalla Corte costituzionale con la suindicata sentenza n. 286/2016[11]. Mentre, in quel caso, era in esame la legittimità della regola del patronimico, ma limitatamente alla parte che non consentiva ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere “anche” il cognome materno, nella fattispecie qui considerata è invocato il diritto dei coniugi di attribuire concordemente al figlio “soltanto” il cognome della madre.
Negli anni, la copiosa giurisprudenza in materia di attribuzione del cognome ha espresso orientamenti volti a corrodere progressivamente l’intangibile regola dell’attribuzione al figlio del cognome del padre[12]. È particolarmente indicativo come la Consulta, chiamata a pronunciarsi sull’automatica attribuzione al figlio del cognome paterno – dopo aver originariamente statuito, alla fine degli anni Ottanta[13], che la regola era rispondente all’interesse alla conservazione dell’unità familiare tutelata dall’art. 29 Cost. e profondamente radicata nel costume sociale come criterio di tutela della famiglia fondata sul matrimonio[14] – abbia manifestato, quasi un ventennio dopo[15], la consapevolezza di come la tematica in esame non sia avulsa dai profondi mutamenti culturali intervenuti nel corso degli anni. Pertanto, pur dichiarando inammissibile la questione prospettata, perché una decisione positiva avrebbe costituito una «operazione manipolativa» esorbitante dai poteri della Corte costituzionale[16], nel 2006 affermava espressamente che «l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna».
Dopo circa un decennio dalla sentenza del 16 febbraio 2006, n. 61, la Corte costituzionale è tornata a pronunciarsi in materia di cognome del figlio con la nota sentenza sopra richiamata dell’8 novembre 2016, n. 286[17].
In quell’occasione, la Consulta ha accolto la questione di legittimità costituzionale – sollevata dalla Corte di appello di Genova con riferimento agli artt. 2, 3, 29, comma 2, e 117, comma 1°, Cost.[18] – della norma “implicita”, desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 c.c. e dagli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396/2000, nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di attribuire al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno, prevedendo così l’automatica attribuzione del solo cognome del padre pur in presenza di una diversa volontà dei genitori.
Il caso era nato dal rigetto della richiesta, presentata all’ufficiale dello stato civile, da una coppia di coniugi di nazionalità italo-brasiliana residenti a Genova, di poter registrare il proprio figlio – avente doppia cittadinanza – con il cognome di entrambi i genitori, considerato che il minore sarebbe stato identificato diversamente: in Italia, con il solo cognome del padre e, in Brasile, con il doppio cognome, paterno e materno.
La pronuncia si è – purtroppo – rivelata parzialmente risolutiva, poiché l’attribuzione del cognome materno al figlio (non soltanto nato nel matrimonio ma anche a quello nato fuori dal matrimonio e a quello adottivo, considerato che la dichiarazione di illegittimità costituzionale si estende in via consequenziale alle norme di cui all’art. 262, comma 1, c.c. in caso di riconoscimento del figlio effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, e di cui all’art. 299, comma 3, c.c. in caso di adozione compiuta da entrambi i coniugi) è attualmente possibile soltanto in caso di comune accordo dei genitori e “in aggiunta” al cognome del padre automaticamente imposto.
Nella controversia in esame, invece – ove si invoca il diritto dei coniugi di trasmettere concordemente il “solo” cognome della madre – la volontà dei ricorrenti nel giudizio di primo grado e, successivamente, reclamanti dinanzi alla Corte di appello di Potenza, coincide con la volontà espressa oltre venti anni fa da una coppia di coniugi milanesi, i quali, entrambi concordi e favorevoli ad attribuire alla propria figlia il solo cognome materno, si erano visti respingere la loro richiesta dalle autorità italiane, secondo la prassi che imponeva l’attribuzione automatica e senza eccezioni del cognome del padre ai figli nati nel matrimonio.
I coniugi Cusan e Fazzo – desiderosi di onorare la memoria del nonno paterno, grande benefattore che aveva improntato la propria esistenza ad alti valori morali – adirono, pertanto, la Corte europea dei diritti dell’uomo che, nell’accogliere le richieste dei ricorrenti, ha evidentemente sollecitato l’apertura della strada al riconoscimento in Italia del diritto dei genitori di attribuire il cognome materno ai figli, pronunciando la storica sentenza del 7 gennaio 2014[19], con cui ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 («Diritto al rispetto della vita privata e familiare»)[20] in combinato disposto con l’art. 14 («Divieto di discriminazione»)[21] CEDU, a causa dell’impossibilità di derogare alla regola dell’attribuzione del cognome paterno ai figli anche laddove vi sia una diversa volontà concorde dei coniugi, ritenendo tale regola basata su una discriminazione fondata sul sesso dei genitori.
Sebbene, nelle more del giudizio dinanzi alla Corte europea, i suindicati coniugi avessero ottenuto dal Prefetto di Milano – mediante il procedimento amministrativo di cui al d.P.R. n. 396/2000 – l’aggiunta del cognome materno a quello paterno per tutta la loro prole, tuttavia tale cambiamento non corrispondeva al desiderio iniziale degli stessi, i quali avrebbero voluto attribuire alla figlia il solo cognome della madre.
La Corte EDU ravvisava, pertanto, nella prassi italiana il verificarsi di una discriminazione tra marito e moglie nell’esercizio del loro diritto di determinazione del cognome della figlia in quanto, pur trovandosi in una situazione simile (essendo padre e madre della bambina), erano trattati in maniera diversa: a differenza del padre, la madre non poteva attribuire il proprio cognome alla figlia. Questa distinzione, non poteva – ad avviso della Corte europea – giustificarsi in considerazione dell’interesse pubblico che ha lo Stato di preservare l’unità della famiglia mediante l’attribuzione automatica del cognome del padre a tutti i suoi membri. L’esigenza dell’unità familiare è insufficiente a giustificare una discriminazione siffatta; ne derivava, dunque, una violazione dell’art. 14 in combinato disposto con l’art. 8 CEDU[22].
Non si può sottacere come, sia pure trattandosi di una coppia non coniugata, la medesima volontà di attribuire unicamente alla figlia minore il cognome della madre sia stata recentemente espressa da due genitori desiderosi di trasmettere il solo cognome materno (e non già, di aggiungerlo a quello del padre) per esigenze di eufonia, giacchè nella lingua tedesca il cognome della madre “suona” meglio di quello paterno.
In questo caso, la Procura della Repubblica di Bolzano ha proposto ricorso, ex art. 95, d.P.R. n. 396/2000, al fine di ottenere la rettificazione dell’atto di nascita di una bambina i cui genitori non uniti in matrimonio, hanno concordemente espresso la volontà di attribuire alla minore unicamente il cognome della madre.
Non potendo, nel caso di specie, procedersi ad una interpretazione orientata dell’art. 262, comma 1, c.c., sulla scorta della precedente sentenza della Consulta n. 286/2016, evidentemente inapplicabile, il giudice a quo ha dubitato della legittimità costituzionale del rigido automatismo di attribuzione del cognome paterno al figlio in caso di contestuale riconoscimento da parte di entrambi i genitori ex art. 262 c.c., non derogabile neppure in caso di concorde diversa volontà dei genitori di attribuire il solo cognome della madre.
Secondo il Tribunale di Bolzano, siffatta disciplina sarebbe in contrasto sia con l’art. 2 Cost., sotto il profilo della tutela dell’identità personale, sia con l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’eguaglianza tra uomo e donna; e violerebbe altresì l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, per mancato rispetto, da parte del legislatore statale, dei vincoli derivanti da obblighi assunti a livello internazionale.
Ai fini della definizione del giudizio sollevato dal rimettente, il Collegio ha ritenuto di non potersi esimere dal risolvere pregiudizialmente la questione di legittimità costituzionale dell’art. 262, comma 1, c.c., nella parte in cui – in mancanza di diverso accordo dei genitori – impone l’acquisizione del solo cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, in ragione del rapporto di presupposizione e continenza tra la questione specifica dedotta dal Tribunale di Bolzano e la più ampia questione avente ad oggetto la generale disciplina dell’automatica attribuzione del cognome paterno. Pertanto, con ordinanza dell’11 febbraio 2021, n. 18[23], la Consulta ha sollevato dinanzi a sé la questione di legittimità costituzionale della suindicata disposizione, di cui si attende l’esito decisorio.
La non manifesta infondatezza della questione pregiudiziale è – ad avviso della Corte – rilevabile nel contrasto della vigente disciplina, impositiva di un solo cognome e ricognitiva di un solo ramo genitoriale, con la necessità, costituzionalmente imposta dagli artt. 2 e 3 Cost., di garantire l’effettiva parità dei genitori nonché la pienezza dell’identità personale del figlio e di salvaguardare l’unità della famiglia[24]. Il dubbio di legittimità costituzionale che investe l’art. 262, comma 1, c.c., attiene anche alla violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU.
Parimenti, con riferimento alla fattispecie qui in commento sottoposta a disamina dalla Corte di appello di Potenza, la questione di legittimità costituzionale della norma desumibile dalle disposizioni di cui agli artt. 237, 262, 299 c.c. e 33, 34 d.P.R. n. 396/2000, sollevata dai coniugi reclamanti, non può ritenersi manifestamente infondata. E infatti, la suindicata norma – ad avviso del collegio potentino – si pone innanzitutto in contrasto con l’art. 2 Cost., che tutela il diritto alla formazione dell’identità personale in maniera omogenea tra i figli e il diritto all’unità familiare. A tal riguardo, non si può sottacere che nel caso concreto la scelta dei genitori di attribuire il solo cognome materno al terzogenito non sia riconducibile ad un “capriccio”, bensì all’esigenza di tutelare l’interesse dei tre figli minori ad un armonico sviluppo della personalità e alla formazione dell’identità personale in maniera omogenea, contribuendo all’unità familiare mediante l’adozione del medesimo cognome. Seguendo il ragionamento del decreto impugnato, i reclamanti sarebbero stati costretti ad attribuire al terzogenito un cognome differente in ragione del matrimonio della coppia intervenuto successivamente alla nascita delle sorelle, riconosciute dalla madre per prima; in alternativa, avrebbero potuto dare anche alle prime due figlie il doppio cognome, con evidente pregiudizio per l’identità di queste ultime (in particolare per la figlia undicenne e, dunque, con identità pienamente formata nella comunità, innanzitutto scolastica).
Secondo la Corte di appello di Potenza, la regola del patronimico si pone altresì in contrasto con gli artt. 3 e 29, comma 2, Cost., poiché «…la diversità di trattamento tra i coniugi, in quanto espressione di una concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti tra coniugi ormai superata, non è compatibile né con il principio di eguaglianza, né con quello della loro pari dignità morale e giuridica»[25].
Anche in questo caso, il dubbio di legittimità della norma implicita di sistema in materia di cognome investe l’art. 117, comma 1 Cost. in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU risolvendosi in una discriminazione fondata sul sesso dei genitori e, comunque, in una ingiustificata compressione delle scelte familiari. A tal proposito, il collegio potentino richiama espressamente la sentenza della Corte EDU, Cusan e Fazzo c. Italia, nella parte in cui si afferma che l’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio, alla nascita, il cognome della madre, anziché quello del padre, deriva da una lacuna del sistema giuridico italiano, per superare la quale «dovrebbero essere adottate riforme nella legislazione e/o nelle prassi italiane».
La Corte di appello di Potenza, dunque, per violazione dei suindicati articoli della Costituzione, ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 237, 262, 299 c.c. nonché degli artt. 33 e 34 d.P.R. n. 396/2000, nella parte in cui non consentono ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, il solo cognome materno, ritenendo di non poter decidere la presente controversia indipendentemente dalla risoluzione della suddetta questione.
In attesa che la Corte costituzionale si pronunci, non si può certo ignorare che l’esito di un giudizio volto ad erodere una regola[26] non consente di conseguire il medesimo risultato a cui perverrebbe, invece, il legislatore disciplinando in modo organico e sistematico la materia e ponendo, così, fine ad aporie e difficoltà interpretative[27].
4. L’opportunità di una soluzione legislativa
Un intervento legislativo volto a riformare una normativa obsoleta, che non tutela adeguatamente le istanze privatistiche connesse all’uso del cognome quale riflesso dell’identità personale e che tollera, ancora oggi, la vigenza di norme in cui il principio di parità tra i coniugi e, più generale, il principio di eguaglianza dei genitori risultano mortificati, appare quanto mai opportuno.
Del resto, già quindici anni fa, anche la Corte di Cassazione[28] – pochi mesi dopo la nota pronuncia della Corte costituzionale del 16 febbraio 2006, n. 61[29] – segnalava espressamente la necessità di un intervento del legislatore, affermando che la sussistenza di una norma di sistema automaticamente attributiva del solo cognome paterno, oltre che retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, era in contrasto con le fonti sovranazionali, che impongono agli Stati membri l’adozione di misure idonee alla eliminazione delle discriminazioni di trattamento nei confronti della donna.
Non resta dunque che confidare nel superamento dell’immobilismo legislativo italiano in materia di attribuzione del cognome ai figli affinché il nostro ordinamento si adegui alle legislazioni degli altri paesi europei che consentono l’attribuzione al figlio del cognome del padre e/o della madre, secondo un modello non solo aderente al disegno costituzionale, ma conforme ai principi convenzionali[30] e agli orientamenti giurisprudenziali europei ed italiani.
L’ordinamento francese ha aperto alla possibilità che i genitori si esprimano anche per il doppio cognome[31], collocandosi evidentemente a metà strada tra la soluzione tedesca e quella spagnola, che ha fatto dell’imposizione ex lege del cognome secondo entrambe le linee genitoriali il cuore della propria tradizione[32].
In Germania, invece, permane il rifiuto del cd. Doppelname e, pertanto, ai figli viene in ogni caso attribuito un unico cognome (ovvero quello del padre o della madre secondo la libera volontà dei genitori) oppure un cognome familiare comune (c.d. Ehename)[33].
A ben vedere, le diverse soluzioni adottate in Europa[34] lasciano affiorare l’esigenza di creare in futuro un meccanismo unitario che, inserendosi nel solco del processo di armonizzazione del diritto europeo della famiglia, non ingeneri discriminazioni tra i cittadini appartenenti ai diversi paesi dell’Unione europea. Evidentemente, i tempi non sono maturi per una disciplina uniforme a livello europeo, il cui perseguimento – in ragione della diversa cultura e sensibilità dei legislatori nazionali – è senza dubbio caratterizzato da un iter lungo e complesso.
Se, tuttavia, i tempi non sembrano tali da consentire la previsione di una disciplina uniforme in ambito europeo, alla luce delle brevi riflessioni sin qui svolte appaiono ormai mature le circostanze per approvare in Italia una legge in materia di attribuzione del cognome ai figli che si adegui alle normative vigenti in altri paesi europei ove – come sopra accennato – sia pure con soluzioni diverse, si è approdati ad un regime meno discriminatorio nei confronti della donna e più coerente con l’esigenza di tutelare il diritto all’identità personale del minore ad essere identificato sin dalla nascita anche con il cognome della madre[35].
[1] In argomento, v. G. Passarelli, Note sulla attribuzione del cognome materno. Una questione (ancora de iure condendo), in Fam. dir., 2021, 551 ss.
[2] Sul punto, v. A. Conti, Note intorno all’attribuzione del cognome paterno, in Giur. mer., 2011, p. 2392.
[3] Superata la concezione pubblicistica che considera esclusivamente la finalità identificativa di ordine pubblico, è dato incontrovertibile che il nome – composto da prenome e cognome – sia il più rilevante segno distintivo della persona nella sua vita di relazione, attributo proprio dell’individuo, espressione delle sue qualità personali, la cui funzione identificativa attribuita dalla legge e preordinata alla tutela dell’identità personale è tutelata anche nei confronti dello Stato (art. 22 Cost.). A tal riguardo, si vedano M. Nuzzo, Nome, in Enc. dir., Milano, 1978, p. 304 ss.; L. Lenti, Nome e cognome, in Digesto IV, disc. priv., sez. civ., XII, Torino, 1995, p. 135 ss. e in Digesto IV, disc. priv., sez. civ., Aggiornamento, II, Torino, 2003, p. 928 ss.
[4] In questi termini si esprime, condivisibilmente, M. Trimarchi, Diritto all’identità e cognome della famiglia, in Jus civile, 2013, p. 36.
[5] Corte cost., 8 novembre 2016, n. 286, in Gazz. Uff., 1ª serie speciale, 28 dicembre 2016, n. 52; in Fam. e dir., 2017, p. 213 ss.; in Corriere giur., 2017, p. 165 ss.; in Nuova giur. civ. comm., 2017, p. 818 ss..
[6] Sul punto, si segnalano in giurisprudenza numerose pronunce di merito: v. ex multis Trib. Lucca, decreto 1° ottobre 1984, in Dir. fam. pers., 1984, p. 1068; in Giust. civ., 1985, I, p. 876 e in Giur. mer., 1985, I, p. 288 (nel decreto si legge che: «è in base ad una consuetudine secolare, fondata sul regime patriarcale, che l’ufficiale dello stato civile attribuisce al figlio legittimo il solo cognome del padre»); Trib. Palermo, 17 marzo 1993, in Dir. fam. pers., 1994, p. 640; App. Milano, 4 giugno 2002, in Fam. dir., 2003, p. 173.
In dottrina, v. A. Giusti, Il cognome del figlio legittimo di fronte alla Corte costituzionale, in Giust. civ., 1985, I, p. 1471 ss.; E. Pazè, Verso un diritto all’attribuzione del cognome materno, in Dir. fam. pers., 1998, p. 324 ss.; F. De Scrilli, Il cognome dei figli, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, II, Filiazione, Milano, 2002, p. 472 ss.; G. Grisi, L’aporia della norma che impone il patronimico, in Europa dir. priv., 2010, p. 649 ss.; G. Alpa e A. Ansaldo, Le persone fisiche. Artt. 1-10, in Il Codice civile. Commentario, fondato P. Schlesinger, diretto da F. D. Busnelli, 2ª ed., Milano, 2013, p. 405 ss.; M. Moretti, Il cognome del figlio, in G. Bonilini (a cura di), Trattato di diritto di famiglia, IV, Milano, 2016, p. 4078 ss.; C. Caricato, L’attuale normativa italiana in materia di attribuzione del cognome, in A. Fabbricotti (a cura di), Il diritto al cognome materno, Napoli, 2017, p. 9 ss..
[7] In particolare, Cass. civ., sez. I, 26 maggio 2006, n. 12641, in Foro it., 2006, I, p. 2314 ss.; in Giust. civ., 2006, I, p. 1698 ss.; in Familia, 2006, p. 951 ss.; in Dir. fam. pers., 2006, p. 1649 ss.; in Fam. dir., 2006, p. 469 ss.; in Giur. it., 2007, p. 2198 ss..
[8] Così, Cass. civ., sez. I, ord. 17 luglio 2004, n. 13298, in Foro it., Rep. 2004, voce Filiazione, n. 29; in Fam. dir., 2004, p. 457 ss.; in Dir. giust., 2004, 32, p. 27 ss.; in Europa dir. priv., 2005, p. 829 ss.. Nello stesso senso, anche la più recente Corte cost., 8 novembre 2016, n. 286, cit., ove si afferma espressamente che: «Non vi è ragione di dubitare dell’attuale vigenza e forza imperativa della norma in base alla quale il cognome del padre si estende ipso iure al figlio. Sebbene essa non abbia trovato corpo in una disposizione espressa, essa è presupposta e desumibile dalle disposizioni, regolatrici di fattispecie diverse, individuate dal rimettente (artt. 237, 262 e 299 c.c., 33 e 34 del d.P.R. n. 396/2000; nonché solo a fini esplicativi, art. 72, primo comma, del r.d. n. 1238 del 1939, abrogato dall’art. 110 del citato d.P.R.), e la sua perdurante immanenza nel sistema, come traduzione in regola dello Stato di un’usanza consolidata nel tempo, è stata già riconosciuta sia dalla giurisprudenza costituzionale, sia dalla giurisprudenza di legittimità».
[9] L. 10 dicembre 2012, n. 219, recante «Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali», Gazz. Uff., Serie Generale, n. 293, 17 dicembre 2012 e d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, recante «Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’art. 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219», Gazz. Uff., Serie Generale, n. 5, 8 gennaio 2014.
[10] App. Genova, sez. III, ord. 28 novembre 2013.
[11] V. nota 5.
[12] Per quanto riguarda la giurisprudenza nazionale di merito e di legittimità, v. ex multis: Trib. Bologna, decreto 9 giugno 2004, in Fam. dir., 2004, p. 441 ss., secondo cui «la doppia cittadinanza del minore legittima i suoi genitori a pretendere che vengano riconosciuti nell’ordinamento italiano il diritto e la tradizione spagnoli per cui il cognome dei figli si determina attribuendo congiuntamente il primo cognome paterno e materno»; Cass. civ., sez. I, 14 luglio 2006, n. 16093, in Giust. civ., 2007, I, p. 149 ss.; in Vita not., 2007, p. 203 ss.; in Fam. dir., 2006, p. 469 ss., ove si afferma che l’attribuzione al figlio del solo cognome paterno è antistorica oltre che in contrasto con le norme sovranazionali e si segnala, pertanto, la necessità di un intervento del legislatore; Cass. civ., sez. I, ord. 22 settembre 2008, n. 23934, in Fam. dir., 2008, p. 1093 ss.; in Foro it., 2008, I, p. 3097 ss.; in Dir. fam. pers., 2008, p. 1931; in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, p. 11 ss.; in Giust. civ., 2009, I, p. 2178 ss.; in Dir. fam. pers., 2009, p. 1074 ss..
Con riferimento alla giurisprudenza europea, invece, v. in particolare: Corte di Giustizia UE, 2 ottobre 2003, causa C-148/02, Carlos Garcia Avello c. Belgio, secondo cui costituisce discriminazione in base alla nazionalità il rifiuto da parte dell’autorità amministrativa di uno Stato membro di consentire che un minore avente doppia nazionalità possa essere registrato con il cognome cui avrebbe diritto secondo le leggi applicabili nell’altro Stato membro, in Giur. it., 2004, 2009 ss.; in Fam. dir., 2004, p. 437 ss.; in Europa dir. priv., 2004, p. 217 ss.; Corte EDU, 16 novembre 2004, ric. n. 29865/96, Ünal Tekeli c. Turchia; Corte di Giustizia UE, 14 ottobre 2008, causa C-353/06, Grunkin e Paul c. Germania, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, p. 268 ss.; in Corriere giur., 2009, p. 489 ss.; in Giur. it., 2009, p. 299 ss..
[13] Corte cost., ord. 11 febbraio 1988, n. 176, in Rass. dir. civ., 1991, p. 190; in Foro it., 1988, I, p. 1811; in Giur. cost., 1988, I, p. 605; in Dir. fam. pers., 1988, p. 670; e Corte cost., ord. 19 maggio 1988, n. 586, in Dir. fam. pers., 1988, p. 1206; in Giust. civ., 1988, I, p. 1649.
[14] Nella motivazione si legge che: «l’interesse alla conservazione dell’unità familiare, tutelata dall’art. 29 Cost., sarebbe gravemente pregiudicato se il cognome dei figli nati dal matrimonio non fosse prestabilito fin dal momento dell’atto costitutivo della famiglia».
[15] Corte cost., 16 febbraio 2006, n. 61, in Foro it., 2006, I, p. 1673 ss.; in Giur. cost., 2006, p. 543 ss.; in Familia, 2006, p. 931 ss.; in Dir. giust., 2006, 10, p. 14 ss.; in Dir. fam. pers., 2006, p. 927 ss.; in Dir. comm. internaz., 2006, p. 341 ss.; in Giust. civ., 2006, I, p. 1124 ss..
[16] Alla stessa conclusione perveniva la Consulta nel 2007, quando – chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 262, comma 1, secondo periodo, c.c., sollevata con riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., nella parte in cui, per il caso di contestuale riconoscimento del figlio operato da entrambi i genitori, anziché consentire ai genitori una scelta libera e concordata, dispone che il figlio assume il cognome del padre – dichiarava la questione manifestamente inammissibile, «poiché l’intervento richiesto, lasciando aperta una serie di opzioni riservate alla discrezionalità del legislatore, impone una operazione manipolativa esorbitante dai poteri della Corte costituzionale» (così, Corte cost., ord. 27 aprile 2007, n. 145, in Giust. civ., 2007, I, p. 1306 ss.).
[17] V. nota 5.
[18] V. nota 10.
[19] Corte EDU, 7 gennaio 2014, ric. n. 77/07, Cusan e Fazzo c. Italia, in Foro it., 2014, IV, p. 57 ss.; in Dir. fam. pers., 2014, p. 537 ss.; in Fam. dir., 2014, p. 205 ss.; in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, p. 515 ss..
[20] Ai sensi dell’art. 8 CEDU, rubricato «Diritto al rispetto della vita privata e familiare»: «1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui».
[21] Ai sensi dell’art. 14 CEDU, rubricato «Divieto di discriminazione»: «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione».
[22] La Corte ha condannato l’Italia, non in quanto la norma implicita sia di per sé in contrasto con la Convenzione europea, ma sulla base di una lacuna assiologica del sistema normativo italiano ovvero perché non prevede la facoltà di derogarvi anche laddove la volontà dei coniugi sia concorde (in francese la Corte usa, al paragrafo 81 della sentenza Cusan e Fazzo c. Italia, il termine più evocativo di «défaillance du système juridique italien»).
[23] Corte cost., ord. 11 febbraio 2021, n. 18, in Gazz. Uff., 1ª serie speciale, 17 febbraio 2021, n. 7. A commento della pronuncia, v. M. N. Bugetti e F. G. Pizzetti, (Quasi) al capolinea la regola della trasmissione automatica del patronimico ai figli, in Fam. dir., 2021, p. 461 ss.; L. Olivero, Cognome dei figli: i rischi dell’autonomia e dell’alfabeto, in Giur. it., 2021, p. 1811 ss; E. Repetto, La trasmissione del cognome ai figli: fine di un’era?, in Familia, 2021, p. 544 ss..
[24] Sin da epoca ormai risalente, la Consulta ha espressamente osservato che la prevalenza attribuita al ramo paterno nell’attribuzione del cognome non può ritenersi giustificata dall’esigenza di salvaguardia dell’unità familiare, poiché «è proprio l’eguaglianza che garantisce quell’unità e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo», in quanto l’unità «si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità» (così, Corte cost., 13 luglio 1970, n. 133).
[25] Riprendendo le parole di Corte cost., 8 novembre 2016, n. 286, cit., par. 3.4.2.
[26] In caso di accoglimento della questione, non si configurerebbe un vuoto normativo, ma la sola apertura all’accordo dei coniugi sulla scelta del cognome materno.
[27] S. Troiano, Cognome del minore e identità personale, in Jus civile, 2020, p. 580, sottolinea «la fragilità di un quadro complessivo che affida la garanzia di diritti fondamentali e, al contempo dell’interesse pubblico all’identificazione delle persone, a regole basate sulle mutevoli letture degli interpreti e all’instabile contributo offerto da fonti normative sparse e, in buona misura, anche gerarchicamente sottordinate». A tal riguardo, un esempio significativo è dato proprio dalla sentenza della Corte costituzionale n. 286/2016, considerato che il Ministero dell’Interno aveva recepito il decisum di detta pronuncia con Circolare del 19 gennaio 2017, n. 1, limitandosi a stabilire che «l’applicazione della sentenza della Corte costituzionale è immediata… e che l’ufficiale dello stato civile dovrà accogliere la richiesta dei genitori che, di comune accordo, intendano attribuire il doppio cognome, paterno e materno, al momento della nascita o dell’adozione». Restavano, così, irrisolti i dubbi interpretativi originati dalla sentenza n. 286/2016 – applicabile dal giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale ovvero dal 29 dicembre 2016 (Gazz. Uff., 1ª serie speciale, 28 dicembre 2016, n. 52) – in caso di richiesta concorde dei genitori di attribuzione al figlio del doppio cognome (a titolo esemplificativo: “Quale forma deve avere l’accordo dei genitori per l’attribuzione del doppio cognome: dichiarazione resa personalmente da entrambi i genitori o anche comunicazione scritta recante sottoscrizione autenticata? I cognomi devono attribuirsi secondo l’ordine prescelto dai genitori o il cognome della madre deve essere soltanto aggiunto a quello del padre e, quindi, sempre attribuito per secondo? E nel caso di accordo tra uno o addirittura entrambi i genitori che già recano un doppio cognome, si attribuiranno tutti o soltanto il primo dei due o uno dei due scelto discrezionalmente dai genitori?”).
[28] Cass. civ., sez. I, 14 luglio 2006, n. 16093, in Giust. civ., 2007, I, p. 149 ss.; in Vita not., 2007, p. 203; in Fam. dir., 2006, p. 469 ss..
[29] V. nota 15.
[30] Si segnalano, in particolare, l’art. 16, comma 1, lett. g, della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979 e ratificata dall’Italia con l. 14 marzo 1985, n. 132, che espressamente impegna gli Stati contraenti ad assicurare «gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compreso il diritto alla scelta del cognome»; gli artt. 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, che vietano ogni forma di discriminazione basata sul sesso (art. 21) nonché l’obbligo di assicurare la parità tra uomini e donne (art. 23); le Raccomandazioni del Consiglio d’Europa nn. 1271/1995 e 1362/1998 e, ancor prima, la risoluzione n. 37/1978, relative alla piena realizzazione dell’eguaglianza tra madre e padre nell’attribuzione del cognome ai figli; gli artt. 8 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), che sanciscono rispettivamente il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il divieto di ogni forma di discriminazione.
[31] Loi n. 2002-304 du 4 mars 2002 relative au nom de famille, successivamente modificata dalla Loi n. 2003-516 du 18 juin 2003 relative à la dévolution du nom de famille, e dall’Ordonnance n. 2005-759 du 4 juillet 2005 portant réforme de la filiation; artt. 311-21, 311-22, 311-23, 311-24 del Code civil.
[32] Nell’ordinamento spagnolo, vige la regola del doppio cognome. Secondo la Ley 40/1999, de 5 de noviembre, sobre nombre y apellidos y orden de los mismos, i figli assumono il cognome di entrambi i genitori, secondo l’ordine da questi stabilito. Inizialmente, la legge prevedeva che, in caso di difetto di accordo sull’ordine di precedenza, quest’ultima fosse automaticamente accordata al cognome paterno. Da ultimo, la disciplina è stata tuttavia modificata, nell’ambito della più ampia riforma del Registro civil (Ley 20/2011, de 21 de julio, entrata in vigore – per la parte che qui interessa – il 30 giugno 2017), prevedendosi che se i genitori non stabiliscono l’ordine dei cognomi o non vi è accordo tra loro su quale debba essere, decorso il termine di tre giorni, sarà l’ufficiale del Registro civil a dover stabilire il predetto ordine. Il criterio che l’ufficiale dello stato civile deve seguire è quello del interés superior del menor.
[33] Ai sensi del paragrafo 1355 BGB, i coniugi possono decidere con una dichiarazione resa all’ufficiale dello stato civile al momento del matrimonio o successivamente con una dichiarazione autenticata, se adottare un cognome familiare comune (c.d. Ehename), scelto tra i propri cognomi, da assegnare alla prole o mantenere i rispettivi cognomi di nascita. In quest’ultima ipotesi, ai figli dovrà comunque essere attribuito un unico cognome (quello del padre o della madre) secondo la libera volontà dei genitori. In caso di disaccordo, secondo quanto previsto dal paragrafo 1616 BGB, compete al Giudice Tutelare scegliere il genitore a cui affidare la determinazione e, ove il genitore designato vi si sottragga, ai figli è attribuito il suo cognome.
[34] Per una compiuta disamina delle normative vigenti in Europa in materia di attribuzione del cognome ai figli, v. R. Peleggi, Il cognome dei figli: esperienze statali a confronto, in A. Fabbricotti (a cura di), Il diritto al cognome materno, Napoli, 2017, p. 115 ss..
[35] Nel corso dell’attuale XVIIIª legislatura, tra i più recenti progetti di legge presentati in materia di cognome si segnalano il d.d.l. n. 2293 (intitolato «Nuove disposizioni in materia attribuzione del cognome ai coniugi e ai figli», presentato al Senato in data 22 giugno 2021 e non ancora assegnato) e il d.d.l. n. 2276 (intitolato «Modifiche al codice civile in materia di cognome», presentato in data 10 giugno 2021 e assegnato alla 2ª Commissione Giustizia del Senato in sede redigente il 10 novembre 2021). Entrambi i suindicati progetti di legge – che modificano anche la normativa in materia di cognome dei coniugi e presentano evidenti analogie con la disciplina francese – riconoscono ampia discrezionalità ai genitori rimettendo loro la scelta del cognome (unico o doppio) dei figli, potendosi discrezionalmente attribuire al figlio il cognome del padre o quello della madre o quelli di entrambi, nell’ordine concordato. Il testo dei disegni di legge in questione ricalca il più risalente d.d.l. n. 286 (assegnato alla 2ª Commissione Giustizia del Senato in sede redigente l’11 luglio 2018) nonché il d.d.l. n. 1628 della precedente legislatura, con riferimento al quale, per un’attenta disamina sia consentito rinviare a M. A. Iannicelli, Prospettive di riforma in materia di attribuzione del cognome ai figli, in A. Fabbricotti (a cura di), Il diritto al cognome materno, Napoli, 2017, p. 157 ss.; M. A Iannicelli, Il cognome del figlio: brevi note de iure condendo, in Familia, 2017, p. 34 ss..
Diversamente, il d.d.l. n. 2102 (intitolato «Modifiche al codice civile in materia di cognome dei figli», presentato in data 17 febbraio 2021 e assegnato alla 2ª Commissione Giustizia del Senato in sede redigente il 9 marzo 2021) – più aderente al modello spagnolo – prevede un’indicazione vincolante a favore del doppio cognome, stabilendo che, su accordo dei genitori, sia attribuito al figlio al momento della dichiarazione di nascita presso gli uffici di stato civile il cognome di entrambi nell’ordine concordato secondo la loro volontà.
In caso di mancato accordo tra i genitori, tutti i disegni di legge suindicati prevedono che sia attribuito al figlio il cognome di entrambi in ordine alfabetico.
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