ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Nascita e storia del pool anti-mafia: il problema del metodo di Gioacchino Natoli
Il modello di “lavoro specializzato di gruppo” per i processi di mafia [il cd. pool dell’Ufficio Istruzione][1] fu – ad un certo momento della vita giudiziaria di Palermo all’inizio degli anni Ottanta – una vera e propria necessità per fronteggiare non più sostenibili carenze culturali ed organizzative in ordine all’assoluta ignoranza del fenomeno mafioso, in un periodo nel quale venivano uccisi uno dietro l’altro (a parte un centinaio di rinomati mafiosi) uomini dello Stato quali Boris Giuliano (21.7.1979), Cesare Terranova (25.9.1979), Piersanti Mattarella (6.1.1980), Gaetano Costa (6.8.1980), Pio La Torre (30.4.1982) e Carlo Alberto dalla Chiesa (3.9.1982).
Ma per giustificare tale affermazione – che può apparire perentoria – ritengo utile un flash-back, consistente nel ripercorrere (sia pure in sintesi) le vicende degli anni Sessanta/Settanta nonché l’iter dei pochissimi processi di mafia (4/5) celebrati in quegli anni.
Processi (quasi) del tutto falliti anche per l’assoluta inadeguatezza del metodo di lavoro utilizzato per indagare su un fenomeno che non è semplice criminalità, ma parte di un sistema di potere.
Si scoprirà, in tal modo, che lo sviluppo storico è stato molto più lineare di quanto si possa immaginare e, soprattutto, che l’analisi ci conduce (per molti versi) anche al centro di indagini di mafia di questi ultimi anni.
A riprova del fatto che nelle dinamiche di Cosa nostra la “chiave di lettura” è – molto spesso – riposta in un passato che, per statuto epistemologico, deve essere sempre tenuto presente se si vuole avere un corretto approccio interpretativo con i problemi dell’attualità.
Per capire appieno ciò dobbiamo ricordare che il 30 giugno 1963, alle ore 11.30, nella contrada di Ciaculli, in Palermo, saltava in aria una “Giulietta”, imbottita di tritolo, e morivano sette uomini dello Stato, tra carabinieri, poliziotti ed artificieri.
Erano i tempi della cd. “prima guerra di mafia”.
In effetti, per limitarci a pochissimi cenni, di auto imbottite di esplosivo ve ne erano state molte in quei mesi.
Ad esempio:
- il 12 febbraio 1963 una Fiat 1100 era scoppiata, sempre a Ciaculli, dinanzi alla casa di Totò Greco “cicchiteddu” (cugino di Michele Greco “il papa”), senza fare morti;
- il 26 aprile 1963 una “Giulietta” era scoppiata a Cinisi (paese di Gaetano Badalamenti), uccidendo il famoso “don” Cesare Manzella ed un suo fattore;
- e quella stessa mattina del 30 giugno 1963, all’alba però, un’altra “Giulietta” era esplosa a Villabate (confinante con Ciaculli), dinanzi al garage del boss Giovanni Di Peri, uccidendo il guardiano ed un passante.
Il Di Peri sarebbe stato poi trucidato, vent’anni dopo, nella cd. strage di Natale del 1981 a Bagheria.
Nonostante il gravissimo sconcerto destato nell’Italia intera dalle vicende di Ciaculli del 30 giugno 1963 (invero, due auto saltate in aria nel giro di quattro ore non erano facilmente “digeribili”, mediaticamente, neppure allora), il Cardinale di Palermo, S.E. Ernesto Ruffini, appena pochi giorni dopo – nello scrivere al Segretario di Stato vaticano Cardinal Cicognani – trovava il coraggio di affermare che
“la mafia era un’invenzione dei comunisti per colpire la D.C. e le moltitudini di siciliani che la votavano”.
Per chi non lo ricordasse, il Card. Ruffini era colui che aveva – solo poco tempo prima – accolto incautamente l’invito di Piddu Greco “u tenente” (padre di Michele Greco “il papa” e di Salvatore Greco “il senatore”) per benedire la nuova chiesa delle contrade di Croceverde-Giardini e per pranzare – subito dopo – alla di lui tavola ([2]). Tra l’altro, nell’ottobre 1965, il Piddu Greco veniva arrestato, ed il 30.5.1966 inviato al soggiorno obbligato dalla Corte di Appello di Palermo ([3]).
Il Cardinale era zio, altresì, dell’allora giovane avv. Attilio Ruffini, appena venuto da Mantova ma già legale e factotum dei noti cugini Nino e Ignazio Salvo, padroni delle esattorie siciliane (avevano, infatti, ottenuto – in data 11.1.1963 – il loro primo appalto decennale con una legge regionale approvata anche con il voto determinante di alcuni deputati dell’opposizione).
Ma in quello stesso mese di luglio 1963, all’Assemblea Regionale Siciliana l’on. avv. Dino Canzoneri (gruppo DC) ebbe la tracotanza di affermare che Luciano Leggio era un galantuomo calunniato dai comunisti solo perché “era un coerente e deciso avversario politico” ([4]).
Lo Stato reagì alla strage di Ciaculli (almeno formalmente), facendo finalmente funzionare quella Commissione parlamentare antimafia che era stata frettolosamente costituita da qualche mese (febbraio 1963, Presidente il prof. Paolo Rossi), ma che non aveva neppure potuto riunirsi una sola volta, giacché era finita la legislatura.
La Commissione, come noto, era “dovuta” nascere – nonostante i tentativi politici di minimizzare i fatti – a seguito della “guerra di mafia” che stava insanguinando Palermo e che aveva indotto il pur rassicurante “Giornale di Sicilia” ad aprire l’edizione del 20.4.1963 con il titolo “Palermo come Chicago”, dopo la sparatoria in pieno giorno nella centrale pescheria “Impero” di via Empedocle Restivo.
Il 6 luglio 1963, pertanto, svoltesi le elezioni politiche nazionali, il nuovo Parlamento aveva ricostituito subito la Commissione antimafia e ne aveva affidato la guida ad un vecchio giudice meridionale proveniente dalla Cassazione, il sen. Donato Pafundi, che non si era mai distinto né per conoscenze del fenomeno né per attività giudiziaria in processi di mafia.
Giova ricordare, per incidens, che della Commissione era divenuto vice-presidente il siciliano Nino Gullotti (24.5.1964), preferito di fatto all’allora giovane e meno “governabile” Oscar Luigi Scalfaro, che fu indotto a dimettersi dalla carica (22.4.1964).
C’era in quel momento (come sempre in casi simili in Italia) la assoluta necessità di una “risposta straordinaria” ad un evento che non consentiva più di “nascondere la polvere sotto il tappeto”.
Pertanto, in ispecie dopo il varo della nota legge n° 575/1965 suggerita dalla Commissione, si incrementarono le proposte per misure di prevenzione (così esportando l’attività mafiosa, come diranno in seguito i collaboratori, al nord ed in altre zone sane del paese, soprattutto nel settore dei sequestri di persona).
I Ministri dell’Interno diedero incarico ai Questori di presentare alla magistratura rapporti di denuncia (quasi sempre “vuoti”), con elenchi di presunti mafiosi, che erano frutto delle confidenze di informatori prezzolati o altrimenti interessati.
Per quanto riguardò Palermo, epicentro del fenomeno, i risultati giudiziari furono oltremodo modesti, per non dire fallimentari, anche quando i dibattimenti per “legittima suspicione” vennero celebrati fuori dalla Sicilia (o, forse, proprio per questa ragione).
Si arrivò, così alle “storiche” sentenze di Catanzaro (22.12.1968) e di Bari (10.6.1969), che sancirono la bancarotta dell’impegno giudiziario e repressivo degli anni Sessanta.
Le liste degli imputati erano poco più di un paio, ed in particolare: la prima composta da coloro che provenivano da Corleone (processo c/Leggio Luciano+63, istruito dal G.I. Cesare Terranova) e l’altra concernente i mafiosi palermitani (La Barbera Angelo +116).
Il risultato, come si anticipava, fu di assoluzione per tutte le imputazioni di omicidio e di poche condanne per il reato di associazione per delinquere semplice (non c’era ancora il 416 bis) ad una pena media di circa quattro anni di carcere, con ulteriori assoluzioni e con pene diminuite ancora di più in Appello.
Proprio nel processo di Bari (10 giugno 1969) fu assolto (e scarcerato) il giovane Totò Riina, che si diede subito a quella latitanza che cessò solo il 15 gennaio 1993.
Bernardo Provenzano, invece, che si era già sottratto alla cattura nel maggio 1964, continuò ancora fino al 2007, per ben 43 anni, a godere di una splendida libertà.
Il principale protagonista di quella stagione giudiziaria fu, senza dubbio, il G.I. di Palermo Cesare Terranova, il quale curò una imponente istruttoria su una decina di omicidi di mafia avvenuti nel corleonese tra il 1958 e il 1963 (a partire da quello del medico mafioso Michele Navarra, cui L’Espresso dedicò una foto in prima pagina che destò molto scalpore).
Era il “metodo di lavoro” però, nonostante l’impegno personale straordinario, ad essere (purtroppo) inadeguato all’importanza del cimento per l’assenza quasi totale di prove, che potessero resistere alle pressioni ambientali del dibattimento e per il fatto che la filosofia giudiziaria dell’epoca faceva “dipendere” integralmente Pm e Giudici istruttori dai soli “rapportoni” delle Forze dell’ordine, basati esclusivamente su mere confidenze e su ricostruzioni di polizia molto spesso semplificatrici (se non “romanzate”).
Inoltre, il lavoro dei magistrati era assolutamente individuale e non collegato neppure a livello di ufficio istruzione, ove all’epoca – di norma – venivano assegnati giudici che i Presidenti del Tribunale non ritenevano idonei per vari motivi a comporre i collegi giudicanti (ove potevano redigersi le cd. “belle sentenze”, tanto utili per gli esami in Appello e Cassazione).
Tuttavia, l’impegno non comune del giudice Terranova non sfuggì a Cosa nostra, che, il 26 settembre 1979, lo uccise in segno di “riconoscenza” non appena egli era rientrato in ruolo dopo due legislature trascorse in Parlamento e si profilava la possibilità che divenisse il nuovo capo dell’Ufficio Istruzione.
In particolare, gli era rimasto personalmente grato Luciano Leggio, che gli addebitava un impegno ai suoi occhi ingiustificato, causa prima dell’unico ergastolo da lui subito in Appello a Bari nel 1970, mentre tutti gli altri venivano assolti.
Nel 1963 appunto (come si sarebbe appreso in seguito dai collaboratori) la Cosa nostra della provincia di Palermo aveva deciso di sciogliersi (almeno ufficialmente), in modo da far mancare alla neonata Commissione antimafia l’oggetto stesso dell’indagine.
Tuttavia, le famiglie più avvedute (in particolare quelle di Corleone, di Santa Maria di Gesù e di Cinisi, ma non solo) avevano tenuto in vita le strutture essenziali, mentre l’organizzazione continuava a vivere nelle province di Agrigento, Trapani, Caltanissetta, Catania ed Enna, rimaste di fatto non toccate dalle indagini.
Quando, dopo le elezioni politiche del 1968 e la fine dei due processi sopra ricordati, Cosa nostra palermitana capì che il “bau bau” dello Stato era scaduto come sempre nella routine (non era stata presentata neppure una relazione “preliminare” sui lavori svolti dall’Antimafia), l’organizzazione si ricostituì nel 1970, affidandosi al famoso triumvirato Leggio-Badalamenti-Bontate.
Invero, in punto di fatto, dalla primavera del 1963 al giugno 1969 quasi tutti gli esponenti di Cosa nostra si trovavano in carcere (ad eccezione di pochissimi latitanti, quali: Buscetta, Greco “cicchiteddu”, Badalamenti, “Mimì” Coppola, Nino Matranga, Giuseppe Panzeca Sr. e Gioacchino Pennino “il vecchio”), per cui sarebbe stato ben difficile per essa continuare ad utilmente operare durante una stagione repressiva che era la prima dopo quella del prefetto Mori del 1925.
Tra l’altro, il processo di Catanzaro (22.12.1968) aveva partorito un “topolino”, ove si pensi – ad es. – che imputati del calibro di Badalamenti, Leggio, Coppola, Matranga, Panno ed Antonino Salamone vennero addirittura assolti dal reato associativo.
Ancora peggiore era stato l’esito della sentenza della Corte di Assise di Bari del 10.6.1969, giacché furono assolti tutti gli imputati “corleonesi” sia dalle numerose imputazioni per omicidi commessi nel periodo 1958/1963 sia dallo stesso reato associativo (fu condannato il solo Riina – ad anno 1 mesi 6 di reclusione – per la falsa patente trovatagli in occasione della cattura in data 15.12.1963).
Sarebbe stata poi la Corte di Assise di Appello di Bari il 23.12.1970, in riforma della precedente sentenza che aveva destato sconcerto nell’opinione pubblica, a condannare Luciano Leggio all’ergastolo per l’omicidio del capo-famiglia di Corleone, dott. Michele Navarra, avvenuto il 2 agosto 1958.
E, proprio per dare un segnale tangibile alla cittadinanza palermitana della ripresa ufficiale dell’attività, Cosa nostra organizzò la “strage di via Lazio” il 10 dicembre 1969 e, un anno dopo (nella notte del 31 dicembre 1970), fece esplodere le cd. “bombe di Capodanno” dinanzi a tre edifici pubblici palermitani, dandone incarico all’emergente Francesco Madonia del quartiere di Resuttana ed al suo giovanissimo rampollo Antonino.
Madonia padre venne processato per detenzione illegale delle armi e degli esplosivi rinvenuti nel suo fondo Patti a Pallavicino, e condannato qualche anno appresso ad una “poco esemplare” pena di soli due anni di reclusione.
Nessun inquirente, però, aveva capito il significato di quelle tre esplosioni contemporanee (palazzo EMS, Ass. Agricoltura e Uff. Anagrafe di via Lazio): sarebbero stati poi i collaboratori, nel 1987, a spiegarlo ai magistrati, facendo loro mettere insieme i pezzi di un puzzle che erano rimasti per quasi vent’anni – per la polizia giudiziaria – accuratamente isolati, separati e non compresi.
Intanto, nella notte sull’8 dicembre 1970, a Roma (ed anche a Palermo) vi era stato il tentativo di golpe del “principe nero della X MAS” Junio Valerio Borghese.
Per Cosa nostra – già in grado da subito di riprendere tutte le sue importanti “relazioni politiche esterne” – avevano preso parte alla trattativa con i golpisti i più autorevoli esponenti di vertice palermitani e catanesi, chiedendo in concambio l’impegno alla revisione del processo in corso a Bari a carico del latitante Leggio per l’omicidio Navarra (nel quale il PM aveva in quelle settimane chiesto l’ergastolo), nonché l’“aggiustamento” del processo di Perugia che nel 1969 aveva visti condannati all’ergastolo Vincenzo e Filippo Rimi per l’omicidio di Toti Lupo Leale, a seguito delle accuse della coraggiosa madre Serafina Battaglia.
Il golpe, come sappiamo, fu improvvisamente bloccato mentre era in corso di svolgimento, ma comunque dopo che un manipolo di ardimentosi era entrato nell’armeria del Viminale rubando dei mitra MAB (ritrovati, qualche anno dopo, nella disponibilità di terroristi di destra a Roma) e dopo che un reggimento del Corpo Forestale aveva sfilato – in armi – per via dei Fori Imperiali.
A Palermo, secondo quanto dichiarò ai giudici nel 1987 uno strano personaggio dell’eversione di destra (Alberto Volo), era già stata occupata la sede RAI di via Cerda (ad opera di esso Volo e di altri) ed era stata sul punto di essere invasa la Prefettura (ove il Cap. CC. Giuseppe Russo, quello stesso poi ucciso a Ficuzza da Bagarella nell’agosto 1977, avrebbe dovuto prendere in consegna il Prefetto e sostituirlo personalmente nella funzione).
Cosa nostra, dunque, riprese “alla grande” la propria attività, uccidendo il Procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione (5.5.1971) e sequestrando (8.6.1971) Pino Vassallo (figlio del noto costruttore Ciccio Vassallo) nonché (16.8.1972) nella centrale via Principe di Belmonte, alle ore 13.30, il giovane Luciano Cassina, figlio dell’influente conte Arturo, uomo dell’establishment politico-imprenditoriale, ma soprattutto legato al potentissimo Vito Ciancimino (il sequestro durò sette mesi e si concluse nel febbraio 1973).
Ad arricchire il quadro, il 30 marzo 1973 si era presentato alla Squadra Mobile di Palermo il giovane Leonardo Vitale, che aveva confessato di appartenere alla famiglia di Altarello di Baida ed aveva svelato (11 anni prima di Buscetta) la struttura, le regole di Cosa nostra, il ruolo di Riina e di Pippo Calò ed aveva indicato il nome di consiglieri comunali di Palermo appartenenti alla sua stessa famiglia mafiosa.
Da questa temperie scaturì, come sempre in questi casi, il cd. “processo dei 114” (c/Albanese Giuseppe+74), avente per oggetto la sola imputazione di associazione per delinquere semplice.
La sentenza di 1° grado (Pres. Stefano Gallo), resa il 29.7.1974 ([5]), vide condannare solo 34 imputati (tra cui, invero, Gaetano Badalamenti, “Pippo” Calderone, Tommaso Buscetta, Domenico Coppola, Luciano Leggio, Gerlando Alberti Sr., Stefano Bontate e Salvatore Riina).
Le pene, però, furono risibili (ad es.: Buscetta a 2 anni 11 mesi; Bontate a 3 anni; Riina a 2 anni e 6 mesi), tranne che per Badalamenti, Calderone, Leggio ed Alberti.
In Appello (1^ sez., pres. Michelangelo Gristina), in data 22.12.1976 ([6]), le condanne riguardarono solo 16 imputati e la stessa conferma della significativa condanna di Badalamenti ne ridusse però la pena ad anni 2 gg. 15 di reclusione (la sentenza divenne definitiva il 28.11.1979).
Del pari, il processo scaturito dalle dichiarazioni del Vitale (ritenuto affetto da “struttura schizoide” e perciò semi-infermo di mente) si concluse il 14.7.1977 ([7]) davanti alla 2^ Assise (pres. Carlo Aiello) con la condanna a 25 anni di reclusione del Vitale per gli omicidi confessati ma con l’assoluzione dagli stessi di tutti i chiamati in correità (a cominciare dal Calò).
Le condanne per il reato associativo riguardarono solo 9 imputati (tra cui i latitanti Calò e Nino Rotolo, puniti con 7 e con 5 anni e 6 mesi di reclusione).
Nessun cenno, nella scarna motivazione di appena 65 pagg., a Cosa nostra ed alle sue strutture.
In Appello (29.10.1980, Pres. Faraci) ([8]), però, tutti i condannati venivano assolti (ad eccezione dello zio del Vitale e di Scrima Francesco) per insufficienza di prove e Leuccio Vitale veniva inviato al manicomio giudiziario per 5 anni.
Il Vitale, come sappiamo, venne immediatamente ucciso da Cosa nostra l’11.12.1984, appena tornato in libertà.
Intanto, in data 15.1.1976, la Commissione antimafia (Pres. Luigi Carraro) depositava finalmente la sua prima relazione conclusiva dopo oltre 10 anni, il cui unico merito era quello di dire – pur tra molte interessate reticenze – che la mafia si distingue dalle altre organizzazioni similari “in quanto si è continuamente riproposta come esercizio di autonomo potere extra-legale e come ricerca di uno stretto collegamento con tutte le forme di potere pubblico, per affiancarsi ad esso, strumentalizzarlo ai suoi fini o compenetrarsi nelle sue stesse strutture” ([9]).
L’importanza storica di questa affermazione da anni non sfugge più a nessuno.
Allora, però, passò quasi inosservato il fatto che quella frase certificava un vero e proprio salto di qualità: il passaggio dalla concezione culturale – fino ad allora imperante – della “mafia come antistato” al paradigma della mafia come “parte del sistema di potere”.
La Relazione di minoranza conclusiva del gennaio 1976 (a firma di Pio La Torre, Cesare Terranova e altri) non solo criticava e approfondiva questa importante acquisizione, ma la arricchiva di alcuni nomi “pesanti” (a cominciare da Salvo Lima e Vito Ciancimino).
Tuttavia, a mio avviso, l’episodio più emblematico circa l’assoluta inadeguatezza di quel metodo, collegato direttamente all’individualismo dei giudici di quel tempo, è forse quello delle dichiarazioni confidenziali di Giuseppe Di Cristina (da Riesi) al Cap. CC. Alfio Pettinato, che vennero rassegnate (con il cd. “rapporto rosso” del 23.8.1978) al G.I. di Palermo che si stava occupando del processo per l’omicidio del Ten. Col. CC. Giuseppe Russo, per il quale erano in carcere tre pastori che la storia futura avrebbe dimostrato del tutto estranei ai fatti, come peraltro la tipologia stessa dell’omicidio avrebbe dovuto fare capire.
In detto rapporto, come noto, il capo-mandamento di Riesi – forse sentendosi prossimo alla vendetta degli avversari – aveva anticipato (al solito come “confidenze”) la trasformazione che la mafia stava subendo ad opera dei “corleonesi” e le linee della “seconda guerra di mafia” (se pur in forma auto-assolutoria non solo per sé ma anche per la fazione dei suoi sodali Bontate e Badalamenti).
Ma ciò che mi pare rilevante è il fatto che l’importanza di quelle notizie (anche se in fieri e da sviluppare) sarebbe emersa solo a distanza di alcuni anni, dopo che la “guerra di mafia” aveva mietuto centinaia di omicidi.
Era il metodo, infatti, ad essere del tutto errato, giacché fatti complessi ed intimamente legati fra di loro (come quelli di Cosa nostra) venivano assegnati sia ai PP.MM. sia ai GG.II. con criteri burocratici e di assoluta casualità, facendo sì che a distanza di una sola porta episodi uguali facessero parte di processi differenti.
Non può non segnalarsi poi, a mo’ di esempio, la inquietante circostanza che nei rapporti di p.g. degli anni Settanta era letteralmente scomparso ogni cenno alla parola “commissione”, nonostante che in un capo di imputazione (formulato nel lontano 1965) del processo di Catanzaro si fosse contestato espressamente ad alcuni imputati:
“di aver formato una commissione di mafia, che decideva le sorti dei mafiosi” ([10]).
Intendo dire che il grave insuccesso di quei pochi (ma significativi) processi o aveva fatto sparire negli organi di polizia la stessa nozione dell’organismo centrale ed essenziale della struttura di Cosa nostra (termine, quest’ultimo, mai usato in alcun atto giudiziario prima della collaborazione di Buscetta) oppure, in alternativa, che vi era stata una tale auto-censura da parte della p.g. da indurla a non dovervi più fare cenno.
La conseguenza diretta di tale degradato stato di cose fu – come osserverà amaramente anni dopo Giovanni Falcone in uno dei suoi scritti – che “i problemi sono aggravati da inadeguate conoscenze del fenomeno mafioso da parte della magistratura e così, di fronte ad una organizzazione come la mafia, che si avvia a diventare sempre più monolitica ed a struttura verticistica e centralizzata, vi sono ancora pronunce di giudici che fanno riferimento ad una sorta di
Ed ancora, in un altro suo scritto: “io ricordo il periodo in cui, dopo la repressione giudiziaria della mafia avvenuta nei primi anni Settanta (allora non si parlava di maxi-processi e non destava scandalo la instaurazione di processi contro numerosi imputati), si è operato in Sicilia come se la mafia non esistesse, tanto che per lunghi anni nessuno veniva denunziato per associazione per delinquere. Ebbene, quando nei primi anni Ottanta il fenomeno è esploso in fatti di violenza inaudita, e quando tanti magistrati e pubblici funzionari sono caduti, con ritmo incalzante, sotto il piombo mafioso, le conoscenze del fenomeno erano ormai assolutamente inadeguate” ([12]).
La nomina di Rocco Chinnici a Consigliere Istruttore di Palermo (28.1.1980) comincerà ad invertire la tendenza di quella disastrata realtà giudiziaria, giacché la sua non comune capacità di lettura del problema-mafia e la forza di carattere fecero sì che egli innovasse il metodo di lavoro, assumendo su di sé la gran parte delle principali istruttorie sugli omicidi, in un tentativo (tutto da perfezionare) di visione strategica del fenomeno e di coinvolgimento più diretto di alcuni magistrati di quell’Ufficio, a cominciare da Paolo Borsellino e da Giuseppe Di Lello, cui assegnò sempre più complessi processi di mafia riguardanti, in particolare, fatti ed aree omogenei.
L’ottica, però, rimaneva quella di singole assegnazioni a singoli GG.II., essendo stato anche Chinnici condizionato da una lettura delle norme del cpp e dell’ord. giud., che volevano il G.I. come giudice monocratico per eccellenza (subito dopo il pretore).
Sarebbe stato poi il suo successore, Antonino Caponnetto, a perfezionare nel novembre 1983 quella intuizione, prospettando una nuova lettura dell’art. 17 delle Disp. Reg. del cpp, che gli permise di assegnare formalmente a se stesso oltre 200 processi di mafia, ma di delegarne contestualmente l’istruttoria ad altri giudici ([13]), in tal modo realizzando il primo vero lavoro in pool. In ciò Caponnetto sfruttò al meglio l’esperienza degli uffici del nord nei processi di terrorismo, ove quella formula era già stata sperimentata senza provocare nullità.
Ad ogni modo, era stato l’arrivo di Giovanni Falcone all’Ufficio Istruzione (1980) e, soprattutto, la felice intuizione di Chinnici di assegnargli il cd. “processo Spatola” a realizzare una svolta decisiva nella storia giudiziaria di Palermo e dell’Italia.
Infatti, la sua determinata convinzione che bisognasse strategicamente accompagnare ogni istruttoria di mafia con indagini bancarie e societarie, avrebbe fatto toccare con mano a tutti l’impossibilità di gestire processi di quelle dimensioni da parte di un solo magistrato.
Falcone vi riuscì mirabilmente con il “processo Spatola” (riguardante ben 75 imputati e 90 capi di imputazione) ([14]), ma probabilmente non sarebbe stato in grado – da solo – di mettere in piedi e di gestire il maxi-processo.
L’occasione di quella straordinaria indagine bancario-societaria su Spatola & C. gli era stata offerta da un altro paradosso del periodo precedente.
Era avvenuto, infatti, che sul cadavere di Giuseppe Di Cristina da Riesi (ucciso in Palermo il 30.5.1978) fossero stati rinvenuti ben 300 milioni di lire in assegni circolari di piccolo taglio, intestati a decine di nominativi diversi (tutti, o quasi, mafiosi).
Orbene, il sistema di assegnazione “non strategico” dei processi aveva fatto sì che il G.I. incaricato, accertando che quegli assegni erano stati emessi a Napoli, ne disponesse lo stralcio e l’invio per competenza a quell’A.G., senza neppure pensare all’utilità di estrarne fotocopia da allegare agli atti del processo per l’omicidio, che rimaneva comunque in carico a lui.
Giovanni Falcone, intercettando casualmente qualcuno di quegli assegni circolari nell’indagine Spatola, era riuscito faticosamente a recuperare tutti i titoli bancari ed a scoprire che si trattava della redistribuzione degli utili di un importantissimo traffico di TLE e di stupefacenti.
La “santa barbara” così innescata, soprattutto sul versante dei rapporti societari che erano venuti alla luce, fece comprendere che quelle indagini – oltre ad essere auto-alimentanti (nel senso che ognuna ne faceva aprire altre dieci) – dovevano avere carattere sistemico e dovevano essere organizzate con filosofia tutt’affatto diversa.
Falcone, però, al di là di tutto, aveva posto il vero problema dei processi di mafia: ovvero, che il metodo di lavoro non è affatto “neutro” rispetto all’obbiettivo che si vuole raggiungere, di talché la scelta organizzativa contiene già in sé una opzione di risultato.
Aspetto, questo, che soprattutto le vicende degli anni successivi avrebbero dimostrato essere il vero cuore di una “guerra mai finita”.
Le vicende tragiche di quel periodo, in particolare gli omicidi eccellenti del 1980/82 nonché la sconvolgente uccisione di Rocco Chinnici (29.7.1983), fecero accendere una nuova attenzione nazionale su Palermo e sui suoi uffici giudiziari.
L’arrivo del Cons. Antonino Caponnetto, nel novembre 1983, portò alla svolta organizzativa cui si è fatto innanzi cenno.
In particolare, cambiò a Palermo radicalmente il modo di interpretare il lavoro quotidiano, sulla scorta delle pregevoli e proficue esperienze sempre più divulgate dai colleghi che si occupavano di terrorismo, i quali avevano addirittura creato un network di scambio di informazioni e di atti che li vedeva incontrarsi periodicamente in varie città italiane.
Il metodo di lavoro in pool comportò, all’Ufficio Istruzione, che nulla più potesse essere acquisito in indagini di mafia senza che gli originari quattro colleghi del pool non fossero informati in tempo reale. Era l’“uovo di Colombo”, ma a Palermo le cose più ragionevoli sono le più difficili da realizzare.
L’abnegazione ed il carattere “dolce” (ma allo stesso tempo tenace) di Nino Caponnetto fece il resto. Nessun G.I., ancorché non facente parte del pool, poteva più ignorare che non doveva più essere una monade isolata dell’Ufficio, ma la tessera di un mosaico.
Coloro che non condivisero quella filosofia – che venne comunque accompagnata da un imponente lavoro di “alfabetizzazione culturale” anche a livello di incontri organizzati dal CSM (memorabile l’incontro di Castelgandolfo dell’autunno 1984, con relazione congiunta Falcone/Giuliano Turone) – trovarono ben presto il modo per chiedere il trasferimento ad altro ufficio.
La stessa Procura di Palermo, in previsione dell’apprestamento di requisitorie scritte sempre più impegnative, dovette strutturarsi in modo tale da avere dei sostituti che seguissero a tempo pieno l’andamento dei processi, che pure erano stati “formalizzati”.
Tutto ciò avveniva in un momento di difficile transizione nella magistratura tra un potere giudiziario “arretrato, subalterno alla logica politica dominante, sintonizzato con una strategia politica di conservazione degli assetti economici, sociali ed istituzionali esistenti” ([15]) ed un nuovo potere giudiziario avanzato, vitale e professionalmente evoluto, autonomo dalla logica politica dominante e da ogni altra logica politica contingente.
Per cui, quel modello di lavoro in pool contro la criminalità mafiosa si calava nella più vasta problematica dell’organizzazione degli uffici.
E, a tal riguardo, basti ricordare che lo stesso CSM si rese conto dell’importanza della rivoluzione, dedicandovi un apposito incontro di studi (Fiuggi, 12-13 luglio 1985), nel quale l’allora Cons. superiore Franco Ippolito riconobbe ufficialmente che “l’organizzazione degli uffici e la gestione dei processi di mafia ponevano questioni importanti per l’assetto ed il ruolo della magistratura” e che “il nuovo percorso era iniziato proprio nel 1982, segnando una svolta per la magistratura e per il CSM” ([16]).
Tuttavia, questa ricostruzione sarebbe incompleta, se non si facesse cenno all’opera – ora strisciante ora più visibile – di quanti opposero a tale modo di lavorare il richiamo strenuo alla vecchia filosofia che voleva il giudice istruttore una monade, che nella sua “turris eburnea” partoriva le indagini.
In particolare, ciò che veniva – in modo sempre più virulento – contestata era l’idea di Falcone e del pool che sul G.I., ai sensi dell’art. 299 cpp (1930), incombesse l’obbligo di indagare autonomamente pur in assenza di attività efficaci da parte del PM e della polizia giudiziaria, giacché:
“il g.i. ha l’obbligo di compiere prontamente tutti gli atti che appaiono necessari per l’accertamento della verità”[17].
Questo punto va – soprattutto oggi – messo nel necessario rilievo, perché fino a qualche anno addietro vi sono stati rinnovati tentativi di sottrarre al PM il potere di iniziativa nella ricerca della notitia criminis.
Si tratta, come ognuno può ben vedere, di un problema risalente ma che – all’evidenza – sta ancora tanto a cuore a “qualcuno” da non essere stato accantonato, nonostante sia cambiato il codice, siano scomparsi certi protagonisti e siano trascorsi alcuni decenni da quei momenti.
Dunque, da quel novembre 1983, il metodo di lavoro fu imperniato su una specializzazione sempre più accentuata e, soprattutto, su un continuo ed approfondito scambio di informazioni. Tra l’altro, si instaurò un sistema di confronto costante, in modo da permettere l’esatto ri-posizionamento in “tempo reale” delle conoscenze del pool sulle dinamiche di Cosa nostra.
In questo clima, e solo così, poté vedere la luce la prima sentenza-ordinanza dell’8.11.1985 e poté avere avvio il primo, storico, maxi-processo.
Tuttavia, la assoluta rivoluzione copernicana introdotta dal “metodo-Falcone” fu oggetto – da subito – di una azione di logoramento che, in certi momenti, divenne vera e propria “guerra”.
Sono a tutti noti, ormai, gli attacchi di qualsiasi natura portati a quel gruppo di lavoro (frattanto giunto a sei unità e mutato in alcuni dei suoi componenti), che culminarono nel noto episodio della mancata nomina di Falcone a Consigliere Istruttore di Palermo.
Non si trattò, infatti, soltanto di una fiera opposizione all’Uomo ed al Magistrato Falcone, ma della punta più avanzata ed arrogante dell’attacco al “suo metodo di lavoro”, ancor più significativo perché avveniva nel momento in cui migliori e storici sembravano essere i risultati ottenuti.
Il CSM, con quella scelta del 13 gennaio 1988, consegnò sé stesso ad una memoria collettiva non commendevole, come in plenum ebbero a dire chiaramente taluni dei 10 Consiglieri superiori, che votarono per Falcone.
Si trattò, invero, non della nomina ad un incarico direttivo, ma soprattutto di una chiarissima scelta di campo, avente per obbiettivo la “filosofia organizzativa” che lo Stato-giurisdizione si voleva dare nel condurre indagini sulla mafia.
Il “metodo-Meli” mostrò subito di essere il ritorno al medio-evo organizzativo ed investigativo, con lo smantellamento del pool e con la festosa révanche di chi mai aveva sopportato il sistema della specializzazione contro la mafia e di chi aveva sempre osteggiato l’uso dei collaboratori di giustizia.
Le sponde, istituzionali e mediatiche, in quegli anni furono numerose in ogni momento, di talché il pool dell’Ufficio istruzione fu distrutto.
La nota intervista rilasciata da Paolo Borsellino ai giornalisti Attilio Bolzoni (Repubblica) e Saverio Lodato (L’unità) a metà luglio del 1988[18], con l’immediata apertura di un procedimento para-disciplinare a suo carico da parte del CSM e l’altrettanto famosa lettera di Falcone del 30 luglio 1988[19], con cui chiedeva al Presidente del Tribunale di assegnarlo ad altro incarico, sono la prova storica di questa affermazione.
Giovanni Falcone, ad ogni modo, forte delle sue convinzioni (a maggior ragione dopo che gli esiti processuali anche in appello sul maxi-processo ne avevano dimostrato la fondatezza) tentò inutilmente, sfruttando il sopraggiungere del nuovo cpp del 1989, di esportare quel “metodo” nella Procura della Repubblica di Palermo: ma sappiamo tutti cosa accadde.
Attenzione, però: non bisogna pensare che l’azione di contrasto a lui venisse portata avanti in modo frontale. Nient’affatto.
L’azione più velenosa fu sempre carsica e burocraticamente ineccepibile, ancorché egualmente corrosiva, vischiosa, defatigante.
Per dirla con le parole di un magistrato (Alfredo Morvillo), che fu testimone attento e diretto di quella stagione, si ebbe cura di usare, sempre, il sistema delle “carte a posto”.
Ma Falcone, nonostante la sua indomita tempra di combattente, uscì sfibrato da quella guerra e – al fine di evitare un invischiamento quotidiano in quel “tritacarne” – decise, alfine, di accettare l’invito del ministro della Giustizia Martelli di andare a fare il Direttore generale degli Affari penali in via Arenula.
A partire dai primi di marzo del 1991, però, da quella mai sperimentata postazione strategica (cosa che nessuno di noi amici e colleghi allora comprese) attaccò nuovamente con la sua “rivoluzionaria” idea organizzativa sulle indagini di mafia, fino a farla divenire atto avente forza di legge (appena otto mesi dopo) con il DL n° 367, che istituì le DDA nelle procure della Repubblica capoluogo di distretto (21 novembre 1991).
Nella formulazione legislativa di quel “metodo” riversò non solo tutta la sua esperienza giudiziaria ma, soprattutto, tutti i prevedibili rimedi alle infinite “trappole” che erano state tese a lui (ed a quanti altri, invero pochi, credevano in quel sistema).
Ecco il perché della sua attenzione spasmodica alla formulazione dell’art. 70-bis cpp, sia con il forte riferimento alle attitudini ed alle esperienze specifiche per far parte della DDA (e non già all’anzianità che aveva fatto prevalere il Cons. Meli) sia – e soprattutto – con l’uso delle meditate parole:
“il procuratore distrettuale cura, in particolare, che i magistrati addetti ottemperino all’obbligo di assicurare la completezza e la tempestività della reciproca informazione sull’andamento delle indagini”.
Ognuno di quei lemmi è il distillato dell’esperienza (molto spesso negativa) maturata da Falcone nel corso della sua vita professionale: verrebbe da pensare che dietro a ciascuno di essi c’era un volto, il ricordo di una nota burocratica oppure di un ostacolo fantasioso frapposto da qualcuno per impedire o ritardare un’indagine.
In altri termini, Falcone aveva ritenuto – con l’ottimismo della volontà che lo animava – di avere preservato (al massimo livello possibile) quel metodo di lavoro dal pericolo di una futura “cancellazione”, nel momento in cui lo consegnava alla forza vincolante della legge.
“Cancellazione” che egli aveva dovuto sperimentare sulla propria pelle ai tempi del Cons. Meli, allorché dovette assistere impotente (ottobre 1988) allo smembramento – con un tratto di penna – di importanti filoni di indagine che, con fatica inimmaginabile, egli aveva messo insieme negli anni precedenti per costruire un efficace mosaico investigativo (ad es., le carte dei cd. omicidi politici Reina-Mattarella-La Torre, dei famosi mafiosi e narco-trafficanti Cuntrera e Caruana, degli omicidi “strategici” della guerra di mafia (circa 200), degli appalti pubblici mafiosi, etc.).
Era la prima volta, comunque, che in Italia un “metodo di lavoro giudiziario” veniva stabilito per legge.
Ma, ucciso Falcone nel maggio 1992, quel metodo di lavoro trasfuso nelle DDA ebbe a subire, egualmente, degli ostacoli inattesi.
Intendo riferirmi alla circolare del CSM del febbraio 1993, con la quale in modo improvvido si ritenne di porre dei limiti temporali (6 anni) alla permanenza dei Sostituti Procuratori nelle DDA.
Ciò contrastava frontalmente non solo con la convinta idea di Falcone che le indagini antimafia dovessero essere condotte da magistrati sempre più specializzati, ma soprattutto con la lettera della legge istitutiva delle DDA, che aveva previsto un tetto massimo (peraltro di 8 anni) solo per la “funzione direttiva apicale” di Procuratore nazionale antimafia, attesa l’importanza dell’incarico.
Ma in quella circolare del CSM vi era (se possibile) anche qualcosa di più.
Nella relazione di accompagnamento, si diceva tra l’altro – per giustificare l’intervento para-normativo dell’organo di governo autonomo – che
“appare necessario evitare sia la creazione di veri e propri centri di potere … sia una eccessiva personalizzazione di funzioni così delicate” ([20]).
Ritornava, così, inaspettatamente dopo le stragi il réfrain tante volte utilizzato negli anni Ottanta contro Falcone, secondo cui fare antimafia determinava l’accumulazione di “potere” da parte di potenziali “professionisti dell’antimafia”. Ma potere verso chi, verso che cosa?
La domanda è rimasta sempre priva di risposta.
Era un chiaro indice, però, del fatto che un apparentemente “semplice” metodo organizzativo per fare indagini sulla mafia era interpretato da taluni nel paese, anche a livello di CSM, come un problema di potere.
Le vicende successive, su questo terreno, sono altrettanto significative.
I tentativi degli anni successivi di fare modificare su un punto così qualificante la circolare sulle DDA sono purtroppo andati a vuoto, anche se (da ultimo nell’ottobre 1999) con maggioranze consiliari sempre meno vaste.
Tuttavia, il limite temporale attuale degli 8 anni (del tutto incoerente con le ragioni della legge istitutiva) ha raggiunto la dimostrazione massima della sua incongruenza soprattutto quando dalle DDA sono dovuti andar via per tale motivo, all’inizio degli anni 2000, proprio i magistrati più esperti e specializzati, per cui questa struttura (che avrebbe dovuto essere strategica nell’elaborazione di schemi di intervento investigativo) ha rischiato non solo di “burocratizzarsi” per i passaggi al suo interno troppo rapidi, ma ha perso quello slancio vitale che l’idea fondante di Falcone aveva pensato di attribuirle.
Successive decisioni dell’organo di auto-governo, poi, hanno ulteriormente aggravato tale quadro, allorché hanno vietato la possibilità di mantenere nell’incarico i Procuratori aggiunti.
Così, ancora una volta, i fatti hanno dimostrato che il “modello organizzativo” per i processi di mafia non è affatto neutro: anzi, la scelta del modello contiene già in sé l’opzione di risultato!
In conclusione, dunque, se a dire degli storici “memoria è ricordo collettivo” ma soprattutto “ricostruzione del contesto”, spero che questa mia sintesi possa contribuire a non fare disperdere né la “grande storia” di un grande Uomo, né quelle di una “lunga guerra” sui modelli organizzativi più efficaci per contrastare Cosa nostra, che insieme hanno formato, però, la storia giudiziaria dell’Italia e di Palermo.
[1] Inizialmente composto, dal novembre 1983 al giugno 1986 – sotto il coordinamento (fino a marzo 1988) del Cons. Istruttore Antonino CAPONNETTO – dai Giudici istruttori: Giovanni FALCONE, Paolo BORSELLINO (fino a giugno 1986), Leonardo GUARNOTTA, Giuseppe DI LELLO (fino ad ottobre 1988); poi allargatosi, dal 1986, a Giacomo CONTE (fino ad ottobre 1988), Ignazio DE FRANCISCI e Gioacchino NATOLI.
[2] cfr. A. Caruso, “Da cosa nasce cosa”, ed. Longanesi & C., pagg. 160 segg.
[3] cfr. Testo Integrale della Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, vol. 1°, pag. 356; Ed. Coop. Scrittori – Archivio Italiano
cfr. Testo Integrale Comm. antim., op. cit., pag . XXII
[5] cfr. sent. n° 1422/74 e n° 650/73 R.G. (complessive 168 pagg.)
[6] cfr. sent. n° 794/76 e n° 835/75 R.G. (complessive 127 pagg.)
[7] cfr. sent. n° 18/77 e nn. 32/76 e 9/77 R.G. (complessive 65 pagg.)
[8] cfr. sent. n° 44/78 e n° 54/80 R.G. (complessive 121 pagg.)
[9] cfr. op. cit. pag. 153
[10] cfr. capo b/2/Torr. (pag. 9) della sentenza, composta di appena 175 pagine.
[11] cfr. “Interventi e proposte” (1982-1992) pag. 90 – Sansoni Editore
[12] cfr. ibidem, pag. 145
[13] Giovanni FALCONE, Paolo BORSELLINO (fino a giugno 1986), Leonardo GUARNOTTA e Giuseppe DI LELLO (fino ad ottobre 1988); e poi, dal 1986, Giacomo CONTE (fino ad ottobre 1988), Ignazio DE FRANCISCI e Gioacchino NATOLI.
[14] cfr. sent. n° 1395/83 e n° 788/82 R.G. (complessive 1060 pagg.)
[15] cfr. C. Viazzi, “Governo della magistratura e riforma dell’ordinamento giudiziario” in Questione giustizia, 1983, pag. 16.
[16] cfr. Quaderni del CSM, anno 1, nn. 7-8, novembre-dicembre 1986.
[17] Questo concetto fu ben sviluppato da G. Falcone in un convegno di studi organizzato da Unità per la Costituzione (gruppo dell’ANM), tenutosi a Palermo il 17 dicembre 1984, in cui egli parlò di un “rimpianto dei bei tempi andati” da parte di taluni alti magistrati e di certi ufficiali di polizia giudiziaria.
[18] “Vogliono smantellare il pool antimafia: Fino a poco tempo fa tutte le indagini antimafia, proprio per l’unitarietà dell’organizzazione chiamata Cosa nostra, venivano fortemente centralizzate nel pool dell’Ufficio Istruzione. Oggi invece i processi vengono dispersi in mille rivoli”.
[19] “Ho tollerato in silenzio in questi ultimi anni in cui mi sono occupato di istruttorie sulla criminalità mafiosa le inevitabili accuse di protagonismo o di scorrettezze nel mio lavoro”.
[20] cfr. Circ. n° 2596 del 13.2.1993 (punto 5 della relazione illustrativa).
L’ultima non americana in America
Intervista di Maria Cristina Amoroso e Roberto Conti ad Arianna Farinelli
È stato facile mettersi in contatto con Arianna Farinelli.
Un messaggio su Linkedin, sicuro che non risponderà alle 6 del mattino (ora italiana) e invece senti il trillo della risposta istantanea…Buongiorno…Sono lieta di rispondere alle Vostre domande, anche se sono oberata da impegni e scadenze.
Parla e scrive dall’America, la scrittrice italiana all’estero, emigrata nella Grande Mela.
Sembra avere mantenuto il bello dell’italianità con un valore aggiunto che viene dalle esperienze oltreoceaniche, di studio, di vita, di relazioni, di impressioni, di conoscenze.
Senti che ha molto da dire e da fare. Dopo averla più volte letta su Repubblica ed ascoltata su Rainews 24 ad orari improbabili per gli italiani e normali per gli statunitensi a ragionare sulla guerra in corso e sui conflitti in corso e sui dubbi in corso, risulta più agevole avvicinarsi ai suoi libri. In particolare all’ultimo (almeno fino ad oggi, in attesa del prossimo, imminente) “gli ultimi americani” in cui Arianna è insieme scrittrice, scrittore, uomo violatore di donne e uomo gentile, donna, meticcia, violata, deportata, detenuta ma sempre alla ricerca della libertà( e della verità):... Continuerò a vivere e ad affannarmi, a resistere e a lottare, perché questo è quello che gli esseri umani fanno da sempre, proprio come gli uccelli nel loro eterno migrare…
L’intervista, le domande… scorrono facili, incuriositi da quali emozioni riusciranno a provocare in chi risponderà. La guerra, le donne, l’aborto e poi, soltanto Arianna.
Quanti costi e quanti vantaggi in termini personali, sociali, culturali, ha prodotto in lei il trapianto in un Paese ed in una città, la Grande Mela, iconici per molti occidentali?
Ho avuto opportunità che mai avrei immaginato. Sono cresciuta alla periferia Est di Roma e non avrei mai sognato di poter fare un dottorato di ricerca e di insegnare in una università americana. Il prezzo da pagare è stato molto alto. Solitudine, difficoltà nel crescere i figli senza l’aiuto dei nonni. Ho sofferto anche la pressione e l’enorme competizione nell’ambiente universitario prima, ed editoriale poi. Ho però anche avuto la fortuna di incontrare storie e persone straordinarie. Alcune di queste sono finite nei miei romanzi. I miei studenti sono stati una grande fonte di ispirazione.
Qual è il gusto della Grande mela, vissuta internamente: aspro, frizzante, amaro, dolce?
È tutte queste cose insieme, ed è per questo che è unico. A volte è bellissimo, altre crudele.
Il ruolo della letteratura verso la ricerca della verità. Può mai essere quella dello scrittore una verità appagante o è solo un punto di innesco che vuole fare aiutare al ragionamento, alla conoscenza?
Nei miei romanzi non ci sono mai verità. Ci sono domande, inizi di ragionamenti, proposte. Il resto è lasciato al lettore.
Lei sente molto il tema della responsabilità dello scrittore. In questa ricerca della verità quali sono le coordinate dalle quali muove, i valori di riferimento (se ce ne sono) le fonti.
Studio e faccio molta ricerca prima di scrivere. Cerco di restituire un quadro storico-politico preciso. I valori sono quelli della giustizia sociale e dei diritti delle persone.
In una delle lettere che nel suo Gli ultimi americani invia ad Alma, Lola, descrivendo la diaspora dei sudamericani ristretti in centri di detenzione degli Usa e poi deportati versi i paesi di origine, scrive:
Portiamo con noi bagagli fatti di niente, invisibili e pesantissimi, pieni di perdite e di mancanze.
Esattamente, i deportati partono da qui quasi con niente. Eppure, i loro bagagli sono pesantissimi, contengono tutte le cose che lasciano negli Stati Uniti: le famiglie, gli affetti, i sogni, le mancate opportunità.
Guardando le immagini che riportano la fuga della popolazione ucraina, prevalentemente di donne e bambini, quei bagagli sembrano davvero potersi descrivere con la potenza di quelle espressioni usate nel suo romanzo. Cosa ne sarà della diaspora degli ucraini, alla fine della guerra?
Credo che molti vorranno tornare a casa e credo, invece, che quelli che rimarranno all’estero si sentiranno un po’ come gli ultimi americani: sempre in viaggio, mai arrivati, sospesi in volo come gli uccelli della copertina del mio romanzo.
Quale sarà la reazione dei Paesi occidentali, passata l’emozione?
Tante guerre vengono dimenticate. Delle guerre in Sudamerica non parla nessuno. Eppure, migliaia di profughi si ammassano alla frontiera con il Messico perché scappano da quelle guerre. Nel 2021 in Colombia sono morte 14mila persone, esattamente quante ne sono morte in Donbass in otto anni. Mentre gli Ucraini possono entrare negli Stati Uniti, per gli altri la frontiera rimane chiusa.
E le migrazioni altre, quelle delle quali oggi i fotografi ed i reporter hanno smesso di documentare, anche a causa del Covid, sono destinate a diventare, tragicamente, migrazioni di serie B, in una guerra ancora più devastante degli ultimi con i più ultimi? Cosa deve fare, dunque, lo scrittore? E cosa le società occidentali?
Tutti i profughi sono uguali e tutte le guerre ugualmente tragiche. Arriveranno profughi dall’Africa che scappano dalla fame innescata dalla guerra in Ucraina. Dobbiamo cominciare a capire che l’Occidente ha una responsabilità, in quanto costituito da Paesi democratici e ricchi. Il nostro dovere è di aiutare.
La vulnerabilità delle donne ucraine stuprate e la vulnerabilità delle donne del mondo, oggi che si torna a parlare di diritto all'aborto anche negli Usa. Sono secondo lei temi diversi o vi è una matrice comune che consente di esaminarli e considerarli insieme?
Mentre le donne stuprate in Ucraina non possono abortire perché in Polonia il diritto all’aborto è negato, negli Stati Uniti la Corte Suprema ha cancellato una sentenza di quasi 50 anni fa che garantiva a livello nazionale il diritto all’interruzione di gravidanza. Alcuni stati degli Stati Uniti vieteranno l’aborto anche in caso di stupro e incesto. 26 stati su 50 introdurranno forti limitazioni: non si potrà abortire dopo la sesta settimana (quando molte donne non sanno neppure di essere incinte). Verranno penalizzate soprattutto le donne povere, quelle appartenenti alle minoranze e le minorenni. Queste donne che non possono permettersi di viaggiare in altri stati per abortire ricorreranno ad aborti clandestini e pericolosi o a pillole abortive comprate nel mercato nero (spesso fatte arrivare dal Messico). È una cosa terribile che mia figlia di 15 anni avrà meno diritti di scelta di sua nonna che è americana e ne ha quasi ottanta. La sentenza Roe v. Wade sull’aborto era stata introdotta dopo decenni di battaglie nel 1973.
Il punto sulla conferma degli incarichi direttivi e semidirettivi di Elisabetta Chinaglia
Sommario: 1. La ratio della conferma nella riforma del 2006: corollario della nuova previsione di temporaneità negli incarichi direttivi e semidirettivi. – 2. L’evoluzione dell’equilibrio tra i due significati della conferma: verifica della legittimità a proseguire nel medesimo incarico e “validazione” dell’attitudine direttiva al fine di domanda per nuovi incarichi. – 3. Bilancio dell’utilizzo dell’istituto: scarsa incisività del giudizio di conferma: a) i limiti della procedura. – 4.Inoltre: b) l’aumento della mobilità dei dirigenti. – 5. Come riportare effettività alla procedura di conferma: la modifica del TU Dirigenza sul punto. – 6. Il problema della tempestività della valutazione di conferma. – 7. Il progetto di riforma delle norme primarie. – 8. I casi concreti di non conferma ed il ruolo del governo autonomo.
1. La ratio della conferma nella riforma del 2006: corollario della nuova previsione di temporaneità negli incarichi direttivi e semidirettivi.
L’istituto della conferma nelle funzioni direttive e semidirettive nasce con la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006[1], che ha trasformato radicalmente il modello della dirigenza giudiziaria: da un lato modificando i criteri di selezione per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, in particolare trasformando l’anzianità da criterio di selezione a mero criterio di legittimazione ed attribuendo invece valore primario ai parametri delle attitudini e del merito; dall’altro, introducendo la temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi.
Si è trattato, quindi, del passaggio ad una nuova concezione della dirigenza degli uffici giudiziari, fondata sul merito e connotata dalla temporaneità dell’incarico. Come manifestato con assoluta chiarezza nei pareri sulla riforma espressi nel 2002, ex art. 10 L. 195/1958, dal Consiglio, “la temporaneità degli incarichi direttivi è antica rivendicazione della magistratura, già presente nel progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario elaborato dall’Associazione nazionale magistrati nel lontano 1958. In particolare, nella temporaneità dei compiti di direzione di uffici giudiziari è stato individuato lo strumento per contrastare il formarsi di centri di potere, per riaffermare concretamente la natura di “servizio” della funzione di direzione dell’ufficio giudiziario, per consentire l’avvicendamento non traumatico di dirigenti non rivelatisi pienamente all’altezza del compito e la piena utilizzazione di nuove energie. In sintesi: l’ufficio direttivo come “incarico” e non più come “status” o come posizione gerarchica stabilmente acquisita e resa potenzialmente immutabile dal riconoscimento al magistrato che è a capo di un ufficio della prerogativa dell’inamovibilità posta a garanzia del magistrato che esercita attività giudiziaria”[2].
Nelle prime versioni del progetto di riforma era prevista, per la funzione direttiva, una possibilità di proroga, previa conferma, solo per altri due anni dopo il termine del primo quadriennio di incarico; vi erano altresì limitazioni alla possibilità di presentare, al termine, domande per ulteriori incarichi direttivi. Gli articoli 45 e 46 hanno invece poi disegnato un sistema uguale per gli incarichi direttivi e semidirettivi, prevedendo che le funzioni direttive e semidirettive sono conferite per la durata di quattro anni, al termine dei quali il magistrato può essere confermato, per un’ulteriore sola volta, per un ulteriore quadriennio, a seguito di valutazione - da parte del Consiglio superiore della magistratura - dell’attività svolta. In caso di valutazione negativa, nei successivi cinque anni, il dirigente non può partecipare a concorsi per il conferimento di altri incarichi direttivi; analoga preclusione è prevista per il conferimento di funzioni semidirettive.
La ratio dell’introduzione della temporaneità dell’incarico (evitare la copertura a tempo indeterminato da parte di uno stesso magistrato dell’incarico dirigenziale e così evitare il formarsi di centri di potere, nonché giungere alla sostituzione del dirigente rivelatosi inadeguato), l’evoluzione, in fase di lavori preparatori, delle scelte legislative in ordine alla durata del periodo di proroga, e la stessa formula letterale adoperata dal legislatore (per la quale il dirigente “può essere confermato per un eguale periodo a seguito di valutazione da parte del CSM dell’attività svolta”), rendono chiaro come il ruolo della conferma, nel quadro del passaggio dalla non temporaneità alla temporaneità, assumesse il significato di verifica della possibilità, alla luce della positività o meno dello svolgimento delle funzioni nel quadriennio decorso, di prosecuzione nello svolgimento di quel medesimo incarico semidirettivo o direttivo già ricoperta, ed alla quale, quindi, appariva consequenziale l’impegno, da parte del dirigente, alla prosecuzione dell’attuale incarico per ulteriori quattro anni.
In questo senso è stata l’interpretazione della norma nei primi interventi del Consiglio: nella risoluzione del 24 luglio 2008 si definiva la conferma come momento essenziale per l’attuazione delle finalità sottese al principio di temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi, osservandosi che, con tale meccanismo, si intendeva “responsabilizzare i magistrati con compiti di direzione e di collaborazione direttiva, incentivandoli, in vista della verifica, ad accrescere la propria professionalità e la funzionalità dell’ufficio o dei settori cui sono preposti e garantire nel contempo che, sulla base del servizio prestato e dei risultati conseguiti, si accerti l’idoneità del magistrato a continuare a svolgere la relativa funzione”; inoltre, si evidenziava che il magistrato, attraverso la richiesta di conferma, attuata tramite il deposito dell’autorelazione, “manifesta la propria volontà di continuare a svolgere per il secondo quadriennio le medesime funzioni direttive ovvero semidirettive in corso di esercizio”.
2. L’evoluzione dell’equilibrio tra i due significati della conferma: verifica della legittimità a proseguire nel medesimo incarico e “validazione” dell’attitudine direttiva al fine di domanda per nuovi incarichi.
Nel tempo qualcosa è mutato. L’eliminazione dei limiti, originariamente ipotizzati, alla possibilità di presentare domande di conferimento di incarichi ulteriori, al termine del primo quadriennio, unita alla previsione della possibilità di presentare domande per altri incarichi anche in assenza di richiesta di conferma, ha progressivamente aumentato il valore di un secondo significato del momento della conferma, ossia quello di “validazione” del positivo esercizio di funzioni direttive o semidirettive, nell’ottica del conferimento di diversi ed ulteriori incarichi direttivi o semidirettivi.
La normativa primaria (comma 10 dell’art. 12 del D.lgs. n. 160/06) individua come elementi per la valutazione attitudinale le pregresse esperienze di direzione, di organizzazione e di collaborazione, e la normativa secondaria, nelle sue evoluzioni nel corso degli anni, ha sempre attribuito, conseguentemente, significato alle pregresse esperienze direttive o semidirettive, sino ad individuarle espressamente, nel Testo Unico del 2015, come indicatori specifici dell’attitudine direttiva, aventi “speciale rilievo”.
Nonostante questa duplice valenza del giudizio di conferma, lo stesso manteneva, comunque, nel quadro normativo primario e secondario, la sua funzione di “chiave di volta” del nuovo sistema di assegnazione degli incarichi, anche in considerazione della norma, sempre prevista nelle varie declinazioni delle circolari in tema di conferimento di incarichi, per la quale, anche in caso di mancata richiesta di conferma (tramite l’omessa presentazione dell’autorelazione), la facoltà per il magistrato di partecipare ad altri concorsi per funzioni direttive o semidirettive comportava comunque che, nell’ambito di tali procedure, la valutazione attitudinale fosse estesa al complessivo profilo professionale del magistrato e quindi “anche al periodo in cui lo stesso ha svolto le funzioni direttive o semidirettive per le quali non ha richiesto la conferma e non è stato sottoposto al conseguente giudizio”.
Il sistema delineato, in sostanza, prevedeva l’obbligatoria sottoposizione del dirigente al giudizio di valutazione delle modalità con cui erano state esercitate le funzioni nel precedente quadriennio, sia che ciò avvenisse attraverso la procedura di conferma per la permanenza nell’incarico, sia che ciò avvenisse, quando il magistrato non si sottoponeva al giudizio di conferma, attraverso la procedura di conferimento di nuovo incarico, che doveva espressamente considerare e valutare i risultati conseguiti nel quadriennio decorso.
3. Bilancio dell’utilizzo dell’istituto: scarsa incisività del giudizio di conferma: a) i limiti della procedura.
È ormai assodato che il giudizio di conferma non si è rivelato in grado di assolvere al ruolo di chiave di volta del sistema che avrebbe dovuto avere, e che, anzi, la procedura di conferma, così come attuata nel periodo dal 2008 ad oggi, ha avuto scarsa efficacia.
Le ragioni sono state individuate in primo luogo nella scarsa incisività della procedura come costruita dalla normativa secondaria, con particolare riferimento alla scarsità delle fonti di conoscenza.
Nel sostanziale silenzio del legislatore, che prevedeva solo la “valutazione da parte del Consiglio, dell’attività svolta”, il Consiglio superiore ha dettato proprie regole, con la risoluzione del 24 luglio 2008 e poi con il Testo unico della dirigenza del 2015.
In punto procedurale, si è opportunamente previsto l’intervento dei Consigli giudiziari e del Consiglio direttivo della Corte di cassazione, ritenendo imprescindibile l’apporto degli organi locali di governo autonomo nella formulazione del parere, in ragione della sua prossimità al magistrato da valutare.
In punto finalità, si è sempre focalizzata l’attenzione non solo sulla “idoneità organizzativa, di programmazione e di gestione dell’ufficio e dei settori di questo affidati al magistrato, da valutarsi alla luce dei risultati conseguiti e di quelli programmati” e sulla “attività giudiziaria in concreto espletata dal magistrato”[3], ma anche su ulteriori elementi, attinenti ai prerequisiti ed all’aspetto della capacità relazionale interna ed esterna all’ufficio, quali l’autorevolezza culturale, l’indipendenza da impropri condizionamenti e la capacità di positivo coordinamento dei magistrati.
Sul piano concreto, però, la prima costruzione del procedimento di conferma è stata limitata ad una procedura estremamente scarna, che, seppur arricchitasi nel corso del tempo ed in particolare con il Testo Unico del 2015, è pur sempre rimasta ancorata a poche fonti di conoscenza, per lo più provenienti dallo stesso magistrato sottoposto a verifica: l’autorelazione ed il documento programmatico presentati dal magistrato, unitamente alla documentazione da lui prodotta, inerente lo svolgimento della funzione organizzativa; il rapporto informativo (del dirigente nel caso di incarico semidirettivo, del Procuratore Generale o del Presidente di Corte nel caso di incarico direttivo); le eventuali osservazioni formulate, a seguito di invito, dal Consiglio dell’ordine degli avvocati, purché riferite a fatti specifici ed oggettivi riguardanti l’attività organizzativa dell’ufficio interessato; gli altri atti e documenti organizzativi già in possesso del Consiglio giudiziario. La scarsità delle fonti di conoscenza previste, il ridotto apporto conoscitivo di fatto fornito dall’avvocatura e la mancanza financo di modelli e format relativi ad autorelazione, rapporto e parere del Consiglio giudiziario – strumenti utili a circoscrivere il perimetro indefettibile degli elementi oggetto di verifica – hanno di fatto portato ad una progressiva burocratizzazione della procedura di conferma ed alla scarsa capacità della stessa ad assolvere a quel ruolo fondamentale che le era attribuito nell’impianto della riforma.
Il dato numerico ci fornisce un risultato di debolissima incidenza delle delibere consiliari di non conferma: dal 2009 al 2022 si sono avute 1859 delibere in tema di conferma di incarichi direttivi/semidirettivi, di cui solo 25 di non conferma, con una percentuale dell'1,3%. Più nel dettaglio, nell’arco di tale periodo, su 704 delibere in tema di conferma di direttivi, 549 sono state le conferme, 13 le non conferme e 142 le delibere di non luogo a provvedere (per trasferimento o pensionamento), mentre su 1155 delibere in tema di conferma di semidirettivi, 1027 sono state le conferme, 12 le non conferme e 116 le delibere di non luogo a provvedere.
4. Inoltre: b) l’aumento della mobilità dei dirigenti.
L’indebolimento del valore, nella complessiva valutazione del sistema della dirigenza, della procedura di conferma può essere dovuto, oltre che ai difetti della procedura, anche ad un secondo dato di fatto, relativo al progressivo aumento della mobilità dirigenziale.
Accade sempre più di frequente, infatti, che, allo scadere del primo quadriennio, il dirigente presenti una domanda per il conferimento di altro incarico, pur presentando anche la domanda di conferma; quest’ultima, tuttavia, non rappresenta più la manifestazione della “propria volontà di continuare a svolgere per il secondo quadriennio le medesime funzioni direttive ovvero semidirettive in corso di esercizio”, quanto, piuttosto, la volontà di permanere nell’incarico in attesa del passaggio ad altro incarico direttivo o semidirettivo.
L’analisi dei dati relativi alle domande di conferimento di altri incarichi, condotta su 1.232 magistrati che dal 2012 al 2021 hanno esercitato funzioni direttive e su 1.770 magistrati che nello stesso arco di tempo hanno svolto funzioni semidirettive, e limitata ai soli bandi conclusi, evidenzia che sono 393 i direttivi e 607 i semidirettivi che hanno fatto domanda per altri posti dirigenziali. Un numero significativo, considerando che tra i magistrati considerati vi sono anche coloro che da pochi mesi o da pochi anni hanno assunto le funzioni di interesse, per i quali ridotta o assente è stata la partecipazione ai bandi.
Quanto all’esito dei bandi, risulta che tra i magistrati che nel periodo dal 2012 al 2021 hanno ricoperto funzioni direttive, il 19% è passato ad altre funzioni direttive, il 3% ad altre funzioni semidirettive, il 3% a funzioni fuori ruolo ed il 57% è cessato dall’ordine giudiziario, mentre solo il 18% è tornato alle funzioni ordinarie; tra i magistrati che nel medesimo periodo hanno ricoperto funzioni semidirettive, il 18% è passato ad altre funzioni direttive, il 15% ad altre funzioni semidirettive, il 3% a funzioni fuori ruolo ed il 36% è cessato dall’ordine giudiziario, mentre solo il 28% è tornato a funzioni ordinarie.
A ciò si aggiunga che quella “obbligatorietà” della verifica dell’attività svolta nel quadriennio, originariamente prevista dal sistema normativo, si è poi nei fatti affievolita attraverso la previsione, presente nel Testo Unico della dirigenza già nella sua originaria formulazione del 2010 e poi in quella del 2015, per la quale “Il conferimento di un diverso incarico direttivo o semidirettivo, successivo alla scadenza del primo quadriennio, costituisce manifestazione di volontà del Consiglio, seppure nella forma implicita, di positiva valutazione delle funzioni direttive o semidirettive in precedenza svolte dal magistrato, rendendo superflua l’adozione di una espressa delibera di conferma”.
Il numero elevato di magistrati con funzioni direttive e, soprattutto, il numero elevatissimo di magistrati con funzioni semidirettive[4], la frequente presentazione, al termine del quadriennio, sia della richiesta di conferma che della domanda per nuovo incarico, il conseguente pesantissimo carico di lavoro della Quinta Commissione e la necessità di dare priorità alla copertura di posti vacanti, hanno quindi fatto sì che spesso il magistrato ottenga il conferimento di un altro incarico, direttivo o semidirettivo, prima ancora di ottenere la delibera di conferma. Sempre più spesso, quindi, il parere attitudinale e la delibera di conferimento di nuovo incarico, di fatto, si sostituiscono alla procedura di conferma.
Inoltre, il nuovo Testo Unico della dirigenza del 2015 ha attribuito maggiore rilievo, ai fini della valutazione comparativa, alle pregresse esperienze di dirigenza, introducendo tale parametro tra gli indicatori specifici dell’attitudine direttiva, aventi “speciale rilievo”, e tale valorizzazione ha avuto un concreto e consistente avallo nella giurisprudenza del giudice amministrativo, che ha sempre più spesso valorizzato tale elemento, attraverso un percorso che rischia di giungere ad attribuire primario rilievo al mero dato della previa esperienza direttiva/semidirettiva, senza, però, una concreta ed effettiva verifica del “come” tale esperienza si è svolta.
Tali circostanze di fatto possono condurre a rendere attuale quella preoccupazione già espressa dal Consiglio nel 2002, relativa alla scelta, formulata dal legislatore, di introdurre la temporaneità dell’incarico e non invece della funzione, laddove si osservava che tale scelta, pur soddisfacendo l’esigenza di evitare le incrostazioni di potere e di garantire avvicendamenti nella direzione degli uffici, consentiva tuttavia la realizzazione di “una carriera direttiva tendenzialmente separata. Con il duplice effetto negativo di contraddire il principio secondo cui i magistrati si distinguono solo per le funzioni esercitate e di non realizzare il positivo interscambio tra lo svolgimento “a termine” di incarichi giudiziari temporanei e la ricca esperienza che deriva dall’esercizio delle funzioni giudiziarie”, tanto che si auspicava, in quest’ottica, che - dopo l’espletamento di un incarico direttivo temporaneo - il magistrato ritornasse almeno per un equivalente periodo di tempo ad esercitare funzioni giudiziarie.
Se oggi la scelta del legislatore di temporaneità dell’incarico anziché di temporaneità della funzione è ormai un approdo consolidato, occorre però domandarsi come, a distanza di quindici anni dalla riforma ed alla luce degli esiti della stessa, si possa restituire effettività al momento della conferma nell’incarico.
5. Come riportare effettività alla procedura di conferma: la modifica del TU Dirigenza sul punto.
Il Consiglio è intervenuto, con delibera del 16 giugno 2021, sul Testo Unico sulla dirigenza, modificandone la parte relativa alle conferme, per rendere più incisiva e penetrante la verifica sull’attività svolta e sui risultati conseguiti, al fine di assicurare il raggiungimento dello scopo della procedura, ossia l’eventuale rimozione del dirigente rivelatosi inadeguato, ma anche per assicurare che il riferimento contenuto nel Testo Unico sulla dirigenza ai risultati conseguiti nelle pregresse esperienze direttive e semi-direttive sia effettivo e verificabile, onde evitare di creare un meccanismo di progressione nella carriera dirigenziale di tipo burocratico e legato al dato puramente formale.
La modifica è intervenuta attraverso l’ampliamento dei dati di conoscenza, con la previsione circa la necessaria acquisizione e valutazione (oltre agli elementi già in precedenza previsti): dei dati statistici; del fascicolo dell’ufficio giudicante e del fascicolo della organizzazione della Procura[5]; della documentazione relativa ai provvedimenti di assegnazione in deroga di cui al comma 1, 3 e 4 dell’art. 10 della Circolare sulla organizzazione degli uffici di procura (autoassegnazioni, co-assegnazioni successive, assegnazioni in deroga ai criteri prestabiliti), nonché di quella relativa ai provvedimenti di co-assegnazione in materia di DDA; dei provvedimenti a campione al fine di valutare lo svolgimento di una quota di attività giudiziaria. Ed ancora attraverso la previsione della valutazione dei risultati di eventuali pratiche di vigilanza svolte dal Consiglio giudiziario e dei risultati delle ispezioni ministeriali svolte sull’ufficio nel periodo in valutazione.
È stato poi previsto l’ampliamento dei poteri istruttori del Consiglio giudiziario (in precedenza non previsti), il quale, in presenza di potenziali elementi di criticità, dovrà svolgere approfondimenti istruttori, con particolare riferimento alla audizione dei magistrati dell’ufficio o della sezione, del personale amministrativo, dei rappresentanti dell’avvocatura, del dirigente dell’ufficio o, quando si tratti di conferma di un dirigente, dei dirigenti distrettuali.
Infine, sono stati predisposti modelli uniformi per l’acquisizione dei dati e format di autorelazione, di rapporto e di parere, nei quali vengono indicati esclusivamente, ma esaustivamente, i dati necessari per una compiuta valutazione dei risultati conseguiti nel periodo e delle modalità di direzione.
Onde ripristinare la “obbligatorietà” della valutazione del quadriennio, si è poi previsto che il magistrato che non abbia richiesto la conferma nell’incarico e che, comunque, faccia domanda per altro incarico, dovrà comunque allegare alla domanda, ai fini della valutazione del periodo di attività svolta nel quadriennio, i documenti previsti, per la procedura di conferma, dall’art. 79 T.U. dirigenza.
6. Il problema della tempestività della valutazione di conferma.
Ma, una volta intervenuti con maggiore efficacia sulla procedura di conferma, occorre riflettere anche sulla capacità del sistema di governo autonomo di aggiungere ad effettività e concretezza della procedura anche un terzo, ma essenziale, requisito: quello della tempestività, in assenza del quale il ruolo del procedimento di conferma, definito più volte la vera chiave di volta della riforma della dirigenza giudiziaria, viene a perdere ogni concreta efficacia.
La maggiore pregnanza degli accertamenti svolti, infatti, non può avere un vero effetto positivo se ad essa non si accompagna una celere valutazione della sussistenza dei presupposti per la conferma nell’incarico da parte dei Consigli Giudiziari e da parte del CSM.
Le statistiche relative all’esame delle procedure di conferma rivelano come il Consiglio stia accumulando un ritardo significativo nella valutazione delle conferme, soprattutto dei semidirettivi, sì che vi è il rischio di vanificare la ratio dell’istituto: di fatto diversi magistrati, pur in presenza magari di pareri non positivi dei Consigli giudiziari, rimangono a ricoprire l’incarico per un tempo significativo successivamente alla scadenza del quadriennio, mentre altri vengono designati ad altro incarico senza sottoporsi alla più rigorosa analisi della procedura di conferma.
Nella consiliatura 2014-2018 si sono avute 128 delibere su conferme di direttivi e 313 delibere su conferme di semidirettivi, con un ritardo medio, rispetto alla scadenza del quadriennio, di 151 giorni per i direttivi e di 171 giorni per i semidirettivi. Nell’attuale consiliatura, 2018-2022, vi sono state 136 delibere in tema di conferma di direttivi e 240 in tema di conferma di semidirettivi, ed il ritardo medio è divenuto di 329 giorni.
Ad oggi (i dati sono del 6 aprile 2022) risultano pendenti in Quinta Commissione 342 pratiche inerenti procedure di conferma relativamente alle quali il quadriennio è già decorso, di cui 133 attinenti a incarichi direttivi (rispettivamente, con riferimento alla scadenza del quadriennio: 4 del 2019, 28 del 2020, 71 del 2021, 30 del 2022) e 209 relative ad incarichi semidirettivi (rispettivamente, con riferimento alla data di scadenza del quadriennio: 2 del 2015, 3 del 2017, 2 del 2018, 7 del 2019, 47 del 2020, 219 del 2021, 62 del 2022).
Di fatto, il conferimento di nuovo incarico, in assenza della conferma più penetrante come oggi disegnata nel Testo Unico riformato nella parte “conferme”, appare eventualità sempre più frequente, con il rischio della scarsa utilità dello sforzo, fatto dal Consiglio, di adeguamento della procedura alla sua effettiva finalità, e con la conseguenza che la conferma, da strumento correlato alla temporaneità finalizzata a sua volta ad arginare una eccessiva continuità dell’incarico direttivo, divenga invece strumento sostanzialmente “inutile”, in un sistema che soffre ormai dell’eccesso opposto, ossia la mancanza di stabilità dell’incarico direttivo e l’eccessiva mobilità dirigenziale.
7. Il progetto di riforma delle norme primarie.
Proprio con riferimento alle problematiche ora evidenziate, il progetto di riforma attualmente all’esame del Parlamento – sia nella sua versione originaria che a seguito degli emendamenti dell’attuale governo – si propone di intervenire con tre previsioni.
La prima consiste nella delega alla riduzione del numero dei posti semidirettivi, recependo la sollecitazione formulata in tal senso dal Consiglio nel parere del 21 aprile 2021.
La seconda consiste nell’innalzamento del termine di legittimazione per la presentazione di domanda per nuovo incarico a cinque anni[6], e nel ripristino del periodo di legittimazione per gli incarichi per i quali l’attuale 195 Ord. Giudiziario lo esclude (tra cui, in particolare, i presidenti ed i procuratori generali di Corte di appello[7]). Si tratta di proposta che consentirebbe di ridurre gli spostamenti, di rendere effettiva la conferma e di riportarla a momento di valutazione finalizzato a verificare la prosecuzione dell’incarico attualmente in corso. Su di essa il Consiglio si è espresso favorevolmente in due occasioni[8], osservando che la soluzione proposta si muove in “un’apprezzabile ottica di maggiore stabilità delle funzioni dirigenziali”, è utile anche ad “impedire che, attraverso l’escamotage di non chiedere la conferma, il magistrato acquisisca la legittimazione al trasferimento” prima dei cinque (sei) anni, ed inoltre riesce a bilanciare l’esigenza di stabilizzazione con quella di consentire il passaggio ad altre funzioni. Nel parere da ultimo espresso a marzo 2022, poi, il Consiglio ha auspicato, come ulteriore modifica, che il termine di legittimazione venga aumentato ad otto anni, cioè in misura pari alla durata dell’incarico, al fine di: assicurare stabilità nella dirigenza degli uffici; consentire una migliore programmazione delle attività della quinta commissione, che potrebbe procedere sempre a pubblicazioni anticipate rispetto alla scadenza dell’incarico e rispettare senza inconvenienti il criterio cronologico di trattazione delle pratiche; avere una riduzione del numero degli aspiranti, che renderebbe più snelle le procedure concorsuali.
La terza previsione attiene al caso del magistrato che, titolare di incarico direttivo o semidirettivo, non chiede, alla scadenza del quadriennio, una conferma nell’ufficio, conseguentemente non sottoponendosi - attualmente - alla procedura di valutazione. In questi casi, il disegno di legge delega il Governo a prevedere che l’attività svolta dal magistrato debba essere valutata comunque al termine del quadriennio; la valutazione dovrà poi essere tenuta in considerazione laddove il magistrato, successivamente, chieda di concorrere per il conferimento di altri incarichi direttivi o semidirettivi[9]. Anche su tale previsione il Consiglio si è espresso favorevolmente, vista la finalità di rendere nuovamente effettiva la verifica, anche in relazione a future domande di conferimento per successivi concorsi, della capacità di svolgimento delle funzioni dirigenziali nel quadriennio trascorso.
8. I casi concreti di non conferma ed il ruolo del governo autonomo.
Auspicando che gli interventi sulla normativa primaria e secondaria riportino effettività alla procedura di conferma, va anche fatta una riflessione sui presupposti sulla base dei quali il Consiglio, nei pochi casi in cui ciò è avvenuto, è giunto a deliberare la non conferma nell’incarico.
Limitando l’analisi alle ultime due consiliature, emerge che si sono avute nella consiliatura 2014-2018 tre delibere di non conferma: due riferite ad incarichi direttivi e fondate su criticità relative ai rapporti con il foro e con i colleghi, con particolare riferimento, sotto questo aspetto, al mancato rispetto dell’autonomia dei magistrati dell’ufficio ed all’incapacità di una gestione dell’ufficio partecipata e condivisa; una riferita ad incarico semidirettivo e fondata sulla valutazione di insussistenza dei pre requisiti di indipendenza, imparzialità ed equilibrio, anche alla luce della natura di un procedimento disciplinare che aveva interessato il magistrato.
Nell’attuale consiliatura, 2018-2022, e sino alla data odierna, si sono avute quattro delibere di non conferma: una relativa ad un incarico direttivo, successivamente però annullata dal giudice amministrativo, fondata sul difetto del prerequisito dell’indipendenza; tre relative ad incarichi semidirettivi (tuttora al vaglio del giudice amministrativo), la prima delle quali si fondava su difetti attinenti all’attitudine direttiva con stretto riferimento alla capacità organizzativa, mentre le altre due si sono fondate sul ritenuto difetto del prerequisito dell’indipendenza.
Appare sempre più frequente, quindi, che le criticità emerse – su segnalazione dei Consigli giudiziari o nascenti da pratiche pendenti presso la Prima commissione consiliare o da esiti di procedimenti disciplinari – e che poi conducono a valutazioni negative in punto conferma, attengano al difetto dei prerequisiti, ed in particolare del requisito, previsto dall’articolo 89 TU, della “indipendenza da impropri condizionamenti”.
Questo dato, che richiama non tanto ai risultati in termini di capacità organizzativa, quanto ai presupposti essenziali della funzione giudiziaria prima ancora che di quella direttiva, rende ancor più preoccupante il ritardo del sistema di governo autonomo nella conferma dei dirigenti.
Accanto alle modifiche normative appare necessario allora un maggiore impegno non solo del Consiglio, quest’ultimo allo stato da declinarsi soprattutto in termini di garanzia della tempestività, oltre che della serietà, della valutazione, ma anche da parte degli altri attori chiamati a contribuire alla verifica.
In primo luogo va richiamato l’impegno richiesto ai Consigli giudiziari, che dovranno utilizzare i maggiori poteri istruttori ed il maggior numero di fonti di conoscenza consentiti dalla nuova Circolare in tema di conferme: procedendo in modo più approfondito alla valutazione in concreto delle capacità organizzative, anche tramite il coordinamento tra i due settori di competenza dei consigli, quello dei pareri attitudinali e di professionalità e quello del controllo sui provvedimenti organizzativi; nonché prestando particolare attenzione all’aspetto della sussistenza dei requisiti dell’indipendenza ed imparzialità, anche avvalendosi della facoltà, riconosciuta espressamente ai Consigli giudiziari in tema di valutazioni di professionalità dalla relativa Circolare, ma espressamente estesa anche alle procedure di conferma dalla delibera del 13 maggio 2020 in tema di linee guida per i consigli giudiziari, di richiedere informazioni alla Prima commissione ed alla sezione disciplinare del consiglio, pur con l’accortezza di precisare che, delle informazioni eventualmente acquisite[10], il Consiglio giudiziario dovrà fare un utilizzo prudente, limitato “ad apprezzare i fatti nella loro consistenza oggettiva e per il rilievo che assumono con riguardo ai parametri previsti, senza svolgere ulteriori accertamenti”.
In secondo luogo, va attribuito giusto rilievo al ruolo dell’avvocatura. Sul punto, peraltro, come già osservato dal Consiglio nel parere reso in proposito, appare equilibrata la previsione dell’attuale Testo Unico, che prevede l’invito al Consiglio dell’Ordine trasmettere informazioni scritte in relazione a “eventuali fatti specifici e a situazioni oggettive rilevanti per la valutazione delle attitudini direttive riguardanti l’incarico oggetto di valutazione”, con specificazione anche dei profili di interesse[11]. Tale previsione costituisce equilibrato bilanciamento tra la tutela dell’indipendenza del magistrato e la possibilità di acquisire il contributo degli avvocati.
In terzo luogo, deve valorizzarsi il contributo dei magistrati stessi dell’ufficio. A questo riguardo, la previsione del progetto di riforma, che prevede l’acquisizione, nella procedura di conferma, di generici “pareri” dei magistrati dell’ufficio e del dirigente dell’ufficio giudiziario “dirimpettaio”, non appare utile né opportuna né portatrice di una sana dinamica interna all’ufficio: come osservato dal Consiglio, essa introduce impropriamente nella procedura non delle fonti di conoscenza, ma dei veri e propri giudizi valutativi (in ipotesi anche non collegati a fatti specifici), che paiono di difficile inquadramento nell’ambito del procedimento (connotato dall’acquisizione di fonti di conoscenza e da un conclusivo parere del Consiglio Giudiziario), che sono scollegati dal riferimento a “fatti”, e che anzi possono indurre improprie ricerche di consenso da parte del dirigente presso i magistrati, attraverso l’inerzia organizzativa o attraverso scelte organizzative finalizzate più ad acquisire il consenso dei magistrati che a fornire una buona organizzazione all’ufficio.
Al contrario, l’apporto dei magistrati dell’ufficio deve estrinsecarsi in primo luogo nei canali istituzionali previsti dall’ordinamento, ossia nella possibilità di presentare osservazioni ai provvedimenti organizzativi del dirigente, laddove ritenuti ingiusti o contrastanti con i principi dell’ordinamento, considerando che anche l’esito di tali provvedimenti è poi valutabile da parte del Consiglio Superiore in occasione della conferma del magistrato.
Inoltre, l’apporto dei magistrati dell’ufficio (così come di avvocati e personale amministrativo) potrà essere acquisito, ai sensi del nuovo art.83 del Testo unico sulla Dirigenza giudiziaria, attraverso l’audizione dei medesimi avanti il Consiglio Giudiziario, ove tale organo ravvisi “elementi di criticità potenzialmente rilevanti” ai fini dell’emissione del proprio parere. In tal modo, le informazioni da parte di chi vive quotidianamente l’ufficio giudiziario, strumento preziosissimo per la valutazione, vengono acquisite in modo corretto, sulla base di una motivata delibera del Consiglio giudiziario ed in relazione a specifici e ben delineati aspetti di criticità.
Un miglioramento del procedimento di conferma, insomma, non può fondarsi sull’acquisizione di elementi valutativi disancorati da fatti specifici, ma deve provenire, nell’ambito di un circuito istituzionale, attraverso la corretta partecipazione dei magistrati al governo autonomo della magistratura, che non è compito esclusivamente dei Consigli giudiziari e del Consiglio superiore, ma è rimesso nelle mani di tutti i magistrati.
[1] Riforma introdotta dalla l.d. n. 150 del 2005 ed attuata con il d.lgs. n. 160 del 2006, poi modificato dalla l. n. 111 del 2007.
[2] Così il Consiglio nel parere espresso il 12 giugno 2002, con considerazioni ribadite nel successivo parere del 22 maggio 2003.
[3] Peraltro accertata “nella diversa misura in cui – in relazione alla natura dell’incarico svolto (di direzione o di collaborazione alla funzione direttiva) e alle dimensioni dell’ufficio – la stessa rileva nella valutazione finalizzata alla scelta di dirigenti di uffici direttivi e di magistrati che esercitano funzioni semidirettive”
[4] Quanto ai semidirettivi, a fronte di una previsione normativa (art.47 ter Ord. Giud.) che fissa (per gli uffici di primo grado) un rapporto di 1 a 10 tra semidirettivi e magistrati, il rapporto medio tra magistrati ordinari e direttivi/semidirettivi risulta essere del 4,04 nelle Corti di appello, del 7,76 nei Tribunali, del 4,62 nelle Procure Generali presso le Corti d’appello, del 6,39 nelle Procure della Repubblica; come dati totali, vi sono 832 semidirettivi a fronte di 7.658 non semidirettivi.
[5] Fascicolo disponibile presso la VII Commissione del Consiglio e nel quale sono conservati tutti i provvedimenti organizzativi adottati dal dirigente nel periodo in valutazione e le deliberazioni assunte dal Consiglio in merito.
[6] Cinque nel progetto Bonafede, sei nel progetto Cartabia, di nuovo cinque nel progetto approvato dalla Camera.
[7] Viene abrogato l’articolo 195 O.G.. Rimarrebbe la previsione di un termine diverso solo per gli incarichi di Primo Presidente della Corte di cassazione e di Procuratore Generale presso la medesima Corte.
[8] Parere su progetto Bonafede, delibera 21 aprile 2021; parere su progetto Cartabia, delibera 23 marzo 2022.
[9] Questo principio di delega, si afferma, vuole superare l’attuale automatismo, previsto dall’art. 92 del TU, in base al quale «Il conferimento di un diverso incarico direttivo o semidirettivo, successivo alla scadenza del primo quadriennio, costituisce implicita valutazione positiva delle funzioni direttive o semidirettive in precedenza svolte, rendendo superflua l’adozione di una delibera espressa di conferma».
[10] Salve ragioni di riservatezza che consentono al consiglio di non rendere le richieste informazioni.
[11] a) rapporti con la classe forense e i relativi organismi di rappresentanza; b) raggiungimento di standard di efficienza nel lavoro giudiziario e amministrativo, in relazione al programma organizzativo dell’ufficio o alla risoluzione di particolari profili problematici; c) predisposizione e osservanza delle tabelle degli uffici giudicanti e dei programmi organizzativi degli uffici requirenti; d) gestione dei flussi e tempi di definizione dei procedimenti, anche alla stregua delle indicazioni contenute nelle tabelle, nel programma organizzativo e nel rapporto informativo annuale sull’andamento dell’ufficio; e) organizzazione del lavoro in relazione alla gestione degli affari, tenuto conto della loro complessità e dei carichi di lavoro; f) organizzazione del ruolo di udienza; g) vigilanza, nei casi previsti dall’Ordinamento giudiziario, nei confronti dei magistrati ordinari e onorari, degli Uffici del Giudice di Pace e degli Uffici NEP.
Brevi note sul riformato contraddittorio procedimentale in tema di interdittiva antimafia (nota a Ordinanza TAR Lecce, sez. III, n. 116/2022)
di Renato Rolli e Martina Maggiolini
Sommario: 1. Premessa - 2. Sulla recentissima riforma sul contraddittorio procedimentale - 3. Riflessioni conclusive.
1. Premessa
Il provvedimento che si annota rappresenta una delle prime applicazioni giurisprudenziali delle disposizioni emanate con il D.L. 6 novembre 2021 n. 152.
Il Giudice investito della causa, infatti, ritiene meritevole di accoglimento il motivo relativo alla violazione del nuovo comma 2 bis dell’art. 92 del D. Lgs. n. 159 del 2011, avendo mancato la Prefettura di dare “tempestiva comunicazione al soggetto interessato” della ritenuta sussistenza a suo carico dei presupposti per l’adozione dell’atto di conferma dell’informativa interdittiva antimafia.
Alla luce della novellata normativa, l’Ufficio Territoriale del Governo deve riavviare il procedimento al fine di operare, nel contraddittorio con la parte ricorrente ed entro il termine di venti giorni dalla comunicazione dell’ordinanza cautelare in commento, una complessiva ed organica rivalutazione del quadro giuridico e fattuale (anche) a fondamento dell’emissione di una nuova informazione interdittiva antimafia.
2. Sulla recentissima riforma sul contraddittorio procedimentale
Orbene, il decreto-legge n. 152/2021, recante disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose [1] apporta talune disposizioni dedicate a «investimenti e rafforzamento del sistema di prevenzione antimafia».
In questo contesto, la novità che qui ci occupa è la nuova declinazione del contraddittorio nel procedimento di rilascio delle misure interdittive [2].
Andando a ritroso, la disciplina previgente prevedeva la possibilità di adottare un’informazione interdittiva antimafia senza la previa instaurazione del contraddittorio procedimentale con il destinatario del provvedimento [3] poiché in subiecta materia non trovava spazio né la comunicazione di avvio ex art. 7 l. n. 241/90, né le altre garanzie partecipative, attese le intrinseche ragioni di urgenza presupposte all’adozione della misura preventiva.
Come già evidenziato in altre occasioni, il siffatto sistema destava dubbi interpretativi ed applicativi, sia in dottrina che in giurisprudenza, sicché veniva rinviata la questione alla Corte di giustizia dell’Unione europea al fine di ottenere una pronuncia in via pregiudiziale sulla compatibilità tra gli artt. 91, 92 e 93 cod. ant. ed il principio europeo del contraddittorio; la CGUE dichiarava l’irricevibilità della domanda ritenendo che la normativa censurata fosse posta al di là dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea [4].
Del resto, autorevole Dottrina ricorda infatti come: “la tematica ha, come noto, coinvolto anche la Corte di Giustizia e la Corte costituzionale, portandola a coniare la discutibile e discussa categoria della tassatività giurisprudenziale o giurisprudenza tipizzante, reputata [eccezionalmente] idonea a integrare i fisiologici limiti evolutivi del sistema normativo in una lotta contro un’organizzazione particolarmente forte, agguerrita e pericolosa, capace di elaborare sistemi sempre nuovi per sottrarsi alle regole scritte. La garanzia data dal decalogo giurisprudenziale tassativizzante consentirebbe quindi in questo particolare contesto di non ravvisare una lesione del principio di legalità dell’azione amministrativa, mentre i limiti del contraddittorio procedimentale (sui quali tornerò tra un attimo), sarebbero compensati dall’effettività della tutela giurisdizionale” [5].
Sul versante giurisprudenziale il Consiglio di Stato, ritornando sulla questione, pur avendo affermato che «l’informazione antimafia non richiede la necessaria osservanza del contraddittorio procedimentale» [6] evidenziava come il contraddittorio non fosse del tutto assente bensì meramente eventuale e da attivare a discrezionalità del Prefetto….
Dunque, l’art. 93, co. 7 cod. ant. riconosceva al Prefetto, ove ritenuto opportuno [7], la facoltà di invitare «i soggetti interessati a produrre […] ogni informazione ritenuta utile». La ratio sottesa alla compressione delle garanzie procedimentali veniva identificata nella necessità di contrastare il fenomeno dell’infiltrazione mafiosa che può essere inficiato dalla c.d. discovery ovvero dalla «conoscenza dell’imminente o probabile adozione di un provvedimento antimafia […], in quanto le associazioni mafiose sono ben capaci di ricorrere a tecniche elusive delle norme in materia» [8].
Altra giurisprudenza, unitamente alla dottrina maggioritaria, auspicava «un quantomeno parziale recupero delle garanzie procedimentali […] in tutte quelle ipotesi in cui la permeabilità mafiosa appaia alquanto dubbia, incerta, e presenti, per così dire, delle zone grigie o interstiziali, rispetto alle quali l’apporto procedimentale del soggetto potrebbe fornire utili elementi a chiarire alla stessa autorità procedente la natura dei rapporti tra il soggetto e le dinamiche, spesso ambigue e fluide, del mondo criminale» [9].
Sul punto, chi scrive da tempo riflette sulla necessità di effettuare un bilanciamento tra i valori in gioco al fine di evitare uno sproporzionato sacrificio del diritto di difesa che si riverserebbe su una grave limitazione di diritti costituzionalmente garantiti poiché si rammenta che la proporzionalità è ‘condizione di civiltà’ dell’azione amministrativa.
Inoltre è bene evidenziare altro aspetto della questione poiché la partecipazione procedimentale, ancor prima che doverosa alla luce del principio del giusto procedimento, sarebbe utile al Prefetto, nei termini di una più efficiente azione amministrativa rispondente al principio costituzionale del buon andamento della p.a.: consentirebbe di acquisir, un quadro istruttorio più completo ed idoneo ad evitare l’emissione di un provvedimento tanto incisivo sulla libertà di impresa da comportare, sovente, la ‘morte’ della stessa.
E, oggi, l’auspicata riforma [10], seppur in termini incerti e forse ancora inadeguati, è stata realizzata dal legislatore con il D.L. 6 novembre 2021 n. 152 che ha modificato l’art. 92 del Cod. ant. prevedendo che il prefetto, nel caso in cui, sulla base degli esiti delle verifiche disposte ai sensi del comma 2, ritenga sussistenti i presupposti per l’adozione dell’informazione antimafia interdittiva […], ne dà tempestiva comunicazione al soggetto interessato, indicando gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa.
Epperò, nei termini suddetti, seppur rivisitati rispetto al passato, il contraddittorio riscontra comunque ampie limitazioni poiché al destinatario non spetta alcuna comunicazione ove ricorrano particolari esigenze di celerità del procedimentospecularmente a quanto avviene in tema di comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L 241/90 [11].
Ed in più la normativa in commento prevede la preclusione della comunicazione di elementi informativi il cui disvelamento sia idoneo a pregiudicare procedimenti amministrativi o attività processuali in corso, ovvero l’esito di altri accertamenti finalizzati alla prevenzione delle infiltrazioni mafiose.
Dunque, dalla detta comunicazione decorre un termine, non superiore a venti giorni, entro cui il futuro destinatario può presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate da documenti, e richiedere l’audizione personale. Il nuovo art. 92, co. 2-bis, cod. ant. prevede poi che la comunicazione sospende, con decorrenza dalla relativa data di invio, il termine entro il quale il prefetto deve rilasciare l’informazione antimafia e che comunque il contraddittorio debba concludersi entro sessanta giorni dalla data di ricezione della comunicazione.
Inoltre, con l’intervento legislativo in commento, sono stati inseriti due ulteriori commi all’art. 92 cod. ant. In particolare, il nuovo comma 2-ter dell’art. 92 cod. ant. prevede che il prefetto: a) dispone l'applicazione delle misure di cui all'articolo 94-bis, dandone comunicazione, entro cinque giorni, all'interessato secondo le modalità stabilite dall'articolo 76, comma 6, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, qualora gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa siano riconducibili a situazioni di agevolazione occasionale; b) adotta l'informazione antimafia interdittiva, procedendo alla comunicazione all'interessato entro il termine e con le modalità di cui alla lettera a), nel caso di sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa. Il prefetto, adottata l'informazione antimafia interdittiva ai sensi della presente lettera, verifica altresì la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle misure di cui all'articolo 32, comma 10, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114 e, in caso positivo, ne informa tempestivamente il Presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione [12].
Il successivo comma 2-quater prevede che, ai fini dell’adozione dell’informazione interdittiva antimafia, possano essere valutate talune sopravvenienze verificatesi nel periodo tra la ricezione della comunicazione e la conclusione della procedura in contraddittorio, quali il cambiamento di sede, di denominazione, della ragione o dell'oggetto sociale, della composizione degli organi di amministrazione, direzione e vigilanza, la sostituzione degli organi sociali, della rappresentanza legale della società nonché della titolarità delle imprese individuali ovvero delle quote societarie, il compimento di fusioni o altre trasformazioni o comunque qualsiasi variazione dell'assetto sociale, organizzativo, gestionale e patrimoniale delle società e imprese interessate dai tentativi di infiltrazione mafiosa[13].
3. Riflessioni conclusive
Nei suddetti termini la riforma in commento non soddisfa le esigenze già avanzate da giurisprudenza e dottrina. In parte la dottrina si è già espressa sul punto ritenendo che l’«esigenza di difesa» sarebbe stata «pericolosamente posizionata in avanti, ossia nella fase in cui l’autorità abbia già raggiunto il convincimento della sussistenza dei presupposti per la applicazione delle misure, con ovvia difficoltà per il proposto di addurre nel ristretto termine di venti giorni elementi a propria difesa quando gli elementi ‘a carico ’ siano già condensati in un giudizio prognostico a lui totalmente sfavorevole» [14].
Invero, nei lavori preparatori della riforma si fa riferimento non alla comunicazione di avvio ex L. 241/90 bensì al preavviso di rigetto di cui all’articolo 10-bis L n. 241/1990 [15].
Neppure questo istituto risulta essere idoneo a coprire il perimetro e la funzione del contraddittorio procedimentale giacché la ‘comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza’ trova applicazione nei procedimenti ad istanza di parte, nei quali il contraddittorio tra interessato e PA si è già verificato; circostanza assente nel procedimento di rilascio dell’interdittiva antimafia.
Dunque, seppur sembra fortemente ampliato il campo di applicazione dell’istituto del contraddittorio procedimentale rispetto alla normativa previgente, risulta ancora estremamente ampia la discrezionalità prefettizia, non solo nei presupposti di emissione ma anche nella scelta di attivare o meno il contraddittorio procedimentale.
Trattasi di una forma di contraddittorio dimezzata ed eventuale la cui valutazione di utilità è demandata, ancora una volta, alla discrezionalità del prefetto.
È necessario considerare non solo le ferme posizioni della dottrina, ma anche le ormai cospicue pronunce sia della Corte di Giustizia che del Consiglio di Stato orientate verso l’interpretazione più garantista di questo istituto al fine di ripensare la disciplina in commento.
Non si può che auspicare un nuovo intervento normativo, decisivo e finale; un intervento che possa incidere fattivamente e non esclusivamente attraverso generiche ed asettiche previsioni sull’istituto i cui effetti determinano ed invadono la sfera del privato, talvolta, eludendo importanti garanzie costituzionali.
[1] Cfr. l. 29 dicembre 2021, n. 233, in G.U. n. 310 del 31 dicembre 2021, suppl. ordinario n. 48.
[2] La vecchia rubrica, «Termini per il rilascio delle informazioni», è stata così sostituita dall’art. 48, co. 1, lett. a), n. 1, d.lgs. n. 152/2021.
[3] Si consenta R. Rolli, M. Maggiolini, Informativa antimafia e contraddittorio procedimentale (nota a Cons. St. sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979), Giustiziainsieme, 2020
[4] V. Corte di giustizia dell’Unione europea, Sez. IX, 28 maggio 2020, n. 17
[5] Così M. A. Sandulli, Il contradittorio nel procedimento della nuova interdittiva antimafia, relazione tenuta al convegno “Il nuovo volto delle interdittive antimafia alla luce del piano nazionale di ripresa e resilienza”, Reggio Calabria, 8 Aprile 2022 ora in questa Rivista, Rapporti tra il giudizio sulla legittimità dell’informativa antimafia e l’istituto del controllo giudiziario, 12 maggio 2022.
[6] V. Cons. Stato, Sez. III, 23 gennaio 2020 (dep. 31 gennaio 2020), n. 820
[7] Sul punto si veda Le modifiche del d.l. 152/2021 al ‘codice antimafia’: maggiori garanzie nel procedimento di rilascio dell’interdittiva antimafia e nuove misure di ‘prevenzione collaborativa’, in Sistema Penale.it
[8] V. Cons. Stato, Sez. III, 30 aprile 2020 (dep. 6 maggio 2020), n. 2854
[9] V. Cons. Stato, Sez. III, 30 luglio 2020 (dep. 10 agosto 2020), n. 4979
[10] Sia consentito il rinvio a R. Rolli, M. Maggiolini, Informativa antimafia e contraddittorio procedimentale (nota a Cons. St. sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979), Giustiziainsieme, 2020
[11] Sul punto si vedano le osservazioni di M. A. Sandulli, Il contradittorio nel procedimento della nuova interdittiva antimafia, cit. : “ Se è però certamente vero che le esigenze di immediata efficacia e di “effetto sorpresa” delle misure di prevenzione antimafia, possono giustificare delle deroghe anche sul piano del contraddittorio procedimentale, imposto -anche a livello generale- “ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento”, è altrettanto evidente che la effettiva necessità e giustificabilità di tali deroghe deve essere valutata caso per caso, attraverso un necessario vaglio di proporzionalità, che tenga conto della grave incidenza che le misure interdittive antimafia esplicano su diritti fondamentali dei loro destinatari”.
[12] Art 92 comma 2-ter.
[13] Art 92 comma 2-quater.
[14] Osservatorio misure patrimoniali e di prevenzione dell’Unione delle camere penali italiane, Le modifiche legislative presentate dal Governo in materia di interdittive antimafia e controllo giudiziario
[15] Dossier 16 dicembre 2021, Disposizioni urgenti per l’attuazione del PNRR e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose, d.l. 152/2021 – A. C. 3354-A, p. 462.
L’opera-continente di Pasolini e gli pseudo-intellettuali di oggi
Intervista di Andrea Apollonio a Roberto Chiesi
Roberto Chiesi è uno dei più profondi e autorevoli conoscitori dell’opera pasoliniana, non solo per essere da molti anni il responsabile del Centro Studi – Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna (assoluto punto di riferimento per gli studiosi del Poeta), ma anche per aver cercato, nelle vesti di critico letterario, tracce del genio pasoliniano nell’odierno scenario artistico. Giustizia Insieme l’ha intervistato.
A cento anni dalla nascita, come viene percepito Pier Paolo Pasolini oggi?
Viene percepito in molti modi: in generale come l'artista che ha saputo comprendere e descrivere in anticipo come saremmo diventati, come un artista di dimensione rinascimentale e come l'intellettuale che ha pagato con la vita le sue idee.
I giovani come reagiscono alle opere di Pasolini?
Devo dire che rimango spesso impressionato dalle reazioni dei giovani lettori o spettatori di Pasolini, nel senso che spesso sono colpiti nel profondo dalle sue parole e dalle sue immagini. Riesce ancora a parlare molto alle loro coscienze, a stimolarli, a suscitare delle reazioni, a metterli in crisi nel senso più positivo del termine. È probabile che molti ragazzi scoprano in Pasolini un antidoto alla mediocrità contemporanea, alla malafede di tanti pseudo-intellettuali di oggi, alla loro aggressività priva di qualsiasi senso, alla loro dialettica che è intesa soltanto ad aggiudicarsi al miglior compratore. Sono in vendita, mentre Pasolini non lo era.
Molti temi che Pasolini aveva lanciato e rilanciato nella sua opera artistica - il rispetto della diversità, l'affermazione degli orientamenti sessuali, l'emancipazione femminile - sono oggi patrimonio comune. Ma secondo lei il modo con cui vengono trattati, è il modo con cui Pasolini avrebbe voluto venissero trattati?
Per la verità ho molti dubbi che oggi il rispetto della diversità sia veramente un bene comune. Anzi credo che sia in atto e non soltanto riguardo a questo, una pericolosa regressione, accompagnata da una reviviscenza del peggior moralismo, spesso travestito da progressismo. Per questo credo che Pasolini avrebbe detestato il nostro presente e avrebbe odiato, in particolare, la confusione indifferenziata di destra e di quel che resta della sinistra in molte, troppe questioni. Il fenomeno che ha portato all'attuale confusione, peraltro, inizia proprio negli anni Settanta e viene denunciato da Pasolini che subito ne coglie la pericolosità. Quando si smarriscono le differenze, si perde anche l'identità.
Nonostanti i tanti studi apparsi su Pasolini e Sciascia, è forse ancora in ombra il rapporto tra queste due figure di intellettuali. Cosa se ne può dire, oggi?
Non è in ombra: è appena uscito un corposo volume edito dal Centro Studi Pasolini di Casarsa e da Marsilio su Pasolini e Sciascia. Provavano entrambi un senso di profondo sdegno, di rabbia nei confronti della corruzione della classe politica e delle sue collusioni con la criminalità organizzata. Uno sdegno e una rabbia che si traducevano nella tensione a decifrare come funzionava questa degenerata classe politica e quali fossero gli effetti nefasti della sua azione.
È noto che Pasolini ha messo in luce le contraddizioni della modernità, in Italia e altrove - pensiamo alle sue riflessioni svolte in terra di Israele. Ma non ha potuto vedere gli abissali effetti della rivoluzione tecnologica e la conseguente "modernità virtuale", che tutti noi oggi viviamo. È un azzardo, ma giocando di fantasia: cosa avrebbe detto Pasolini di tutto questo?
Pasolini amava la fisicità della vita quindi avrebbe disprezzato la virtualità, l'avrebbe analizzata ma penso che l'avrebbe combattuta in tutto e per tutto come una sottocultura che aliena l'individuo dalla realtà delle cose. Il che, probabilmente, non gli avrebbe impedito di usarla, a modo suo, magari contro se stessa.
L’opera pasoliniana è stata segnata, soprattutto nell'ultimo periodo, da taluni eccessi artistici, parte di un discorso organico e carico di significato del poeta. E allora, a distanza di oltre quarant’anni, come vanno interpretati gli eccessi delle sue ultime opere, quali quelli che si scorgono nel suo ultimo film “Salò o le 120 giornate di Sodoma”?
Per la verità il gusto della provocazione e dell'eccesso agiva anche prima di Salò in Pasolini, si pensi alle tragedie della metà degli anni '60, Orgia e Affabulazione. Certo con l'ultimo film questa tendenza si radicalizza e il senso di questo intensificarsi della provocazione risiede, secondo me, nella rabbia e nella delusione che viveva nei confronti del presente e nella necessità che avvertiva di aggredirlo e quindi di aggredire gli spettatori mettendoli a disagio. Ma non si trattava di provocazioni gratuite: Salò è un film di grande complessità e uno dei suoi modelli di riferimento è l'Inferno di Dante. La violenza espressiva è solo uno strato dell'opera, sotto al quale si cela una macchina metaforica di grande complessità.
Pasolini ha avuto una tortuosa evoluzione artistica, spaziando dalla poesia degli esordi, alla narrativa, passando dalla saggistica e approdando alla cinematografia, che sembrava essere diventato il suo principale porto espressivo. Secondo lei è possibile dire in che modo si sarebbe ancora sviluppato il suo percorso artistico?
Impossibile. Ma dato che ha quasi sempre praticato varie forme d'arte contemporaneamente, si può presumere che avrebbe continuato a farlo.
E, specularmente, come sarebbe cambiata e come si sarebbe evoluta la cultura italiana se Pasolini non fosse stato barbaramente ucciso a poco più di cinquant'anni?
L'unica cosa che si può dire è che il suo degrado sarebbe stato più lento e problematico, proprio per la presenza critica e vitale del pensiero pasoliniano.
Quale è l'eredità più grande del poeta; e, sopratutto, chi ha raccolto la sua eredità? Se l'ha raccolta qualcuno...
Non credo nessuno. Ma in compenso esistono tanti artisti importanti che si sono “nutriti” dell'opera e del pensiero di Pasolini senza diventare degli epigoni, per fortuna. Per quanto riguarda il cinema, pensiamo a Matteo Garrone, che non si può assolutamente definire un imitatore di Pasolini ma ha un suo stile e un suo modo di raccontare, con delle interessanti e autonome analogie rispetto al cinema pasoliniano. Pensiamo anche a film italiani come Su Re (2012) di Giovanni Columbu, un'originale interpretazione della Passione di Cristo, il notevole Agadah (2017) di Alberto Rondalli, che si ispira a Potocki ma ricorda a tratti la sensualità favolosa del Fiore delle Mille e una notte, e i recenti Re Granchio di Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi, e Piccolo corpo di Laura Samani.
Da ultimo: cosa rappresenta per lei la figura di Pier Paolo Pasolini?
Per me rappresenta una figura chiave per comprendere alcuni fenomeni nodali che hanno segnato la vita del Paese negli ultimi 50-60 anni e, di per sé, l'autore di un'opera-continente di importanza fondamentale, dove la poesia, la narrativa, il cinema, la saggistica, il teatro hanno raggiunto risultati geniali e di eccezionale spessore.
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