Sommario: 1. Il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 del d.lgs. n. 546/1992 – 2. La prova nel processo tributario: l’equivoco interpretativo della Corte di Cassazione - 3. Il comma 5-bis tra interpretazione conservativa e prime aperture giurisprudenziali - 4. Considerazioni conclusive.
1. Il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 del d.lgs. n. 546/1992
In questa mia relazione mi soffermerò sulla legge n. 130 del 31 agosto 2022 e sui decreti attuativi della successiva legge delega n. 111 del 9 agosto 2023 che costituiscono, almeno ad avviso della maggioranza della dottrina, un’importante svolta nella disciplina della prova nel processo tributario. Qui voglio intrattenermi soprattutto sul disposto centrale dell’art. 6 della suddetta legge n. 130 che, introducendo nell’art. 7 del d.lgs. n. 546/1992 un nuovo comma 5-bis, ha stabilito, da una parte, che «l’amministrazione deve provare in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato» e, dall’altra, che «il giudice deve fondare la (sua) decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annullare l’atto impositivo se la prova della fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa e l’irrogazione delle sanzioni».
Dico subito che, almeno a livello dottrinario, si è tutti d’accordo che la nuova norma può costituire un primo decisivo passo avanti verso un processo tributario maturo e, soprattutto, “giusto” ex art. 111 Cost. sotto il profilo del contraddittorio e della parità delle parti. Pur non stravolgendo “a monte” il tradizionale assetto del sistema in tema di distribuzione dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c.[1], essa esprime infatti quantomeno la positiva volontà del legislatore di chiarire le regole con cui questo onere deve funzionare in concreto[2]. Anche se, forse esagerando, è stata considerata da una parte della dottrina[3] “una mistura di parole prive di sorveglianza anche stilistica”, mi pare che la previsione da essa introdotta sia comunque importante, perché pone in capo all’Amministrazione finanziaria il più rigoroso dovere di dare in giudizio una prova esatta, circostanziata, puntuale e specifica dei fondamenti di fatto della pretesa impositiva e delle relative sanzioni. Una prova, cioè, basata non più su un qualunque elemento argomentativo, bensì solo su elementi dotati di uno specifico rango dimostrativo in grado di avvalorare in modo compiuto e completo la pretesa a giudizio; con la conseguenza che gli atti tributari che dovessero risultare privi di “ragioni oggettive” perché non adeguatamente provati dall’Amministrazione sarebbero considerati illegittimi[4].
Sono, quindi, d’accordo con quegli studiosi che hanno ritenuto che con tale disposizione il legislatore abbia inteso imprimere al giudizio tributario la stessa impronta garantista che caratterizza il processo penale. In effetti, così come nel processo penale l’imputato deve essere assolto «quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova…» (art. 530 c.p.p.), allo stesso modo nel processo tributario l’atto deve essere annullato «quando la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o […] è comunque insufficiente…». Sotto questo aspetto sono, in particolare, apprezzabili quelle linee di pensiero (Viotto, Golisano[5]) che, muovendo dal menzionato parallelismo, non hanno mancato di osservare come la nuova norma, sostituendo alla regola della “preponderance of evidence” di derivazione civilistica la regola della “clear and convincing evidence” assai prossima al modello penale, abbia inteso “spazzare via” ogni retaggio della regola in dubio pro fisco e, conseguentemente, sancire la regola opposta dell’in dubio pro contribuente, da “declinare” nel senso che la prova, che l’Amministrazione produce in giudizio, deve condurre a ritenere la pretesa fondata al di là di ogni ragionevole dubbio.
È proprio in ciò che risiede il pregio della riforma[6]. Non deve infatti dimenticarsi che, nel porre a carico dell’Amministrazione finanziaria un onere probatorio dotato di quel “livello” di robustezza che consente al Giudicante di formarsi il convincimento della fondatezza del credito erariale al di là di ogni ragionevole dubbio, il legislatore ha voluto finalmente alleggerire (direi “riequilibrare”) la posizione del contribuente, frapponendo rigidi paletti in termini di qualità e valutazione delle prove (specie dello strumento presuntivo) ed evitando così di scaricare su di esso oneri probatori difficili se non addirittura impossibili da soddisfare. Non posso, perciò, non condividere quelle osservazioni di Pasquale Russo[7] che evidenziano letteralmente come il nuovo comma 5-bis abbia, a ben vedere, inteso “metter un argine alla deriva giurisprudenziale nel ricorrere con frequenza a presunzioni semplici a carico del contribuente che o sono […] prive di valore inferenziale, o rilevano quali meri indizi come tali da soli non [idonei ad] assurgere a dignità di prova”.
Ovviamente ciò non significa che le presunzioni semplici non possano continuare a trovare ingresso nel processo tributario quali prove “per induzione” [8]. Esse non si differenziano infatti, per funzione e struttura, da quelle disciplinate dagli artt. 2727 e 2729 c.c., costituendo una prova in senso proprio e, più precisamente, una prova piena, indiretta e critica. Significa solo che esse, perché si rivelino idonee a fondare la pretesa a giudizio, “debbano possedere in sé – come dice Alessandro Giovannini[9] – il tratto della più alta approssimazione possibile del fatto ignorato alla storicità degli accadimenti”. Il che è come dire che, come nel processo penale ai sensi dell’art. 192, comma 2 c.p.p. gli “indizi” assurgono a mezzo di prova a condizione che essi determinino nell’organo giudicante “un’elevata intensità persuasiva di ogni singolo strumento gnoseologico”, così nel processo tributario il giudice ben potrà – alla luce del nuovo comma 5-bis – ammettere la presunzione fondata su un “quadro indiziario”, sempre che esso non si riduca a un semplice principio di prova, ossia a una base meramente congetturale, dalla quale discenda poi, in modo improprio e distorto, l’inversione dell’onere della prova in capo al contribuente, chiamato a dimostrare con pienezza e rigore l’insussistenza della pretesa impositiva. Sarà, perciò, una prerogativa del Giudice tributario verificare in concreto che gli elementi indiziari non si arrestino ad una prova “prima facie”, “non si contraddicano o si elidano vicendevolmente, dovendo tutti concorrere a favore di una ricostruzione possibile” tale per cui non residuino significativi margini di dubbio circa la fondatezza della pretesa portata a giudizio [10].
2. La prova nel processo tributario: l’equivoco interpretativo della Corte di Cassazione
Si deve però constatare con rammarico che, a fronte di una lodevole giurisprudenza delle Corti di merito nel senso di cui ho finora detto[11], la Corte di Cassazione ha invece optato per una lettura del tutto svalutativa della nuova previsione, affermando – richiamo qui di seguito i passaggi cruciali – che “il comma 5 bis dell’art. 7 d.lgs. n. 546/1992”:
1) non ha comportato “alcuna inversione della normale ripartizione dell’onere probatorio”, né ha precluso “il ricorso alle presunzioni semplici […] ossia agli indizi che, se gravi, precisi e concordanti, integrano ex artt. 2727 e 2729 cod. civ. la prova richiesta dall’art. 2697 c.c.”;
2) ha, viceversa, soltanto formalizzato “una regola generale già ricavabile dal sistema” (ossia quella secondo cui “spetta all’Amministrazione dimostrare il fondamento della pretesa avanzata nei confronti del contribuente”) in coerenza “con le…modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale”.
Tale ricostruzione – che ha condotto a pronunce sempre confermative della sostanziale legittimità degli atti fondati sull’esclusivo utilizzo di presunzioni pro-fisco[12] – non è, a mio avviso, condivisibile nella misura in cui essa, muovendo dai suddetti assunti, perviene alla (inaccettabile) conclusione che la nuova previsione normativa non ha stabilito “un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia” e, conseguentemente, non “ha fissato limiti di sorta al modo in cui la [prova] deve essere fornita” e, quindi, valutata dal giudice.
Che invece l’Amministrazione sia ora tenuta a dimostrare “a 360 gradi” la pretesa a giudizio, senza potersi “appiattire” su un isolato corredo indiziario, è a mio avviso un caposaldo sorretto da almeno tre ordini di ragioni.
In primo luogo, ricordo come già nel contesto delle diverse sedute parlamentari che hanno condotto all’approvazione del novellato comma 5-bis, si sia a più riprese evidenziata l’esistenza di “un principio nel nostro ordinamento, grazie a questo intervento legislativo, che pone a carico dell'amministrazione tributaria l'onere della prova della sua pretesa impositiva e non […] lo scarica tutto a carico del contribuente come finora è stato, tanto per sottolineare il valore profondamente riformatore dell'intervento” [13].
In secondo luogo, non si può sottacere come la lettura offerta dalla Cassazione sia destinata ad assumere una connotazione sostanzialmente apodittica a seguito delle modifiche legislative in tema di motivazione apportate allo Statuto dei diritti del contribuente. Va infatti osservato che la legge delega n. 111/2023 per la riforma fiscale ha fissato - in linea con quanto avevo prospettato sin dal 2001[14] - il preciso obiettivo di “rafforzare l’obbligo di motivazione degli atti impositivi, anche mediante l’indicazione delle prove su cui si fonda la pretesa”, ponendo espressamente in capo all’Amministrazione finanziaria il dovere di indicare in maniera circostanziata, nella parte motivazionale degli atti impositivi e sanzionatori, anche le prove raccolte a supporto della tesi accertativa, dovendosi - in loro mancanza - procedere all’annullamento di essi (cfr. art. 7, co. 1 dello Statuto, come modificato dall’art. 1, co. 1, lett. f), del d.lgs. n. 219/2023). E poiché per effetto di tali modifiche normative la “prova” – la stessa che l’Amministrazione finanziaria deve produrre in giudizio “in modo circostanziato e puntuale” – è adesso anticipata ed esplicitamente “relegata” al momento del “confezionamento” dell’atto impositivo o sanzionatorio, non può non ritenersi che è venuto conseguentemente meno anche l’unico già debole argomento a sostegno dell’interpretazione “svalutativa” adottata finora dalla giurisprudenza di legittimità. Non è più corretto, cioè, ritenere – come ha ritenuto finora la Cassazione – che… “la norma in commento non ha fatto altro che confermare un principio immanente nell’ordinamento tributario” in coerenza “con le […] modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale”. Quell’“istruttoria dibattimentale” richiamata dalla Suprema Corte a fondamento del proprio convincimento assume, infatti, un ruolo ormai marginale e non più “centrale” se si considera che, in aggiunta a quanto appena ricordato circa il momento di “formazione” della prova in una fase anticipata al giudizio:
– da una parte, il giudice tributario nell’esercizio dei propri poteri istruttori non potrà più “sostituirsi” alle parti, essendo il suo potere esercitabile soltanto in funzione integrativa “nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, quando gli elementi…già in atti o acquisiti non siano sufficienti per pronunziare una sentenza ragionevolmente motivata” (così Cass. n. 12383/2021);
– dall’altra parte, a seguito dell’introduzione del nuovo comma 1-bis nell’art. 7 dello Statuto, è ormai preclusa all’Amministrazione finanziaria la possibilità di introdurre nel processo nuovi mezzi di prova non espressamente indicati nell’atto impositivo/sanzionatorio. Così, infatti, tale comma dispone: “I fatti e i mezzi di prova a fondamento dell'atto non possono essere successivamente modificati, integrati o sostituiti se non attraverso l'adozione di un ulteriore atto, ove ne ricorrano i presupposti e non siano maturate decadenze”.
Ne consegue che la tesi della Cassazione, secondo cui il nuovo comma 5-bis non stabilirebbe “un onere diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia”, è in via di principio smentita nei suoi stessi presupposti, divenendo ora avulsa dall’attuale assetto legislativo[15] [16].
Vi è infine una terza ragione, di ordine soprattutto sistematico, che a mio avviso indebolisce ulteriormente la tesi propugnata dalla Suprema Corte. Come noto, l’art. 21-bis del d.lgs. n. 74/2000, introdotto dall’art. 1, lett. m), del d.lgs. n. 87/2024 (rubricato “Efficacia delle sentenze penali nel processo tributario e nel processo di Cassazione”), recepisce i principi e i criteri direttivi della richiamata legge delega n. 111/2023 e stabilisce che, qualora a seguito di dibattimento sia pronunciata una sentenza penale definitiva di assoluzione con la formula (piena) “il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso”, il giudice tributario deve attenersi a tale accertamento, che assume efficacia di giudicato per i fatti materiali riconosciuti in sede penale.
In tale contesto, se si accogliesse l’impostazione “svalutativa” fatta propria dalla Cassazione, si determinerebbe una situazione che definirei paradossale. Infatti, come osserva Loris Tosi[17], a fronte di una medesima contestazione recata dall’Amministrazione finanziaria, vi sarebbero, da un lato, contribuenti chiamati a concorrere alle spese pubbliche sulla base di un reddito accertato in sede penale (e, conseguentemente, trasfuso con efficacia di giudicato nel processo tributario), dall’altro, contribuenti obbligati a farlo in base a un reddito ricostruito direttamente dal giudice tributario secondo una logica e un apparato probatorio assolutamente diversi. L’accertamento sarebbe fondato, nel primo caso, su criteri più rigorosi e dimostrazioni pienamente convincenti; nel secondo caso sulla base, invece, di presunzioni o ricostruzioni probabilistiche: pervenendosi, così, a decisioni fondate su standard probatori eterogenei, in manifesta violazione dei canoni di eguaglianza, ragionevolezza e capacità contributiva di cui agli artt. 3 e 53 Cost. [18]
È evidente che, un’interpretazione del co. 5-bis che ne valorizzi, invece, il tenore letterale e la ratio, come emergente dai lavori preparatori, ridurrebbe sensibilmente il rischio di simili distorsioni, allineando il giudizio tributario a quello penale e rafforzando la tutela del contribuente in termini di coerenza e uniformità del sistema. Appare chiaro, allora, che la nuova norma non ha soltanto formalizzato “una regola generale già ricavabile dal sistema”. Al contrario, ha previsto un criterio probatorio “rafforzato”, che evidenzia un sostanziale avvicinamento tra due ambiti giurisdizionali tale per cui, in conformità al modello probatorio proprio del processo penale, anche nel giudizio tributario l’onere della prova non può dirsi assolto tramite semplici elementi di verosimiglianza, ma deve poggiare su un impianto probatorio solido e ben strutturato.
3. Il comma 5-bis tra interpretazione conservativa e prime aperture giurisprudenziali
Insomma, mi sembra si possa dire che con le richiamate sentenze la Corte di Cassazione non solo ha finora completamente ignorato l’intento “chiarificatore” della riforma, ma – in un’ottica più generale e di sistema – ha anche un po’ troppo frettolosamente trascurato i canoni fondamentali di ermeneutica giuridica non tenendo nel dovuto conto che è compito dell’interprete attribuire alle nuove disposizioni normative un significato effettivo, che modifichi o integri l’assetto precedente[19]. Voglio dire cioè che, prima di concludere che una norma non produce alcun effetto, limitandosi a ribadire regole già vigenti, sarebbe necessario verificarne con attenzione la portata e la funzione, al fine di evitare che la stessa sia considerata inutiliter data o, addirittura, tamquam non esset. Una lettura che annulli o svuoti il contenuto precettivo di una disposizione approvata dal Parlamento finisce, infatti, per mortificare il ruolo stesso del legislatore, riducendone l’attività a un esercizio privo di utilità concreta[20].
In tale prospettiva, qualora si ritenga che una norma sia ingiusta o in contrasto con i principi costituzionali e/o sovranazionali, esistono strumenti istituzionali idonei a contestarne la legittimità: dal giudizio di costituzionalità fino alla disapplicazione per contrasto con il diritto unionale. Ma ciò che non è mai ammissibile è un’interpretazione che svuoti il significato normativo della disposizione, come se essa non esistesse[21]. Tanto più quando ci si trova di fronte, come nel caso del comma 5-bis dell’art. 7 del d.lgs. n. 546/1992, a un testo chiaro e reiterato nei suoi contenuti, espressamente finalizzato – come emerge dai lavori parlamentari – a correggere prassi non conformi ad un “modello di fisco moderno ed equo”.
Mi auguro che nel prosieguo la Corte di Cassazione addivenga alla corretta applicazione di tali principi nel senso che ho appena indicato. E forse un primo “passo avanti” essa lo ha fatto prendendo atto (seppur timidamente) che “l'art. 7, comma 5 bis, del D.Lgs. n. 546 del 1992 […] sembrerebbe porre limiti più stringenti all'Amministrazione finanziaria […] all'utilizzazione delle presunzioni […] giurisprudenziali, richiedendo al giudice un penetrante controllo di coerenza normativa e di idoneità dimostrativa della presunzione utilizzata” (così Cass. n. 21401 del 30 luglio 2024 e, in senso conforme Cass. n. 21398/2024 e Cass. n. 21183/2024).
Non si dimentichi comunque che, ancor più incisivamente, la stessa Suprema Corte, muovendosi su questo fronte, non ha mancato di evidenziare che “la necessità di una valutazione complessiva delle presunzioni offerte dall'Ufficio è oggi specificamente richiesta dall'art. 7, comma 5 bis, del D.Lgs. 31 dicembre 1992 […]. Detta disposizione va infatti, interpretata nel senso per il quale le cd. presunzioni giurisprudenziali (diverse da quelle conseguenti ad espresse previsioni di legge) devono essere sufficienti e circostanziate e, come tali, oggetto di opportuna valutazione da parte del giudice di merito” (così Cass. n. 16629 del 14 giugno 2024). Ciò nel presupposto che la nuova disposizione “detta al giudice tributario le regole di valutazione della prova, stabilendo che se questa, anche presuntiva, fornita dall’amministrazione, quando ne è onerata, è contraddittoria o insufficiente, allora il giudice deve annullare l’atto impositivo” (così Cass. civ., n. 16493 del 2024).
Queste decisioni aprono un seppur timido varco verso l’interpretazione che ho appena indicato. Ma la strada da percorrere è ancora lunga.
4. Considerazioni conclusive
Quanto finora detto mi porta a dire che, allo stato, la riforma in materia di onere della prova su cui ci siamo oggi soffermati, pur essendo un apprezzabile punto di partenza per una disciplina razionale e organica del processo tributario, difficilmente potrà esplicare appieno i propri frutti nell’immediato.
La giurisprudenza di legittimità dovrebbe, infatti, giungere ad una “apertura” – che per ora, si è visto, non c’è[22] – tale da imporre definitivamente all’Amministrazione di dimostrare con pienezza e rigore la sussistenza della pretesa impositiva e, parallelamente, ai giudici di valutare con grande cura, attenzione e precisione il materiale probatorio versato in giudizio e la prova raggiunta.
Una tale “presa di posizione” non dovrebbe essere “scansata” dalla Suprema Corte per timore di compromettere i suoi orientamenti ormai consolidati. Come ho detto sin dall’inizio, infatti, la modifica legislativa in questione non intende affatto escludere la perdurante operatività della regola generale dell’onere della prova nel giudizio tributario (art. 2697 c.c.) [23] quanto piuttosto precisarne le modalità applicative, adattandole alla specificità di tale processo. Il che significa che per il tramite della riforma non viene meno – ma anzi si rafforza definitivamente – la validità di quelle massime giurisprudenziali sempre più frequentemente richiamate dalla stessa Corte, secondo cui “nel processo tributario l’amministrazione finanziaria è attore in senso sostanziale e quindi su di essa grava l’onere della prova della pretesa adottata con l’accertamento, mentre l’onere del contribuente di provare elementi in senso contrario scatta solo quando dall’ufficio siano stati forniti indizi sufficienti per affermare la sussistenza dell’obbligazione tributaria” (per tutte, Cass. n. 905/2006). Con la sola, ma significativa, precisazione – aggiungerei io – che questi “indizi sufficienti”, perché rispondano al nuovo dettato normativo, dovranno in futuro condurre all’emersione di una vera e propria prova “circostanziata e puntuale” che consenta di affermare al di là di ogni ragionevole dubbio “la sussistenza dell’obbligazione tributaria”.
Tirando le somme, la lettura che qui intendo proporre (coerente, per quanto fin qui esposto, con i tradizionali canoni giurisprudenziali) è, per certi versi, avvicinabile a quella di alcuni commentatori, per i quali il comma 5-bis dell’art. 7 d.lgs. n. 546/1992, attribuendo – come si è visto – all’Amministrazione finanziaria l’onere di fornire una prova specifica dei presupposti di fatto della pretesa impositiva, costituisce una norma di interpretazione autentica dell’art. 2697 c.c.[24], con ciò intendendosi che l’espressione “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento” recata da quest’ultima disposizione (tuttora applicabile[25]) deve oggi essere letta, in ambito tributario, in senso più rigoroso e garantista per il contribuente, imponendo all’Amministrazione di dimostrare i “fatti” a “fondamento” della propria pretesa non più con isolati indizi, bensì attraverso elementi dotati di effettivo valore dimostrativo, idonei a sostenere in modo completo e coerente la legittimità del recupero impositivo [26].
Non va poi trascurato che, dalla possibile qualificazione del comma 5-bis come norma di interpretazione autentica, discenderebbe un’ulteriore importante conseguenza anche sul piano del diritto intertemporale. In tal senso, la norma dovrebbe ritenersi applicabile pure ai giudizi instaurati prima della sua entrata in vigore (16 settembre 2022), in quanto diretta a precisare il significato di una disposizione già presente nell’ordinamento[27]. Si tratta, è bene chiarirlo, di un’interpretazione che si contrappone a quella attualmente accolta dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha qualificato il comma 5-bis come norma “sostanziale” e non retroattiva, escludendone l’applicazione ai processi pendenti alla data della sua introduzione[28]. Sarebbe, dunque, opportuno che la Suprema Corte affrontasse con maggiore chiarezza anche tale profilo, pervenendo nel complesso a una riconsiderazione sistematica del comma 5-bis coerente con la lettura che si è fin qui proposto. Del resto, anche quella parte della dottrina che nega la retroattività della norma evidenzia correttamente l’intrinseca contraddizione dell’impostazione finora adottata dalla Cassazione. Se, infatti, come afferma la Corte, la disposizione “ha effetti sostanziali e […] non [è] applicabile ai giudizi in corso”, allora – proprio in ragione di tale affermazione e in contrasto con quanto la stessa Corte sostiene – “se ne dovrebbe affermare una portata […] innovativa” [29].
Né una tale auspicata complessiva “rivisitazione” – è il caso di aggiungere in via conclusiva – troverebbe ostacolo nel solo fatto che essa, nel ricordato progressivo avvicinamento del processo tributario al modello penale - possa apparire, a prima vista, in contrasto con l’impostazione delineata dall’art. 1, co. 2 del d.lgs. n. 546/1992, il quale individua nel c.p.c. lo schema processuale di riferimento per il processo tributario [30]. Tale disposizione prevede, infatti, l’applicazione delle regole processual-civilistiche solo in quanto “compatibili” con le norme del contenzioso tributario. Conseguentemente, non può dirsi in antitesi né con i principi che informano tale processo né tantomeno con l’impianto ordinamentale nel suo complesso il fatto che il comma 5-bis, rievocando la logica probatoria sottesa all’art. 530 c.p.p., orienti chiaramente – in punto di onus probandi e, dunque, di concreta applicazione della regola generale di cui all’art. 2697 c.c. nel contenzioso tributario – verso il modello penale, con le implicazioni che ho sopra evidenziate.
Questo testo riporta la relazione svolta dall’Autore al convegno su “La prova nel diritto tributario”, organizzato dalla Fondazione Antonio e Victor Uckmar, svoltosi a Roma il 24-25 ottobre 2025.
[1] Sul carattere ricognitivo della nuova norma rispetto alla disposizione civilistica si veda A. GIOVANNINI, L’onere della prova, in A. Giovannini (a cura di), La riforma fiscale. I diritti e i procedimenti, II, Pisa, 2024, p. 267. In senso conforme v. anche P. RUSSO, Problemi in tema di prova nel processo tributario dopo la riforma della giustizia tributaria, in Riv. tel. dir. trib., Editoriale del 7 dicembre 2022, nonché A. Carinci, La riforma dell’onere della prova nel processo tributario, in Memento fiscale, 26 settembre 2023.
[2] Sul punto, oltre al richiamato A. Carinci, op. cit., v. C. Glendi, La nuovissima stagione della giustizia tributaria riformata, in Dir. prat. trib., 2022, p. 1140; S. Muleo, Onere della prova, disponibilità e valutazione delle prove nel processo tributario rivisitato, in AA.VV., La riforma della giustizia e del processo tributario, a cura di A. Carinci e F. Pistolesi, Milano, 2023, p. 83 ss.
[3] A. GIOVANNINI, Sulla presunzione di onestà del contribuente e sulle prove, in Rivista Trimestrale di Diritto Tributario, Fasc. 2/2023.
[4] E ciò sia che si controverta di maggiori ricavi, sia che si tratti di minori costi nell’ambito del reddito d’impresa. Si è osservato in dottrina che il nuovo comma 5-bis segna il definitivo superamento della consolidata tesi giurisprudenziale (v. per tutte Cass. n. 12127/2022) secondo la quale spetterebbe, da un lato, all’Amministrazione finanziaria l’onere di provare i fatti “costitutivi” della pretesa fiscale (i.e. l’esistenza di maggiori ricavi sottratti a tassazione) e, dall’altro, al contribuente l’onere di provare i fatti “impeditivi”, “modificativi” o “estintivi” di quella medesima pretesa (i.e. l’esistenza di maggiori costi). Ciò non solo perché “nel reddito di impresa (ma anche di lavoro autonomo) i costi non sono elementi impeditivi, modificativi o estintivi di un’obbligazione riconducibile ai ricavi, ma sono elementi che, al pari dei ricavi, concorrono a far sorgere l’obbligazione tributaria e a determinarne il contenuto […]. Quindi, i costi sono componenti del reddito (“formanti” potremmo dire con altro linguaggio) e non fatti impeditivi; e tanto meno fatti modificativi o estintivi” (cfr. VANZ, Genesi, struttura e ricadute sull’interpretazione della nuova disposizione sull’onere della prova nel processo tributario, in Riv. dir. trib. del 13 marzo 2025, p. 9 e Autori ivi citati), ma anche e soprattutto perché, alla luce del nuovo assetto legislativo: “sembra sostenibile che tutti i fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato debbano qualificarsi come “fatti costitutivi” della pretesa in considerazione dell’evidenza che gli stessi confluiscono nel provvedimento che trova oggetto di impugnazione, gravando, in tal modo, l’onere della prova sempre sulla parte pubblica a tutela dello status libertatis”; con la conseguenza che “non appare più sostenibile una differente qualificazione, in relazione alla regola di giudizio fondata sul riparto dell’onere della prova, delle componenti (positive o negative) di reddito, confluendo le stesse […] nei fatti costitutivi della pretesa e, in conseguenza della predeterminazione soggettiva enunciata dalla novella, gravanti, come onere soggettivo, sull’Ente impositore” (così V. DE BONIS, Il “terrapiattismo” e l’onere della prova nel processo tributario: i cento frisoni e la retorica Galileiana, in Dir. prat. trib., 3, 2025, p. 914). In senso conforme, si veda S. MULEO, Onere della prova, disponibilità e valutazione delle prove nel processo tributario rivisitato, in A. Carinci – F. Pistolesi (a cura di), La riforma della giustizia e del processo tributario. Commentario alla legge 31 agosto 2022, n. 130, Milano, 2023, p. 94. Nello stesso senso, si vedano S. DONATELLI, L’onere della prova nella riforma del processo tributario, in Rass. trib., 1, 2023, pp. 28 e 41; N. SARTORI, I limiti probatori nel processo tributario, Torino, 2023, p. 80; G. G. SCANU, Motivazione e onere della prova nel processo tributario riformato, in Riv. trim. dir. trib., 4, 2023, p. 923. Contra la singolare posizione di M. CATALDI (La norma generale sull’onere della prova, in Il diritto tributario nella stagione delle riforme, Giustizia insieme, 2024, 71 ss.), il quale, muovendo dal presupposto secondo cui il nuovo comma 5-bis “appare […] sostanzialmente ribadire la regola generale ricavabile dallo stesso art. 2697 c.c.”, giunge all’inaccettabile conclusione (fatta inopinatamente propria, come dirò infra, dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione) che la disposizione in commento nulla innoverebbe, né introdurrebbe un’interpretazione diversa rispetto al passato; con la conseguenza che essa, da un lato, non renderebbe “irrilevante la scomposizione della fattispecie da giudicare in fatti costitutivi, estintivi e modificativi”, non sposterebbe “sull’Amministrazione, creditrice sostanziale, […] l’onere di provare ogni elemento della fattispecie” né, tantomeno, “escluderebbe ogni rilevanza del principio di vicinanza nella materia tributaria”.
[5] Cfr. A. Viotto, Prime riflessioni sulla riforma dell’onere della prova nel giudizio tributario, in Rass. trib., 2, 2023, p. 336. In senso analogo, M. Golisano, Riflessioni in ordine all’impatto del nuovo comma 5-bis, art. 7, D.Lgs. n. 546/1992 in riferimento alle imposte indirette, in Riv. tel. dir. trib., 15 giugno 2023, p. 4.
[6] La dottrina è quasi all’unisono concorde nel ritenere che l’introduzione del nuovo co. 5-bis imporrà al giudice una valutazione molto più rigorosa e stringente del materiale probatorio prodotto dall’Amministrazione finanziaria: si vedano, oltre agli autori indicati nelle precedenti note, C. Caimi-N. Pardini, Nuova disciplina dell’onere della prova: la riscoperta del passato per un futuro più giusto, in Corr. trib., 1, 2023, p. 66; A. Marcheselli, Onere della prova, orecchio assoluto, riforma della giustizia tributaria e auspicabile de profundis per le c.d. presunzioni giurisprudenziali, in Riv. tel. dir. trib., 2, 2022, p. 1059 ss.; E. De Mita, Il giusto processo fiscale sposta l’onere della prova verso l’Amministrazione, in Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2022; F. Pistolesi, Onere della prova al Fisco in nome di efficienza e trasparenza, in Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2022; G. Moschetti, Il comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992: un quadro istruttorio per ora solo abbozzato, tra riaffermato principio dispositivo e diritto pretorio acquisitivo, in Riv. tel. dir. trib., 28 gennaio 2023, p. 8; A. Lovisolo, Sull’onere della prova e sulla prova testimoniale nel processo tributario: prime osservazioni in merito alle recenti modifiche ed integrazioni apportate all’art. 7 D.Lgs. n. 546 del 1992, in Dir. prat. trib., 2023, p. 49; P. Coppola, Prova e valutazione del relativo onere nel processo, in Dir. prat. trib., 1, 2023, p. 168.
[7] P. Russo, Problemi in tema di prova nel processo tributario dopo la riforma della giustizia tributaria, in Riv. tel. dir. trib., 2, 2022.
[8] Confermerebbe, tra l’altro, quanto sopra l’inciso “comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale” presente all’interno della norma. In questo senso v. L. TOSI, La nuova norma sull’onere della prova nel processo tributario, in Riv. trim. dir. trib., Supplemento online del 20 dicembre 2024.
[9] A. Giovannini, op. cit., p. 1208.
[10] Contra la richiamata, isolata, posizione di M. CATALDI, La norma generale sull’onere della prova, cit., il quale sostiene che il nuovo comma 5-bis, “quando si riferisce alla dimostrazione “circostanziata e puntuale”, [non] pare sufficiente ad esigere che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, bastando che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo criterio di normalità, visto che la deduzione logica è una valutazione che, in quanto tale, deve essere probabilmente convincente, non oggettivamente inconfutabile. Ciò che richiede la legge per l’impiego di prove critiche è che la presunzione sia prova, non già mero indizio. Il che si potrà stabilire avendo riguardo al grado di probabilismo logico sotteso al collegamento induttivo fatto noto/fatto ignoto, senza che tuttavia il risultato della prova presuntiva debba essere unico, essendo sufficiente che sia quello più attendibile rispetto ad altri possibili collegamenti inferenziali tratti dallo stesso fatto noto”.
[11] Si vedano, senza pretesa di completezza, CGT I Milano, n. 2969/2023 e CGT I Reggio Emilia n. 281/2022, in tema di società a ristretta base azionaria; CGT I Reggio Emilia, n. 107/1/2023, in tema di accertamenti catastali; CGT I Milano, n. 2005/3/2023, in tema di accertamenti parziali; CGT II Emilia Romagna, n. 499/04/2023 e CGT I Siracusa, n. 3856/2022, in tema di deducibilità di costi; CGT II Puglia n. 506/4/2023, in tema di accertamenti induttivi; CGT I Reggio Emilia, n. 33/1/2023 e CGT I Caserta n. 1866/12/2023, in tema di operazioni soggettivamente inesistenti; CGT II Emilia Romagna, n. 294/8/2023 e CGT I Reggio Emilia n. 293/1/2022, in tema di fatture oggettivamente inesistenti; CGT II Emilia Romagna, n. 90/8/2023 e CGT II Puglia n. 3633/4/2022, in tema di accertamento analitico-induttivo.
[12] Cass. n. 31878/2022 e giurisprudenza di legittimità successiva, tra cui Cass. n. 37985/2022, Cass. n. 34029/2023, Cass. n. 6772/2023, Cass. n. 17423/2023, Cass. n. 534/2024, Cass. n. 10823/2024, Cass. n. 18764/2024, Cass. n. 19993/2024, Cass. n. 20816/2024, Cass. n. 24082/2024, Cass. n.19993/2024, Cass. nn. 23921/2024 e 18781/2024, Cass. n. 1466/2025.
[13] Cfr. Camera dei deputati, Resoconto stenografico dell’Assemblea Seduta n. 739 del 9 agosto 2022. In tale resoconto si legge, in particolare, che: «Un…punto importante è il principio dell'inversione dell'onere della prova; un principio delicato sul quale abbiamo discusso e sul quale ci siamo ritrovati tutti a cercare una condivisione attraverso la formulazione di un emendamento che è stato accolto, e ciò a vantaggio non di qualche parte politica, ma in questo caso del contribuente: sarà quindi lo Stato a dover provare maggiormente - e questo deve essere anche specificato e sottolineato - la sua pretesa nei confronti del cittadino» (Senato della Repubblica – XVIII Legislatura – Fascicolo Iter DDL S. 2636 – Resoconto stenografico, Seduta n. 460 del 4 agosto 2022, 476). Ed ancora: «si deve e si può riformare il sistema Italia. Un… aspetto fondamentale di questo cambiamento si basa sulla visione del rapporto tra Stato e contribuente. Con questa riforma finalmente si inserisce il principio dell'inversione dell'onere della prova: non più un contribuente che deve necessariamente dimostrare lui stesso la propria innocenza o non responsabilità, ma un'amministrazione che deve provare in giudizio le violazioni contestate con l'atto impugnato, così come avviene in ogni nazione civile o nel nostro processo penale. …Un cambio di passo… da sempre auspicato per raggiungere un modello di fisco moderno ed equo» (Senato della Repubblica, cit., 487). In definitiva, dunque: «Tra le modifiche apportate vi è… l'annullamento dell'atto impositivo nel caso di vizi della prova circa la relativa fondatezza che serve a superare tutte quelle inversioni probatorie via via elaborate nel tempo dalla giurisprudenza, quali eccezioni al generale onere della prova gravante in capo al fisco per porlo invece in capo al contribuente» (Senato della Repubblica, cit., 481).
[14] V. il mio scritto Motivazione e prova nell’accertamento tributario, in Rass. trib., 2001, n. 4, pp. 1088 ss., dove sottolineo in via generale l’inopportunità di distinguere il piano motivazionale da quello probatorio, muovendo dal presupposto che all’Amministrazione finanziaria “compete […] l’obbligo, prima di emettere l’atto di accertamento, di raccogliere e valutare le prove dei fatti su cui l'accertamento si fonda, nonché l'obbligo, in sede di emissione dell'atto stesso, di dare conto di tali prove”. L’enunciazione della prova nella fase motivazionale trova, invero, “la sua ratio non solo nella funzione oggettiva di elemento giustificativo della pretesa, ma anche nell'esigenza di informazione del contribuente ai fini dell'esercizio del diritto di difesa (art. 24 della Costituzione)”.
[15] Per lo sviluppo di tali considerazioni, rinvio a G. Melis, Una visione d’insieme delle modifiche allo Statuto dei diritti del contribuente: i principi del procedimento tributario, in il fisco, 3, 2024, p. 221; L’onere della prova nel diritto tributario dopo la legge n. 130 del 2022 e il D.Lgs. n. 219 del 2023, relazione al convegno organizzato dal Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria su “Profili processuali della riforma tributaria”, Corte di Cassazione, 15 aprile 2024.
[16] Né si dica che tale lettura sia destinata a venir meno a seguito della recente sentenza n. 30051 del 21 novembre 2024, con la quale le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno sancito che l’autotutela “sostitutiva” non incontra nessun limite, se non l’intervenuta decadenza e/o la formazione del giudicato. Ed infatti, se è vero che – come ha affermato la Cassazione – l’inciso contenuto nel sopra citato art. 7 comma 1-bis dello Statuto legittima l’Amministrazione finanziaria a sostituire un proprio precedente atto per qualsiasi ragione (ossia per vizi tanto formali che sostanziali, che possono altresì coinvolgere “i fatti e mezzi di prova” posti a fondamento della pretesa), nondimeno una tale “attività” sostitutiva “non può che avvenire mediante l’adozione di un nuovo atto” all’esito di “un procedimento di secondo grado avente ad oggetto il precedente atto impositivo viziato, che viene posto nel nulla”. Resta, così, confermata la connotazione oramai “marginale” di quella sopra richiamata “istruttoria dibattimentale” posto che – anche laddove avvenga tramite la sostituzione del precedente atto e, dunque, in via di autotutela – l’integrazione dei “mezzi di prova” (con altrettante prove circostanziate, precise e puntuali) deve necessariamente conseguire al “confezionamento” di un nuovo atto impositivo (sia pure “successivo” a quello che ha dato vita all’originaria pretesa) e non, viceversa, alla mera allegazione in sede processuale.
[17] L. TOSI, La nuova norma sull’onere della prova nel processo tributario, cit.
[18] Tali considerazioni sono, naturalmente, basate sull’assunto, a mio avviso pienamente condivisibile, secondo cui il giudicato penale di assoluzione ha diretta efficacia anche sull’accertamento dell’imposta (cfr. Cass. n. 23570/2024, Cass. n. 23609/2024, Cass. 21584/2024, Cass. n. 30675/2024, Cass. n. 30814/2024 e, più recentemente, Cass. n. 936/2025 e n. 1021/2025) e non è, viceversa, circoscritto alle sole sanzioni tributarie (cfr. Cass. n. 3800/2025 e Cass. n. 4924/2025). In seno a tale contrasto giurisprudenziale, con ord. n. 5714 del 4 marzo 2025 la Sezione Tributaria della Suprema Corte ha disposto, ai sensi dell’articolo 374, comma 2, c.p.c., la trasmissione del ricorso alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione alle SS.UU. delle questioni concernenti l’ambito di efficacia dell’art. 21-bis del d.lgs. 74/2000. Per un’ampia analisi della questione, rinvio a A.F. URICCHIO, L. PETRUZZELLA, Sentenza penale assolutoria nel processo tributario: l’art. 21-bis del d.lgs. 74/2000 tra giudicato e valore probatorio, in Dialoghi con la giurisprudenza, Il Processo - 1/2025, 293 ss., i quali evidenziano come l’interpretazione “restrittiva” accolta da alcune pronunce della Cassazione, oltre a vulnerare il principio di coerenza e di capacità contributiva sancito dall’art. 53 Cost., rischi di determinare un’irragionevole disparità di trattamento (art. 3 Cost.) e di comprimere il diritto di difesa del contribuente (art. 24 Cost.), privandolo degli effetti favorevoli derivanti da un accertamento penale di assoluzione.
[19] Cfr. Cass. SS.UU. n. 12644/2014 secondo cui in presenza di una disposizione sopravvenuta, non è possibile svuotarne la portata precettiva, dovendosi tenere conto “della generale regola ermeneutica c.d. ‘di conservazione degli atti’, espressamente codificata dall’art. 1367 c.c. in materia contrattuale, ma da ritenersi operante, in quanto espressione di un sovraordinato principio generale insito nel sistema, anche e soprattutto in tema di interpretazione della legge, sulla scorta della quale, tra le diverse accezioni possibili di una disposizione (normativa, amministrativa o negoziale), deve propendersi per quella secondo cui la stessa potrebbe aver qualche effetto, anziché nessuno”.
[20] Per lo sviluppo di tali considerazioni, si veda G. VANZ, Genesi, struttura e ricadute sull’interpretazione della nuova disposizione sull’onere della prova nel processo tributario, cit., pp. 12-13. Nello stesso senso, A. CONTRINO, Irragionevolezze ordinamentali e innovazioni processuali (rilevanti) della recente riforma della giustizia tributaria, cit., p. 315, secondo il quale è inaccettabile una tesi che “assume l’esistenza di un legislatore che perde tempo a riprodurre norme già esistenti e pacificamente applicabili anche in materia tributaria”.
[21] Sulla non conformità, nel nostro ordinamento, dell’adozione di interpretazioni “abroganti” di disposizioni approvate dal Parlamento, si veda Corte Cost., sent. n. 158/2020, par. 5.2.
[22] Ciò è del resto rilevato anche nell’ultimo Tax Justice DGT Update del MEF pubblicato il 3 settembre u.s. sul sito della Giustizia tributaria.
[23] L’applicabilità nel giudizio tributario dei principi ricavabili dall’art. 2697 c.c. era già pacifica nella giurisprudenza di legittimità, sin dalla sentenza del 23 maggio 1979, n. 2990, con cui la Suprema Corte escluse definitivamente la c.d. “presunzione di legittimità degli atti” tributari. Tale orientamento ha trovato poi conferma anche nella sentenza n. 109 del 2007 della Corte cost., ove si legge che: “Il presidio dell’essenziale funzione del processo e della terzietà del giudice è costituito dal principio dell’onere della prova, la cui ripartizione tra le parti del processo non può essere ancorata alla posizione formale (di attore o convenuto) da esse assunto in ragione della struttura del processo, ma deve modellarsi sulla struttura del rapporto giuridico formalizzato, in esito al procedimento amministrativo, nel provvedimento impositivo […] l’onere della prova grava sull’Amministrazione finanziaria, in qualità di attrice in senso sostanziale, e si trasferisce a carico del contribuente soltanto quando l’Ufficio abbia fornito indizi sufficienti per affermare la sussistenza dell’obbligazione tributaria […] È in questo contesto che si colloca l’abrogazione – volta, si è detto (Cass. 11 gennaio 2006 n. 366), ad eliminare qualsiasi ostacolo alla piena applicabilità nel processo tributario dell’art. 2697 cod. civ. – dell’art. 7, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992”.
[24] Per lo sviluppo di tale impostazione, cfr. tra gli altri G. VANZ, Genesi, struttura e ricadute sull’interpretazione della nuova disposizione sull’onere della prova nel processo tributario, cit., p. 8 e ss.; V. FICARI, Modifiche normative ed onere della prova tra procedimento e processo tributario, in Riv. dir. trib., I, 2023, p. 605; F. PISTOLESI, Il processo tributario, III ed., Torino, 2024, p. 128; N. SARTORI, I limiti probatori nel processo tributario, Torino, 2023, p. 77 ss.
[25] Contra S. DONATELLI, L’onere della prova nella riforma del processo tributario, cit., p. 106; S. MULEO, Onere della prova, disponibilità e valutazione delle prove nel processo tributario rivisitato, cit., p. 85.
[26] Non pare decisivo, in questo contesto, il fatto che il comma 5-bis – contrariamente a quanto stabilito dall’art. 1, comma 2 della legge n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente) – non si qualifichi espressamente come norma di interpretazione autentica. Invero, la veste letterale non è l’unico criterio interpretativo, dovendo essa essere integrata da quelli logico-sistematici, che possono anche escludere la natura autentica di norme che pure si autodefiniscono tali (cfr. Corte cost. n. 73/2017). A contrariis, un esempio è offerto dalla disciplina sull’imposta di registro, in cui una norma (i.e. l’art. 1, comma 87 della legge n. 205/2017) non qualificata formalmente come d’interpretazione autentica dell’art. 20 del d.P.R. n. 131/1986 (TUR) è stata poi riconosciuta tale da una legge successiva (i.e. l’art. 1, comma 1084 della legge n. 145/2018) e dichiarata conforme a Costituzione (Corte cost. nn. 158/2020 e 39/2021). La giurisprudenza costituzionale ha, del resto, più volte ribadito che lo strumento dell’interpretazione autentica ben può essere «usato dal legislatore per rimediare ad un’opzione interpretativa consolidata nella giurisprudenza in un senso divergente dalla linea del diritto da lui giudicata più opportuna» (Corte cost. n. 480/1992 e, in senso conforme, Corte Cost. n. 402/1993 e n. 39/2021, cit.).
[27] Favorevole alla retroattività della norma di cui all’art. 7, comma 5-bis, del d.lgs. n. 546 del 1992, C. GLENDI, Applicabilità ai giudizi pendenti della nuova norma sull’onus probandi nel processo tributario – Primi esperimenti applicativi delle Corti di merito sulla regola finale del fatto incerto nel processo tributario riformato, in GT – Riv. giur. trib., 6, 2023, p. 247. Così egli, infatti, ragiona: “la vera ragione dell’applicabilità dell’art. 6 della Legge n. 130/2022 anche alle pronunce deliberate e depositate dopo il 16 settembre 2022 in giudizi instaurati ancor prima, sta propriamente nel costituire questo disposto normativo, comunque lo s’intenda, la regola finale del fatto incerto per il processo tributario e nell’operare siffatta regola, per sua natura, essenzialmente al momento in cui la decisione viene assunta, essendo proprio solo questo, e non altro, il momento in cui il giudice può ritrovarsi e ritenersi allocato in una situazione finale di ritenuta incertezza probatoria sui fatti posti a fondamento di quanto forma oggetto del giudizio”. Sostengono la natura retroattiva della novella anche S. DONATELLI, L’onere della prova nella riforma del processo tributario, in Rass. trib., 1, 2023, p. 28; A. LOVISOLO, Osservazioni sull’utilizzo delle presunzioni “non legali” nella recente giurisprudenza della Suprema Corte, in Dir. prat. trib., 4, 2024, p. 1432.
[28] V. tra tutte Cass. n. 16493/2024, la quale afferma che: “…tale disposizione ha chiaramente natura sostanziale posto che, in base al consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità, sono tali le norme che, come quella in esame, consistono in regole di giudizio la cui applicazione comporta una decisione di merito, di accoglimento o di rigetto della domanda, mentre hanno carattere processuale le disposizioni che disciplinano i modi di deduzione, ammissione e assunzione delle prove (cfr. Cass., Sez. 5, sentenza n. 18912 del 17/07/2018, Rv. 649717 – 01). Ne consegue che la disposizione in esame, di natura sostanziale e senza alcuna valenza interpretativa di altre disposizioni in tema di valutazione delle risultanze probatorie, non ha efficacia retroattiva e, quindi, si applica, ai giudizi introdotti successivamente al 16 settembre 2022, data di entrata in vigore dell’art. 6 della Legge n. 130 del 2022 che l’ha introdotta, per la quale il successivo art. 8, dettato in materia di ‘disposizioni transitorie e finali’, non prevede una diversa decorrenza”.
[29] Così M. BASILAVECCHIA, L’onere della prova nell’applicazione giurisprudenziale, in Il Processo n. 2/2025, 771; nello stesso senso, si veda A. MARCHESELLI, La prova nel nuovo processo tributario, Milano, 2024). Quanto detto sopra porta anche a prendere atto che, indipendentemente dalla qualificazione del comma 5-bis come disposizione “interpretativa” (e dunque retroattiva) oppure “innovativa” (e quindi priva di efficacia retroattiva), vi sia comunque in dottrina un condiviso convincimento circa la debolezza argomentativa della lettura “svalutativa” propugnata dalla Cassazione nella parte in cui afferma che la nuova norma non avrebbe “fissato limiti al modo in cui la prova deve essere fornita” dall’Amministrazione finanziaria e, conseguentemente, valutata dal giudice. Al di là delle diverse prospettazioni teoriche è infatti evidente che la disposizione incide in modo significativo sulla struttura del processo tributario, imponendo - come si è visto - alla parte erariale un onere probatorio ben più rigoroso rispetto al passato.
[30] Per tale impostazione, cfr. anche M. CATALDI, La norma generale sull’onere della prova, cit., pag. 77.
Immagine: Pieter Brueghel il Giovane, L'avvocato del villaggio, olio su tavola, 1620-40.
