La transazione fiscale fra giurisdizione e “merito”. Commento a SS. UU. n. 8504/2021
di Matteo Golisano*
Sommario: 1. Premessa: l’arduo temperamento fra i principi fiscali e quelli concorsuali - 2. Il giudice (futuro) munito di giurisdizione in materia di transazione fiscale - 3. Il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria: un tema mai risolto.
1.Premessa: l’arduo temperamento fra i principi fiscali e quelli concorsuali
La sentenza che si segnala è degna di rilievo per almeno due ordini di ragioni.
In primo luogo, perché rappresenta un punto di rottura rispetto al convincimento cui erano pervenute dottrina e giurisprudenza di merito su un tema, quello dell’impugnabilità del diniego alla transazione fiscale, a fronte del quale neanche la recenti novità di cui al D.L. n. 125/2020[1] sono riuscite a sopire il dibattito ma anzi, come anche testimoniato dai recenti contrasti presenti nella giurisprudenza delle corti territoriali a poco più di tre mesi dall’introduzione, lo hanno viepiù acuito.
Contrasto, questo, dovuto in ultima analisi alla formulazione utilizzata dal legislatore in riferimento all’individuazione delle condizioni fattuali al ricorrere delle quali il tribunale può procedere con l’omologa, esercitando quello che è stato definito il cram down fiscale, pur a fronte della “mancata adesione” determinante dell’Amministrazione[2].
Sotto questo punto di vista, il reale valore dell’Ordinanza non può che essere apprezzato nella sua chiara ambivalenza nella misura in cui, seppur si riferisce evidentemente (e come è ovvio) alla disciplina previgente (ossia prima delle modifiche di cui al D.L. citato) ed oggetto del decisum, al tempo stesso e come traspare dal tessuto motivazionale, ha un occhio proiettato alla disciplina attuale.
Ed è proprio in siffatta prospettiva che allora meglio si possono comprendere sia la scelta di discontinuità rispetto alla propria pregressa giurisprudenza, sia l’apparato motivazionale, certamente non comune, anche solo quanto ad estensione, rispetto alle tradizionali Ordinanze rese in materia di riparto giurisdizionale.
In quest’ottica l’Ordinanza si fa apprezzare e ciò, si badi bene, a prescindere che si intenda condividere l’intero iter argomentativo adottato, per il coraggio nella scelta delle modalità con cui la questione è impostata, prediligendo il campo, quello del dialogo fra principi tributari e principi concorsuali o, se si preferisce, fra la disciplina fiscale e quella fallimentare, un tempo definito, neanche troppo provocatoriamente, come “l’incubo fiscale”[3].
In particolare, la Suprema Corte ribalta il canonico inquadramento della transazione fiscale, da istituto tributario prestato al diritto fallimentare, a istituto fallimentare prestato al diritto tributario, ivi offrendo una pragmatica visione del tema dei rapporti fra le rationes sottese alle rispettive branche del diritto, dove la ratio concorsuale lato sensu intesa viene in qualche misura sovraordinata rispetto alla ratio tributaria, in quanto intesa come frutto di un complessivo bilanciamento costituzionalmente operato dal legislatore[4].
Venendo ora al secondo ordine di ragioni per le quali l’ordinanza si fa apprezzare, anche solo ad un esame superficiale questa si mostra sin da subito gravida di implicazioni sistematiche.
Si collocano in questo solco, per quel che qui più interessa:
a) le affermazioni in punto di estensione (implicita) del giudizio di omologazione, in generale, e del giudizio di omologazione negli accordi di ristrutturazione, in particolare;
b) le affermazioni in punto di (in)disponibilità della pretesa tributaria.
2. Il giudice (futuro) munito di giurisdizione in materia di transazione fiscale
Prima di approfondire brevemente i temi sopra evidenziati, risulta particolarmente utile l’inquadramento del contesto entro il quale l’ordinanza va a collocarsi.
Il caso di specie è dei più semplici e numericamente più ricorrenti nella prassi applicativa: una proposta di transazione fiscale veniva presentata nell’ambito delle trattative che precedono la stipula degli accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis l.f. e veniva rigettata dall’Amministrazione Finanziaria.
Il contribuente impugnava tale diniego dinanzi al giudice tributario riconducendolo, in via interpretativa, al diniego di definizione agevolata ex art. 19, lettera h), D. Lgs. n. 546/1992.
L’Agenzia delle entrate proponeva quindi un regolamento preventivo di giurisdizione ivi sostenendo la giurisdizione del giudice fallimentare.
L’esito, piuttosto scontato, sarebbe stato quindi nel senso dell’affermazione della giurisdizione del giudice tributario, in quanto non solo perché in linea con la propria pregressa giurisprudenza e con le conclusioni della Procura ma, altresì, perché conforme all’orientamento maggioritario della dottrina e della giurisprudenza tributaria ed amministrativa[5].
Maggiormente nel dettaglio, dopo una prima stagione in cui sia parte della dottrina sia parte della giurisprudenza amministrativa hanno tentato di affermare la giurisdizione del giudice amministrativo[6], queste si sono successivamente orientate, pure a fronte del passaggio frattanto intervenuto dalla transazione sui ruoli alla transazione fiscale ex art. 182 ter l.f., verso la giurisdizione del giudice tributario[7].
Tale modifica di approccio, in particolare e sintetizzando, è stata dovuta a tre concomitanti ordini di ragioni:
1) per un verso, alla valorizzazione della giurisdizione tributaria, successivamente alle modifiche apportata dalla L. n. 448/2001, quale giurisdizione esclusiva per materia ma limitata per funzione, tale per cui è irrilevante la posizione giuridica vantata dal privato;
2) per altro verso, al riscontrato e perdurante vuoto di tutela della posizione del contribuente a fronte del diniego illegittimo dell’Amministrazione;
3) per altro verso ancora ed in via preponderante, alla riscontrata incapacità della giurisdizione ordinaria, in specie nella sua declinazione fallimentare, ad apprestare adeguata tutela.
Tralasciando il primo profilo in quanto, allo stato, dato pacifico ed iniziando l’analisi dal secondo, pur se appariva condivisibile la posizione di chi[8], anzitempo, aveva ritenuto che l’illegittimità del diniego dell’amministrazione non fosse apprezzabile singolarmente in quanto la determinazione della stessa (almeno per il concordato) non sarebbe stata diretta in via immediata al contribuente, ma al contrario si sarebbe inserita quale componente della più ampia determinazione del ceto creditorio, poi condensatesi nell’approvazione o nel rigetto della proposta, allo stesso tempo era innegabile che, nell’ipotesi in cui il voto dell’erario fosse determinante per l’approvazione della proposta, il contribuente vantasse una posizione giuridica degna di tutela affinché il creditore pubblico assumesse la propria determinazione in conformità ai criteri normativi.
Tanto era imposto dall’impossibilità di predicare una totale parificazione tra creditore pubblico e creditore privato, ciò in quanto le determinazioni del primo, a prescindere dalla peculiare funzione amministrativa che si intendesse individuare, vincolata o discrezionale, non poteva in nessun caso dirsi libera nel fine, ma al contrario pur sempre vincolata alla tutela di uno specifico interesse pubblico e, nella specie, dell’interesse fiscale.
Conseguentemente, la determinazione dell’amministrazione, pur se solo partecipando alla formazione della più ampia volontà del ceto creditorio nell’ambito dell’approvazione o del rigetto della proposta, per ciò solo non poteva dirsi perdere la propria individualità.
Conclusione, detta ultima, a maggior ragione valevole per gli accordi di ristrutturazione dei debiti laddove la genetica dell’effetto era da rapportarsi, almeno sino alle recenti modifiche, le quali parrebbero aver anche inciso su tale profilo[9], all’accordo raggiunto con i singoli creditori più che al giudizio di omologa.
L’intensità con cui tale posizione poteva dipoi essere tutelata, variava evidentemente in ragione della differente opzione concettuale assunta, a monte, in ordine alla funzione esercitata dall’Amministrazione finanziaria: confinata entro i limiti dell’eccesso di potere, ove la funzione fosse ricondotta ad un’attività di tipo discrezionale, estesa all’accertamento del fatto ed alla sua sussunzione e, quindi ed in ultimo, alla produzione dell’effetto, ove la funzione fosse ricondotta ad un’attività di tipo vincolato.
Ciò posto e spostandoci sul terzo profilo, i tentativi di ricondurre la giurisdizione nell’alveo del giudice ordinario (fallimentare) pure proposte, in particolare dall’Amministrazione[10], si sono dimostrate del tutto inadeguate in quanto non di vera tutela si sarebbe trattato, nemmeno nella sua configurazione rimediale, giusta la specifica sede in cui il contribuente avrebbe potuto manifestare le proprie lagnanze, nella specie individuato nel solo giudizio relativo al reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento[11].
Detto altrimenti, l’affermazione del giudice tributario, se sicuramente è stata dovuta anche alla valorizzazione della transazione fiscale quale strumento, seppur sui generis, pur sempre innestantesi nella fase di riscossione (e, per i tributi non ancora iscritti a ruolo, anche in quella di accertamento) del tributo, deve la propria fortuna principalmente all’incapacità dell’ordinamento fallimentare di apprestare una vera forma di tutela, neanche indiretta.
È in un siffatto contesto che si colloca la Suprema Corte con la sua terza via, la cui novità sta dunque non già e non tanto per il plesso giudiziario cui viene riconosciuta la giurisdizione, in quanto quella del giudice fallimentare è stata, come visto, una via interpretativa già prospettata dalla prassi amministrativa, quanto e piuttosto per la sede propria in cui siffatto giudice dovrebbe conoscere della relativa domanda (rectius questione), nella specie rappresentato dal giudizio di omologa.
Ed infatti, la menzionata inadeguatezza dell’ordinamento fallimentare era per lo più dovuta ai limiti propri del giudizio di omologa all’interno del quale i poteri del tribunale, per unanime convincimento e sia pure a fronte delle diversità strutturali esistenti fra il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione, si sarebbero al più potuti tradurre, sia pure nella loro massima estensione prospettata dalla dottrina[12], nel c.d. “controllo di merito”, ossia in una verifica non solo astratta bensì concreta circa la fattibilità del piano e degli altri requisiti richiesti dalla legge[13], ma giammai si sarebbero potuti estendere nel senso di modificare e/o sostituire la determinazione assunta dal creditore pubblico (o da qualunque altro creditore)[14], stante la base consensuale caratterizzante, sebbene con intensità differenti, sia il concordato preventivo che gli accordi di ristrutturazione dei debiti.
Ragioni, queste, che in tempi meno recenti avevano infatti portato parte della dottrina[15] ad auspicare un intervento di riforma, in ultimo operato dal legislatore attraverso il D.L. n. 125/2020, oggi prevedendosi espressamente che il Tribunale possa procedere con l’omologa, al ricorrere di determinate condizioni, pur a fronte della “mancata adesione” determinante dell’Amministrazione, così di fatto anticipando il contenuto dell’art. 48, co. 5, del nuovo codice della crisi e dell’insolvenza.
Ed allora i profili di immediata rilevanza della ordinanza in commento sono almeno due:
a) per un verso, la Suprema Corte parrebbe interpretare siffatto intervento di riforma alla stregua della mera specificazione, in quanto tale facoltà sarebbe già rientrata nell’ambito delle competenze « “omologatone” generali»[16] del tribunale;
b) per altro verso ed a prescindere dall’affermazione di cui sopra che, siamo sicuri, alimenterà i futuri dibattiti, la rilevanza della pronuncia si manifesta, come detto, non già e non tanto per il passato (rectius per tutti quei casi ancora regolati dal testo previgente alla modifica ed ormai destinati ad esaurirsi), quanto e piuttosto per il futuro.
Ed infatti, la circostanza che la Suprema Corte affronti espressamente il caso del rigetto espresso, e che il potere di intervento del tribunale sia ricondotto nei poteri di omologazione generali (e ciò a prescindere che lo si voglia collocare quale forma di controllo di esercizio del potere – come suggerito dall’ordinanza[17] – ovvero di intervento sostitutivo o concorrente, come anche recentemente prospettato in dottrina[18]), sembra decisamente militare nel senso dell’interpretazione estensiva proposta da talune corti territoriali in ordine all’attuale testo degli artt. 180 e 182bis l.f., così da ricomprendere nel concetto di “mancata adesione” non solo i casi di inerzia dell’Amministrazione, ma anche, e soprattutto, quelli di diniego espresso.
In questo senso, parrebbe quindi che la Suprema Corte più che risolvere il problema del riparto giurisdizionale a fronte del dato normativo ante riforma, abbia comprensibilmente inteso limitare, in una chiara ottica nomofilattica, le possibilità di un contrasto giurisprudenziale fra le diverse corti di merito in riferimento alla normativa attualmente vigente, rendendo sin da subito palese la propria posizione sul punto, ed evitando al contempo il rischio che potesse assegnarsi alla presenza del rigetto espresso la funzione di “selettore” fra la giurisdizione ordinaria (fallimentare) e quella tributaria.
3. Il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria: un tema mai risolto
Così brevemente analizzato l’impatto diretto che l’ordinanza parrebbe produrre sul profilo dell’impugnabilità del diniego a fronte di un’istanza di transazione fiscale ed il substrato teorico entro il quale lo stesso si colloca, il tessuto motivazionale si presta, lo si è anticipato, ad una valorizzazione anche di più ampio respiro che in qualche misura travalichi i confini propri dell’istituto interessato.
Ci si riferisce, in particolare, agli obiter contenuti nel testo della decisione, i quali ripropongono al centro del dibattito un tema, quello dell’indisponibilità della pretesa tributaria, che affatica dottrina e giurisprudenza da oltre un secolo.
Pur senza poter essere questa la sede per esaminare funditus un profilo tanto complesso, sul quale si sono peraltro confrontate le menti più brillanti della materia, appare comunque utile tentare di fornire delle coordinate minime di sistema le quali, se debitamente storicizzate, consentono di meglio inquadrare le affermazioni dell’Ordinanza commentata.
È noto come tracce del dibattito dottrinale attorno al tema dell’indisponibilità della pretesa siano rinvenibili già in epoca pre-costituzionale laddove il riferimento normativo di siffatto principio veniva ricondotto ora agli artt. 25 e 35 dello Statuto Albertino, ora agli artt. 13, del R.D. n. 3269/1923 e 49 del R.D. n. 827/1924.
Ben presto tali riferimenti vennero però ritenuti insufficienti in quanto rappresentanti, al più, una testimonianza esteriore del principio, piuttosto che il fondamento normativo dello stesso[19].
Conseguentemente, l’indisponibilità veniva ricollegata alle caratteristiche intrinseche dell’obbligazione tributaria, configurandosi come un attributo consustanziale della stessa o, se si preferisce, quale conseguenza indefettibile della origine pubblicistica del fenomeno.
Per tale via, prefigurando una scissione fra il concetto di potestà impositiva (rectius il “diritto di supremazia tributaria”[20]) e singola obbligazione, l’indisponibilità sarebbe stata un predicato ora solo della prima[21], ora anche della seconda[22].
Ma anche per tale ultima impostazione, l’affermata indisponibilità della pretesa avrebbe avuto un valore solo relativo, ciò in quanto tale predicato altro non avrebbe rappresentato che la conseguenza dell’essere l’obbligazione d’imposta un’obbligazione ex lege, sicché la stessa legge tributaria sarebbe stata in condizione di disporre liberamente della medesima, nel senso che questa ben avrebbe potuto stabilire esenzioni, totali o parziali, a favore di coloro che si fossero trovati in una determinata condizione.
In epoca più recente, complici la distinzione frattanto maturata fra Stato-sovrano e Stato-amministrazione ed il nuovo modo di intendere il fenomeno tributario, con la conseguente transizione da un modello di carattere schiettamente autoritativo ad uno più marcatamente improntato ad una logica collaborativa di attuazione del tributo[23], ed in disparte le difficoltà, comunque presenti, di individuare i confini propri del concetto di indisponibilità[24], la dottrina si è riorientata in due diversi correnti principali:
a) una prima che, sebbene attraverso ricostruzioni molto differenti tra loro, ritiene tale principio cogente e di diretta derivazione costituzionale;
b) una seconda la quale, sulla base di constatazioni di fatto[25] sul moderno ordinamento tributario[26], nega l’esistenza del principio di indisponibilità o, comunque, la sua copertura costituzionale.
Approfondendo brevemente le singole prospettazioni, e scusandoci sin d’ora per il grado di approssimazione che qualunque categorizzazione comporta, la prima impostazione può essere a sua volta utilmente suddivisa secondo tre diversi ordini di argomentazioni principali in funzione del diverso fondamento, pur sempre costituzionale, assunto quale riferimento.
Più nel dettaglio secondo la prima impostazione[27], maggiormente sostenuta in dottrina[28], dovrebbe essere debitamente valorizzata la funzione di riparto[29] svolta dall’imposta la quale comporterebbe l’impossibilità di ricondurre il fenomeno impositivo ad una semplice rapporto dare-avere tra ente pubblico creditore e contribuente debitore.
Ed infatti, in tale ricostruzione si svaluterebbe l’altro aspetto del fenomeno impositivo, rappresentato dal rapporto intercorrente tra singoli contribuenti, pacificamente non riconducibile al modello dare-avere, condensantesi al contrario nella pretesa di ciascun contribuente a un equo riparto del carico pubblico.
Cosicché, rievocando la categoria smithiana[30], la fiscalità statale viene concettualmente accostata a quella del condominio: “Se uno dei condomini paga meno del dovuto o non paga affatto, rimanendo inalterato l’ammontare delle spese condominiali, l’inadempienza si ripercuote a danno degli altri condomini”[31], talché ogni forma di esenzione concessa a taluno si riverserebbe in senso negativo su talaltro[32].
Proprio in tale ultima ottica, si riuscirebbe a comprendere il fenomeno dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria.
A differenza che nel diritto privato, in questo caso il titolare del diritto non avrebbe la relativa disponibilità per via della circostanza che l’intera vicenda non riguarderebbe lui soltanto, dovendosi intendere il credito vantato non già nella sua singolarità, ma come quota, il cui mancato incasso andrebbe a gravare in senso negativo sugli altri consociati[33].
Così correttamente inteso il fenomeno tributario e, soprattutto, la funzione impositiva, i referenti costituzionali cui si dovrebbe guardare sarebbero gli artt. 2, 3 e 53 Cost., definiti congiuntamente come principi di “giusta imposta”[34].
In ragione dei richiamati principi il legislatore sarebbe in primo luogo obbligato ad assumere, quale fatto generatore la contribuzione, soltanto fatti espressivi di capacità economica[35].
In secondo luogo, sarebbe obbligato ad imputare la capacità economica così manifestata soltanto al soggetto che ne sia l’effettivo possessore “andando a tramutare l’indice di ricchezza, che nella sua realtà materiale è fatto neutrale, in indice di idoneità alla contribuzione del singolo soggetto”[36].
In terzo ed ultimo luogo, il legislatore dovrebbe rispettare il principio di universalità del dovere di partecipare al concorso, dovere che viene così ricondotto al precetto contenuto nell’art. 53 Cost. e comportante la nascita in capo a tutti i consociati di altrettanti diritti pubblici soggettivi a che l’imposta venga ripartita in ottemperanza delle regole di riparto non modificabili ex post dal legislatore.
A tale impostazione, sempre muovendo dal ruolo di centralità che l’art. 53 Cost. assume in seno all’ordinamento tributario, se ne è dipoi accompagnata un’altra[37] dal carattere per così dire maggiormente flessibile o, se si preferisce, relativo.
Più nel dettaglio, attraverso una differente enfatizzazione del principio egalitario presente all’interno nell’art. 53 Cost., in uno con una rimodulazione dell’importanza della funzione di riparto svolta dall’imposta, si è sostenuto come questo in realtà tuteli solo l’uniformità del trattamento senza incidere direttamente sugli indici di riparto.
Detto altrimenti, verrebbe impedito un trattamento tributario difforme rispetto a situazioni uguali, ma non vi sarebbe una correlazione diretta rispetto ai procedimenti di determinazione dell’obbligazione tributaria[38].
Quale immediata conseguenza del mutamento di prospettiva, vi sarebbe la possibilità per il legislatore di attribuire all’Amministrazione poteri lato sensu dispositivi in ordine al credito tributario.
Ed infatti, il principio di capacità contributiva, ed il relativo principio di indisponibilità che del primo altro non sarebbe che il riflesso, impedirebbe solo di riconoscere all’Amministrazione poteri discrezionali da esercitare nei singoli casi, andando così a differenziare in concreto le imposizioni.
Tale principio, quindi, sarebbe non già assoluto ma relativo, dovendosi conciliare con le altre istanze legittimamente presenti quali, in ipotesi, le esigenze di certezza e sollecitudine della riscossione in quanto anch’esse costituzionalmente tutelate[39].
Sempre all’interno di tale filone di pensiero, una notazione a sé merita poi quella parte della dottrina[40] che, pur muovendo dalla centrale funzione di riparto che assolve l’imposta, ha ritenuto imprescindibile adottare un approccio meno dogmatico e più sostanzialista che tenga conto dei differenti ambiti, quello dell’accertamento e quello della riscossione, in cui si concretizza la realizzazione del credito d’imposta.
Detto altrimenti, sarebbe necessario adottare un’impostazione che “valorizzi il collegamento tra questo (il principio di indisponibilità ndr.) ed il suo rilievo nel contesto dell’esercizio della funzione impositiva” così valorizzandone le differenti reciproche interferenze.
Per questa via, attraverso una marcata valorizzazione delle diversità sussistenti fra i due momenti in cui la funzione impositiva trova estrinsecazione, quella di accertamento e quella di riscossione, la funzione di riparto viene ricondotta alla prima e non anche alla seconda.
Così opinando, risulterebbero quindi valorizzabili esigenze di celerità e speditezza nell’acquisizione del prelievo, a loro volta espressioni del più generale concetto di interesse fiscale[41], rendendosi possibile incidere, almeno secondo talune elaborazioni[42], anche sui profili relativi all’an e al quantum del tributo.
Argomentazione, questa, in parte condivisa dalle diverse ricostruzioni tendenti ad individuare il referente costituzionale dell’indisponibilità della pretesa fiscale nell’art. 23 Cost.[43], per le quali il referente dell’art. 53 Cost. sarebbe inadeguato giacché, sostanzialmente e semplificando, non limiterebbe affatto le facoltà dispositive, quanto e piuttosto imporrebbe che l’eventuale potere dispositivo sia esercitato nell’interesse della comunità e nel rispetto del criterio progressivo in esso consacrato, limitando così le scelte operabili dal legislatore entro limiti di razionalità e coerenza.
In un simile contesto, l’unico referente sicuro potrebbe allora essere individuato nella riserva di legge, la quale assolverebbe in subiecta materia una fondamentale funzione di garanzia sotto un duplice profilo: di salvaguardia della sfera di libertà personale e patrimoniale del privato da interventi autoritativi dell’Amministrazione, per un verso, e di tutela degli interessi pubblici sottesi alle prestazioni patrimoniali imposte, per altro verso.
Stante la natura della riserva di legge in discorso, il principio di indisponibilità viene per tale via “relativizzato”, non escludendosi a priori la possibilità di poteri dispositivi del credito, a tal fine richiedendosi semplicemente una sufficiente base legislativa ogniqualvolta si voglia incidere su doverosità ed entità della prestazione tributaria.
Detto altrimenti, il potere di disporre dell’obbligazione tributaria sussisterebbe tutte le volte in cui il titolare di detta potestà abbia il potere, perché conferitogli dalla legge, di decidere se e come esercitarla, ossia abbia il potere di effettuare una ponderazione tra i distinti interessi in gioco.
Secondo una terza e differente impostazione[44] l’indisponibilità della pretesa troverebbe la propria fonte genetica nel principio di imparzialità racchiuso nell’art. 97 Cost. o, più precisamente, nella proiezione egalitaria dell’art. 3 Cost. contenuta nell’art. 97 Cost. e, quindi, nella necessità (rectius dovere) di trattare in maniera simile posizioni simili.
In un simile contesto, le difficoltà che si riscontrano nel configurare un concreto potere dispositivo, sarebbero allora da ricollegarsi a mere circostanze fattuali e, più nel dettaglio, alle difficoltà di delineare i presupposti ai quali l’Amministrazione si dovrebbe attenere nell’esercizio di siffatto potere e, ancor di più, a causa delle difficoltà di contemperare eventuali profili dispositivi con il necessario rispetto del principio di imparzialità e trasparenza, che in ambito tributario non tollererebbero compressione alcuna[45].
Sul versante diametralmente opposto si collocano invece quelle teorie[46] le quali, pur muovendo dalla medesima distinzione tra potere impositivo e singola obbligazione tributaria, e quindi dalla assoluta impossibilità di aversi il trasferimento ovvero rinuncia relativamente al primo, negano la sussistenza del principio di indisponibilità allorquando, al contrario, si passi ad analizzare il singolo rapporto obbligatorio d’imposta.
Maggiormente nel dettaglio, secondo tali prospettazioni si dovrebbe partire da due considerazioni di fondo: la prima, legata a constatazioni di fatto e relative all’analisi, qualitativa e quantitativa, delle ipotesi in cui tale principio non verrebbe rispettato e/o derogato, la seconda relativa all’insufficienza di tutte le disposizioni normative di volta in volta richiamate onde fondarne il referente positivo.
In tale prospettiva, quindi, l’indice dell’assenza nell’ordinamento del principio di indisponibilità sarebbe da rinvenirsi proprio in tutte quelle previsioni normative (accertamento con adesione; conciliazione giudiziale; transazione fiscale; fattispecie condonistiche) che a vario titolo ne costituirebbero una deroga[47].
A tale rilevazione seguirebbe quindi l’impossibilità di rintracciare una norma, ora costituzionale, ora ordinaria, che ne funga da riferimento.
Ed infatti, escluso a priori che si possa volgere lo sguardo a norme di rango ordinario, tutti i referenti costituzionali individuati sarebbero comunque inadeguati allo scopo.
Approfondendo l’analisi, anzitutto il richiamato all’art. 23 Cost., sarebbe inappropriato sotto un duplice profilo.
Il primo, derivante dall’aver erroneamente ricondotto l’inammissibilità di atti dispositivi alla più generale inaccessibilità per l’Amministrazione ad una sfera riservata al legislatore (rectius, la determinazione della fattispecie d’imposta), in quanto l’ambito garantistico dell’art. 23 Cost. si risolverebbe nella sola declinazione della coattività, non potendo al contrario afferire al tema dell’ammissibilità degli atti di disposizione del credito tributario.
Il secondo, dato dall’estraneità del richiamo ad eventuali poteri discrezionali in capo all’Amministrazione, in quanto l’ipotetico atto dispositivo compiuto pur a fronte di un’attività in ipotesi interamente vincolata, si dovrebbe risolvere nella responsabilità dei funzionari pubblici per gli atti di disposizione effettuati e non già nell’invalidità dell’atto stesso.
Tale ultima obiezione, peraltro, varrebbe anche nei confronti delle impostazione che vuole quale copertura costituzionale del principio di indisponibilità l’art. 97 Cost.
In particolar modo, riconducendo l’indisponibilità dell’obbligazione tributaria al principio di imparzialità s’incorrerebbe in “un evidente slittamento dei piani da quello dell’essere a quello del dover essere, postulandosi un rapporto di derivazione nient’affatto necessitato”[48].
In parte più complessa, appare invece la critica che viene mossa alle ricostruzioni fondate sull’art. 53 Cost.[49]
Come visto, il tratto accomunante tutte le ricostruzioni facenti perno su tale referente normativo è, in ultima analisi, la funzione di riparto propria della fattispecie d’imposta, venendo questa ad implicare, a seguito della verificazione del presupposto e quindi della manifestazione di capacità contributiva cui la tassazione è ricollegata, non solo la nascita di rapporti c.d. interni tra Stato e contribuente ma, altresì, di rapporti c.d. esterni tra il singolo contribuente e tutti gli altri consociati.
Ebbene, secondo la tesi qui riportata, l’art. 53 Cost. non si riferirebbe affatto alle vicende attinenti ai singoli rapporti d’imposta e ciò per un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo, perché l’idea della sussistenza di un diritto inviolabile ed indisponibile alla tassazione a fronte della manifestazione di capacità contributiva, sarebbe oggi smentita dall’istituto dell’accollo previsto dall’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente.
In secondo luogo, l’idea della sussistenza di una “quotità”, ovvero l’idea di individuare nel singolo rapporto d’imposta non un fenomeno ex se ma parte di un più ampio rapporto, non terrebbe conto del fatto che per l’Amministrazione l’eventuale rinuncia a singole frazioni ben potrebbe essere più vantaggiosa rispetto ad un ipotetico contenzioso giudiziale risolvibile sfavorevolmente per l’Erario.
In definitiva, bisognerebbe quindi ribaltare la premessa logica da cui è consueto muovere.
In questo senso, tutte le varie norme che in qualche misura sembrano presupporre un potere dispositivo non andrebbero lette come deroghe al principio, bensì come manifestazione esplicita del principio diametralmente opposto[50], ossia della assoluta disponibilità dell’obbligazione tributaria o, al più, quali mere ipotesi latu sensu autorizzatorie[51].
4.Conclusioni: l’intima coerenza dell’ordinanza n.8504/2021
Ciò posto a livello di analisi dottrinale, l’ordinanza in commento si inserisce in siffatto complesso dibattitto propendendo marcatamente per la ricostruzione intermedia, così declinando il principio di indisponibilità, per un verso, quale principio effettivamente esistente nel nostro ordinamento ma, per altro verso, in termini per l’appunto relativi, giusta la possibilità di una sua deroga legislativa.
Dal tessuto motivazionale non risulta chiaro – perché in realtà profilo inconferente rispetto al decisum – quale sia l’intensità con cui siffatta relatività venga intesa.
Se, cioè, la norma derogatoria debba necessariamente predeterminare limiti e contenuti del potere dispositivo in termini precisi, ovvero se tale determinazione possa essere rimessa alla discrezionalità dell’Amministrazione.
Cionondimeno tale funzione derogatoria viene esplicitamente attribuita alla transazione fiscale, ivi individuando un effettivo momento dispositivo del rapporto tributario.
A prescindere dalla condivisibilità di tale affermazione, potendosi al contrario anche argomentare che nell’istituto sia assente qualsivoglia profilo dispositivo giusta le condizioni normative cui è subordinata la falcidia del credito tributario[52], il ragionamento della Corte si presenta intimamente coerente rispetto alle premesse di partenza.
Ed infatti, al menzionato profilo dispositivo la Suprema Corte, correttamente, ricollega l’emersione di una funzione amministrativa discrezionale, riconoscendo in tal modo il rapporto biunivoco[53] che lega il profilo della indisponibilità con quello della funzione amministrativa, essendo impossibile predicare una funzione vincolata non associandola ad una indisponibilità della pretesa (indipendentemente che poi tale indisponibilità sia derivata dalla legge, dalla Costituzione o dal sistema), così come è impossibile predicare una funzione discrezionale non associandola al contempo ad un potere di disposizione del relativo diritto.
*Assegnista di Ricerca presso la Luiss Guido Carli
[1] Le quali, sostanzialmente, hanno anticipato le modifiche apportate all’istituto della transazione fiscale (rectius al giudizio di omologa) previste dal Nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza di cui al D. Lgs. n. 14/2019.
[2] Nella specie si discute se, nel concetto di “mancata adesione” previsto nell’attuale testo degli artt. 180 e 182bis l.f. debba essere ricompreso solo l’ipotesi del silenzio o anche il diniego espresso.
[3] La citazione è chiaramente riferita al Provinciali, il quale utilizzava l’espressione per indicare le criticità originantesi dalle difficoltà di coordinamento fra le due branche del diritto. R. Provinciali, Il processo di fallimento sotto l’incubo fiscale, in Dir. Fall., 1958, I, 58 e ss.. In generale, sul tema dei rapporti fra procedure concorsuali e diritto tributario, per tutti si v.: A. Fantozzi, Considerazioni generali sui profili fiscali delle procedure concorsuali e sul rapporto tra par condicio creditorum, interesse fiscale ed altri interessi diffusi, in Piccini – Panzani – Severini (diretto da), Il fallimento e le altre procedure concorsuali, VI, Torino, 2012, 417 e ss.; M. Esposito, Riflessioni critiche sui rapporti tra diritto tributario e diritto civile alla stregua dei principi costituzionali (muovendo da alcune incongruenze nella disciplina fiscale delle procedure concorsuali), in F. Paparella (a cura di), Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, Milano, 2013, 3 e ss.; nonché da ultimo F. Paparella, Il rapporto tra diritto tributario e diritto fallimentare nel pensiero di Augusto Fantozzi, in Saggi in ricordo di Augusto Fantozzi, Pisa, 2020, 397 e ss..
[4] Conclusione, detta ultima, collocantesi in termini sintonici rispetto a quanto prospettato da acuta dottrina in riferimento al nuovo codice della crisi e dell’insolvenza. Sul punto di v. G. Fransoni, Codice della crisi d’impresa e privilegi fiscali: rivoluzionarie novità?, in Rass. Trib., 2019, 247 e ss..
[5] In aggiunta alla giurisprudenza richiamata in seno all’Ordinanza si v., altresì: Consiglio di Stato, n. 4021/2016.
[6] Tale conclusioni venivano peraltro sostenute mediante due percorsi argomentativi non coincidenti. Secondo una prima prospettiva, la giurisdizione del giudice amministrativo sarebbe stata la conseguenza della peculiare posizione vantata dal privato, nella specie declinata nei termini dell’interesse legittimo. Per ciò che, essendo al tempo diffuso il convincimento per il quale anche la giurisdizione tributaria dovesse essere individuata non già e non solo in funzione della materia oggetto della lite, quanto e piuttosto, dal tipo di posizione giuridica soggettiva vantata dal contribuente, ove questa fosse stata di interesse legittimo la giurisdizione doveva essere necessariamente riconosciuta al giudice amministrativo. Secondo un diverso percorso argomentativo, si individuava la giurisdizione del giudice amministrativo non già e non tanto in virtù della posizione giuridica presente in capo al contribuente, anzi espressamente ritenuta inidonea a fondare un riparto giurisdizionale, quanto e piuttosto per i limiti intrinseci della giurisdizione tributaria e, più nel dettaglio, per il limite c.d. esterno rappresentato – almeno secondo l’interpretazione “piana” dell’art. 2, d.lgs. n. 546/1992 al tempo prevalente – dalla notifica (intesa come fatto materiale) della cartella di pagamento. Per tali orientamenti si v.: L. Magnani, La transazione fiscale, in G. Schiano Di Pepe (a cura di), Il diritto fallimentare riformato, Padova, 2007, 773 e ss.; E. Grassi, Transazione fiscale e indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in Il Fisco, 52 e ss.; M. Basilavecchia, La transazione sui ruoli, in Corr. Trib., 2005, 1217 e ss.; Parere del Consiglio di Stato n. 526 del 2004.
[7] Sotto il vigore della transazione fiscale hanno aderito a tale orientamento, tra gli altri: G. Marini, La transazione fiscale: profili procedimentali e processuali, in F. Paparella, (a cura di), Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, Milano, 2013, 678 e ss.; Id., La transazione fiscale, in Rass. Trib., 2010, 1193 e ss.; G. Verna, I nuovi accordi di ristrutturazione, in S. Ambrosini (a cura di), Le nuove procedure concorsuali dalla riforma “organica” al decreto “correttivo”, Bologna, 2008, 593 e ss.; M. Basilavecchia, Funzione impositiva e forme di tutela, Torino, 2009, 251; L. Del Federico, La nuova transazione fiscale nel sistema delle procedure concorsuali, in Riv. Dir. Trib., 2008, 234 e ss.; V. Ficari, Riflessioni su “transazione” fiscale e “ristrutturazione” dei debiti tributari, in Rass. Trib., 2009, 75 e ss.; S. Lo Conte, La tutela giurisdizionale del debitore nell’ambito della transazione fiscale, in A. Caifa (a cura di), Le procedure concorsuali nel muovo diritto fallimentare, Torino, 2009, 700 e ss.; E. Stasi, Impugnabilità del diniego alla transazione fiscale – Transazione fiscale – La transazione fiscale dal punto di vista del giudice tributario, in Il Fall., 2014, 1222 e ss.; C. Attardi, Transazione fiscale: questioni procedurali, effetti sui crediti e sulla tutela giurisdizionale, in Il Fisco, 2017, 4448. Sebbene si mostri dubbioso, aderisce a questo orientamento anche: M. Basilavecchia, L’azione impositiva nelle procedure concorsuali: il caso della transazione fiscale, in Studi in onore di E. De Mita, Napoli, 2012, 72 e ss..
[8] La posizione è stata sostenuta, sebbene con sfaccettature differenti da: L. Tosi, La transazione fiscale, in Rass. Trib., 2006, 1083 e ss.; F. Randazzo, Il “consolidamento” del debito tributario nella transazione fiscale, in Riv. Dir. Trib., 2008, 825 e ss.; G. Gaffuri, Aspetti problematici della transazione fiscale, in Rass. Trib., 2011, 1124 e ss..
[9] Per un approfondimento della questione sia consentito rinviare a: M. Golisano, La nuova “transazione fiscale” dell’art. 63 del codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: fra nuove difficoltà interpretative, inediti poteri sostitutivi e definitive conferme circa la vincolatezza della funzione esercitata, in Riv. Trib. Dir. Trib., 2019, 499 e ss..
[10] Cfr. Circ. n. 15/E del 2018, par. 2.2 per la quale: «In definitiva, deve ritenersi che, nel caso di mancata raggiungimento della maggioranza per l’approvazione del concordato e di successiva dichiarazione di fallimento, il debitore e gli altri creditori potranno tutelare la propria posizione mediante la proposizione del reclamo di cui all’art. 18 L.F.”.
[11] Ed infatti, l’idea di tutela proposta si poneva sempre e comunque a valle dell’intera procedura concorsuale, presupponendosi l’intervenuto fallimento.
In un simile contesto, l’eventuale doglianza in ordine alla legittimità del voto, sarebbe valsa al più ad evitare il fallimento e quindi si sarebbe collocata in maniera del tutto incidentale rispetto all’illegittimità del voto, essendo il petitum immediato rappresentato dall’accertamento dell’astratta ammissibilità del concordato preventivo e non già dalla legittimità della determinazione assunta dall’Amministrazione finanziaria.
[12] Sul tipo di controllo demandato al Tribunale in sede di giudizio di omologa nell’ambito del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti si v., anche i per i dovuti richiami dottrinali: G. Carmellino, I giudizi di omologazione tra degiurisdizionalizzazione e contratto, Napoli, 2018, 120 e ss..
[13] Interpretazione, questa, poi rigettata dalla Suprema Corte la quale ha al contrario aderito alla tesi più restrittiva del c.d. “controllo di legittimità” enunciando il seguente principio di diritto: «Il giudice ha il dovere di esercitare il controllo di legittimità sul giudizio di fattibilità della proposta di concordato, non restando questo escluso dalla attestazione del professionista, mentre resta riservata ai creditori la valutazione in ordine al merito del detto giudizio, che ha ad oggetto la probabilità di successo economico del piano ed i rischi inerenti…» SS. UU. n. 1521/2013.
[14] Ed infatti, giova sottolineare che anche nel concordato, dove era già contemplato un potere generale di cram down previsto dall’originaria formulazione dell’art. 180, comma 4, l.f. e dove, del pari, era già contemplata un’ipotesi di estensione automatica degli effetti ai sensi dell’art. 184 l.f., trattavasi comunque di ipotesi che presupponevano, tutte, l’intervenuta apertura del giudizio di omologa la quale, a sua volta, presupponeva indefettibilmente l’intervenuta approvazione della proposta concordataria in sede di adunanza dei creditori. Ipotesi, questa, non ipotizzabile in caso di voto contrario determinante da parte di uno dei creditori in quanto, in tale ultimo caso, ai sensi dell’art. 179 l.f. non si sarebbe aperto il giudizio di omologa, bensì il tribunale avrebbe dovuto procedere alla declaratoria di inammissibilità del concordato ex art. 162, comma 2, l.f..
[15] Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, documento di prassi di Dicembre 2015.
[16] Per la Corte infatti: «nella sostanziale invarianza dei presupposti e delle modalità del “trattamento dei crediti tributari” dettata da quest’ultima e da quella previgente – e qui ratione temporis applicabile, deve ritenersi che anche dalla seconda tale sindacato fosse comunque affidato allo stesso tribunale fallimentare, nell’ambito delle sue competenze “omologatone” generali (art. 162, 163, 179 ss. e 182 bis e ter, L. Fall., rispettivamente per il concordato e l’accordo di ristrutturazione dei debiti)».
[17] Laddove parla di: «sindacato giudiziale sul diniego di accettazione della proposta transattiva».
[18] Cfr. G. Fransoni, Trattamento dei debiti tributari e concordato preventivo: dal procedimento al processo, in corso di pubblicazione su Rass. Trib., 2021.
[19] Sul punto si v.: G. Tesoro, Il principio “dell’inderogabilità” nelle obbligazioni tributarie della finanza locale, in Riv. It. Dir. Fin., I, 1937, 56 e ss.; R. Pomini, L’inderogabilità dell’obbligazione tributaria tra privato e comune, in Riv. Dir. Fin., II, 1950, 52 e ss.. Sull’inadeguatezza dei riferimenti normativi si v., più di recente: F. Batistoni Ferrara, L’evoluzione del quadro normativo, in Adesione, conciliazione ed autotutela: disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria?, Fondazione Luca Pacioli, studio n. 3, 2002, 20 e ss., nonché M. Poggioli, Il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in M. Poggioli (a cura di), Adesione, conciliazione, autotutela: disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria?, Milano, 2007, 5 e ss..
[20] La distinzione è stata introdotta per la prima volta da A. Berliri, Principi di diritto tributario, volume I, Milano, 1957, 110 e ss, per il quale, salvo un cambio di terminologia successivo, la potestà tributaria sarebbe stata “quella speciale esplicazione della capacità giuridica del soggetto attivo che riguarda l’istituzione e la regolamentazione dei tributi”.
[21] A. Berliri, Principi di diritto tributario, volume I, Milano, 1967, 177 e ss..
[22] A. D. Giannini, Circa l’inderogabilità delle norme regolatrici dell’obbligazione tributaria, in Riv. Dir. Fin., 1953, 291 e ss; Id., Istituzioni di diritto tributario, Milano, 1968, 79 e ss. L’Autore, pur partendo dalla medesima constatazione circa il modo di essere del rapporto giuridico d’imposta, ossia il suo essere un rapporto complesso, già presente nel Berliri, giunge a conclusioni diametralmente opposte. Nel senso che sarebbero stati gli altri elementi di tale rapporto e non già l’obbligazione tributaria ad essere disponibili, ciò in quanto quest’ultima avrebbe rappresentato “la parte essenziale e fondamentale, nonché il fine ultimo cui tende l’istituto dell’imposta”. L’importanza di tale passaggio è tutt’altro che secondaria perché per la prima volta l’accento viene messo, sebbene in maniera non decisiva (tanto è vero che l’indisponibilità in tale impostazione assume ancora un carattere relativo e non già assoluto) sul fine (e quindi sulla ratio) dell’imposizione. Tale riferimento è stato ripreso successivamente in particolare dal Falsitta con un’incisività ben più decisiva tramutandosi esso stesso (fine) nella vera ragione ultima dell’indisponibilità dell’imposta. In maniera analoga al Giannini si esprime anche G.A. Micheli, Profili critici in tema di potestà di imposizione, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 1964, 3 e ss.; Id., Corso di diritto tributario, Torino, 1981, 86 e ss. il quale, pur riprendendo la fondamentale distinzione tra potestà tributaria e singola obbligazione tipica del Berliri, contrappone alla “potestà normativa tributaria” la “potestà amministrativa tributaria” (o anche definita successivamente “potestà di imposizione”), indicante “l’aspetto finale del concretarsi della norma giuridica tributaria”, ossia il suo divenire, da potere impositivo astratto, singola obbligazione tributaria.
[23] Cfr. F. Gallo, La natura giuridica dell’accertamento con adesione, in Riv. Dir. Trib., 2002, 435 e ss.
[24] Sulle criticità relative all’individuazione positiva del concetto di “indisponibilità” si v. la lucida analisi di A. Guidara, Indisponibilità del tributo e accordi nella fase di riscossione, Milano, 2010, 68 e ss.; nonché M. Versiglioni, Accordo e disposizione nel diritto tributario, Milano, 2001, 312 e ss..
[25] Sottolinea un trend legislativo non certamente improntato al principio di indisponibilità: L. Tosi, Il delicato rapporto tra autorità e consenso in ambito tributario: il caso della transazione fiscale, in Giust. Trib., 2008, 13.
[26] Essendo diffusa in dottrina l’affermazione per la quale sarebbero tali e tante le deroghe al principio presenti nell’ordinamento da porne in dubbio l’effettiva sussistenza.
[27] Invero corre l’obbligo di rilevare come, sebbene la maggioranza deli Autori prenda le mosse dall’art. 53 Cost., poi sia opinione diffusa il dover ricondurre il fenomeno dell’indisponibilità agli artt. 2, 3 e 53 Cost. congiuntamente.
[28] Senza pretese di esaustività, aderiscono a tale impostazione, sebbene con sfaccettature differenti: A. Fantozzi, La teoria dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in Adesione, conciliazione ed autotutela: disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria?, in Fondazione Luca Pacioli,, studio n. 3, 2002, 6 e ss.; S. La Rosa, Gli accordi nella disciplina dell’attività impositiva: tra vincolatezza, discrezionalità e facoltà di scelta, in Giust. Trib., 2008, 13 e ss.; F. Gallo, Ancora sul neoconcordato e sulla conciliazione giudiziale tributaria, cit., 1994, 1491 e ss.; M. Beghin, Giustizia tributaria e indisponibilità dell’imposta nei più recenti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali. La transazione concordataria e l’accertamento con adesione, in Riv. Dir. Trib., 2010, 679 e ss.; M. Cardillo, La transazione fiscale: problemi e possibili soluzioni, Dir. e Prat. Trib., 2012, 1143 e ss.; M. T. Moscatelli, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, 2007, 126 e ss.; F. Batistoni Ferrara, L’evoluzione del quadro normativo, in Adesione, conciliazione ed autotutela: disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria?, cit., 2 e ss.; F. Paparella, Le situazioni giuridiche soggettive e le loro vicende, in A. Fantozzi (a cura di), Diritto tributario, Milano, 2012, 482 e ss.; M. Poggioli, Il principio della indisponibilità dell’obbligazione tributaria, tra incertezze definitorie e prospettive di evoluzione, cit., 5 e ss.; G. Falsitta, Giustizia e tirannia fiscale, Milano, 2008, 210 e ss.; Id., Il doppio concetto di capacità contributiva, in Riv. Dir. Trib., 889 e ss.; M. Allena, Profili costituzionali della transazione fiscale, in Studi in onore di E. De Mita, Napoli, 2012, 3 e ss.
[29] La formulazione originaria come obbligazione di riparto risale a L.V. Berliri, La Giusta imposta, 1945, 336 e ss.. Successivamente la teoria viene ripresa da G. Abbamonte, Principi di diritto finanziario, Napoli, 1975, 269 e ss., per il quale: “la spesa pubblica è in sostanza il dato dal quale si parte per ripartire il carico tra i vari soggetti obbligati al concorso, secondo la capacità contributiva di ciascuno. In tempi recenti, come noto, l’impostazione è stata ripresa dalla quasi generalità degli Autori e, in particolare, da G. Falsitta, Giustizia e tirannia fiscale, cit., passim. In generale sul tema si v., tra gli altri, G. Melis, Manuale di diritto tributario, Torino, 2020, 45 e ss.; A. Fedele, La funzione fiscale e la “capacità contributiva”, in Perrone – Belriri (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006, 1 e ss.; Id. Concorso alle pubbliche spese e diritti individuali, in Riv. Dir. Trib., 2002, 31 e ss.; Id., Dovere tributario e garanzie dell’iniziativa economica e della proprietà nella costituzione italiana, in Riv. Dir. Trib., 1999, 872 e ss.. Contra D. Stevanato, La giustificazione sociale dell’imposta. Tributi e determinabilità della ricchezza tra diritto e politica, Bologna, 2014, 97 e ss. L’A., nello sforzo concettuale di individuare un limite massimo all’imposizione, critica apertamente la scuola di pensiero che affida all’imposta una funzione di riparto ciò in quanto, assumendo tale prospettiva, verrebbe del tutto ribaltato il piano dei rapporti nel diritto tributario, finendosi per focalizzare inutilmente l’attenzione solo sui rapporti interni (ossia i rapporti fra contribuenti) e lasciando simmetricamente sullo sfondo quello che sarebbe il vero rapporto principale, di natura esterna (ossia il rapporto fra contribuenti e Stato). Nel pensiero dell’Autore e lungo questa direttrice, il principio di capacità contributiva andrebbe al contrario valorizzato in chiave protezionistica, ossia alla stregua di una norma limitatrice dei poteri sovrani di imposizione. Il fenomeno impositivo andrebbe quindi ricondotto alla misurazione e apprezzamento ai fini sociali dei redditi e patrimoni: posto che le entrate tributarie servono a finanziarie le spese pubbliche, tra tasse e diritti si verrebbe a creare un rapporto circolare, un’interdipendenza, nel senso che una collettività può garantire a sé stessa soltanto i diritti sociali e le libertà che è in grado di sostenere da un punto di vista economico. Per tale via, è evidente come l’Autore sposi la teoria del beneficio, sebbene questa appaia formulata non già nella sua declinazione più radicale (la quale interpreta il dovere alla contribuzione solo quale contraltare dei servizi resi dallo Stato), bensì in una variante maggiormente articolata. In termini parzialmente conformi, si v. anche: G. Gaffuri, La nozione della capacità contributiva e un essenziale confronto di idee, Milano, 2016, 308 e ss., per il quale all’art. 53 Cost. “non è assegnato e non è assegnabile un compito propulsivo per lo Stato impositore, nel senso di una sollecitazione o di un invito a perseguire obiettivi genericamente perequativi”.
[30] A. Smith, Wealth of Nations, London, 1776, Book V, Chapter 2, Part. 2. per il quale: “the expense of government to the individuals of a great nation is like the expense of management to the joint tenants of a great estate, who are obliged to contribute in proportion to their respective interests in the estate”.
[31] G. Falsitta, Giustizia e tirannia fiscale, cit., 58. In termini assai simili si v., anche: L. V. Berliri, La giusta imposta, Milano, 1945, 42 e ss., per il quale: “il parallelo della imposta […] è da ricercarsi nella gestione di affari esercitata nell’interesse di una collettività di interessati e in particolare nei contributi posti a carico dei singoli partecipanti a un consorzio (cfr. art. 2604 c.c.) che, si noti, possono anche essere obbligatori e come tali costituiti per legge”.
[32] Contra D. Stevanato, La giustificazione sociale dell’imposta. Tributi e determinabilità della ricchezza tra diritto e politica, cit., 135 e ss., il quale rifiuta tanto le premesse quanto le conclusioni di un simile ragionamento. Ed infatti – sostiene l’Autore – l’idea che la finanza statale possa essere accostata a quella di un grande condominio in realtà sarebbe figlia delle teorie sulla “protezione sociale”, tipiche degli Stati ottocenteschi ed il cui perno dogmatico era in realtà rappresentato dal principio del beneficio e, quindi, dall’idea di imposizione fiscale quale proporzionale alle ricchezze oggetto di protezione, ossia al valore connaturato ai servizi pubblici resi dallo Stato. Nel mutato contesto attuale, al contrario, la citata similitudine andrebbe respinta, sintetizzando, per almeno un triplice ordine di argomentazioni. In primo luogo, l’assenza di una “unicità” dell’imposta la quale, sola, consentirebbe di suddividere la spesa pubblica sui consociati, in uno con l’assenza di un vincolo di destinazione dei tributi che consentirebbe, in qualche misura, di rapportare le voci o capitolo di spesa al riparto uti singuli delle stesse. In secondo luogo, la rilevazione circa la non coincidenza tra l’ammontare dei carichi pubblici ed il gettito dei tributi, posto che la spesa potrebbe essere finanziata in parte mediante l’indebitamento. In terzo ed ultimo luogo, si ritiene che l’indice di riparto, per funzionare come tale, “dovrebbe rappresentare una frazione di una certa grandezza già conosciuta (i millesimi del condominio, l’estensione totale dei fondi dei consorziati, il valore complessivo delle merci caricate sulla nave), e fungere da coefficiente da applicare alla spesa […] per determinare la quota individuale di contribuzione […] occorre non soltanto conoscere la spesa da ripartire, ma altresì che gli indici di ripartono consentano una integrale copertura della stessa, il che può avvenire soltanto laddove tali indici rappresentino […]una frazione di un ammontare globale noto, in modo che la somma di tali frazioni restituisca appunto il totale; occorre inoltre che tali indici vengano utilizzati alla stregua di coefficienti per stabilire le quote individuali […] il che non si verifica affatto con i presupposti delle imposte, i quali vengono determinati in relazione alle concrete manifestazioni di ricchezza verificatesi in capo ai contribuenti […] senza che sia possibile stabilire alcuna relazione qualitativa […] con le spese di funzionamento dell’ente pubblico. In senso del tutto analogo si v., anche: D. Stevanato – R. Lupi, Determinazione della ricchezza, “obbligazione di riparto”, e ricchezza non registrata, in Dialoghi tributari, 2013, 7 e ss..
[33] In questa prospettiva, data l’identificazione della singola obbligazione come quota di un insieme, l’attenzione si sposta sull’individuazione dell’indice attraverso cui, dall’insieme, calcolare la singola quota. Questo, si sostiene, è generalmente rappresentato dagli indici di riparto, ossia da quei fatti o situazioni dai quali si fa dipendere la quota di contribuzione in capo al singolo, fissati dalla legge d’imposta. Cfr. G. Falsitta, Natura e funzione dell’imposta, con speciale riguardo al fondamento della sua “indisponibilità”, in S. La Rosa (a cura di), Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, Milano, 2008, 44 e ss..
[34] G. Falsitta, ult. op. cit., spec. 87.
[35] Su tali profili si v. F. Gallo, Nuove espressioni di capacità contributiva, in Rass. Trib., 2014, 771 e ss.; A. Giovannini, Ripensare la capacità contributiva, in Dir. e Prat. Trib., 2016, 15 e ss..
[36] G. Falsitta, Giustizia e tirannia fiscale, cit., 22 e ss..
[37] Cfr. F. Battistoni Ferrara, voce Accertamento con adesione, in Enc. Dir., Agg. II, Milano, 1998, 28 e ss.; Id., L’evoluzione del quadro normativo, in M. Poggioli (a cura di), Adesione, conciliazione ed autotutela: disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria?, Padova, 2007, 21 e ss.; G. Petrillo, La conciliazione giudiziale tributaria e la teoria germanica della “intesa effettiva”, in Giust. Trib., 2008, 8 e ss.; L. Tosi, Il delicato rapporto tra autorità e consenso in ambito tributario: il caso della transazione fiscale, cit., 12 e ss..
[38] Cfr. A. Giovannini, Il diritto tributario per principi, Milano, 2014, 103 e ss., il quale si esprime in questi termini: “personalmente – lo dico subito – non condivido la teoria pur autorevolmente sostenuta con argomentazioni rigorose che nega alla nostra obbligazione il carattere della disponibilità o, per meglio dire, non condivido se assunta tralaticiamente e senza tenere in debita considerazione il mutato quadro normativi di riferimento. Non dico che questa teoria sia un dogma ingiallito e men che meno che si traduca in un concetto ambiguo, ma non mi sembra ugualmente convincente, a petto del sistema giuridico attuale, continuare ad affermare che l’obbligazione tributaria, siccome obbligazione ex lege, radicata nell’art. 53 e ordinata dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, non possa mai formare oggetto di rideterminazione, neppure parziale, in via negoziale”.
[39] Perché si ritiene, espressioni dei più generali principi di efficienza e buona andamento di cui all’art. 97 Cost..
[40] Cfr. la dottrina richiamata alla nota n. 42.
[41] Su tale concetto sia qui consentito rinviare a: P. Boria, L’interesse fiscale, Torino, 2002, 200 e ss.; E. De Mita, Interesse fiscale e tutela del contribuente. Le garanzie costituzionali, Milano, 2006, 101 e ss.; A. Fedele, Concorso alle spese pubbliche e diritti individuali, in Riv. Dir. Trib., 2002, 31 e ss.; G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2005, 157 e ss..
[42] Cfr. S. La Rosa, Accordi e transazioni nella fase di riscossione dei tributi, in Irv. Dir. Trib., 2008, da 324 a 331; Id., Gli accordi nella disciplina dell’attività impositiva: tra vincolatezza, discrezionalità e facoltà di scelta, in Giust. Trib. 2008, 18 e ss.; V. Ficari, Transazione fiscale e disponibilità del “credito” tributario: dalla tradizione alle nuove “occasioni” di riduzione “pattizia” del debito tributario, in Riv. Dir. Trib., 2016, 481 e ss.. Secondo una prospettiva parzialmente diversa, pur valorizzando le differenze intercorrenti fra la fese di accertamento e quella di riscossione, non vi sarebbero comunque spazi per predicare profili dispositivi su an e quantum del tributo. In questo senso, per tutti, si v.: M.T. Moscatelli, Moduli negoziali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, cit., 100 e ss..
[43] Su tali profili si v., per tutti, A. Guidara, Indisponibilità del tributo e accordi in fase di riscossione, cit., 120 e ss..
[44] In particolare sostenuta da M. Miccinesi, Accertamento con adesione e conciliazione giudiziale, in Commento agli interventi di riforma tributaria, Padova, 1999, 3 e ss.. Si veda altresì A. Cuva, Conciliazione giudiziale ed indisponibilità dell’obbligazione tributaria, Milano, 2007, 27 il quale riconduce il principio di indisponibilità agli artt. 23, 53 e 97 Cost. nel loro insieme.
[45] M. Miccinesi, ult. Op. cit., 15.
[46] In particolare, tra gli altri sostenute da: P. Russo, Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, in Rass. Trib., 2008, 595 e ss; P. Biondo, L’istituto della compensazione in ambito tributario e la presunta indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in Rass. Trib., 2007, 948 e ss.; C. Crovato – R. Lupi, Conferma sull’indisponibilità del credito tributario come regola di contabilità pubblica, in Dialoghi Trib., 2008, 7 e ss., in cui in particolare gli Autori sostengono come la regola dell’indisponibilità sia certamente un principio generale, ma che in realtà questo vada relegato a mera regola di contabilità pubblica, non essendo afferente al rischio di intromissioni degli Uffici amministrativi tese a ridurre il carico tributario in nome di interessi extrafiscali di ordine generale. Ancora la tesi è sostenuta da: R. Lupi, Insolvenza e disposizione del credito tributario, in Dial. Dir. Trib., 2006, 457, dove viene sottolineato come “molti autori evocano il fantomatico principio della indisponibilità del credito tributario, espressione immeritatamente fortunata proprio grazie alla sua ambiguità”; M. Versiglioni, Accordo e disposizione nel diritto tributario, cit., 482 e ss., in cui il principio di indisponibilità è definito “assioma inconsistente”.
[47] Contra M. Poggioli, Il principio della indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in Adesione, conciliazione ed autotutela, disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione?, (a cura di) M. Poggioli, cit., 9 e ss., in cui l’Autore, partendo dall’assoluto ruolo di centralità svolto all’interno dell’ordinamento tributario dal principio di indisponibilità, e riconducendo lo stesso all’art 53 Cost., declina i nuovi istituti solo come l’effetto del nuovo modo d’intendere il rapporto tributario, “sempre maggiormente improntato ad una logica collaborativa e ad un ampliamento delle opportunità di attuazione concordata del tributo”.
[48] P. Russo, Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, in Rass. Trib., 2008, 595 e ss.. Detto altrimenti, la teoria porterebbe ad assimilare l’aspetto fisiologico a quello patologico dell’azione amministrativa. Per ciò che, se sul piano fisiologico non vi sarebbero ragioni ostative al riconoscimento di un potere dispositivo in capo all’Amministrazione nell’ottica della miglior cura dell’interesse pubblico, questo non potrebbe dipoi essere disconosciuto avendo lo sguardo rivolto solo all’aspetto patologico e, quindi, per meri fini cautelativi.
[49] Cfr. P. Russo, ult. op. cit., 607.
[50] Contra F. Batistoni Ferrara, L’evoluzione del quadro normativo, in Adesione, conciliazione ed autotutela, disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria? (a cura di) M. Poggioli, cit., 27.
[51] Nel senso di norma che autorizzi espressamente il funzionario a disporre si somme di esclusiva spettanza dello Stato, così evitando profili di responsabilità per gli eventuali danni patrimoniali a questo cagionati (su tale profilo si veda più specificatamente M. Versiglioni, Accordo e disposizione nel diritto tributario, cit., 395 e ss.).
In quest’ottica, pertanto, la ratio del dettare la disciplina in maniera espressa di atti che in realtà si sarebbero già potuti compiere anche in assenza della stessa, andrebbe rintracciata proprio nella limitazione della responsabilità del funzionario e, quindi, nell’intenzione da parte del legislatore di rimuovere anche quell’ultimo ostacolo che in via fattuale avrebbe impedito la concreta realizzazione degli stessi. Riprova di tale argomentazione dovrebbe essere così rintracciata nella precisa disciplina sulla motivazione dell’atto.
Quest’ultima, difatti, andrebbe intesa a favore dell’Amministrazione e non già del contribuente, rivestendo in definitiva una funzione di tipo valutativo del comportamento del singolo funzionario ai fini di una sua responsabilità. Cfr. P. Russo, Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, in S. La Rosa (a cura di), Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, Milano, 2008, 112 e ss. il quale conclude il proprio percorso argomentativo affermando la sussistenza di “ontologiche ragioni di principio per escludere la disponibilità del credito tributario”.
[52] Cfr. G Falsitta, Funzione vincolata di riscossione dell’imposta e intransigibilità del tributo, in Riv. Dir. Trib., 2007 1066, per il quale: «Rinunciare a ciò che mai si incasserà è una pseudorinuncia», ed ancora «rinunciare o disporre significa ridurre l’entità dell’incassabile».
[53] Su tale rapporto sia consentito rinviare nuovamente, anche per i dovuti richiami dottrinali, a M. Golisano, ult. Op. cit., 499 e ss.