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Il saluto “romano” e la “chiamata del presente”. La sentenza del Tribunale di Milano n. 12111/23 e la sentenza di Cass. Sez. Un. n. 16153/2024
di Piergiorgio Ponticelli
Sommario: 1. Il caso e alcune necessarie premesse - 2. La sintesi della discussione delle parti nel processo innanzi al Tribunale di Milano - 3. La sentenza del Tribunale di Milano, in sintesi - 4. La sentenza delle Sezioni Unite, in sintesi
1. Il caso e alcune necessarie premesse
Con la sentenza n. 12111 del 13 Luglio 2023, depositata il 27 Ottobre 2023, il Tribunale di Milano ha dichiarato colpevoli del delitto previsto e punito dagli artt. 110 c.p. e 5 della legge n. 645/1952, in esso assorbito quello previsto dall’art. 2 del d.l. 122/93 convertito con modificazioni dalla legge n. 205/1993, tredici soggetti imputati ex artt. 110, 112 n. 1 c.p., 2 d.l. 122/1993 e 5 L. 645/1952 perché, in concorso tra loro e con altri non identificati, ciascuno con specifici ruoli ben dettagliati nella seconda parte dell’imputazione, partecipando a Milano il 29 aprile 2018 a una pubblica manifestazione (non autorizzata) commemorativa di tre defunti – uno militante della Repubblica Sociale italiana ucciso in Piazzale Susa il 29 aprile 1945 da membri del Comitato di Liberazione Nazionale, l’altro militante del Fronte della gioventù ucciso il 29 aprile 1975 a Milano in Via Paladini da militanti di sinistra legati ad Avanguardia Operaia e il terzo un consigliere provinciale del MSI ucciso a colpi di pistola il 29 aprile 1976 a Milano, in Viale Lombardia, da un commando di Prima Linea - iniziativa promossa da due partiti politici e da un’associazione politica di estrema destra - compivano manifestazioni usuali del partito fascista e comunque di gruppi aventi tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, quali la "chiamata del presente" e il cosiddetto "saluto romano".
Il caso oggetto del giudizio si segnala sia perché la sua trattazione e la sua risoluzione hanno imposto di affrontare temi di particolare interesse quali sono la qualificazione giuridica da attribuire alla condotta, tenuta nel corso di una pubblica riunione, consistente nella risposta alla "chiamata del presente" e nel cosiddetto "saluto romano", il rapporto – se di specialità oppure di concorso di reati - tra la fattispecie di reato prevista dall’art. 5 della legge 645/1952 e quella prevista dall’art. 2, comma 1, del d.l. 122/1993, l’individuazione dei beni giuridici rispettivamente tutelati e la natura del pericolo – concreto oppure presunto (o astratto) – che le caratterizza, sia perché nelle more del deposito della sentenza del Tribunale di Milano, come si vedrà nel prosieguo, alcune di queste questioni, d’indubbia rilevanza anche sotto il profilo dei principi generali in materia di diritto penale, sono state rimesse al vaglio delle Sezioni Unite siccome controverse.
È necessario e opportuno rammentare, infatti:
che l’art. 5 della legge 645/52 (c.d. legge Scelba) incrimina e punisce con le pene della reclusione e della multa chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste;
che l’art. 1 della medesima legge, come modificato dall’art. 7 della legge 152/1975, prevede che “Ai fini della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione, si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista”;
che l’art. 2, comma 1, del d.l. 122/93, convertito con modificazioni dalla legge 205/1993 (c.d. legge Mancino), incrimina e punisce con le pene della reclusione e della multa chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654;
che l’art. 3 della legge n. 654/1975 è stato abrogato, a far data dal 6 aprile 2018, dall’art. 7 del d.lgs. n. 21/2018 e che l’art. 8, comma 1, dello stesso decreto legislativo prevede che “Dalla data di entrata in vigore del presente decreto, i richiami alle disposizioni abrogate dall'articolo 7, ovunque presenti, si intendono riferiti alle corrispondenti disposizioni del codice penale come indicato dalla tabella A allegata al presente decreto”;
che a far data dal 6 aprile 2018, dunque, il rinvio all’art. 3 della legge 654/75 deve intendersi effettuato all’art. 604 bis del codice penale e, di conseguenza, a “ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” (come del resto già prevedeva l’art. 3 stesso, essendosi trattato di un caso di abrogatio sine abolitione);
che prima del deposito della sentenza del Tribunale di Milano ma dopo la sua pronuncia, come esplicitamente segnalato nella motivazione della sentenza stessa, la prima sezione penale della Corte di cassazione, con ordinanza n. 38686 del 6 settembre 2023, depositata il 22 settembre 2023, Clemente e altri, aveva rimesso alle Sezioni Unite le seguenti questioni controverse: «Se la condotta consistente nel protendere in avanti il braccio nel "saluto fascista", evocativa della gestualità tipica del disciolto partito fascista, tenuta nel corso di una manifestazione pubblica, senza la preventiva identificazione dei partecipanti quali esponenti di un'associazione esistente che propugni gli ideali del predetto partito, integri la fattispecie di reato di cui all'art. 2 d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, ovvero quella prevista dall'art. 5 legge 30 giugno 1952, n. 645; se entrambe le disposizioni configurino un reato di pericolo concreto o di pericolo astratto e se le stesse siano tra loro in rapporto di specialità oppure possano concorrere»;
che con la sentenza n. 16153 del 18 gennaio 2024, depositata il 17 aprile 2024, Clemente e altri, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno risolto le questioni controverse fissando il seguente principio di diritto: «La condotta, tenuta nel corso di una pubblica riunione, consistente nella risposta alla "chiamata del presente" e nel cosiddetto "saluto romano" integra il delitto previsto dall'art. 5 legge 20 giugno 1952, n. 645, ove, avuto riguardo alle circostanze del caso, sia idonea ad attingere il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disp. trans. fin. Cost., potendo altresì integrare il delitto, di pericolo presunto, previsto dall'art. 2, comma 1, d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, ove, tenuto conto del complessivo contesto fattuale, la stessa sia espressiva di manifestazione propria o usuale delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all'art. 604-bis, secondo comma, cod. pen. (già art. 3 legge 13 ottobre 1975, n. 654)».
La sentenza del Tribunale di Milano ha dapprima proceduto alla ricostruzione del fatto, dipoi “alla disamina della questione della sussunzione di esso in una o entrambe le fattispecie contestate, illustrando l'opzione dell'assorbimento per il principio di specialità adottata dal Tribunale, dando, tuttavia, atto che, nelle more della pendenza dei termini per il deposito della presente motivazione, la questione del rapporto tra le due fattispecie è stata rimessa alle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione in ragione del contrasto formatosi nella Prima sezione penale della Corte di legittimità” e, infine, ha vagliato “la fondatezza dell'accusa in relazione all'opzione ermeneutica indicata”.
2. La sintesi della discussione delle parti nel processo innanzi al Tribunale di Milano
La discussione delle parti, dopo avere dato atto che la materialità dei fatti era incontroversa ad eccezione che per uno degli imputati, il cui difensore aveva posto in dubbio l'esatta attribuibilità del gesto contestato al suo assistito argomentando con la non nitidezza di una delle fotografie acquisite al processo, è stata sintetizzata nel modo che segue:
“ la discussione si è incentrata, da un lato, sulla configurabilità a titolo di concorso di reati di tutt'e due le fattispecie contestate, - in senso favorevole l'accusa pubblica, mentre in senso nettamente contrario, la parte civile e le difese degli imputati -; dall'altro, sulla fondatezza dell'accusa, ossia sulla sussistenza del reato o dei reati, in ragione della riconosciuta, per l'accusa pubblica e privata, ovvero del tutto disconosciuta, per le difese degli imputati, sussistenza del pericolo in concreto postulato.
In particolare, il P.M. ha rievocato i tratti specifici della composita manifestazione, riduttivamente relegata a mera commemorazione di defunti. Del resto, proprie le tre formazioni di estrema destra organizzatrici si sono sempre segnalate per una programmatica politica discriminatoria contro le diversità individuali, sociali ed etniche, oltre che per rievocare simbologie rituali del disciolto partito fascista, come, nella specie, la chiamata del presente. Inoltre, proprio la metamorfosi di tali commemorazioni celebrative in vere e proprie manifestazioni politiche, con conseguente aumento di tensione per l'ordine pubblico, indusse da diversi anni la Questura a negare le autorizzazioni di cortei, proprio come quella richiesta estemporaneamente senza preavviso dopo la fine della funzione religiosa il 29.4.20 18. Indi, il P.M. ha propugnato la configurabilità di entrambe le fattispecie, in ragione della specialità reciproca di esse, quanto al bene-interesse tutelato: da un lato, l'ordine democratico costituzionale, la legge Scelba; dall'altro, l'uguaglianza, la legge Mancino, vero e proprio crimine contro l'uguaglianza. Ancora, il P.M. ha richiamato la giurisprudenza anche recentissima e sempre concernente la medesima manifestazione, ma di altri anni, come quella recentissima avente ad oggetto l'evento del 29 aprile 2016, soprattutto in punto di riconoscimento del pericolo concreto. Tutte le descritte modalità della manifestazione, culminata con la rappresentazione tipica del disciolto partito fascista, quale il rito della chiamata del presente in quel peculiare contesto e ambiente, senz'altro integrarono il pericolo concreto di proselitismo postulato dalla giurisprudenza di legittimità e della Corte costituzionale. Infine, quanto al dolo, il P.M. ha richiamato il recentissimo arresto della Suprema Corte proprio relativo alla medesima manifestazione, ma di un altro anno, allorché non era stata riconosciuta la buona fede dell'imputato, a tanto non valendo il contrasto giurisprudenziale. La natura illecita della condotta e il contrasto giurisprudenziale non avrebbero mai potuto giustificare il dubbio, esimente della punibilità. Al contrario, l'assunzione consapevole e deliberata del rischio contrasta insanabilmente con l'invocato art. 5 del codice penale.
La parte civile, condivisi i rilievi del P.M., si è soffermata sulla trasfigurazione della commemorazione del 29 aprile, da molti anni, oramai, nient'affatto più tale, perché trasmodata in vera e propria manifestazione politica, come vera e propria prova di forza politica, di voluto e conseguito grosso impatto mediatico e sociale, quindi, ben oltre l'intento di mero ricordo pietistico laico. Anzi, intervenuti i divieti del corteo, il quale notoriamente si snodava per intere frazioni del quartiere città studi, gli organizzatori ricorsero ad astuti e subdoli stratagemmi per aggirare l'ostacolo, salvo preservare gli scopi propagandistico-politici; reale essenza della manifestazione. In particolare, gli organizzatori escogitarono di separare i punti di adunata delle tre formazioni estremistiche, salvo poi farle sfilare compatte e a schiera nell'affluire alla chiesa, sortendo il medesimo effetto identitario e propagandistico corrispondente a quello perseguito con il corteo inizialmente autorizzato da Piazzale Susa per tutta viale Argonne e fino alla Via Paladini n. 15. Inoltre, gli stessi inserirono artificiosamente nel programma la funzione religiosa, invece per tanti anni mai prevista, siccome sempre sbandierando trattarsi di una preghiera laica. Ancora, gli stessi ricorsero all’inopinata richiesta - senza preavviso né obiettiva ragion pratica- di sfilare in corteo tutt'attorno l'imponente complesso della Chiesa di Santi Nereo e Achilleo, in fondo a viale Argonne. Poi, pur in difetto di alcuna autorizzazione di ogni forma di corteo, dovendo dirigere verso il punto culminante di via Paladini n. 15, articolati in ben oltre un migliaio di persone inquadrate e irreggimentate per appartenenza, muovendosi con cadenza compatta e rituale, i partecipanti di fatto realizzarono un corteo, ponendo la DIGOS di fronte al fatto compiuto, di certo inibendo ad essa di intervenire per tema di disordini. Il tutto risolvendosi in un rito nient'affatto commemorativo di defunti, ma, in realtà, politico e, quindi, nient'affatto religioso. Rito in ogni fase organizzato e studiato per esaltare un messaggio politico del tutto esorbitante rispetto a quello simulato pietistico commemorativo. Del resto, il successivo passaggio a Piazzale Loreto fu evocativo della valenza propagandistica volta al proselitismo, esaltando il fascismo. Infine, la parte civile ha richiamato le considerazioni svolte dal P.M. in punto di dolo, senz'altro ravvisabile, nonostante talune oscillazioni giurisprudenziali, come tali non valevoli per escludere l'elemento psicologico.
Le difese degli imputati hanno, innanzitutto, contestato la configurabilità del concorso delle due fattispecie ascritte, invece, da ritenere in rapporto di specialità. Peraltro, l’art. 2 della legge Mancino rileverebbe in un contesto razzistico discriminatorio, nella presente sede, invece, per nulla apprezzabile. Le manifestazioni del 29 aprile furono da decenni autorizzate, sicché alcuna violazione specifica del TULPS, come l'art. 18, nemmeno nella presente vicenda fu contestata. Il reato speciale, ossia l'art. 5 della legge Scelba, in astratto configurabile, non ricorrerebbe nella specie per difetto del pericolo concreto di ricostituzione del partito fascista. Del resto, paradossalmente, se in tanti anni il pericolo non si integrò, non registrandosi alcuna ricostituzione, significa che quel pericolo concreto non è mai esistito. La simbologia della chiamata del presente vale solo a titolo identitaria, ma sempre pietistico, fermo restando che l'atto si esaurisce in poche decine di secondi, sì da non poter rappresentare alcun pericolo. Né i partecipanti facevano riferimento a formazioni politiche illegali, tant'è che due di esse poterono partecipare alle elezioni politiche. Anzi, le stesse formazioni sono attive nel volontariato e perseguono scopi solidaristici nell'ambito della destra sociale. In ultima analisi, si è sempre trattato di una commemorazione pietistica per nulla proiettata politicamente. Le difese hanno richiamato le pronunce della Suprema Corte proprio relative alla medesima manifestazione, ma di altri anni, disconoscenti alcun pericolo concreto. Infine, le difese degli imputati, proprio valorizzando il contrasto giurisprudenziale, hanno invocato, nel dubbio, la buona fede dei propri assistiti”.
3. La sentenza del Tribunale di Milano, in sintesi
In sintesi, la sentenza del Tribunale di Milano:
ha seguito l'orientamento che ritiene il rito della chiamata del presente una manifestazione tipica del disciolto partito fascista nella fattispecie della legge Scelba (legge 645/52), considerandola speciale rispetto alla fattispecie della legge Mancino (art. 2, comma 1, d.l. 122/93);
ha ritenuto che nel caso di specie fosse stata senz'altro integrata la condotta tipica ex art. 5 della legge Scelba della manifestazione fascista, realizzata in pubblica riunione, sulla pubblica via e in luogo affollato, con lo svolgimento di un rituale annunciato e tipico di una manifestazioni di tale natura e con frasi preparatorie “finalizzate tutte a quel preciso epilogo proprio sotto la targa del caduto, in modo da attrarre, non solo, i passanti, ma anche, come ogni anno, i media, amplificando a dismisura la risonanza dell'evento, sia nel complesso che nel suo epilogo funzionale”;
ha evidenziato che la chiamata del presente scandita dall’appello dei camerati caduti << consiste nella risposta degli astanti in coro con l'affermazione simultanea ''presente" e il saluto romano o fascista, ossia in modo scattante, levando il braccio e la mano destra, con il palmo verso il basso, protesi verso l'alto, inclinati a 45°, in modo simultaneo. Quindi, la risposta corale e simultanea con il presente e il saluto fascista o romano rispetto all'appello intonato dall’officiante fu l 'articolazione ordinaria; anzi quella proprio rituale. Peraltro, il rito dell’appello o del presente per commemorare i caduti fu notoriamente emblematico nella simbologia liturgica fascista, tant'è che fu appositamente disciplinato alla voce "Appello fascista" del Dizionario di politica edito dal Partito Nazionale Fascista nel 1940, voluto espressamente da MUSSOLINI >>; e che << in conclusione, il rito della chiamata del presente, contraddistinto dall'appello e dalla risposta gridata ''presente" e dal gesto della levata del saluto fascista, fu quello tipico del disciolto partito fascista >>;
ha ritenuto che nel caso di specie sussistesse il necessario pericolo concreto, in relazione al contesto e all'ambiente della manifestazione pubblica in questione, << declinato secondo l'accezione della Corte costituzionale e della costante giurisprudenza di legittimità, valorizzanti il momento e l’ambiente: Corte cost. sentenze n. 74 del 6.12.1958 e n. 15 del 27.2.1973; Cass., Sez. 1^ n. 12049, 17.2.2023, Polacchi, non massimata; Cass., Sez. 1^ n. 3806, 19.11.2021 , Buzzi, Rv 282500; Cass., Sez. 5^, n. 36162, 18.4.2019, Alberga, Rv 277526-01; Cass., Sez. 1^ n. 37577, 25.3.2014, Bonazza, Rv 259826; Cass. Sez. 1^ n. 3826, 18.1.1972, Libanore, Rv 121163. Del resto, come ribadito dal più recente arresto (Cass., Sez. 1^ n. 12049, 17.2.2023, Polacchi), "la giurisprudenza di legittimità che si è occupata dell'art. 5 della legge Scelba ha sempre affermato che il delitto di cui all'art. 5 della legge 20 giugno 1952, n. 645 (come modificato dall'art. 11 della legge 22 maggio 1975, n. 152) è reato di pericolo concreto, che non sanziona le manifestazioni del pensiero e dell'ideologia fascista in sé, attese le libertà garantite dall'art. 21 Cast., ma soltanto ove le stesse possano determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste, in relazione al momento ed all'ambiente in cui sono compiute, attentando concretamente alla tenuta dell'ordine democratico e dei valori ad esso sottesi» (cfr Cass., Sez. 1^, n. 11038, 02.03 .2016, Goglio, Rv. 269753) >>;
ha ritenuto che non sia la manifestazione esteriore come tale a essere incriminata ma il suo realizzarsi «in condizioni di pubblicità tali da rappresentare un concreto tentativo di raccogliere adesioni a un progetto di ricostituzione del partito fascista, al riguardo da intendersi, non in senso eminentemente storico, ma anche attualizzato in continuità ideale, riproponendone i tratti distintivi della supremazia razziale e sociale, della discriminazione personale, sociale, etnica, sessuale e religiosa, nonché, talora, pure della violenza come metodo di lotta politica;
dunque, si è consapevolmente discostata dall’orientamento seguito, invece, da Cass. Sez. 1^ n. 7904 del 12 ottobre 2021, depositata il 4 marzo 2022, Rv 282914, Scordo (così massimata: Non sussiste rapporto di specialità fra il reato di cui all'art. 2 del d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito con modificazioni nella legge 25 giugno 1993, n. 205, che incrimina le manifestazioni esteriori, suscettibili di concreta diffusione, di simboli e rituali dei gruppi o associazioni che propugnano nell'attualità idee discriminatorie o razziste, e quello di cui all'art. 5 della legge 26 giugno 1952, n. 645, come modificato dall'art. 11 della legge 22 maggio 1975, n. 152, che sanziona il compimento, in pubbliche riunioni, di manifestazioni simboliche usuali o di gesti evocativi del disciolto partito fascista, non sussistendo un rapporto di necessaria continenza tra le due fattispecie, caratterizzate da un diverso ambito applicativo), che nella motivazione aveva ritenuto, fra l’altro: 1) che per applicare la disposizione incriminatrice dell’art. 2 d.l. 122/93 << in punto di simbologia, il nesso di correlazione contenuto nel testo della legge impone che si tratti non già di una organizzazione “storica” ma di una organizzazione (movimento, gruppo) esistente ed operante nel momento in cui viene posta in essere la condotta penalmente rilevante. Non vi è altra interpretazione possibile, dato che le disposizioni della legge n. 654 del 1975 non mirano ad inibire la rievocazione di gruppi storici ma a punire condotte di tipo associativo (con ampio reticolato normativa) esistenti nell'attualità, con primaria necessità di identificazione del 'gruppo' cui le condotte di proselitismo accedono. Ed è appena il caso di rilevare che le disposizioni già contenute nella legge del 1975 in tema di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica o religiosa sono state trasfuse, con il d.lgs. n. 21 del 1° marzo 2018, nel testo del codice penale (artt. 604-bis e 604-ter cod. pen.), sicché la integrazione della fattispecie relativa all'art. 2 del d.l. n.122 del 1993 va oggi realizzata in riferimento a quanto previsto dal comma 2 dell'art. 604-bis cod. pen. (ove è espresso il divieto di costituire o partecipare ad organizzazioni, gruppi, associazioni o movimenti aventi tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi). Ciò non toglie che, in via di fatto: a) il gruppo attualmente esistente si richiami ad ideologie passate che hanno coltivato analoghi disvalori in punto di discriminazione o violenza per motivi razziali, tra cui l'ideologia fascista o nazista; b) il gruppo possa, in concreto, fare uso di simboli di 'quelle' organizzazioni storiche a fini di identificazione della matrice ideologica. Ma ciò che caratterizza la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 2 del d.l. n.122 del1993 è proprio il nesso funzionale con organizzazioni o gruppi esistenti oggi, il che inevitabilmente ricade sul fronte della connotazione di pericolosità. Qui il reato può ritenersi di pericolo presunto essenzialmente in ragione della indefettibile correlazione con il 'gruppo' che attraverso quel particolare simbolo fa, oggi, una reale attività di incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali >>; 2) che di conseguenza, per le considerazioni che precedono, fosse impropria l'adozione, nel caso al suo vaglio, della categoria dogmatica della specialità di cui all'art. 15 cod. pen.; 3) che soltanto << la esistenza di un rapporto di continenza - derivante dal confronto strutturale tra le fattispecie - nel cui ambito si individui in una delle due disposizioni un elemento specializzante impone dunque di applicare esclusivamente la disposizione “speciale” (e non di scegliere se applicare la disposizione generale o quella speciale) salvo che sia altrimenti stabilito >>; 4) che << Negli altri casi la quaestio iuris va risolta applicando il generale principio di tipicità/tassatività dell'illecito e le norme in tema di concorso di reati (art. 81 con la deroga di cui all'art. 84 cod. pen.) >> ; 5) che << In realtà le due disposizioni incriminatrici hanno possibili aspetti di convergenza fattuale ma non possono essere ritenute collocabili nella dimensione della specialità. L'art. 5 della legge Scelba inquadra una condotta di rievocazione storica del «disciolto» partito fascista attraverso un determinato comportamento simbolico. L'art. 2 del d.l. n. 122 del 1993 incrimina a determinate condizioni l'utilizzo di emblemi o simboli 'propri o usuali' di organizzazioni o gruppi che, all'attualità, incitino alla discriminazione o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi >>; 6) che << Dunque se da un lato vi è un aspetto di possibile interferenza (il fascismo ha promosso storicamente discriminazione e violenza anche per motivi razziali, fermi restando altri concorrenti disvalori), dall'altro nel confronto tra le fattispecie astratte non vi è continenza, sia in ragione della maggiore ampiezza delle connotazioni ideologiche negative del fascismo, sia per l'essenziale diversità di ambito applicativo rappresentata dalla correlazione tra l'uso dei simboli e la identificazione di un gruppo/movimento /associazione oggi esistente (secondo la legge del 1975) che persegua il particolare finalismo discriminatorio >>; 7) di andare in espresso e consapevole dissenso rispetto all’orientamento di Cass, sez. I n. 21409 del 27.3.2019, rv 275894-01, Leccisi (così massimata << Il cd. "saluto romano" o "saluto fascista", nella specie accompagnato dall'espressione "presenti e ne siamo fieri", è una manifestazione esteriore propria od usuale di organizzazioni o gruppi indicati nel decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205 (recante misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa), ed inequivocabilmente diretti a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico; ne consegue che il relativo gesto integra il reato previsto dall'art. 2 del citato decreto-legge>>) poiché in quella decisione << non viene esaminato il profilo - da ritenersi ineludibile - della inerenza delle manifestazioni o gestualità ad associazioni o gruppi attivi e presenti nella realtà fenomenica attuale, cui si riferisce la disposizione incriminatrice in modo espresso ( ... propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, di cui all'art. 3 l. n. 654 del 1975) gruppi che vanno previamente identificati, allo scopo di comprendere se si stratti di aggregazioni umane che hanno tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Ciò in aderenza ai principi di tassatività delle norme incriminatrici e necessaria corrispondenza tra fatto concreto e fattispecie astratta >>;
la sentenza del Tribunale di Milano, sul punto, ha affermato che << Al contrario, l'ambito applicativo della legge Scelba è sì circoscritto alle manifestazioni tipiche del disciolto partito fascista - come nel caso di specie per il rito della chiamata del presente con correlato saluto fascista - , mentre il pericolo di ricostituzione del partito fascista è semanticamente riferito a una formazione che ne perpetui e richiami i postulati fondamentali, ma senza replicarli in modo pedissequo, esattamente come avvenne per la formazione estremistica Ordine Nuovo, sciolta d'imperio negli anni '70, proprio perché ricostitutiva del partito fascista, ma senza duplicarne tutte le caratteristiche anche formali e denominative. Di qui, la ribadita legittimità costituzionale dell'art. 5 della legge Scelba per la perdurante attualità dell'esigenza di tutela delle istituzioni democratiche, atta a legittimare limitazioni alla libertà di espressione, secondo quanto previsto anche dall'art. 10 e dall’art. 17 della Convenzione Europea per i Diritti dell'Uomo >>;
ha ritenuto - dopo avere ribadito “l’inveramento del pericolo concreto” per le ragioni dette e per quelle che si diranno nel prosieguo - di dovere valutare, quale elemento normativo della fattispecie dell’art. 2 del d.l. 122/93 (che punisce chi in pubbliche riunioni compia manifestazioni esteriori o ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi fondati sul razzismo e la discriminazione), se il fascismo rientri in siffatte organizzazioni etc, razziste e discriminatorie;
si è ampiamente diffusa sui motivi, anche sociali e storici, per cui ha ritenuto che il fascismo, “senza particolari periodizzazioni artatamente involutive”, “fu essenzialmente razzista sin dalle origini e, quindi, può essere sussunto nelle organizzazioni razziste di cui all'art. 2 della legge Mancino”;
ha ritenuto che << Ulteriore corollario è che le manifestazioni esteriori, i simboli o emblemi propri di tali congreghe o organizzazioni, quindi anche se relative al fascismo, sono punite dalla legge Mancino, qualora fossero ostentati in pubbliche riunioni. Tanto vale per l'ostentazione pubblica di vessilli con fasci littori, celtiche, ma anche svastiche etc. Alla luce di tali rilievi, dunque, nell'ipotesi del rito della chiamata del presente, come disciplinato dalla specifica liturgia fascista passata in rassegna, si verte di un elemento specializzante rispetto a tutti quelli delle innominate formazioni, organizzazioni etc razziste. Elemento specializzante che assorbe la fattispecie della legge Mancino, rendendo speciale la legge Scelba senza configurare alcun concorso di norme. Né vale enucleare una sostanziale divergenza del bene interesse tutelato: l'ordine pubblico costituzionale, la legge Scelba; l 'uguaglianza, la legge Mancino. Ed invero, a ben osservare, l'uguaglianza costituisce uno dei fondamenti dell'ordine pubblico costituzionale. Parimenti, la natura del pericolo non vale a rendere reciprocamente specifiche le fattispecie. Se è vero che la legge Scelba postula il pericolo in concreto, declinato secondo il momento e l'ambiente; è anche vero che è controversa la ricorrenza dell'analogo tipo di pericolo per la legge Mancino, laddove, anche fosse configurato in termini di pericolo astratto, per essere costituzionalmente orientato, presuppone il rinvenimento nella fattispecie di elementi che consentano di ritenere dotate di attitudine offensiva le condotte illecite (cfr Corte cost. n. 225 del 1974) >>;
ha vagliato (con esito positivo) se della fattispecie prevista e punita dalla legge Scelba (n. 645/52), art. 5, ricorresse effettivamente nel caso di specie anche il pericolo concreto come sopra declinato, tenendo conto, tra le altre, anche delle sentenze n. 74/1958 e n. 1/1957 della Corte costituzionale e pure con riferimento specifico alla “pubblica riunione”, individuando segnatamente il carattere e l’essenza del pericolo concreto non già nella diretta e immediata ricostituzione del partito nazionale fascista o del partito fascista della Repubblica Sociale Italiana bensì nell’esistenza di atti preparatori e prodromici causalmente diretti a quella ricostituzione, in quel determinato momento e in quel determinato ambiente e quindi con adeguata contestualizzazione e perciò adeguatamente contestualizzati, che come tali trascendono da ogni intento o movente celebrativo, commemorativo, pietistico, oblativo o di suffragio << per veicolare, invece, in modo strumentale, un messaggio propagandistico politico volto a riscuotere consensi su quei progetti politici, incentrati sul coacervo di valori di intolleranza, razzismo, discriminazione e rigetto del metodo democratico per la lotta politica. La stessa pubblica riunione va interpretata secondo il medesimo parametro, essendo sì necessaria, ma non ancora sufficiente di per sé, proprio perché occorre ancora verificare, con approfondita disamina fattuale, l'effetto e la natura di quel carattere pubblico ai fini dell'apprezzamento del pericolo concreto nel senso chiarito >>;
ha concluso, sulla base della ricostruzione probatoria effettuata, che << Esaminando con attenzione tutta la manifestazione, è, dunque, dato cogliere quanto l’elemento pietistico e di asserito raccoglimento, fosse stato oltremodo trasfigurato in un potente e amplissimo messaggio propagandistico volto a raccogliere consensi attorno a una precisa ideologia e a impressionare le folle. Né vale, sempre secondo l'approccio difensivo selettivo e minimalistico, descrivere tutta la complessa manifestazione come di semplice e anodina affermazione identitaria. Di contro, la manifestazione si risolse in una manifestazione politica di propaganda volta a raccogliere consensi, compiendo una vera e propria prova di forza politica, come condivisibilmente argomentato dalla difesa di parte civile. La commemorazione mossa dalla pietas e volta all'omaggio in suffragio ai caduti volutamente esorbitò, in modo eclatante e, soprattutto, gratuito, in una manifestazione fascista di propaganda volta al proselitismo, impressionando le folle. I descritti mezzi impiegati furono idonei ed efficaci. La manifestazione non fu, dunque, commemorativa nel senso minimalista e meramente rivolto al lontano passato, con forme pittoresche e innocue. La manifestazione fascista della celebrazione pubblica per cui è causa fu, dunque, pericolosa in concreto in relazione al momento e all’ambiente. Ne consegue che fu, senz'altro, integrato il pericolo concreto postulato dalla fattispecie, come declinato dalla univoca e costante giurisprudenza di legittimità sulla scorta delle due note pronunce della Corte costituzionale >>;
infine, ha esaminato e disatteso la questione della pretesa buona fede, fatta valere dai difensori degli imputati, richiamandosi alla sentenza (non massimata) di Cass. I n. 12049 del 17 febbraio 2023, depositata il 22 marzo 2023, Polacchi, e facendo propri i principi ivi affermati: << la necessaria concretezza del pericolo, in relazione al momento ed all'ambiente in cui sono compiute le manifestazioni esteriori, e dell'attentato alla tenuta dell'ordine democratico e dei valori ad esso sottesi caratterizzato dal pericolo di ricostituzione dell'ideologia fascista, costituiscono dei punti fermi nell'evoluzione giurisprudenziale di legittimità. La giurisprudenza di legittimità è, del resto, pienamente aderente all'insegnamento della Corte costituzionale, la quale ha chiarito che è la «intenzione de/legislatore, il quale, dichiarando espressamente di voler impedire la riorganizzazione del disciolto partito fascista, ha inteso vietare e punire non già una qualunque manifestazione del pensiero, tutelata dall'art. 21 della Costituzione, bensì quelle manifestazioni usuali del disciolto partito che, come si è detto prima, possono determinare il pericolo che si è voluto evitare . ... La ratio della norma non è concepibile altrimenti, nel sistema di una legge dichiaratamente diretta ad attuare la disposizione XII della Costituzione. !!legislatore ha compreso che la riorganizzazione del partito fascista può anche essere stimolata da manifestazioni pubbliche capaci di impressionare le folle; ed ha voluto colpire le manifestazioni stesse, precisamente in quanto idonee a costituire il pericolo di tale ricostituzione» (Corte costituzionale, sentenza n. 7 4 del l 958). Con questa interpretazione, coerente a quella che la Corte costituzionale ha dato nella sentenza n. l del1957 in merito all'art. 4 della legge Scelba, l'art. 5 l. n. 645 del l 952 si inquadra perfettamente nel sistema delle sanzioni dirette a garantire il divieto posto dalla XII disposizione transitoria, né contravviene al principio dell'art. 21, primo comma, della Costituzione. Le manifestazioni di carattere simbolico e apologetico devono essere sostenute, per ciò che concerne il rapporto di causalità fisica e psichica, dai due elementi della idoneità ed efficacia dei mezzi rispetto al pericolo della ricostituzione del partito fascista, sicché quando questi requisiti sussistono, l'ipotesi di cui all'art. 5 legge citata è costituzionalmente legittima. Questo principio è, d'altra parte, fondato sulla stessa ratio legis che è quella di evitare, attraverso l'apologia e le manifestazioni proprie del disciolto partito, il ritorno a qualsiasi forma di regime in contrasto con i principi e l'assetto dello Stato: tale ratio informa di sé ogni singola disposizione di cui si compone la legge 20 giugno l 952, n. 645. Necessario corollario di tale costante interpretazione giurisprudenziale è, in effetti, l'irrilevanza della questione dell'errore sul precetto ex art. 5 cod. pen. La giurisprudenza ha da tempo chiarito che «l'esclusione di colpevolezza per errore di diritto dipendente da ignoranza inevitabile della legge penale può essere giustificata da un complessivo e pacifico orientamento giurisprudenziale che abbia indotto nell'agente la ragionevole conclusione della correttezza della propria interpretazione del disposto normativa. Ne consegue che in caso di giurisprudenza non conforme o di oscurità del dettato normativa sulla regola di condotta da seguire non è possibile invocare la condizione soggettiva di ignoranza inevitabile, atteso che, in caso di dubbio, si determina un obbligo di astensione dall'intervento, con l'espletamento di qualsiasi utile accertamento volto a conseguire la corretta conoscenza della legislazione vigente in materia > (Sez. 6, n. 6991 del 2510112011, Sirignano, Rv. 249451). Del resto, è proprio la Carta costituzionale che, alla XII disposizione transitoria e finale, vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista e stigmatizza, perciò, la condotta posta in essere dagli imputati, sicché non è neppure in astratto ipotizzabile l'errore sul precetto >>.
4. La sentenza delle Sezioni Unite, in sintesi
Si è detto che nelle more del deposito della sentenza del Tribunale di Milano la questione controversa è stata rimessa alle Sezioni Unite, che l’hanno risolta affermando il principio di diritto che si è già menzionato.
Le ragioni del contrasto erano date dall’esistenza di due contrapposti orientamenti. Il primo riteneva che il saluto fascista integrasse il reato di cui all'art. 2 d.l. n. 122 del 1993, << trattandosi di una manifestazione esteriore che costituisce rappresentazione tipica delle organizzazioni o dei gruppi inequivocabilmente diretti a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico >> (così, in motivazione, la sentenza delle Sezioni Unite Clemente). Nell’ordinanza di rimessione la prima sezione penale aveva richiamato a tale riguardo le sentenze di Cass. Sez. l, n. 21409 del 27/03/2019, Leccisi, Rv. 275894 – 02, Sez. l, n. 25184 del 04/03/2009, Saccardi, Rv. 243792 – 01, Sez. 3, n. 37390 del 10/07/2007, Sposato, Rv. 237311 - 01). Il secondo orientamento, invece, ravvisava << nel "saluto romano", gesto evocativo del disciolto partito fascista, la violazione dell'art. 5, legge n. 645 del 1952, a condizione che, trattandosi di reato di pericolo concreto, la condotta sia idonea a determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste in relazione al momento e all'ambiente in cui è compiuta >> (così, in motivazione, la sentenza delle Sezioni Unite Clemente). Nell’ordinanza di rimessione, al riguardo, erano state richiamate le sentenze di Cass. Sez. 5, n. 36162 del 18/04/2019, Alberga, Rv. 277526-01, Sez. 1, n. 11038 del 02/03/2016, Goglio, Rv. 269753-01, Sez. 1, n. 37577 del 25/03/2014, Bonazza, Rv. 259826- 01. L’ordinanza di rimessione, tuttavia, come evidenziato dalle Sezioni Unite nella sentenza Clemente, aveva anche segnalato <<due ulteriori profili di criticità interpretativa. Un primo aspetto attiene all'inquadramento delle condotte in esame nell'ambito della categoria dogmatica dei reati di pericolo concreto ovvero di pericolo astratto. Infatti, secondo la ricognizione della giurisprudenza effettuata dall'ordinanza di rimessione, la violazione dell'art. 5 legge n. 645 del 1952 darebbe luogo ad un reato di pericolo concreto (espressive di tali sentenze sarebbero Sez. 5, n. 36162 del 18/04/2019, Alberga, Rv. 277526 - 01; :Sez. l, n. 1103B del 02/03/2016, Goglio, Rv. 269753 - 01; Sez. l, n. 37577 del 25/03/2014, Bonazza, Rv. 259826 - 01), mentre la violazione dell'art. 2, d.l. n. 122 del 1993 sarebbe riconducibile alla categoria dei reati di pericolo astratto (Sez. l, n. 21409 del 27/03/2019, Leccisi, Rv. 275894 -02), atteso che la condotta, rievocando l'ideologia fascista e i valori della discriminazione razziale e dell'intolleranza, farebbe assumere alla norma una funzione di tutela preventiva del bene giuridico protetto. In riferimento alla categoria dei reati di pericolo astratto, la Sezione rimettente rammenta altresì l'elaborazione compiuta sul tema dalla giurisprudenza costituzionale (di cui si citano Corte cost., sent. n. 225 del 2008 e sent. n. 286 del 1974) la quale, nel ritenerne la compatibilità con il precetto costituzionale, ha precisato che all'interprete è demandato di accertare se la condotta illecita, nel caso concreto, sia comunque connotata da offensività, secondo una valutazione ex ante e fondata sulle relative circostanze di tempo e di luogo in cui l'azione si è sviluppata. Un secondo profilo attiene poi alla natura del rapporto - di specialità ovvero di concorso apparente di norme - tra le due fattispecie oggetto di esame: in particolare, mentre, alla stregua di Sez. l, n. 3806 del 19/11/2021, Buzzi, Rv. 282500- 01, tra le stesse sarebbe dato rinvenire un rapporto di specialità, secondo invece Sez. l, n. 7904 del 12/10/2021, dep. 2022, Scordo, Rv. 282914- 02, tale rapporto dovrebbe escludersi, posto che i due reati sarebbero caratterizzati da un diverso ambito applicativo>>.
Nelle proprie articolate note di udienza la Procura Generale aveva così concluso:
<< …Dunque – e con riserva di ulteriore argomentazione in sede di discussione – ai plurimi quesiti posti nell’ordinanza di rimessione, possono fornirsi le seguenti soluzioni:
- La condotta consistente nel protendere in avanti il braccio nel “saluto fascista”, evocativa della gestualità tipica del disciolto partito fascista, tenuta nel corso di una pubblica riunione, senza la preventiva identificazione dei partecipanti quali esponenti di un’associazione esistente che propugni gli ideali del predetto partito, integra la fattispecie di reato di cui all’art. 2 d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, qualora, nella situazione data, tali condotte comportino, secondo il rigoroso accertamento di fatto, un pericolo concreto ed attuale per la pacifica convivenza, in quanto possibile fonte di disordine materiale incontrollato e di reazioni violente;
- la fattispecie di cui all’art. 2, d.l. 26 aprile 1993, n. 122 configura, al pari di quella prevista dall’art. 5 legge 30 giugno 1952, n. 645 un reato di pericolo concreto;
- non sussiste un rapporto di specialità tra le due predette fattispecie…>>.
Le Sezioni Unite hanno risolto le questioni controverse, come detto, ritenendo che la condotta, tenuta nel corso di una pubblica riunione, consistente nella risposta alla "chiamata del presente" e nel cosiddetto "saluto romano" integri il delitto previsto dall'art. 5 legge 20 giugno 1952, n. 645, ove, avuto riguardo alle circostanze del caso, sia idonea ad attingere il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disp. trans. fin. Cost., e che la stessa condotta possa altresì integrare il delitto, di pericolo presunto, previsto dall'art. 2, comma 1, d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, ove, tenuto conto del complessivo contesto fattuale, la stessa sia espressiva di manifestazione propria o usuale delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all'art. 604-bis, secondo comma, cod. pen., già art. 3 legge 13 ottobre 1975, n. 654.
La sentenza delle Sezioni Unite, dopo avere ricostruito nel dettaglio i termini del contrasto giurisprudenziale:
-si sofferma sui tratti distintivi delle due norme e sui rapporti tra esse intercorrenti, dapprima osservando che << ad un nucleo comune, rappresentato, appunto, dal compimento di manifestazioni durante pubbliche riunioni, si affianca un elemento di sicura differenziazione dato dalle diverse entità cui rapportare le esibizioni tenute >>, di poi rilevando la diversità del bene giuridico tutelato, individuato nell’ordine pubblico democratico o costituzionale (non nell’ “ordine pubblico materiale”) quanto alla fattispecie di pericolo concreto di cui all’art. 5 della legge 645/52 (<< In definitiva, è la stessa funzione "ancillare" della norma dell'art. 5 cit. rispetto ad una precisa disposizione costituzionale che rivela l'oggetto del pericolo che si vuole contrastare - ovvero la ricostituzione del disciolto partito fascista - e, allo stesso tempo, per conseguente necessità di considerare i limiti intrinseci del bilanciamento con altri valori costituzionali, la natura non astratta bensì concreta dello stesso. In altre parole, la necessità per il giudice di “appurare se, alla luce delle specifiche circostanze, sussista una seria probabilità di verificazione del danno” (così, testualmente, Corte cost., sent. n. 139 del 2023, quanto ai reati di pericolo concreto) non può non discendere dalla necessaria considerazione di un tale bilanciamento >>) e nei beni costituzionalmente protetti dagli artt. 2 e 3 Cost. della solidarietà, della dignità e dell’uguaglianza della persona quanto alla fattispecie prevista dall’art. 2 del d.l. 122/1993 (<< In realtà, i "valori in gioco" sono, nella specie, di entità sensibilmente più ampia rispetto al solo aspetto di "ordine pubblico": al di là della "costruzione" della norma, fondata sulla già ricordata "mediazione normativa" data dal richiamo all'art. 3 cit., è la necessaria coniugazione delle pubbliche manifestazioni con il contenuto delle stesse, evocante ideologie di tipo discriminatorio specificamente emergenti dalla norma e proprie od usuali di entità collettive, a dare vita ad un bene giuridico di tipo, a ben vedere, "composito". È questa dunque la ragione per cui, come osservato anche da parte della dottrina, a venire in rilievo non può che essere la necessità di scongiurare il pericolo della lesione ai beni fondamentali, costituzionalmente protetti dagli art. 2 e 3 Cost., della dignità ed eguaglianza della persona… In definitiva, alla pari di quanto già detto con riguardo al reato di cui all'art. 5 cit., la individuazione del bene tutelato non può che avvenire, anche in tal caso, mediante il ricorso al "filtro" del piano costituzionale, punto costante di riferimento in una chiave interpretativa che, non può dimenticarsi, sempre deve conformarsi al principio di offensività; e in un quadro di comune sfondo, derivante dai connotati democratici della Repubblica italiana, se, nel caso dell'art. 5 cit., rileva la necessità di preservare l'ordinamento da condotte che ne pongano precipuamente in pericolo i fondamenti anche istituzionali, nel caso dell'art. 2 cit. emerge la necessità di evitare la disgregazione dei valori di solidarietà, dignità ed eguaglianza di tutti i consociati >>);
-si diffonde sulle ragioni che portano a concludere che il delitto dell’art. 2 d.l. 122/93 è reato di pericolo presunto, valorizzando in tal senso la rubricazione della norma (“Disposizioni di prevenzione”) che tale è rimasta anche dopo le modifiche apportate all’originaria disposizione, la natura stessa dei beni giuridici da esso protetti (quelli garantiti dagli artt. 2 e 3 della Costituzione) e la loro dimensione, il diverso contenuto evocativo – rispetto alla fattispecie dell’art. 5 della legge Scelba – delle manifestazioni tenute in pubbliche riunioni, il collegamento con le «organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi» di cui all'art. 3 legge n. 654 del 1975 e, quindi, << il grado di pericolosità da attribuire alla condotta, la cui capacità di "contagio" o diffusione delle idee contrastanti con i valori sanciti dagli artt. 2 e 3 Cost. assume una consistenza proporzionalmente collegata all'esistenza attuale di detti agglomerati >>. Prosegue, dipoi, affermando che << Da ciò dunque deriva che, in tal caso, la valutazione del pericolo, che si esaurisce all'interno della fattispecie astratta, risulta già fatta, a priori, dal legislatore, spettando invece al giudice, secondo il "meccanismo" di funzionamento proprio della presunzione, il compito di verificare, nell'analisi della fattispecie, elementi di fatto capaci di dimostrarne, in concreto, l'assenza>>;
-sottolinea la compatibilità di una tale conclusione con i principi costituzionali e, in specie, con quello di offensività, richiamando le sentenze della Corte costituzionale n. 139/2023 e n. 225/2008 : <<Dirimenti sul punto appaiono le affermazioni rese, nella sentenza n. 139 del 2023, dalla Corte costituzionale chiamata a giudicare della legittimità costituzionale della norma in materia di porto senza giustificato motivo di strumenti da punta o taglio atti ad offendere et similia (art. 4, legge n. 110 del 1975) laddove la stessa non richiede la sussistenza di circostanze di tempo e di luogo dimostrative del pericolo di offesa alla persona. È, in particolare, significativo che in tale decisione la Corte costituzionale, pur dopo avere ribadito la persistente legittimità della distinzione tra reati di pericolo presunto (nei quali il giudice deve escludere la ·punibilità del fatto sia pure corrispondente alla formulazione della norma incriminatrice quando, alla luce delle circostanze concrete, manchi ogni ragionevole possibilità di produzione del danno) e reati di pericolo concreto (nei quali incombe invece al giudice il compito di appurare la seria probabilità della verificazione del danno), abbia aggiunto che il principio di offensività in concreto può, ed anzi deve, operare anche in rapporto alla figura del pericolo presunto. E, se è vero che nei reati di pericolo presunto è il legislatore a dovere enucleare i fatti che, nella loro astratta configurazione, esprimono un contenuto offensivo di beni o interessi meritevoli di protezione, è parimenti innegabile, come sempre precisato dalla Corte costituzionale, che resta affidato al giudice, nell'esercizio del proprio potere ermeneutico «il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa» (Corte cost., sent. n.225 del 2008). Da tali considerazioni discende che, quanto meno ai fini della presente decisione, la distinzione tra un "pericolo concreto" ed un "pericolo astratto o presunto" finisca, a ben vedere, per divenire, nei fatti, evanescente una volta che si prenda contestualmente atto di come, per quanto appena detto, anche le previsioni contrassegnate da un pericolo presunto debbano coniugarsi con il principio di offensività. Non pare dubbio, allora, che, considerando la dimensione del bene giuridico tutelato, già indicata sopra, la natura pur solo presuntiva del pericolo preso in considerazione dall'art. 2 cit. mantenga una precisa ed innegabile giustificazione >>;
-analizza il principio di cui all’art. 15 c.p. ed esclude – data la struttura delle due norme incriminatrici in questione – che esse possano essere tra loro poste in rapporto di specialità. Sul tema della specialità ripercorre i diversi approdi giurisprudenziali di legittimità e richiama le principali sentenze - anche delle Sezioni Unite - che lo hanno affrontato sia sotto il profilo contenutistico e consustanziale, sia sotto il profilo dei criteri utilizzati nel tempo per eseguire l’operazione di raffronto tra le norme, sia, quindi, sotto il profilo del corretto approccio interpretativo-metodologico che consente di individuare o di escludere la specialità medesima;
-cita perciò, per esempio, Cass. Sez. Un. n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248864-01, secondo cui, come uniformemente riconosciuto, è norma speciale «quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, che hanno appunto funzione specializzante, sicché l'ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell'ambito operativo della norma generale», e Cass. Sez. Un. n. 9568 del 21/04/1995, La Spina, Rv. 202011-01, che invece ha valorizzato il criterio identificativo dell’identità del bene giuridico tutelato;
-considera però ormai stabilizzato che il criterio di specialità vada inteso in senso logico-formale (“il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola relativa alla individuazione della disposizione prevalente, può ritenersi integrato «solo in presenza di un rapporto di continenza tra le stesse alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le fattispecie astratte rispettivamente configurate mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie stesse» - Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, cit.; Sez. 5, n. 2121 del 17/11/2023, Sioli, Rv. 285843- 01; Sez. l, n. 12340 del 15/11/2022, dep. 2023, Baldassarre, Rv. 284504- 01”);
-conviene con Cass. Sez. Un. n. 1963/2011, Di Lorenzo, sul fatto che debba escludersi la correttezza del criterio della specialità in concreto (“non avendo senso far dipendere da un fatto concreto l'instaurarsi di un rapporto di genere a specie tra due norme sicché non rileva né la omogeneità dei beni giuridici tutelati dalle diverse fattispecie incriminatrici né il loro contingente convergere sul medesimo avvenimento concreto» (da ultimo, Sez. 5, n. 35591 del 20/06/2017, Fagioli, non mass. sul punto); la specialità, cioè, «è una relazione tra norme astratte non già tra fatti concreti e norme e dunque o esiste giù in astratto o non esiste neppure in concreto» (Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, De Lorenzo, non mass. sul punto)”);
-richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 97/1987 sul criterio della continenza (“…affermando che l'applicazione del principio di specialità ex art. 15 cod. pen. implica la «convergenza su di uno stesso fatto di più disposizioni, delle quali una sola è effettivamente applicabile, a causa delle relazioni intercorrenti tra le disposizioni stesse», dovendosi confrontare «le astratte, tipiche fattispecie che, almeno a prima vista, sembrano convergere su di un fatto naturalisticamente unico» (Corte cost., sent. n. 97 del 1987)” e l’ordinanza della stessa Corte n. 174/1994 (“La Corte ha poi aggiunto che «per aversi rapporto di specialità ex art. 15 cod. pen. è indispensabile che tra le fattispecie raffrontate vi siano elementi fondamentali comuni, ma una di esse abbia qualche elemento caratterizzante in più che la specializzi rispetto all'altra» (Corte cost., ord. n. 174 del 1994)”;
-ribadisce come principio ormai acquisito nella giurisprudenza di legittimità quello per cui l’art. 15 c.p. si riferisce alla sola specialità unilaterale e non anche, invece, alla specialità reciproca o bilaterale: “La giurisprudenza di questa Corte converge inoltre, ormai, nel ritenere che l'art. 15 cod. pen. si riferisca alla sola "specialità unilaterale", giacché le altre tipologie di relazioni tra norme, quali la "specialità reciproca" o "bilaterale", non evidenziano alcun rapporto di genus ad speciem (tra le tante, Sez. 4, n. 21522 del 02/03/2021, Bossi, non mass. sul punto; Sez. 5, n. 27949 del lB/09/2020, Di Gisi, non mass. sul punto; Sez. 4, n. 29920 del 17'/01/2019, Padricelli, Rv. 276583 - 01, tutte fondamentalmente debitrici dell'insegnamento di Sez. U, n. 41588 del 22/06/2017, La Marca, non mass. sul punto)”;
-ribadisce l’eccentricità dei criteri di sussidiarietà, assorbimento e consunzione: << Sempre le Sezioni Unite, dopo iniziali apparenti affermazioni di segno contrario, hanno sottolineato la eccentricità dei criteri di "sussidiarietà", "assorbimento" e "consunzione", «suscettibili di opposte valutazioni da parte degli interpreti», e la loro estraneità all'unico criterio legale previsto, ovvero quello di specialità positivizzato dall'art. 15 cod. pen. (Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, non mass. sul punto; Sez. l, n. 12340 del 15/11/2022, dep. 2023, Baldassarre, cit.) >>;
-nella fattispecie concreta al suo vaglio, quindi, per tali motivi, esclude che una delle due norme incriminatrici possa essere unilateralmente speciale rispetto all’altra, perché “Al nucleo comune di "manifestazioni tenute in pubbliche riunioni", si aggiunge, in ognuna di esse, l'elemento differenziante del loro contenuto, rilevante già sul piano astratto giacché, se nell'art. 5 cit. le manifestazioni devono essere quelle «usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste», nell'art. 2 cit. le manifestazioni sono quelle esteriori, proprie ed usuali «delle organizzazioni, movimenti o gruppi di cui all'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654». Sicché, atteso l'inequivocabile diverso significato di tali manifestazioni, discendente dalla stessa "diversità genetica" degli enti, appare, semmai, ricorrere tra le norme in oggetto un rapporto di "specialità bilaterale" che, tuttavia, per quanto già osservato, deve ritenersi estraneo alla previsione dell'art. 15 cod. pen., unicamente espressivo della specialità "unilaterale". Significativo è poi che, solo con riguardo al reato di propaganda per motivi di discriminazione razziale di cui all'art. 604-bis cod. pen., già contemplato dall'art. 3, legge n. 654 del 1975, il legislatore abbia espressamente posto un rapporto di "sussidiarietà espressa" rappresentato dalla clausola di riserva («salvo che il fatto costituisca più grave reato») posta nell'incipit della disposizione”;
-afferma l’estraneità del criterio selettivo basato sulla concretezza del pericolo – sposato, invece, da Cass. I n. 3806, 19.11.2021, Buzzi - al corretto metodo di raffronto tra fattispecie astratte, perché da questo deve essere escluso il profilo della punibilità;
-tenuto conto del loro significato, inquadra il rituale del saluto romano e della chiamata del presente innanzitutto nella fattispecie dell’art. 5 della legge Scelba e valorizza a tale proposito anche gli artt. 3 e 9 del regolamento del partito nazionale fascista: << L'assenza di un rapporto di specialità, che "svincola" pertanto l'interprete da quella che sarebbe, altrimenti, l'automatica conseguenza di fare capo sempre e solo alla norma "speciale", comporta che debba dunque guardarsi al significato del rituale del "saluto romano" al fine di configurarne l'inquadramento giuridico nelle "manifestazioni" di cui all'art. 5 cit. ovvero in quelle dell'art. 2 cit., o, eventualmente, e a determinate condizioni, in entrambe. Ciò posto, non può sussistere dubbio circa la "fisiologica" riconducibilità del rituale della "chiamata del presente" e del "saluto romano" (ovvero il protendere il braccio destro tenendolo teso e con il palmo rivolto verso il basso) all'interno, anzitutto, della fattispecie di reato dell'art. 5 cit.: pare sufficiente, sul punto, fare riferimento a quanto era previsto dagli artt. 3 e 9 del regolamento del partito nazionale fascista per desumerne l'inequivocabile significato di evocazione e celebrazione dell'ideologia del partito fascista e del regime conseguentemente instaurato. Se tale rituale è, in altri termini, immediatamente e notoriamente idoneo ad evocare, anzitutto, la "liturgia" delle adunanze fasciste, è la consumazione del reato di cui all'art. 5 cit. ad essere innanzitutto realizzata…Deve dunque concludersi nel senso che la "naturale" identificazione tra saluto romano da una parte e disciolto partito fascista dall'altro, per le ragioni già illustrate, è da sola sufficiente ad integrare sul piano oggettivo, sempre e comunque, il reato di cui all'art. 5 >>;
-indica esemplificativamente alcuni elementi di fatto << idonei a dare concretezza al pericolo di "emulazione" insito nel reato secondo i principi enunciati dalla Corte costituzionale >>, quali, <<tra gli altri, il contesto ambientale, la eventuale valenza simbolica del luogo di verificazione, il grado di immediata, o meno, ricollegabilità dello stesso contesto al periodo storico in oggetto e alla sua simbologia, il numero dei partecipanti, la ripetizione insistita dei gesti, ecc. >>;
-esclude il rilievo della caratteristica “commemorativa” della riunione ai fini della eventuale non configurabilità del reato, a cagione dell’irrilevanza dei motivi della condotta e per il dolo generico che connota il reato (<< Va peraltro escluso che, di contro, come sostenuto dalle difese dei ricorrenti, la caratteristica "commemorativa" della riunione possa rappresentare fattore di neutralizzazione degli altri elementi e, quindi, di "automatica" insussistenza del reato, attesi il dolo generico caratterizzante la fattispecie e la irrilevanza dei motivi della condotta >>);
-afferma e non esclude, invece, la possibilità del concorso tra i due reati per la possibilità che il rituale che connota la condotta in argomento - principalmente alla luce del dato testuale dell’art. 1 della legge Scelba («si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista [ ... ] svolgendo propaganda razzista») - sia evocativo << anche di ideologie discriminatorie e razziali >>. L’evocazione di queste ideologie realizzata con tale rituale, tuttavia, non è sufficiente di per sé stessa a integrare la fattispecie delittuosa dell’art. 2 del d.l. 122/93, poiché questa “sanziona non le manifestazioni di tipo razziale o discriminatorio tout court, bensì le manifestazioni proprie od usuali delle «organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi dell'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654». Appare, in altri termini, innegabile come il legislatore non abbia sanzionato direttamente le manifestazioni esteriori espressive di incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi esigendo, invece, che tali manifestazioni siano quelle proprie od usuali dei gruppi che tale incitamento pongono in essere”;
con riguardo all’art. 3 della legge 654/75 (ora art. 604 bis c.p.), dopo avere evidenziato che le organizzazioni, le associazioni, i gruppi e i movimenti debbono inevitabilmente essere operanti nell’attualità - << in quanto necessariamente espressivi della stessa ragione della natura presunta del pericolo >> - valorizza la distinzione normativa tra enti più strutturati (le «organizzazioni» e «associazioni») e agglomerati “più fluidi” (i «gruppi» e i «movimenti») per concludere che “non appare necessaria, sulla base dello stesso dato normativo, una dimostrazione dei tempi e dei modi della costituzione di tali agglomerati, del resto incompatibile con la ratio della norma e la natura presunta del pericolo che caratterizza, come detto, il reato…gli scopi de «l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi», richiesti dall'art. 3 cit., ben potrebbero, infatti, emergere dallo stesso contenuto della manifestazione di cui all'art. 2 cit., concretamente rappresentativa di essi”;
rileva la necessità - ai fini del concorso di reati e, quindi, della integrazione anche del delitto previsto dalla legge Mancino mediante il rituale in argomento - dell’individuazione di elementi relativi al contesto complessivo in cui è esso avvenuto che siano idonei non soltanto a renderlo evocativo del disciolto partito fascista e concretamente pericoloso (art. 5 della legge Scelba), ma anche tali da attribuirgli, secondo il contesto materiale o l’ambito della manifestazione, << il significato discriminatorio tipizzante il reato di cui all'art. 2 cit. Sotto tale profilo, dunque, altro sarebbe che il gesto sia effettuato nello stretto ambito di un contesto chiaramente connotato (per le modalità e le finalità della riunione nonché per i simboli impiegati) dal riferimento a fatti direttamente o indirettamente ricollegabili all'ideologia fascista, altro, invece, sarebbe il medesimo gesto ove tenuto in ambiti di tipo diverso, nei quali il ricorso a tale rituale costituisca "lo strumento simbolico" di espressione delle idee di intolleranza e discriminazione proprie, nell'attualità, degli agglomerati considerati dall'art. 3 legge n. 654 del 1975. In definitiva, mentre nel primo caso il rituale esibito sarebbe finalizzato ad esternare unicamente l'ideologia propria del disciolto partito fascista, nel secondo avrebbe anche la valenza, implicita, ma chiara, di esternazione delle ideologie di cui alle entità individuate dall'art. 3 cit., nel segno di una contrapposizione ispirata ad idee chiaramente incompatibili con i principi costituzionali. Sicché, ben può ritenersi che, in tali limiti, e in tali casi, il rituale del saluto romano possa integrare non il solo reato di cui all'art. 5 legge cit., bensì anche quello dell'art. 2 legge cit., ove di entrambe le fattispecie, naturalmente, ricorrano i rispettivi e differenti requisiti di pericolo già illustrati sopra >>;
esclude la rilevanza, da ultimo, del contrasto giurisprudenziale ai fini dell’invocazione dell’art. 5 del codice penale, ricordando che la sentenza della Corte costituzionale n. 364/1988 << ha sottolineato il nesso indissolubile intercorrente tra "rimproverabilità" della condotta, da una parte, e chiarezza e riconoscibilità dei contenuti delle norme penali, dall'altra >> e “ha indicato la mancanza di conoscibilità della disposizione normativa per assoluta oscurità del testo legislativo nonché, per il «gravemente caotico [ ... ] atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari»” come << parametri sulla cui base stabilire l'inevitabilità dell'ignoranza della legge penale >>. Il contrasto giurisprudenziale al più ingenera un mero dubbio e << il dubbio sulla liceità o meno deve indurre il soggetto ad un atteggiamento più attento, che giunga sino all'astensione dall'azione se, nonostante tutte le informazioni assunte, permanga tale incertezza, proprio perché il dubbio, non equiparabile allo stato d'inevitabile ed invincibile ignoranza, è ontologicamente inidoneo ad escludere la consapevolezza dell'illiceità (Sez. 5, n. 2506 del 24/11/2016, Incardona, Rv. 269074 - 01; Sez. 2, n. 46669 del 23/11/2011, De Masi, Rv. 252197 - 01; Sez. 6, n. 6991 del 25/01/2011, Sirignano, Rv. 249451 - 01) >>
Immagine: René de Saint-Marceaux, Statua di Jean Sylvain Bailly, XIX secolo, Musée du Jeu de Paume, Paris.