In attesa delle riforme tra attivismo giudiziario e reticenze legislative*
di Stefano Fiore
«Si può partire da una semplice constatazione: basta frequentare qualsiasi aula di giustizia per rendersi immediatamente conto che la conoscenza del testo di legge non è più in alcun modo sufficiente a individuare tutti gli elementi produttivi di effetti giuridici, ma che in parte essi si traggono e trovano la loro fonte nella giurisprudenza […]»[1].
Sarebbe obiettivamente difficile, anche per chi non frequenta con assiduità le aule di giustizia, negare che questa semplice premessa sia sempre stata vera. Eppure, quando il ‘formante giurisprudenziale’ esercita la sua opera con-formatrice sul diritto penale, una sorta di riflesso condizionato induce (ancora?) in molti commentatori un atteggiamento di misurata diffidenza.
Le ragioni di questa cautela sono ovviamente riconducibili ai peculiari tratti di garanzia e alla spiccata connotazione formale che contraddistinguono il modo di manifestarsi e l’applicazione del diritto penale, differenziandolo da ogni altro strumento di regolazione e controllo sociale. Chiunque frequenti, oltre o insieme ai Tribunali, anche la discussione scientifica sulla evoluzione dei sistemi penali moderni è consapevole che non ci si può limitare ad una presa d’atto di quella pur ineludibile (e semplice) constatazione, ma che è necessario verificare limiti e le condizioni della compatibilità del «diritto giurisprudenziale» con la concatenata sequenza di principi sui quali si regge la legittimazione punitiva negli ordinamenti democratici.
La potenziale dismisura del discorso che si potrebbe sviluppare a partire da questo snodo critico, rende necessario ricondurlo entro argini che nel nostro caso sono segnati dalla innovativa forma che assume la trattazione, appunto, del diritto penale giurisprudenziale nel volume da cui le nostre riflessioni prendono spunto.
La suggestione simbolica - forse scontata ma anche per questo immediata - dalla quale intendo partire ci viene offerta dalla sede dove si svolge il nostro incontro, che abitualmente ospita le riunioni dei Gruppi parlamentari. Ci troviamo dunque nei ‘luoghi del legislatore’, a discutere i temi della riforma del sistema penale, il che dovrebbe essere naturale, ma lo facciamo leggendoli attraverso la lente di un’opera, originale e importante, che nasce invece dal rilievo che non è più il legislatore a gestire il cambiamento del sistema penale. Certamente non in via esclusiva e a volte neppure in via residuale.
Nihil sub sole novum, ovviamente. Le carte di questo gioco sono state distribuite e anche ‘scoperte’ già da un bel po’ di tempo, come d’altra parte proprio il volume che oggi presentiamo dimostra. Ma ora si tratta di giocare e di farlo con le carte che abbiamo a disposizione, provando ad andare al di là delle diffuse evidenze con le quali il diritto penale in action si confronta quotidianamente e ormai da tempo.
Sono evidenze che si aggregano attorno ad un ricorrente topos della discussione penalistica di questi anni, quello cioè che vede contrapporsi, da un lato, la tramontata mitologia della legalità penale, costruita sul paradigma legislativo (nazionale) e, dall’altro, le virtù con-formative di una giurisprudenza (non solo nazionale), che si fa demiurgo del sistema e plasma l’ordinamento, anche quello penale, secondo il senso di realtà (o almeno quello che la giurisprudenza ritiene essere tale).
Proporre in prima battuta e in funzione descrittiva una chiave di lettura che contrappone, con variabile tasso di enfatizzazione, legalità penale e diritto giurisprudenziale può forse essere una scelta storicamente comprensibile e può magari contribuire a mantenere viva l’attenzione e la sorveglianza su di un delicato passaggio di paradigma, ma rischia di condurre ad una interpretazione errata e pericolosa delle dinamiche evolutive in atto nei sistemi penali.
Ci troviamo infatti nella fase forse più confusa e convulsa di una difficile transizione e poiché non è ancora chiaro verso ‘che cosa’ stiamo transitando, inevitabilmente ciò che emerge con maggiore visibilità sono spesso le contraddizioni, i contrasti, le asperità, che precedono, speriamo, l’inizio di un percorso piano verso un obiettivo definito, con dinamiche assestate e gestibili.
Diversi spunti utili a fare un po’ di chiarezza sulla fase nella quale ci troviamo e sulla direzione verso la quale il sistema penale ha orientato la sua evoluzione possono invero essere tratti proprio dall’opera che ci fa da guida.
A partire dal suo titolo: «Argomenti di diritto penale giurisprudenziale». È un titolo interessante, che si muove - se così si può dire - tra cautela semantica e rottura degli indugi. Inizio dalla seconda. Colpisce infatti - o almeno la cosa ha colpito me - vedere l’espressione diritto penale giurisprudenziale senza le virgolette, come invece di solito o comunque di frequente accade. Utilizzare le virgolette nel titolo di un libro può risultare graficamente poco elegante e forse la ragione è solo questa, ma fatto sta che la loro assenza (simbolicamente) fissa per quella espressione un significato che corrisponde al senso delle parole, senza cioè l’uso di segni aggiuntivi ai quali assegnare la funzione di rendere quel senso più fluido. Nella quarta di copertina, nella presentazione, nel corpo del testo, le virgolette spesso ricompaiono e tornano ad attenuare la definitività descrittiva della formula «diritto penale giurisprudenziale». Eppure, anche in termini simbolici, il titolo scolpisce un oggetto ritenuto evidentemente ormai riconoscibile e al quale si intende assegnare univocità di senso e con essa anche legittimazione.
La cautela semantica è invece affidata all’intelligente scelta di definire l’impegno ricostruttivo profuso nel volume come un’argomentazione, quasi a sottolineare che, comunque, non si tratta di un dato auto-evidente, ma di qualcosa che ancora richiede di essere argomentato, come i curatori e gli autori invero si impegnano a fare.
Nonostante la consapevolezza che questo esercizio di lettura in filigrana, con relativa assegnazione di significati è oggettivamente un po’ arbitrario e forse anche segnato da qualche - spero perdonabile - forzatura, continuando a seguire le tracce disseminate lungo la trattazione degli «Argomenti di diritto giurisprudenziale» una direzione inizia a delinearsi e diventa più chiara guardando l’indice del volume. La sua struttura rimanda infatti con ogni evidenza agli indici dei manuali di diritto penale di parte generale e la cosa può anche risultare spiazzante per chi è abituato ad utilizzare strumenti dalle forme più tradizionali.
La dottrina penalistica, anche quella più diffidente verso il lavoro della giurisprudenza, si è sempre mostrata disponibile a confrontarsi, anche se spesso criticamente, con il diritto giurisprudenziale delle fattispecie incriminatrici, illudendosi forse che la fattispecie di volta in volta interessata segnasse una sorta di recinto al cui interno eventuali forzature, errori, slanci eccessivamente creativi potessero rimanere confinati senza trasferirsi al sistema.
Ovviamente le cose non stanno così e chi lo avesse davvero pensato avrebbe coltivato comunque una ingenua illusione, perché gli effetti dello ius dicere hanno sempre l’attitudine a (e forse anche la funzione di) propagarsi nel sistema, ben oltre i ristretti confini della norma o delle norme direttamente interessata dal provvedimento giudiziario.
La lettura dell’indice ci mostra invece come stanno realmente le cose e cioè che il diritto giurisprudenziale oggi viene innestato sulla sistematica elaborata dalla teoria generale del reato, entrando dentro le categorie e i concetti sui quali lavora la dogmatica, contribuendo così a (ri)definirli. Assistiamo, in altri termini, ad una incessante dinamica bidirezionale che vede la dogmatica offrire alla giurisprudenza uno strumento operativo (è questo il vero compito della dogmatica), vedendosi poi restituito, come oggetto di studio, quello stesso strumento modificato attraverso il suo utilizzo.
Non stiamo dunque parlando di una raccolta di massime giurisprudenziali e di orientamenti interpretativi per quanto sistematizzati, bensì di una fotografia, parziale ma molto nitida, del lavoro di (ri)scrittura da parte della giurisprudenza della grammatica comune necessaria per far dialogare le disposizioni normative con i fatti e dunque per l’applicazione del diritto penale, vale a dire quello che normalmente si intendeva e ancora si intende essere il compito della teoria generale.
Il mutamento di prospettiva che filtra attraverso l’insieme (anche soltanto) di questi primi segnali arbitrariamente evidenziati per ragioni di sintesi, è imponente, ma soprattutto ha una portata oggettivamente destruente dell’impianto, anche concettuale, sul quale per lungo tempo è stato costruito il discorso penale di derivazione liberale (perdonate anche qui l’eccesso di semplificazione).
Ora, ma non da ora, è però giunto il momento di ricostruire. Non fingendo che sia possibile e sensato invertire il corso della storia, ma provando a governare la transizione verso esiti, che forse non sappiamo ancora esattamente definire, ma che possiamo percepire come tappe fondamentali nella evoluzione del sistema penale.
Alcune cose tuttavia già le sappiamo. Sappiamo ad esempio che quegli esiti non dovranno rappresentare passi indietro dal punto di vista delle garanzie, anzi, dovranno aiutarci a recuperare un po’ del terreno che le garanzie ‘tradizionali’ hanno certamente perduto in questi anni, anche e proprio a causa del ‘ritardo di risposta’ di cui i paradigmi garantistici hanno sofferto nel loro percorso di adeguamento alla evoluzione dei modelli ordinamentali.
Perché, alla fine, con il diritto penale, la questione è innanzitutto (magari non solo, ma certo innanzitutto) quella di assicurare, pur nel mutare dei caratteri dell’ordinamento, un grado di approssimazione alla ‘sostanza’ delle garanzie che consenta di mantenere il sistema penale nel suo complesso entro l’alveo della democrazia.
La domanda non è allora se il diritto giurisprudenziale possa o debba essere considerato come una «fonte» legittima in materia penale. Formulata in questi termini la domanda risulterebbe parziale e imprecisa. Una risposta non superficiale richiederebbe quanto meno molte precisazioni che qui non è possibile sviluppare, ma sarebbe comunque il riflesso di una prospettiva che parte pur sempre dalla dimensione formale della legalità, identificata soltanto con la sua fonte.
La ‘nuova’ legalità penale con la quale ci confrontiamo riconosce all’attività interpretativa del giudice spazi non trascurabili nel definire i contenuti precettivi e allora la domanda che dobbiamo porci deve essere semmai un’altra e cioè: quale statuto di garanzia è applicabile al diritto penale giurisprudenziale, visto che proprio il suo affermarsi ha contribuito ad erodere l’edificio garantistico eretto con i mattoni dalla legalità tradizionale?
Rimango brevemente, prima di orientare lo sguardo alle riforme, sul tema delle garanzie, perché il nuovo modello di legalità penale che si va definendo richiede ovviamente che i parametri di valutazione della effettività siano adattati ad uno scenario dove l’impronta del diritto giurisprudenziale è sempre più profonda.
Il rischio da scongiurare è che questa nuova complessità, questo intreccio non sempre ordinato di fonti, di Corti, di oggetti sovrapponibili e cangianti, diventi il luogo o sia l’occasione per consumare il tradimento dei diritti il cui effettivo esercizio definisce il perimetro entro il quale negli ordinamenti democratici si può fare legittimo uso della potestà punitiva.
Anzi, come accennavo, proprio in questa nuova complessità vanno cercate le leve per innalzare gli standard garantistici. Solo per fare un esempio noto a tutti, si pensi a quel che sta avvenendo grazie alla estensione delle garanzie penali ‘convenzionali’ all’intero diritto sanzionatorio definito attraverso il parametro della matière pénale.
Molte delle ‘nuove’ questioni afferenti all’area delle garanzie penali sono d’altra parte emerse concretamente proprio sul versante del diritto giurisprudenziale e pur essendo orami stabilmente presenti anche nel dibattito scientifico, ancora sembrano lontane dal trovare una soddisfacente stabilizzazione.
Una rassegna, anche non esaustiva, sarebbe comunque troppo lunga per il limitato spazio di questo intervento, ma comprenderebbe certamente, tra le altre, la questione dell’irretroattività dell’overruling sfavorevole, che sembra una strada ormai, almeno, intrapresa, ma non ancora percorsa fino in fondo. Si pensi, esemplificativamente, alla retroattiva e progressiva estensione interpretativa che la fattispecie di pornografia minorile ha subito ad opera di ben tre consecutive sentenze delle Sezioni Unite[2] .
Ancor meno facile da percorrere si presenta poi la strada per arrivare ad affermare il simmetrico principio della retroattività dell’overruling favorevole, il cui riconoscimento implicherebbe con maggiore nettezza l’accoglimento dell’idea del diritto giurisprudenziale come fonte ‘formale’ del diritto penale vigente.
Ancora, l’affollarsi e l’intrecciarsi delle fonti sul terreno del diritto penale (e di quello sanzionatorio più in generale) ha posto da tempo e con crescente frequenza nella prassi il tema cruciale del ne bis in idem, che oggi si propone anche in forme meno tradizionali rispetto a quelle - per così dire - originarie, come dimostra la recentissima e assai interessante sentenza della Corte Costituzionale 16 giugno 2022, n. 149 (Pres. Amato, Red. Viganò) in materia di diritto d’autore[3].
Non è ovviamente possibile affrontare nessuno di questi e degli altri temi correlati che richiederebbero un approfondimento non praticabile in questa sede, ma una brevissima parentesi vale la pena di essere aperta, nei limiti di ciò che è funzionale al prosieguo del discorso, su quello che appare essere uno snodo fondamentale della evoluzione in atto nel quadro delle garanzie costitutive della nuova legalità
L’ampliamento e la complicazione degli orizzonti garantistici prima delimitati dal riferimento ai corollari della legalità sono infatti proceduti di pari passo con la stabilizzazione teorica e la implementazione, anche ‘culturale’, del limite della prevedibilità, che sempre più si propone come concetto catalizzatore di una parte rilevante della rielaborazione delle garanzie tradizionali nello specchio del diritto penale in action.
Come credo sia chiaro a tutti, la prevedibilità è un giudizio che non si proietta certo sull’esito del processo penale, ma sul modo in cui si concretizzerà (o meno) la pretesa dell’ordinamento. La questione cioè, prima di riguardare appunto le sorti processuali di un determinato indagato o imputato, attiene alla definizione dei contenuti precettivi della regola di comportamento, la cui inosservanza è penalmente sanzionata.
Questa ovvia, ma necessaria precisazione conduce ad un punto a mio avviso essenziale, ma che rimane invece spesso un po’ sottotraccia nella discussione sul diritto penale giurisprudenziale, che per sua natura tende a spostare l’attenzione sul contenuto della decisione giudiziaria.
Alla legalità penale, vecchia o nuova che sia, è storicamente affidato in primo luogo il compito di fissare le regole di comportamento in funzione preventiva dei fatti socialmente indesiderati e ciò prima e a prescindere dalla loro eventuale e successiva ‘giustiziabilità’. È chiaro, peraltro, che i due livelli sono indissolubilmente collegati anche sul piano funzionale, perché il giudizio di prevedibilità riguarda la possibilità che astratte regole di condotta si traducano in una decisione giudiziaria necessariamente prodotta attraverso l’applicazione delle vigenti regole del processo, che contribuiscono dunque a fondare tale giudizio.
E anzi, ancor di più, in ambito penale la regola sostanziale esiste solo nella sua versione processuale, come norma sanzione non ha alcuna vita possibile fuori dal processo.
Quando però si dice che la decisione giudiziaria è concretizzazione della regola contenuta nella fattispecie astratta e che deve esserlo in maniera prevedibile, si sintetizza un fenomeno in realtà molto più complesso di quel che appare e nel quale i fatti concreti (ri)definiscono il significato delle disposizioni normative, con la loro carica di elementi etici, sociali e finanche emotivi. Niente di più lontano, apparentemente, dal paradigma tradizionale della legalità penale e in particolare dal corollario della determinatezza intesa come vincolo descrittivo e limite applicativo.
L’opera di concretizzazione svolta dalla giurisprudenza, proprio perché sottoposta a queste spinte non suscettibili di essere ricondotte a categorie formali, alimenta il rischio di applicazioni sperequate e anche, oggettivamente, quello di assecondare la tentazione della costruzione ex post della regola di comportamento sulla base delle caratteristiche del fatto concreto per come emerge in sede processuale, rinnegando così alla radice il canone della prevedibilità e il suo significato garantistico.
Tuttavia, come chiaramente ci ha mostrato la Corte Costituzionale in recenti sentenze (penso, tra le altre, alle sentenze n. 98/2021 in materia di maltrattamenti e n. 24/2019 in materia di misure di prevenzione) la determinatezza in ambito penale, oltre che un vincolo costituzionale e convenzionale per il legislatore, è anche un ‘dovere ermeneutico’, che ricade sull’interprete e dunque innanzitutto sul giudice.
Conveniamo tutti sul fatto che il più sicuro argine ad un diritto vivente ‘imprevedibile’ è ovviamente rappresentato dalla qualità della legislazione in termini di precisione e, ancor più in generale, di accuratezza descrittiva; ma quando a causa della inadeguatezza espressiva o degli inevitabili margini di imprecisione linguistica, si aprono varchi nelle norme, quando cioè a condizionare la scena interpretativa è la polisemia, la questione investe inevitabilmente il diritto vivente e chiama in causa la deontologia ermeneutica orientata all’attuazione delle garanzie.
Che cosa può e anzi cosa deve fare l’interprete chiamato a sciogliere i nodi applicativi che si generano dall’incontro di disposizioni astratte (e imperfette) e fatti concreti (e mai uguali)?
Nella necessaria opera di concretizzazione devono essere valorizzate le sole dimensioni di senso che possono effettivamente entrare nel fuoco della prevedibile comprensione dei destinatari della norma, innanzitutto perché ricavabili dalla lettera della legge. Tra i significati possibili devono cioè essere selezionati solo quelli che hanno l’attitudine ad orientare realmente i comportamenti dei destinatari e la cui violazione è dunque anche soggettivamente rimproverabile, valorizzando il punto di vista, spesso trascurato, del giudizio di ‘colpevolezza’.
Si può dire che questo avvenga nella maggior parte del diritto penale giurisprudenziale? In verità non credo. La deontologia ermeneutica orientata alle garanzie sembra a volte faticare un po’ a farsi largo tra altre pulsioni, molte delle quali venate anche da significati, più o meno espliciti, di ‘difesa sociale’ trasferita nella politica giudiziaria.
Ma a prescindere da ciò, l’aspetto che interessa sottolineare è che se noi vediamo nel diritto giurisprudenziale il luogo in cui avviene la fissazione della dimensione di senso accessibile ai destinatari delle norme, dove cioè la disposizione ‘si fa’ norma, allora stiamo parlando di una funzione certamente con-formativa del diritto e che dunque riguarda direttamente i contenuti precettivi.
Che la giurisprudenza svolga strutturalmente questa funzione è semplicemente indiscutibile, lo è sempre stato. Perché allora - anche al di là e al di fuori delle possibili distorsioni o degli eccessi - oggi ci poniamo di fronte a ciò come ad un problema?
Quale sia il problema lo rileva con la consueta lucidità Massimo Donini: «Questo è il problema del tempo presente: l’unificazione dei poteri in quello giudiziario. Il controllore-esecutore co-definisce le regole a ogni livello, le spiega e argomenta. Al vertice, poi, il “giudice delle leggi”. E in concorrenza con esso, altre Corti che interpretano fonti para-costituzionali o sovra-costituzionali. Pare perciò evidente che la giurisprudenza-fonte debba ormai essere salvata dal suo indiscutibile successo, che riempie il vuoto della crisi e dell’inadeguatezza del potere legislativo, ma rappresenta non solo per il penalista un ‘problema costituzionale’»[4].
A confermare lo squilibrio che «nel tempo presente» caratterizza il rapporto tra una legislazione troppo arrendevole e una giurisprudenza molto attiva, c’è, tra le altre cose, anche la rilevantissima attenzione che da qualche tempo viene riservata al tema della nomofilachia.
A scanso di equivoci - non potendo sviluppare in questa sede il mio pensiero - premetto di essere convinto che alla questione della nomofilachia, proprio in ragione degli scenari che il diritto giurisprudenziale sta ridisegnando, debbano essere riconosciuti una importanza ed un ruolo decisivi nell’economia reale del sistema penale e dunque appare particolarmente necessario che su di essa si continui a riflettere in maniera approfondita e vivace. Basterebbe pensare alla discussa questione delle possibili ricadute che la prevenzione/soluzione dei contrasti giurisprudenziali può avere sulla conoscibilità del precetto, inteso in un’accezione non astratta ma che già accoglie il lavoro interpretativo.
Detto ciò, tuttavia, nella discussione pubblica, sembra a volte di percepire che i magistrati siano più preoccupati dall’esistenza di contrasti tra le decisioni giudiziarie (questione, ribadisco, di grande rilievo nel quadro attuale e anche in prospettiva), che non invece dall’eventuale contrasto tra queste ultime o tra una delle interpretazioni configgenti e la legge, alla quale sembra quasi che venga assegnato un valore meramente orientativo.
Certamente ciò contribuisce a dimostrare la scarsa autorevolezza, per così dire, delle leggi penali attuali, però il mio timore è che finisca per essere percepito più nel primo caso che non nel secondo un vulnus alla parità ‘nell’applicazione’ della legge. Questo è forse comprensibile per coloro che si trovano occasionalmente sullo stesso piano dove avviene ‘contatto’ tra disposizione normativa e fatto, vale a dire il (singolo) processo; ma non può essere il principale parametro per misurare l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (sia pure mediata dal diritto vivente).
Uno sguardo alla realtà rende difficile smentire la fondatezza di questo timore e la serietà delle ragioni dalle quali si origina. Il problema si sposta ovviamente sulla definizione delle contromisure, sul ‘che cosa fare’.
In primo luogo, ca va sans dire, è necessario (e doveroso) che il legislatore torni a svolgere pienamente il ruolo che gli compete e l’utilità e il senso di questo sforzo si misurano con il metro delle riforme.
Arriviamo così al secondo polo della discussione per verificare come il tema delle riforme si innesta sugli scenari aperti dal diritto penale giurisprudenziale e perché le due dimensioni si condizionano reciprocamente, ma non devono contrapporsi o essere considerate alternative, bensì integrarsi.
Non credo sia particolarmente necessario descrivere, perché sotto gli occhi di tutti, il panorama abbastanza desolante che si offre a chi volge lo sguardo verso l’orizzonte delle riforme del sistema penale: l’ipotetico osservatore troverebbe riforme promesse e a volte ‘minacciate’, riforme parzialmente realizzate e magari presto rinnegate, riforme mancate, riforme rinviate e il cui carattere improcrastinabile ha assunto nel tempo un significato vagamente iettatorio, come già molti anni fa ironicamente notava Tullio Padovani.
Perché, invece, sono così necessarie? Non è solo una ovvia questione di funzionalità. Anche se la realtà rimanda esiti poco incoraggianti, si suppone che le riforme vengano progettate e poi realizzate per migliorare le performance dell’ordinamento, ma in realtà esse sono necessarie in un senso molto più ampio e profondo, che arriva fino alla radice di molti degli squilibri che abbiamo segnalato.
Le riforme, quelle vere, proprio nell’ottica del ripristino degli equilibri di sistema, rivestono infatti un significato simbolico poderoso ed essenziale. Sono il modo più chiaro con il quale il legislatore mostra di volersi riappropriare ed effettivamente si riappropria del ruolo costituzionale che gli spetta. L’obiettivo delle riforme può essere mancato da chi deve perseguirlo, ma non può in nessun caso essere realmente delegato.
I surrogati (giurisprudenziali) delle riforme penali restano surrogati.
Una delle cose che più spesso e con ragione si sente dire è che il protagonismo giudiziario svolge in molti settori una funzione di supplenza della cronica latitanza del legislatore; altrettanto spesso e con pari ragione si afferma che l’intraprendenza giurisprudenziale si spiega (e per molti si giustifica) con la necessità di porre in qualche modo rimedio ad interventi scomposti o inappropriati di legislatori ‘per caso’.
Pur essendo ovviamente vere entrambe le affermazioni, la loro riproposizione in forma di slogan rischia di tradursi ancora una volta in letture riduttive, non tanto della dimensione del fenomeno, spesso colto in tutta la sua vasta estensione, quanto del suo significato e della sua articolazione
Per provare ad andare oltre le formule, torniamo allora all’opera dalla quale le nostre riflessioni traggono non solo spunto ma anche ‘materia’. Se guardiamo quali sono gli «Argomenti di diritto penale giurisprudenziale» ivi trattati, vediamo che in realtà solo parzialmente essi hanno a che vedere direttamente con una reale funzione di supplenza delle latitanze legislative. Prevalentemente si tratta di questioni che restano tangenziali al tema delle riforme del sistema penale e che, percorrendo diverse direttrici, ci conducono semmai ad esplorare gli assestamenti con-formativi del sistema in fase applicativa.
In alcuni casi però, attraverso la forma che quegli «argomenti» assumono nella realtà è invece possibile vedere chiaramente l’attitudine distorsiva di un rapporto non equilibrato tra interventi di riforma e percorsi di concretizzazione. Ad esempio - anche se non possiamo aprire questo fronte - si pensi al tema della responsabilità sanitaria, dove gli approdi giurisprudenziali si sostanziano nella riscrittura (peraltro assai discutibile) per via giudiziaria di una disciplina certo largamente imperfetta. L’operazione ermeneutica condotta dalle Sezioni Unite (22 febbraio 2018, n. 8770) sull’art. 590 sexies c.p. non corrisponde al compito con-formativo che abbiamo descritto come connaturato alla dimensione giurisprudenziale: nella sentenza del Supremo Collegio non si cercano significati descrittivi collocandosi in quello che i tedeschi - che hanno una parola per tutto - forse definirebbero il dazwischen (quel che c’è tra due dimensioni, in questo caso tra la teoria e la prassi o tra disposizione e fatto). La sentenza Mariotti si dedica letteralmente alla riscrittura della norma, adottando tra l’altro basi casistiche, che le stesse Sezioni Unite selezionano, ponendosi dunque sul piano della previsione astratta e non su quello della sua concretizzazione.
Ma cosa dovrebbe - allora ed invece - fare il legislatore, oltre ovviamente a scrivere meglio le norme?
Il compito del legislatore non è certo quello di impedire o ingabbiare le dinamiche di interazione concretizzatrice che si sviluppano nella realtà attraverso l’applicazione delle disposizioni normative o inseguire il mito illuministico del giudice bocca della legge.
La dialettica tra legislatore e giurisprudenza non deve però neppure essere un ‘tiro alla fune’ nel quale i contendenti oppongono forze contrarie per conquistare o difendere territorio o riconquistare quello perduto. Esemplari, in negativo, da questo punto di vista sono le vicende che negli ultimi 30 anni hanno riguardato l’abuso d’ufficio, oggetto di inesausta contesa tra spinte restrittive del legislatore e pulsioni estensive della giurisprudenza, destinata, a quanto pare, a proseguire.
Tra i doveri (trascurati) del legislatore vi è invece certamente quello di evitare che i processi diventino il veicolo per alimentare la diseguaglianza applicativa oppure il modo per raccogliere ‘sul campo’ le istanze di difesa sociale, facendole poi gestire alla politica giudiziaria. Uno degli antidoti più efficaci per contrastare la tossicità di queste degenerazioni sistemiche sono appunto le riforme, ma quelle vere, le sole in grado di conferire autorevolezza alla legislazione.
Ma cosa vuol dire riformare davvero? Troppo spesso però le riforme sono state intese in un senso eccessivamente letterale, vale a dire come occasione per modificare la forma di qualcosa, rimodellarla, rimaneggiarla. Per andare oltre operazione di maquillage legislativo dal corto respiro sono necessarie condizioni - innanzitutto ma non solo politiche - che nella recente esperienza non si sono manifestate e neppure sembrano entrare nell’orizzonte di quel che sta avvenendo o a breve avverrà nel campo legislazione penale.
Le riforme, quelle vere, richiedono una base empirica solida, mettono a frutto competenze integrate, si propongono di rispondere tempestivamente e adeguatamente ai cambiamenti di scenario o addirittura anticiparli e non limitarsi a spostare l’inseguimento della realtà in sede giudiziaria, quando si materializza in un processo.
Riforme efficaci, in grado di stabilizzare il sistema anche dal punto di vista degli equilibri costituzionali, presuppongono la volontà di abbandonare le calcolate timidezze e l’ipocrita reticenza che determinano lo stallo, a volte davvero indecente, su temi definiti ‘sensibili’, la cui soluzione, quando la realtà presenta il conto, viene tacitamente delegata ai giudici: perché è troppo complicato, perché politicamente non prendere posizione argomenti ‘divisivi’ è ritenuto più conveniente, perché quel che interessa ai cittadini è «ben altro».
Ma chi, se non il legislatore, dovrebbe occuparsi dei temi del fine vita?
Ancora, per disegnare un vero orizzonte di riforma del sistema penale è necessaria una rinuncia chiara, definitiva e tangibile alla illusione panpenalizzante e alle sue appendici demagogiche. Anche qui un esempio per tutti: la irresponsabile panpenalizzazione dell’area della responsabilità colposa, che strutturalmente richiede una inevitabile, profonda e continua opera di concretizzazione giudiziaria, che rende totalmente imprevedibile e assai disomogenei gli esiti processuali, anche perché comporta la necessità di confrontarsi con un universo valoriale assai composito, la cui gestione in funzione punitiva non può essere un compito da affidare alla magistratura.
Abbiamo già citato prima, sempre nell’area della colpa, la responsabilità sanitaria, ma si pensi anche al delicatissimo e drammatico tema della sicurezza del lavoro e al suo bilanciamento con le esigenze della produzione. È una questione che il legislatore che deve risolvere ‘prima e fuori’ dal penale, ‘prima e fuori’ dal processo.
Per fare vere riforme bisogna però avere un disegno, operare in base ad una visione, la cui attuazione va poi affidata a strategie politico criminali univoche, non alla schizofrenia delle decisioni prese sulla base della spinta prevalente nella contingenza o assecondando il panico morale e lasciando poi le castagne sul fuoco della giurisprudenza.
La palese assenza di una visione di sistema impedisce allora di guardare alle recenti modifiche della prescrizione/improcedibilità come ad una riforma: si tratta al massimo di una vistosa toppa applicata sul tessuto lacerato di un sistema inefficiente. Quale sarebbe la visione che la anima? La presa d’atto che i processi non possono durare all’infinito e ad un certo punto bisogna tracciare una linea? Ci mancherebbe altro.
Lo stesso vale, su scala sistematica più ampia e con effetti molto diretti e concreti sulla esistenza delle persone, per il sistema sanzionatorio e l’ordinamento penitenziario. Entrambi sono stati e continuano ad essere oggetto di una incessante opera di rimaneggiamento legislativo, che ha tuttavia solo scalfito (a voler essere ottimisti) la loro granitica essenza segregante. D’altra parte, molte modifiche sono state l'effetto diretto delle condanne subite dall’Italia in sede europea o di interventi della Corte Costituzionale e molte altre ancora sono derivate dalla necessità di fronteggiare o almeno attenuare le drammatiche conseguenze del sovraffollamento carcerario.
A confermare l’assenza di un disegno relativo al sistema delle sanzioni c’è d’altra parte il periodico contrappunto di improvvisi raptus di schizofrenia sistematica, come quelli contenuti nella legge n. 3/2019, la c.d. spazzacorrotti, ispirati ad una filosofia punitiva radicalmente opposta alle linee di riforma dell’ordinamento penitenziario che, sia pur faticosamente e in maniera un po’ disorganica, il nostro riluttante legislatore stava progressivamente implementando.
Solo l’effettivo e inequivoco abbandono della logica carcero-centrica e della identificazione della certezza della pena con la certezza della esecuzione detentiva, segnalerebbe l’avvento di una vera riforma del sistema sanzionatorio. Qualche timido segnale in questo senso è rinvenibile nella ispirazione complessiva e in alcuni contenuti della c.d. riforma Cartabia, nonostante i numerosi compromessi al ribasso che caratterizzano molte delle sue scelte qualificanti. Vedremo.
Non sono infine vere riforme tutte le innumerevoli normative penali (sostanziali e processuali) figlie del simbolismo efficientista, che non produce norme in grado di dialogare con la realtà e incidere su di essa, ma sforna simulacri legislativi senza effettività, che rispondono solo ad esigenze autorappresentative o addirittura si limita alla proterva trasposizione legislativa di uno slogan politico, come ad esempio avvenuto nel caso delle sciagurate modifiche alla disciplina della legittima difesa.
L’assenza nel panorama legislativo di vere riforme è un atto di abdicazione, certifica la rinuncia del legislatore a svolgere il ruolo costituzionale che gli spetta e che non si esaurisce nella produzione di disposizioni normative (purchessia), tanto più che il formante legislativo, lo abbiamo visto, non è più monopolista del settore, ma è parte di una complessa e integrata rete di fonti con le quali la disposizione interagisce per farsi norma nella realtà applicativa.
Anche per questo il legislatore ha bisogno di trovare ispirazione in un reale spirito riformista in grado di conferire autorevolezza non solo alle disposizioni nelle quali esse si sostanziano, ma anche alla fonte che le produce, il che tuttavia avviene - per dirla con Louis Brandeis - solo se si fanno «leggi rispettabili»[5], in tutti i sensi che è possibile attribuire a questa espressione.
Anche le migliori leggi e a maggior ragione le riforme di sistema devono tuttavia poter contare su condizioni di contesto in grado di attivare nella realtà il cambiamento che attraverso di esse si intende realizzare. Tra le condizioni essenziali perché ciò avvenga c’è anche un’alleanza da sancire nel tempo a venire: quella tra un legislatore che intende recuperare la sua autorevolezza e una giurisprudenza consapevole del suo ruolo con-formativo e per questo custode e artefice della cultura delle garanzie e dei diritti. Un’alleanza alla quale deve partecipare anche la scienza giuridica, chiamata a mettere a disposizione, senza pregiudizi, competenze e strumenti per migliorare le performances di entrambe le funzioni, quella legislativa e quella giudiziaria, e favorire la loro integrazione.
* Il testo riproduce, con minime variazioni, struttura e contenuti della relazione svolta all’incontro di studio su «Le sfide del diritto penale tra giurisprudenza e istanze di riforma», in occasione della presentazione del volume E. Rosi - T. Epidendio (a cura di), Argomenti di diritto penale giurisprudenziale, Milano 2022 - Camera dei Deputati Roma 1° luglio 2022.
[1] La citazione è tratta dalle pagine di presentazione del volume da parte dei Curatori.
[2] Sezioni Unite n. 13/2000, n. 51815/2018 e n. 4616/2022
[3] La Consulta ha dichiarato dell’art. 649 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice pronunci sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere nei confronti di un imputato per uno dei delitti previsti dall’art. 171-ter della legge 22 aprile 1941, n. 633 (Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio), che, in relazione al medesimo fatto, sia già stato sottoposto a procedimento, definitivamente conclusosi, per l’illecito amministrativo di cui all’art. 174-bis della medesima legge.
[4] Il diritto giurisprudenziale penale. Collisioni vere e apparenti con la legalità e sanzioni dell’illecito interpretativo, in DPC 3/2016, 26)
[5] «If we desire respect for the law, we must first make the law respectable». Louise Dembitz Brandeis è stato uno dei più influenti ed autorevoli giuristi statunitensi della prima metà del secolo scorso. Esponente di spicco del liberalismo americano, nel 1916 fu nominato giudice della Corte suprema dal Presidente Wilson.