Da Milano a Caltanissetta: ritorno (non accidentale) di un depistaggio
di Andrea Apollonio
In questi giorni la Sicilia giudiziaria è in fermento. A Caltanissetta è in corso il processo sui depistaggi avvenuti all'indomani della strage palermitana di via d'Amelio, in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino; inchiesta nell'ambito della quale, a quanto se ne sa, è stato aperto un fascicolo a Messina, competente a valutare le ipotesi di reato a carico di magistrati in servizio a Catania. Perché su quella strage ancora non è stata fatta piena luce, al contrario: la sentenza della Corte d'Assise nissena nel "Borsellino-quater" (giudizio su quei fatti arrivato non per caso alla quarta puntata) parla del "più grande depistaggio della storia d'Italia": le indagini sulle bombe furono sviate fin da subito, anche per mezzo di "falsi" pentiti, forse imbeccati ad arte da uomini dello Stato, tanto da produrre numerose, ingiuste condanne all'ergastolo per quei fatti. Ancora un depistaggio accertato e conclamato; l'ennesimo.
Assume quindi un significato tutt'altro che retorico l'esortazione rivolta qualche giorno fa, su questa Rivista, da Giovanni Tamburino (che negli anni Settanta indagò efficacemente e pericolosamente sui servizi segreti deviati) alle nuove leve di magistrati affinché, nelle proprie indagini e nelle proprie decisioni, si ricerchi la verità lontano da ogni condizionamento esterno, sempre e comunque, "verità della quale siamo semplice strumento".
Una parte di quei colleghi a cui Tamburino si rivolgeva - tra cui chi scrive - è nata nell'anno in cui Dario Fo riusciva finalmente a portare sugli schermi televisivi il suo spettacolo teatrale "Morte accidentale di un anarchico", messo in scena quasi clandestinamente diciassette anni prima, nel dicembre 1970, e fin da subito osteggiato da Questure, Prefetture, Procure e Tribunali d'Italia (la piéce generò decine di processi per diffamazione in giro per il Paese). L'avvenimento da cui nasceva lo spettacolo, infatti, era tanto noto quanto scomodo per tutti: la morte dell'anarchico Pinelli - occorsa il 16 dicembre 1969 - precipitato dal quarto piano della Questura di Milano, a pochi giorni dalla strage di piazza Fontana: dai poliziotti dell'ufficio politico era considerato - a torto - uno dei possibili artefici dell'atto. Cosicché, per l'inesorabile legge del tempo calendarizzato, qualche giorno fa, anche su questa Rivista, si è celebrato l'anniversario della madre di tutte le stragi italiane; mentre oggi occorre evocare quell'episodio che è forse la genesi di tutti i depistaggi italiani, che sono tanti, troppi.
"Morte accidentale di un anarchico" è il tipico testo del Fo politico, in cui farsa e satira si intrecciano strettamente alla realtà politica e sociale, ed è forse il più grande capolavoro di un Maestro che all'epoca, raggiungendo il culmine della maturità artistica, intercettò la sconvolgente realtà che stava gradatamente emergendo, proprio in quegli anni e dopo una lunga parentesi di silenzi e omissioni: le numerose deposizioni reticenti, i falsi verbali, i referti insabbiati, le versioni costruite a tavolino, che permettessero di scagionare coloro che la notte di cinquant'anni fa interrogavano con fare energico l'anarchico Pinelli; che poi, senza un grido, precipitava dalla finestra di quegli uffici. Ed è paradossale che (come ricorda Fo al suo "nuovo" pubblico televisivo; il video è reperibile su YouTube) le indagini su quell'evento e su quei depistaggi rimasero di fatto insabbiate dall'uccisione del commissario Calabresi, che quell'interrogatorio conduceva: vicenda che molti ritengono ancora oscura, nonostante le note - ma molto controverse - condanne di Sofri e di altri esponenti di Lotta Continua, intervenute negli anni Novanta; condanne, anche queste, che per molti sarebbero il frutto di (altri) depistaggi, dell'operato di (altri) falsi pentiti.
Il Giullare insomma, in quel lontano 1987, stava recitando riferendosi a quanto già accaduto, e, senza saperlo ma certo immaginandolo, a quello che sarebbe accaduto da lì a poco: a tutte le controverse vicende giudiziarie che avrebbero intessuto - avvelenandola - la storia d'Italia. "Morte accidentale di un anarchico" è quindi l'inconsapevole (o consapevole?) messa in scena di un metodo tutto italiano di "fare" verità, che a ben vedere non poteva trovare un aedo migliore, che ha vinto il Nobel della letteratura per "avere, nella tradizione dei giullari medievali, fustigato il potere", precisando poi Stoccolma: "Se c'è qualcuno che merita l'epiteto di giullare nella vera accezione del termine, questi è lui". E quanto (amaramente) divertente è, godersi sul palco questi attori-funzionari che, con fare impacciato al limite del grottesco, cercano di far coincidere i loro verbali, ingraziandosi all'italiana il magistrato di turno, il superiore di turno, perché è sempre, ed è sempre stato, "tutto a posto"; e se qualcosa è accaduto, lo è stato per disgrazia, per fatalità: per qualcosa che non si poteva sapere, o prevedere: a Milano, a Caltanissetta, passando per Roma e per molti altri luoghi di "costruzione" - o sarebbe meglio dire: "accertamento" - dei fatti. Queste ricorrenze, questi ritorni non accidentali, ed i modi letterari e non con cui sono evocati e consegnati al presente (in ciò, questa Rivista, assieme ad altre, fa il suo bel dovere), devono aiutarci a far leva sulla memoria, affinché la ricerca incondizionata della verità non sia soppiantata da altri fini; da una tutela ad ogni costo dello Stato e delle sue articolazioni, per intenderci. Anche perché, la verità, presto o tardi, trova sempre i suoi canali di sfogo: che siano leali pubblici ministeri, che siano buoni giudici; che siano i Giullari del nostro tempo