di Maria Baldari
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il procedimento sanzionatorio e la vicenda giudiziaria. – 3. La decisione della CGUE: la ricevibilità e la prima questione pregiudiziale – 3.1 La decisione della CGUE: la seconda questione pregiudiziale – 3.2 La decisione della CGUE: la terza questione pregiudiziale – 4. Il ne bis in idem: da garanzia processuale a garanzia sostanziale. Ricadute applicative - 5. Il recepimento in ambito interno. Considerazioni di sistema.
1. Premessa
Con la sentenza del 14 settembre 2023 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea conferma la propria adesione alla nozione sostanzialista di «materia penale», da cui discende l’applicazione dello statuto giuridico proprio delle pene anche alle sanzioni che, sebbene formalmente amministrative, siano considerate penali sulla scorta dei cd. Engel criteria.
In tale contesto, torna a pronunciarsi sui requisiti richiesti ai fini della deroga al principio del ne bis in idem, ritenendo irrinunciabile la verifica in ordine alla sussistenza di un effettivo coordinamento tra i diversi procedimenti.
La pronuncia si è resa necessaria per fare luce nel clima di incertezza generato dalle interpretazioni evolutive che, a più riprese, hanno interessato il principio in esame.
2. Il procedimento sanzionatorio e le vicende giudiziarie
Con decisione del 4 agosto 2016 l’AGCM ha irrogato in solido alla Volkswagen Group Italia SpA, (VWGI) e alla Volkswagen Aktiengesellschaft (VWAG) una sanzione pecuniaria di importo pari a 5 milioni di euro per aver posto in essere pratiche commerciali scorrette ai sensi dell’articolo 20, secondo comma, dell’articolo 21, primo comma, lettera b), e dell’articolo 23, primo comma, lettera d), del codice del consumo[1].
In dettaglio, alle due società sono state contestate da un lato, l’installazione, sui veicoli diesel commercializzati a far data dal 2009, di un software finalizzato ad alterare la misurazione dei livelli di emissione di ossidi di azoto durante i test per il controllo delle emissioni inquinanti; dall’altro, la diffusione di messaggi pubblicitari contenenti informazioni relative all’attenzione prestata da tali società al livello delle emissioni inquinanti e all’asserita conformità dei veicoli in questione alle norme di legge. Il provvedimento è stato impugnato dinnanzi al T.a.r. Lazio.
Quando il ricorso dinnanzi al giudice amministrativo si trovava ancora pendente, la procura di Braunschweig (Germania) ha irrogato alla VWAG una sanzione pecuniaria di importo pari a 1 miliardo di euro in ragione della contestata manipolazione dei gas di scarico di taluni motori diesel del gruppo Volkswagen. Nell’ambito di tale decisione è stato precisato che, mentre una parte dell’importo complessivo - pari a 5 milioni di euro - sanzionava la condotta illecita, la restante somma era destinata a privare la VWAG dei benefici economici ricavati dall’installazione del software de quo.
La decisione tedesca è divenuta definitiva il 13 giugno 2018, quando la VWAG, versando la sanzione pecuniaria, ha formalmente rinunciato alla proposizione del ricorso. Conseguentemente, nell’ambito del procedimento pendente dinnanzi al T.a.r. Lazio, la VWGI e la VWAG hanno dedotto l’illegittimità sopravvenuta della decisione controversa per violazione del principio del ne bis in idem di cui all’articolo 50 della Carta e all’articolo 54 della CAAS.
Con sentenza del 3 aprile 2019, il giudice di primo grado ha respinto il ricorso ritenendo che il principio invocato non osti al mantenimento della sanzione pecuniaria prevista dalla decisione impugnata; avverso tale sentenza la VWGI e la VWAG hanno proposto appello.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto di dover risolvere preliminarmente la questione relativa all’applicazione del principio del ne bis in idem al caso di specie. A tal fine, ha osservato che dalla giurisprudenza della Corte[2]risulta che l’articolo 50 della Carta dev’essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale nei confronti di una persona per condotte illecite che integrano una manipolazione del mercato per le quali è già stata pronunciata una condanna penale definitiva a suo carico, nei limiti in cui tale condanna, tenuto conto del danno causato alla società dal reato commesso, sia idonea a reprimere tale reato in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva.
Il giudice di secondo grado, interrogatosi innanzitutto sulla qualificazione della sanzione oggetto della controversia, ha richiamato la ormai costante giurisprudenza della Corte, così concludendo per il riconoscimento della sua natura sostanzialmente penale.
In secondo luogo, il giudice di secondo grado ha osservato che il principio del ne bis in idem mira ad evitare che un’impresa sia condannata o perseguita una seconda volta, circostanza questa che presuppone che la prima decisione non sia più impugnabile. Con particolare riferimento alla questione se la decisione dell’AGCM e la decisione tedesca riguardino gli stessi fatti, il Consiglio di Stato ha rilevato «l’analogia, se non l’identità», nonché l’«omogeneità» dei comportamenti oggetto di tali due decisioni, precisando altresì che, benché la sanzione dell’AGCM sia stata irrogata in un tempo antecedente, la decisione tedesca sia quella divenuta definitiva per prima.
In terzo e ultimo luogo, il giudice di secondo grado, dopo aver ricordato che una limitazione al principio del ne bis in idem può essere giustificata sulla scorta dell’articolo 52, paragrafo 1, si è interrogato sulla eventuale rilevanza ai fini di tale disposizione della normativa del codice del consumo oggetto di applicazione nella decisione controversa.
All’esito di siffatte considerazioni, il Consiglio di Stato ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte i seguenti quesiti interpretativi: in primo luogo, se le sanzioni irrogate in tema di pratiche commerciali scorrette, ai sensi della normativa interna attuativa della direttiva 2005/29, siano qualificabili alla stregua di sanzioni amministrative di natura penale; in secondo luogo, se l’articolo 50 della Carta vada interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale che consente di confermare in sede processuale una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale per condotte illecite che integrano pratiche commerciali scorrette, per le quali nel frattempo è stata pronunciata una condanna penale definitiva a suo carico in uno Stato membro diverso, laddove la seconda condanna sia divenuta definitiva anteriormente al passaggio in giudicato dell’impugnativa giurisdizionale della prima sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale; da ultimo, se la disciplina di cui alla direttiva 2005/29, con particolare riferimento agli articoli 3, paragrafo 4, e 13, paragrafo 2, lettera e), possa giustificare una deroga al divieto di ne bis in idem stabilito dall’articolo 50 della Carta e dall’articolo 54 della CAAS[3].
3. La decisione della CGUE: la ricevibilità del ricorso e la prima questione pregiudiziale
Preliminarmente la Corte, respingendo entrambi gli argomenti sostenuti dall’AGCM, dichiara ricevibili le questioni pregiudiziali.
Innanzitutto, per quanto attiene all’eccezioni secondo cui nel caso di specie l’articolo 50 della Carta e l’articolo 54 della CAAS non troverebbero applicazione in quanto la normativa tedesca rilevante non deriverebbe dal diritto dell’Unione, chiarisce che la decisione controversa è stata adottata sulla base della normativa italiana; quest’ultima, nella misura in cui recepisce la direttiva 2005/29, costituisce attuazione del diritto dell’Unione con conseguente applicazione della Carta. Parimenti, per quanto riguarda l’interpretazione dell’articolo 54 della CAAS, ricorda che la CAAS fa parte integrante del diritto dell’Unione in forza del protocollo n. 19 sull’acquis di Schengen, allegato al Trattato di Lisbona.
Inoltre, con riferimento al rilievo secondo cui nel caso di specie non sussisterebbe l’identità dei fatti, in quanto la decisione dell’AGCM e la decisione tedesca riguarderebbero persone e condotte diverse, la Corte osserva che le questioni relative alla interpretazione del diritto dell’Unione sono di regola assistite da una presunzione di rilevanza. Sul punto, ritiene che l’AGCM non abbia assolto l’onere della prova a suo carico, non essendo riuscita a dimostrare che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta dal giudice del rinvio non abbia alcun rapporto con la realtà effettiva o con l’oggetto del procedimento principale o riguardi un problema di carattere ipotetico.
Passando ad esaminare nel merito le questioni pregiudiziali, per rispondere al primo quesito la Corte ribadisce che la natura penale dei procedimenti e delle sanzioni, ai fini dell’applicazione dell’art. 50 della Carta, deve essere vagliata sulla scorta di tre criteri, e segnatamente: la qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, la natura medesima dell’illecito e il grado di severità della sanzione[4].
Ebbene, nel caso di specie, la sanzione e il procedimento di cui all’art. 27, co. 9 cod. cons. risultano qualificati come “amministrativi”; questo dato, tuttavia, non è di per sé ostativo all’applicazione dell’art. 50 CDFUE, dovendosi compiere una verifica alla luce degli ulteriori criteri.
Per quanto attiene alla natura dell’illecito, questa impone di verificare se la sanzione persegua una finalità repressiva, eventualmente anche non disgiunta da una preventiva. Nel caso di specie, la sanzione prevista da tale disposizione si aggiunge, obbligatoriamente, alle altre misure che l’AGCM può adottare rispetto a pratiche commerciali scorrette e che comprendono, in particolare, il divieto di proseguire o ripetere le pratiche in questione. Tant’è che, secondo quanto osservato dal Governo italiano, sarebbe proprio tale ultimo divieto a svolgere una funzione repressiva, con la conseguenza che la sanzione de qua avrebbe la diversa finalità di privare l’impresa interessata dell’indebito vantaggio concorrenziale acquisito.
Tuttavia, un siffatto scopo non è affatto menzionato nella disposizione in esame; inoltre, anche a ritenere che sia questa la finalità, la circostanza che la sanzione pecuniaria varia a seconda della gravità e della durata dell’illecito di cui trattasi testimonia una certa gradualità e progressività tipica delle sanzioni. Da ultimo, lo scopo di privare l’impresa dell’indebito vantaggio acquisito collide con la previsione di un importo massimo (il raggiungimento dello scopo sarebbe infatti vanificato in tutti quei casi in cui l’indebito vantaggio concorrenziale superi tale soglia) e di un importo minimo (nell’ambito di determinate pratiche commerciali scorrette quest’ultimo potrebbe infatti risultare superiore al vantaggio concorrenziale).
Per quanto concerne infine il terzo criterio, la Corte rileva come il grado di severità venga valutato in funzione della pena massima, con la conseguenza che una sanzione amministrativa pecuniaria che può raggiungere un importo di 5 milioni di euro presenta un grado di severità tale da far propendere per il riconoscimento della natura penale.
Sulla scorta di siffatte argomentazioni, la Corte conclude ritenendo che l’art. 50 della Carta deve essere interpretato nel senso che una sanzione amministrativa pecuniaria prevista dalla normativa nazionale, irrogata a una società dall’autorità nazionale competente in materia di tutela dei consumatori per pratiche commerciali sleali, benché sia qualificata come sanzione amministrativa dalla normativa nazionale, costituisce una sanzione penale quando persegue una finalità repressiva e presenta un elevato grado di severità.
3.1 La decisione della CGUE: la seconda questione pregiudiziale
Con riferimento al secondo quesito la Corte ricorda che l’applicazione del principio del ne bis in idem è soggetta a una duplice condizione, vale a dire, da un lato, che vi sia una decisione definitiva anteriore (bis) e, dall’altro, che gli stessi fatti siano oggetto tanto della decisione anteriore quanto del procedimento o della decisione successivi (idem)[5].
Nel caso di specie, la decisione tedesca è divenuta definitiva il 13 giugno 2018 e dunque in epoca successiva alla decisione dell’AGCM sicché, rettamente, la stessa non è stata invocata nell’ambito del procedimento dinnanzi all’autorità amministrativa italiana. Ad opposte conclusioni deve giungersi a seguito dell’acquisizione del carattere di definitività, in conseguenza del quale la medesima decisione può certamente essere fatta valere dinnanzi al giudice amministrativo; a nulla rilevando la circostanza che la stessa sia divenuta definitiva a seguito del pagamento e della rinuncia alla contestazione da parte della VWA[6].
Per quanto attiene al requisito dell’idem, dalla formulazione dell’articolo 50 della Carta discende che esso vieta di perseguire o sanzionare penalmente una stessa persona più di una volta per lo stesso reato. Ebbene, da un lato, entrambe le decisioni riguardano la stessa persona giuridica, vale a dire la VWAG, a nulla rilevando la circostanza che la decisione AGCM sia diretta anche alla VWGI; dall’altro, il criterio rilevante ai fini della valutazione della sussistenza di uno stesso reato è quello dell’identità dei fatti materiali, intesi come esistenza di un insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate tra loro che hanno condotto all’assoluzione o alla condanna definitiva dell’interessato[7].
Nel caso di specie, il giudice del rinvio prende in considerazione una situazione in cui una persona giuridica è oggetto di sanzioni di natura penale per gli stessi fatti nell’ambito di due procedimenti distinti, con la conseguenza che, secondo tale giudice, la condizione dell’idem risulterebbe soddisfatta. Tuttavia, la Corte rileva come il medesimo giudice faccia altresì riferimento all’«analogia» e all’«omogeneità» dei fatti, condizioni, queste ultime, insufficienti ai fini dell’applicazione del principio del ne bis in idem.
Sul punto, la Corte osserva in primo luogo che la negligenza nella supervisione dell’attività da parte di un’organizzazione con sede in Germania (oggetto della decisione tedesca) è condotta distinta dalla commercializzazione in Italia di veicoli muniti di un impianto vietato e dalla diffusione di pubblicità ingannevole in tale Stato membro (oggetto della decisione AGCM). In secondo luogo, nella misura in cui la decisione tedesca riguarda la commercializzazione di veicoli muniti di un siffatto impianto di manipolazione vietato anche in Italia, nonché la diffusione di messaggi pubblicitari scorretti relativi alle vendite di tali veicoli, la mera circostanza che un’autorità di uno Stato membro menzioni un elemento di fatto che riguarda il territorio di un altro Stato membro non può essere sufficiente per ritenere che tale elemento di fatto sia stato considerato tra gli elementi costitutivi di tale infrazione; a tali fini, piuttosto, occorre da un lato, accertare che tale autorità si sia effettivamente pronunciata su detto elemento di fatto nell’accertamento dell’infrazione, dall’altro, dimostrare la responsabilità della persona perseguita per tale infrazione ed eventualmente sanzionarla[8]. In terzo luogo, dalla decisione tedesca risulta che le vendite di siffatti veicoli in altri Stati membri sono state prese in considerazione dalla Procura in sede di calcolo della somma di 995 milioni di euro, disposta a carico della VWAG. In quarto luogo, la stessa Procura ha espressamente rilevato che, trattandosi di medesimi fatti[9], il principio del ne bis in idem, quale sancito nella costituzione tedesca, osterebbe all’irrogazione di ulteriori sanzioni penali al gruppo Volkswagen.
Alla luce delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene che il principio del ne bis in idem sancito all’articolo 50 della Carta deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che consente il mantenimento di una sanzione pecuniaria di natura penale irrogata a una persona giuridica per pratiche commerciali sleali nel caso in cui tale persona abbia riportato una condanna penale per gli stessi fatti in un altro Stato membro, anche se detta condanna è successiva alla data della decisione che irroga tale sanzione pecuniaria ma è divenuta definitiva prima che la sentenza sul ricorso giurisdizionale proposto avverso tale decisione sia passata in giudicato.
3.2 La decisione della CGUE: la terza questione pregiudiziale
Prima di rispondere al terzo quesito, la Corte ricorda la propria facoltà di riformulare le questioni sottopostele. Nel caso di specie, i giudici di Lussemburgo ritengono che i riferimenti normativi indicati dal giudice del rinvio[10] non siano rilevanti ai fini della soluzione della controversia.
In primo luogo, l’articolo 54 della CAAS mira a garantire che una persona condannata che abbia scontato la sua pena o, viceversa, che sia stata definitivamente assolta in uno Stato membro, possa circolare all’interno dello spazio Schengen senza dover temere di essere perseguita per gli stessi fatti in un altro Stato membro[11]; il procedimento principale, tuttavia, attiene a due imprese con sede l’una in Germania e l’altra in Italia, sicché la norma in esame non appare rilevante. In secondo luogo, l’articolo 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29 dispone che, in caso di contrasto tra le disposizioni di tale direttiva e altre norme dell’Unione disciplinanti aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, queste ultime debbano essere ritenute prevalenti; dall’ordinanza di rinvio, però, non risulta che nel caso di specie sussista un contrasto tra norme dell’Unione. In ogni caso, poiché l’articolo 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29 mira specificamente ad evitare un cumulo di procedimenti e di sanzioni, tale disposizione non è rilevante al fine di stabilire in quali circostanze siano ammesse deroghe al principio del ne bis in idem. In terzo luogo, l’articolo 13, paragrafo 2, lettera e), della direttiva non è applicabile ratione temporis al procedimento principale, poiché tale disposizione, introdotta dalla direttiva 2019/2161, è in vigore solo a far data dal 28 maggio 2022.
Tanto premesso, i giudici di Lussemburgo ritengono che, con la sua terza questione, il giudice del rinvio abbia chiesto, in sostanza, a quali condizioni siano ammesse limitazioni al principio del ne bis in idem, sancito dall’articolo 50 della Carta.
Limitazioni di tal fatta possono essere giustificate sulla base dell’articolo 52, paragrafo 1 a condizione che: siano previste dalla legge, garantiscano il contenuto essenziale di detti diritti e libertà e, nel rispetto del principio di proporzionalità, siano necessarie per il perseguimento di finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o per la protezione di diritti e libertà altrui. Nel caso di specie, è compito del giudice del rinvio verificare se l’intervento di ciascuna delle autorità nazionali interessate fosse previsto dalla legge e se tale requisito possa dirsi rispettato anche laddove vengano in considerazione normative diverse.
Con riferimento al perseguimento di un obiettivo di interesse generale, la Corte osserva che le due normative nazionali perseguono obiettivi legittimi e distinti, e nello specifico: la disposizione tedesca mira a far sì che le imprese e i loro dipendenti agiscano nel rispetto della legge e sanziona, pertanto, l’inadempimento colposo dell’obbligo di vigilanza nell’ambito di un’attività imprenditoriale; di contro, le norme del codice del consumo applicate dall’AGCM recepiscono la direttiva 2005/29 e mirano a conseguire un livello elevato di tutela dei consumatori, contribuendo nel contempo al corretto funzionamento del mercato interno.
Riguardo al principio di proporzionalità, quest’ultimo richiede che il cumulo di procedimenti e di sanzioni previsto dalla normativa nazionale non superi i limiti di quanto idoneo e necessario al conseguimento degli scopi legittimi perseguiti dalla normativa, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta fra più misure appropriate, è opportuno ricorrere alla meno restrittiva. La circostanza che due procedimenti perseguano obiettivi di interesse generale distinti - la cui tutela cumulativa risulta legittima -, può essere presa in considerazione quale fattore diretto a giustificare tale cumulo, a condizione che tali procedimenti siano complementari e che l’onere supplementare rappresentato da tale cumulo possa trovare giustificazione proprio nel perseguimento dei due diversi obiettivi.
Sulla scorta di siffatte argomentazioni, la Corte ribadisce pertanto che, affinché un cumulo possa essere giustificato, occorre che siano soddisfatte tre condizioni, vale a dire: che tale cumulo non costituisca un onere eccessivo per l’interessato; che esistano norme chiare e precise che consentano di prevedere quali atti e omissioni possano essere oggetto di cumulo; che i procedimenti in questione siano stati condotti in modo sufficientemente coordinato e ravvicinato nel tempo[12].
Ebbene, per quanto attiene alla prima di tali condizioni, la Corte osserva che la decisione dell’AGCM prevede una sanzione pecuniaria di cinque milioni di euro, che si aggiungerebbe alla sanzione pecuniaria di un miliardo di euro irrogata dalla decisione tedesca. Considerato che la VWAG ha accettato tale ultima sanzione pecuniaria, non risulta che la sanzione irrogata dall’AGCM - il cui importo peraltro corrisponde soltanto allo 0,5% della sanzione impartita dalla decisione tedesca - abbia avuto come conseguenza l’eccessiva onerosità del cumulo; né, in senso contrario, rileva la circostanza che l’AGCM abbia irrogato la sanzione massima prevista dalla legge.
Quanto alla seconda condizione, la Corte ritiene che, nonostante il giudice del rinvio non abbia fatto menzione di disposizioni tedesche o italiane che prevedano specificamente la possibilità di un cumulo, la VWAG avrebbe comunque potuto prevedere che la propria condotta potesse comportare l’apertura di procedimenti e la conseguente irrogazione di sanzioni in almeno due Stati membri, in ragione della violazione di norme applicabili alle pratiche commerciali sleali o anche di norme diverse come quelle previste dalla legge sugli illeciti amministrativi.
Per quanto riguarda la terza condizione, i giudici di Lussemburgo rilevano che non vi è stato alcun coordinamento tra la Procura tedesca e l’AGCM, nonostante i procedimenti in questione siano stati condotti in parallelo per alcuni mesi e la stessa Procura tedesca fosse a conoscenza del provvedimento dell’AGCM nel momento in cui ha adottato la propria decisione.
Ed in effetti, sebbene il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio preveda un meccanismo di cooperazione e coordinamento tra le autorità nazionali responsabili dell’esecuzione della normativa che tutela i consumatori, la Procura tedesca, a differenza dell’AGCM, non rientra tra queste autorità. Peraltro, la Procura tedesca ha preso contatti con Eurojust proprio al fine di evitare il cumulo di procedimenti penali nei confronti della VWAG in vari Stati membri[13]; tuttavia, per i fatti oggetto della decisione tedesca, le autorità italiane non hanno rinunciato ai procedimenti penali a carico della medesima società, né AGCM ha partecipato al tentativo di coordinamento nell’ambito di Eurojust.
Sul punto, nonostante il governo italiano affermi che, per ritenere giustificato il cumulo, sia sufficiente verificare soltanto se il principio del ne bis in idem sia rispettato nella sua «dimensione sostanziale», così dovendosi verificare solo se la sanzione complessiva risultante dai due procedimenti non sia manifestamente sproporzionata, senza che occorra anche il coordinamento tra i due procedimenti, la Corte ribadisce che le condizioni che giustificano siffatto cumulo - così come stabilite dalla giurisprudenza della stessa CGUE -, non possono subire variazioni a seconda del caso concreto. Sicché, nonostante il coordinamento di procedimenti o sanzioni riguardanti gli stessi fatti possa rivelarsi più difficile nei casi in cui le autorità appartengano a Stati membri diversi, tali aspetti pratici non possono in ogni caso comportare una relativizzazione del requisito in questione.
Sulla sorta di tali argomentazioni la Corte conclude ritenendo che l’articolo 52, paragrafo 1, della Carta deve essere interpretato nel senso che esso autorizza la limitazione dell’applicazione del principio del ne bis in idem, sancito all’articolo 50 della Carta, in modo da consentire un cumulo di procedimenti o di sanzioni per gli stessi fatti, purché le condizioni previste all’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, come precisate dalla giurisprudenza, siano soddisfatte, vale a dire qualora, in primo luogo, tale cumulo non rappresenti un onere eccessivo per l’interessato, in secondo luogo, esistano norme chiare e precise che consentano di prevedere quali atti e omissioni possano essere oggetto di cumulo e, in terzo luogo, i procedimenti di cui trattasi siano stati condotti in modo sufficientemente coordinato e ravvicinato nel tempo.
4. Il ne bis in idem: da garanzia processuale a garanzia sostanziale. Ricadute applicative
La sentenza in commento interviene nel clima di incertezza generato dalle rivisitazioni che hanno interessato il principio in esame. Infatti, com’è noto, l’istituto del ne bis in idem, da tempo presente nell’ordinamento interno ed europeo, grazie all’apporto della giurisprudenza ha subito diverse innovazioni che ne hanno mutato - con esiti differenti - il campo applicativo.
Nello specifico, sul piano sovranazionale, il principio si trova sancito da un lato, dall’art. 50 CDFUE[14] e dall’art. 54 della Convenzione di Schengen[15]; dall’altro, dall’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU[16]. I due concetti non sono tra loro slegati dovendo semmai essere intesi in un rapporto di armonia e coerenza, in virtù della clausola orizzontale di salvaguardia di cui all’art. 52 CDUE in base alla quale, quando la Carta riconosce un diritto corrispondente ad uno previsto dalla CEDU, deve garantire almeno lo stesso livello di tutela[17]. In ambito interno, il principio è poi codificato dall’art. 649 c.p.p., che sancisce il divieto di sottoporre l’imputato, già prosciolto o condannato con decisione divenuta irrevocabile, ad un secondo giudizio per il medesimo fatto.
Ebbene, entrambi i requisiti richiesti ai fini dell’applicazione della garanzia sono statti oggetto di interpretazioni evolutive da parte della giurisprudenza sovranazionale.
Da un lato, incidendo sul concetto di idem, la Corte EDU ha esteso il principio de quo anche ai casi in cui uno dei due procedimenti in questione, sebbene formalmente amministrativo, comporti l’irrogazione di una sanzione sostanzialmente penale[18]. Tale assunto trova una compiuta giustificazione nel progressivo processo di assimilazione tra le due figure, che ha interessato tanto le garanzie sostanziali quanto quelle procedimentali e processuali.
Dall’altro, la stessa Corte Edu ha operato un revirement in relazione alla nozione di bis. In dettaglio, in occasione del caso A e B c. Norvegia, la Grande Chambre ha chiarito che «Non viola il ne bis in idem convenzionale la celebrazione di un processo penale, l’irrogazione della relativa sanzione, nei confronti di chi sia già stato sanzionato in via definitiva dall’amministrazione tributaria con una sovrattassa (nella species pari al 30% dell’imposta evasa) purché sussista tra i due procedimenti una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta»[19].
Con questa pronuncia, dunque, la Corte Edu non ha escluso che ciascuno Stato possa articolare la risposta sanzionatoria tramite procedimenti distinti, purché temporalmente vicini e prevedibili ex ante; di conseguenza, ha invitato gli Stati ad adottare meccanismi in grado di unificare i procedimenti sanzionatori tramite una adeguata interazione tra le varie autorità competenti.
Nell’adempiere siffatto compito, i legislatori nazionali avrebbero dovuto curare, da un lato, che l’accertamento dei fatti in un procedimento venisse utilizzato anche nell’altro procedimento, così evitando inutili duplicazioni anche a livello istruttorio; dall’altro, che la sanzione imposta nel procedimento conclusosi per primo venisse tenuta in debito conto nell’altro, il fine di irrogare un trattamento sanzionatorio complessivamente proporzionato.
All’evidenza, con una simile interpretazione la Corte Edu ha inciso in maniera significativa sulla portata del ne bis in idem. Il principio in esame, infatti, da garanzia “processuale assoluta” - idonea cioè ad impedire l’instaurazione di nuove azioni penali o anche solo il rischio di tali azioni - è divenuto garanzia “sostanziale relativa”, in quanto dipendente dall’ulteriore requisito della connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta tra i due procedimenti[20].
Quest’ultimo corso giurisprudenziale, fondato appunto sul criterio della connessione sufficientemente stretta tra i procedimenti, ha evidenziato fin da subito molteplici criticità.
Innanzitutto, ha comportato una drastica riduzione del campo applicativo del divieto, con conseguenze ancora più dirompenti in relazione a quel processo di estensione delle garanzie CEDU cui si faceva poc’anzi riferimento.
In secondo luogo, l’indeterminatezza del criterio indicato ha l’effetto ultimo di lasciare ampio margine di apprezzamento all’interprete, il quale di volta in volta si trova a dover ricavare la regola dal singolo caso concreto, con un approccio inevitabilmente casistico e foriero di plurime incertezze.
Le problematiche indicate sembravano essere state parzialmente risolte dalla stessa Corte di Giustizia, che qualche anno fa è stata chiamata a pronunciarsi sulla questione in conseguenza di tre rinvii pregiudiziali sollevati dai giudici italiani[21].
In dettaglio, con la sentenza Grande Sezione, 20 marzo 2018, C-537/16, la CGUE, aderendo al medesimo orientamento della Corte Edu, ha ritenuto ammissibile il cumulo, purché nel rispetto delle condizioni indicate, vale a dire: il perseguimento di un interesse generale e di scopi complementari; l’indicazione di regole chiare e precise, tali da consentire al soggetto accusato di prevedere quali atti e quali omissioni possano costituire oggetto del cumulo; un coordinamento fra i procedimenti, al fine di limitare a quanto è strettamente necessario l’onere supplementare che un cumulo comporta; la proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio rispetto alla gravità dell’illecito[22].
Peraltro, anche in ottemperanza alla clausola di salvaguardia di cui all’art. 52 CDFUE, la CGUE ha precisato che i criteri indicati «assicurano un livello di tutela del principio del ne bis in idem che non incide su quello garantito all’art. 4 del protocollo n. 7 della CEDU, quale interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo».
In altri termini, secondo i giudizi di Lussemburgo lo standard UE in materia di ne bis in idem sarebbe più elevato, essendo le eccezioni al divieto di cumulo meglio definite e, per tale motivo, di applicazione più circoscritta.
5. Il recepimento in ambito interno. Considerazioni di sistema
Nonostante quell’intervento della CGUE, che negli intenti avrebbe dovuto svolgere una portata chiarificatrice, le problematiche applicative legate al nuovo corso giurisprudenziale non hanno trovato una compiuta risoluzione.
A livello interno, un parziale recepimento del revirement è avvenuto ad opera della Corte Costituzionale che, intervenuta per rigettare l’ennesima q.l.c. dell’art. 649 c.p.p., lo ha fatto proprio in ossequio ai nuovi dettami indicati nella causa A e B c. Norvegia.
Nello specifico, la Consulta ha sottolineato come si sia passati «dal divieto imposto agli Stati aderenti di configurare per lo stesso fatto illecito due procedimenti» tra loro indipendenti, alla facoltà di «coordinare nel tempo e nell'oggetto tali procedimenti, in modo che essi possano reputarsi nella sostanza come preordinati ad un'unica, prevedibile e non sproporzionata risposta punitiva»[23].
Nella medesima occasione la Corte ha auspicato un intervento normativo, anche al fine di evitare che la soluzione del problema venisse lasciata agli organi giudicanti[24]. Questi ultimi, infatti, proprio in ragione della laconicità del principio enunciato, a cui spesso si aggiunge l’elevato tecnicismo della materia, risultano privi di chiari riferimenti legislativi.
Tant’è che, proprio a riprova delle persistenti difficoltà interpretative, il giudice amministrativo ha sollevato il nuovo rinvio pregiudiziale a cui la CGUE ha risposto con la sentenza in commento[25].
Come in parte già anticipato, all’atto della verifica circa la sussistenza delle condizioni necessarie ai fini della deroga al ne bis in idem, erano emersi i seguenti elementi fattuali: mancanza di una regola chiara e certa che rendesse prevedibile il doppio binario; assenza di qualsiasi forma coordinamento fra i procedimenti indicati; sanzione irrogata nella misura massima in entrambi i casi.
Trattandosi peraltro di una materia diversa (vale a dire quella attinente alle pratiche commerciali scorrette) da quella rispetto alla quale la Corte era già intervenuta per recepire il ne bis in idem come garanzia “sostanziale” (rappresentata generalmente dal tema delle manipolazioni del mercato), la Sesta Sezione ha ritenuto di dover chiedere chiarimenti interpretativi alla CGUE.
Il nuovo rinvio da parte del giudice amministrativo era apparso come una sorta di invito alla Corte di Giustizia quanto meno a circoscrivere, nella portata applicativa, le deroghe al principio in esame, a riprova della preoccupazione in ordine ai possibili effetti distorsivi in termini di garanzie.
Ed in effetti la Corte, aderendo ad una interpretazione rigida dei requisiti che giustificano le deroghe al ne bis in idem, sembra aver colto tali sollecitazioni, ritenendo il coordinamento tra i procedimenti elemento indispensabile ai fini delle limitazioni del principio.
Peraltro, come accennato in apertura, la decisione in commento riveste importanza anche sotto altro profilo: tale sentenza rappresenta ulteriore conferma dell’adesione, da parte della CGUE, al filone giurisprudenziale volto a vagliare la natura penalistica di una sanzione sulla scorta di criteri di matrice sostanziale.
Ed in effetti, alla base dell’applicazione del principio del ne bis in idem si pone proprio il riconoscimento della natura sostanzialmente penale della sanzione irrogata dall’AGCM sulla scorta degli Engel criteria.Anche sotto tale profilo, la pronuncia non rappresenta una assoluta novità, inserendosi in quel percorso di adesione ai dettami sanciti dalla Corte EDU già da tempo avviato anche da parte della CGUE[26].
Dal riconoscimento della natura punitiva della sanzione deriva l’applicazione del regime giuridico proprio delle pene in senso stretto, nell’ambito di un processo di progressiva commistione tra i due modelli sanzionatori[27].
Ebbene, siffatto processo trova in questa sentenza un ulteriore passo in avanti, rappresentato dall’estensione alle sanzioni “punitive” di un’altra garanzia processuale, quale risulta essere appunto il divieto del bis in idem[28].
[1] In dettaglio, ai sensi dell’art. 20, co. 2 «Una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale, ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori»; ai sensi dell’articolo 21, co. 1 «È considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso: (...) b) le caratteristiche principali del prodotto, quali la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, l’esecuzione, la composizione, gli accessori, l’assistenza post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l’idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l’origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto»; ai sensi dell’articolo 23, co. 1, lett. d) : «Sono considerate in ogni caso ingannevoli le seguenti pratiche commerciali: (...) d) asserire, contrariamente al vero, che un professionista, le sue pratiche commerciali o un suo prodotto sono stati autorizzati, accettati o approvati, da un organismo pubblico o privato o che sono state rispettate le condizioni dell’autorizzazione, dell’accettazione o dell’approvazione ricevuta».
[2] Ed in particolare il riferimento è alla nota sentenza del 20 marzo 2018, Garlsson Real Estate e a., causa C‑537/16.
[3] Così Cons. Stato, Sez. VI, ord. 7 gennaio 2022, n. 68.
[4] Così sentenza del 4 maggio 2023, MV – 98, C‑97/21, EU:C:2023:371.
[5] Cfr. sentenza del 22 marzo 2022, bpost, C‑117/2.
[6] Il principio del ne bis in idem, infatti, trova applicazione indipendentemente dalle specifiche modalità con cui la singola decisione è divenuta definitiva.
[7] Così sentenza del 22 marzo 2022, bpost, C‑117/20, EU:C:2022:202
[8] V., in tal senso, sentenza del 22 marzo 2022, Nordzucker e a., C‑151/20, EU:C:2022:203, punto 44).
[9] Ed in effetti, l’installazione di detto impianto, il rilascio dell’omologazione, nonché la promozione e la vendita dei veicoli in questione costituiscono un insieme di circostanze concrete inscindibilmente connesse tra loro.
[10] Vale a dire l’articolo 54 della CAAS, l’articolo 3, paragrafo 4, e l’articolo 13, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2005/29.
[11] V., in tal senso, sentenze del 29 giugno 2016, Kossowski, C‑486/14 e del 28 ottobre 2022, Generalstaatsanwaltschaft München C‑435/22.
[12] In questo senso la CGUE si era già espressa nella sentenza del 22 marzo 2022, bpost, C‑117/20, punto 51).
[13] Tale circostanza risulta dalle informazioni fornite dalla VWAG all’udienza dinanzi alla Corte.
[14] Il quale prevede il divieto di perseguire o condannare una persona per un reato per il quale sia già stata assolta o condannata nell’Unione con sentenza penale definitiva. In questa versione, il principio de quo attiene ai rapporti tra Stati membri e si applica solo nell’attuazione del diritto UE.
[15] Secondo cui una persona già giudicata con sentenza definitiva in uno Stato contraente non può essere sottoposta, per i medesimi fatti, ad un procedimento penale in un altro Stato contraente.
[16] Tale disposizione vieta che ogni persona possa essere perseguita o condannata penalmente dallo stesso Stato per un reato per il quale sia già stata assolta o condannata con sentenza definitiva.
[17]Per un commento alla clausola di salvaguardia si rinvia a F. Ferraro - N. Lazzerini, Art. 52, in R. Mastroianni, O. Pollicino, S. Allegrezza, F. Pappalardo, O. Razzolini (a cura di), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Milano, 2017, p. 1061 ss. Sui rapporti tra CDUE e CEDU cfr. B. Nascimbene, Il principio di attribuzione e l’applicabilità della Carta dei diritti fondamentali: l’orientamento della giurisprudenza, in Riv. dir. int., 2015, p 49 ss., I. Anrò, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e CEDU: dieci anni di convivenza, in Federalismi.it, 2020.
[18] Cfr. Corte EDU, sent. 4 marzo 2014, caso Grande Stevens c. Italia. In dottrina, v. A.F. Tripodi, Uno più uno (a Strasburgo) fa due. L’Italia condannata per violazione del ne bis in idem in tema di manipolazione del mercato, in Dirittopenalecontemporaneo.it; G.M. Flick – V. Napoleoni, A un anno di distanza dall'affaire Grande Stevens: dal bis in idem all'e pluribus unum?, in Rivista delle Società, fasc.5, 2015; S. Calvetti, CEDU, sentenza Grande Stevens, e il diritto a non essere giudicati due volte, in Diritto & Giustizia, fasc.32, 2015, pag. 17.
[19]Corte Edu (Grande Camera),15 novembre 2016, A.e B. c. Norvegia, ric. n. 24130/11 e 29758/11.
[20] Sulla tematica si rinvia a C. Lamberti, Sanzioni e ne bis in idem nelle sentenze della corte europea e del giudice nazionale. L’involuzione del principio, in giustamm.it, 2015. Lo stesso criterio, del resto, veniva ribadito dalla Corte qualche anno dopo, in un caso in cui la violazione del ne bis in idem è stata riscontrata proprio in ragione della limitata sovrapposizione nel tempo dei due procedimenti nonché della circostanza che la raccolta e la valutazione delle prove nei procedimenti fosse stata largamente indipendente; il riferimento è Corte Edu, 18 maggio 2017, Jóhannesson c. Islanda.
[21] Il riferimento è in particolare a: causa Menci, sollevata dal Tribunale di Bergamo; causa Garlsson e causa Di Puma, sollevata dalla II sez. civile della Cassazione, tutte riunite dalla CGUE e decise con sentenza Grande Sezione, 20 marzo 2018, C-537/16.
[22] In dottrina si rinvia a B. Nascimbene, Il divieto di bis in idem nella elaborazione della Corte di Giustizia dell’Unione europea, in Sistema penale, 2020, fasc. 4, p. 95-108; L. Mariconda, Diritto antitrust e ne bis in idem nel dialogo tra le corti europee, in Diritto del Commercio Internazionale, fasc.4, dicembre, 2020, pag. 1053; S. Schiavone, La nozione di “idem” nel dialogo tra Corti: un unico criterio per una tutela effettiva, anche in materia di concorrenza , in Cassazione Penale, fasc.7-8, luglio 2022.
[23] Così Corte Cost., sent. 2 marzo 2018, n. 43.
[24] In questa direzione v. G. Angiolini, Una giustizia ancora irrisolta: il ne bis in idem “europeo” e l’Italia, in Riv. it. dir. e proc. Penale, 2018, fasc. 4, p. 2136.
[25] Cons. Stato, Sez. VI, ord. 7 gennaio 2022, n. 68.
[26] Si v. in tal senso CGUE sentenze del 20 marzo 2018, Menci, C-524/15 e Garlsson Real Estate, C-537/16; del 20 marzo 2018, Di Puma e Zecca, C-596/16 e C-597/16; CGUE, sentenza 2 febbraio 2021, causa C-481/19.
[27] Sul tema, la dottrina è amplissima; tra gli altri, si rinvia a F. Goisis, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, Torino, 2018; P. Cerbo, La nozione di sanzione amministrativa e la disciplina applicabile, in A. Cagnazzo - S. Toschei - F.F. Tuccari (a cura di), La sanzione amministrativa, Milano, 2016; M.A. Sandulli, Sanzioni non pecuniarie della pa, in Treccani. Il libro dell’anno del diritto, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Roma, 2015; M. Allena, Il caso Grande Stevens c. Italia: le sanzioni CONSOB alla prova dei principi CEDU, in Giornale dir. amm., 2014, pp. 1053 ss.; Id, La sanzione amministrativa tra garanzie costituzionali e principi CEDU: il problema della tassatività-determinatezza e prevedibilità, in www.federalismi.it.
[28] Appare il caso di precisare come, in ambito interno, l’applicazione del ne bis in idem alle sanzioni “punitive” sia già stata riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza 12 maggio 2016, n. 102. Per un commento alla sentenza, si rinvia a F. Vigano’, Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio in materia di abusi di mercato: dalla sentenza della Consulta un assist ai giudici comuni, in Dirittopenalecontemporaneo.it, maggio 2016.