Quando tempus non regit actum. Ancora sulla c.d. “autotutela” in materia di s.c.i.a.: dichiarazioni non veritiere, interesse pubblico in re ipsa e termine ragionevole per l’esercizio del potere inibitorio postumo (nota a Cons. Stato, sez. IV, 30 giugno 2023, n. 6387)
di Piergiuseppe Otranto
Sommario: 1. I fatti di causa. – 2. Il potere inibitorio postumo sugli interventi soggetti a s.c.i.a. (c.d. “annullamento della s.c.i.a.”) nella riforma Madia. Cenni. – 3. S.c.i.a. ed esercizio del potere inibitorio postumo in alcuni orientamenti giurisprudenziali. Ovvero quando tempus non regit actum. – 3.1. segue:oscillazioni giurisprudenziali tra “termine ragionevole” e “termine di diciotto mesi”. – 3.2. Incertezze lessicali e temporali: il c.d. “annullamento della s.c.i.a.” e l’irrilevanza delle riforme sulla ragionevolezza del termine in taluni approdi giurisprudenziali. – 3.3. Spostando dies a quo e dies ad quem: quando il solo avvio del procedimento rende “ragionevole” il termine di esercizio del potere. – 4. Falsa rappresentazione dei fatti ed esercizio del potere inibitorio postumo. – 4.1. Non veritiera rappresentazione dei fatti, falsità ed onere della prova. – 5. Linee ricostruttive.
1. I fatti di causa
Nel 2010 la proprietaria di un immobile presentava al Comune di Noci una d.i.a. per la realizzazione di un intervento straordinario di demolizione e ricostruzione di un immobile e di un piccolo locale deposito costruito in aderenza al primo.
Il procedimento era promosso in ossequio alla disciplina pugliese del c.d. “piano casa”[1] che ammetteva la demolizione e ricostruzione con la realizzazione di un aumento di volumetria superiore massimo del 35% rispetto all’esistente.
La d.i.a. era stata integrata nel 2012 e successivamente nel luglio 2013, in relazione a profili che, tuttavia, non riguardavano il locale deposito[2].
Nel settembre 2013 il Comune comunicava l’avvio del procedimento di “annullamento in autotutela” della d.i.a., prospettando – sulla base della segnalazione di alcuni vicini pervenuta pochi giorni prima – la “non pre-esistenza del locale deposito di dimensioni di mt. 7 x 3,40 in aderenza all’immobile oggetto di d.i.a.”.
Erano seguite due memorie partecipative mediante le quali l’interessata intendeva provare l’esistenza del deposito in epoca antecedente alla d.i.a.
Solo sul finire del 2014 il Comune, contestualmente ad un secondo avviso di avvio del procedimento di “autotutela”, ordinava all’interessata la sospensione dei lavori sino alla conclusione del procedimento stesso.
L’ente, tuttavia, restava inerte pur innanzi alla diffida con la quale l’interessata chiedeva la conclusione del procedimento con provvedimento espresso. Avverso il silenzio serbato dal Comune, la denunciante proponeva ricorso ex art. 117 c.p.a. innanzi al T.a.r. Puglia. Solo a quel punto l’Amministrazione, il 3 novembre 2015, adottava il provvedimento di “annullamento” della d.i.a., impugnato dalla ricorrente con motivi aggiunti.
Il giudice di prime cure, dichiarata l’improcedibilità del ricorso principale avverso il silenzio, accoglieva il ricorso per motivi aggiunti ritenendo che il provvedimento impugnato, espressione del “potere di autotutela decisoria”, fosse illegittimo siccome intempestivo in relazione ai limiti temporali previsti dall’art. 21 nonies, l. n. 241/1990, e dunque, sia rispetto al termine di diciotto mesi – introdotto dall’art. 6 della l. n. 124/2015 – sia rispetto al “termine ragionevole” previsto dall’art. 21 nonies sin dalla sua formulazione ante riforma[3]. Il Tribunale riteneva inoltre che attraverso la d.i.a. la ricorrente non avesse operato una falsa rappresentazione della realtà e che, piuttosto, il provvedimento impugnato fosse (oltre che tardivo) affetto da gravi carenze istruttorie e motivazionali.
Il Consiglio di Stato, tuttavia, ha affermato la legittimità del provvedimento del Comune riformando la decisione del T.a.r. con una sentenza che induce qualche osservazione poiché, muovendo dal caso particolare, finisce per lambire temi, di ordine generale, come quelli del ruolo stesso del giudice amministrativo nell’ordinamento[4] e della tecnica del richiamo al precedente giurisprudenziale, adoperata talvolta in modo improprio.
2. Il potere inibitorio postumo sugli interventi soggetti a s.c.i.a. (c.d. “annullamento della s.c.i.a.”) nella riforma Madia. Cenni
Una prima considerazione riguarda la scelta del diritto applicabile al caso concreto ratione temporis.
La controversia, infatti, ha ad oggetto la legittimità del provvedimento adottato dalla p.A. in applicazione degli artt. 19, comma 3, e 21 nonies, l. n. 241/1990.
Si tratta, come è noto, di disposizioni oggetto di non trascurabili riforme per effetto della legge c.d. Madia, n. 124/2015, entrata in vigore il 28 agosto del 2015.
Nel testo vigente prima della riforma Madia, ad esempio, l’art. 19, comma 3, prevedeva che, decorso il termine ordinario di sessanta giorni (trenta per la d.i.a. edilizia) per l’esercizio dei poteri inibitori e ripristinatori previsti in via ordinaria, fosse comunque salvo il potere dell’Amministrazione competente “di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies”: i) in caso di pregiudizio per un interesse a protezione rafforzata (comma 4)[5]; ii) “in ogni tempo” in ipotesi di “dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci”. Per altra via, il potere di annullamento d’ufficio ex art. 21 nonies doveva essere esercitato comunque non oltre un “termine ragionevole”. Gli art. 19 e 21 nonies andavano letti in combinato con l’art. 21, comma 1, a mente del quale, “in caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge (…) ed il dichiarante è punito con la sanzione prevista dall’articolo 483 del codice penale, salvo che il fatto costituisca più grave reato”; inoltre le sanzioni previste in caso di svolgimento dell’attività in carenza dell’atto di assenso dell’amministrazione o in difformità di esso si sarebbero dovute applicare anche a coloro che avessero dato inizio all’attività ex art. 19 “in mancanza dei requisiti richiesti o, comunque, in contrasto con la normativa vigente” (art. 21, comma 2).
Con la riforma Madia le norme su richiamate sono state interessate da non trascurabili modifiche[6].
Anzitutto all’art. 21 nonies, comma 1, si prevede che il “termine ragionevole” per l’esercizio dell’autotutela in riferimento a provvedimenti autorizzatori o attributivi di vantaggi economici non possa essere superiore a diciotto mesi (oggi dodici). Ed è sempre la l. n. 124/2015 ad aver introdotto il comma 2 bis dell’art. 21 nonies, l. n. 241/1990, a mente del quale il termine di diciotto mesi non opera in relazione all’annullamento dei “provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”. Per effetto della riforma del 2015, inoltre, nell’art. 19 scompare il riferimento esplicito all’autotutela amministrativa e si ammette la possibilità che l’Amministrazione, “in presenza delle condizioni previste dall’articolo 21-nonies” adotti i provvedimenti inibitori e ripristinatori anche decorso il termine ordinario[7]; viene abrogato, infine, il comma 2 dell’art. 21, lasciando tuttavia in vigore la disposizione di cui al comma 1.
3. S.c.i.a. ed esercizio del potere inibitorio postumo in alcuni orientamenti giurisprudenziali. Ovvero quando tempus non regit actum
Proprio perché si tratta di modifiche non marginali della disciplina, è importante stabilire quali siano le norme di diritto positivo applicabili e quali i principi giurisprudenziali da considerare nel caso di un provvedimento con il quale l’Amministrazione, dopo il decorso del termine ordinario per l’esercizio dei propri poteri inibitori e ripristinatori, privi di effetto una s.c.i.a., ed eserciti, così, poteri inibitori, repressivi o conformativi ex post che solo in via semplificativa (ed impropriamente) possono definirsi di “annullamento d’ufficio della s.c.i.a.”[8].
È noto che il procedimento amministrativo è regolato dal principio tempus regit actum, con la conseguenza che la legittimità degli atti del procedimento deve essere valutata con riferimento alle norme vigenti al tempo in cui è stato adottato l’atto che conclude una autonoma fase dello stesso[9].
Come ha precisato anche di recente il Consiglio di Stato[10], nei procedimenti amministrativi la corretta applicazione di tale principio comporta che la pubblica Amministrazione tenga conto delle modifiche normative intervenute durante il procedimento “non potendo considerare l’assetto normativo cristallizzato in via definitiva alla data dell’atto che vi ha dato avvio”.
Ne consegue che la legittimità del provvedimento deve essere valutata con riferimento alla disciplina vigente al tempo in cui esso è stato adottato e non al tempo in cui è stato avviato il relativo procedimento e questo perché “lo ius superveniens reca sempre una diversa valutazione degli interessi pubblici” operata dal legislatore e dalla quale l’Amministrazione non può autonomamente discostarsi.
Questo principio di carattere generale stenta, tuttavia, a trovare concreta applicazione in materia di autotutela decisoria dal momento che le Amministrazioni, con l’avallo di una parte della giurisprudenza, sovente esercitano il proprio potere di annullamento d’ufficio come se a partire dal 2015 il legislatore non ne avesse modificato in maniera profonda la struttura ed i limiti.
Non è certamente questa la sede per ripercorrere l’evoluzione del diritto positivo e del dibattito giurisprudenziale e dottrinario sull’autotutela decisoria: basterà qui ricordare che in piena coerenza con gli orientamenti giurisprudenziali maturati sin da epoca risalente, l’art. 21 nonies, l. n. 241/1990 – introdotto con la l. n. 15/2005 – non ancorava l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio a casi e modalità stabiliti dalla legge. Esso continuava ad apparire, di contro, “espressione di un privilegio generale dell’amministrazione di tornare unilateralmente sulle decisioni (…) che enfatizza la flessibilità dell’atto amministrativo, nel presupposto che esso debba essere sempre adattato alle mutevoli esigenze dell’interesse pubblico ed aderente al principio di legalità dell’azione amministrativa”[11]. Tuttavia, la disposizione aveva l’innegabile merito di precisare che l’annullamento si sarebbe potuto pronunciare solo in presenza di ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
È con le modifiche introdotte dalla l. n. 124/2015 che l’autotutela decisoria appare ancorata al principio di legalità e non più un’implicita espressione dell’immanenza ed inesauribilità del potere di amministrazione attiva derivanti dalla necessità di garantire la continua corrispondenza dell’attività amministrativa al pubblico interesse[12].
L’introduzione del termine di diciotto mesi (oggi dodici) per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio era stata salutata come “un nuovo paradigma nei rapporti tra cittadini e pubbliche amministrazioni: nel quadro di una regolamentazione attenta ai valori della trasparenza e della certezza giuridica, il legislatore del 2015 ha fissato termini decadenziali di valenza nuova, non più volti a determinare l’inoppugnabilità degli atti nell’interesse dell’amministrazione, ma a stabilire limiti al potere pubblico nell’interesse dei cittadini, al fine di consolidare le situazioni soggettive dei privati”[13].
Per scongiurare il rischio che a seguito della limitazione del potere di annullamento d’ufficio potessero consolidarsi posizioni di vantaggio ottenute in maniera fraudolenta, fu introdotto il già richiamato comma 2 bis dell’art. 21 nonies, che esclude l’applicabilità del termine decadenziale per l’esercizio del potere rispetto a “provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”.
Anche il potere di intervento tardivo sulla s.c.i.a. appare mutato per effetto della l. n. 124/2015. L’art. 19, comma 4, infatti nel rinviare alle “condizioni” previste dall’art. 21 nonies, supera la contraddittorietà delle preesistenti ricostruzioni dell’istituto quale forma di annullamento amministrativo di un atto privato[14]. Siamo cioè innanzi ad un provvedimento attraverso il quale, ricorrendo i presupposti per l’applicazione dell’art. 21 nonies, l’Amministrazione non interviene ad annullare d’ufficio la segnalazione, ma esercita un potere inibitorio “supplementare” che consente di rimuove gli effetti prodotti dalla s.c.i.a. e dal mancato esercizio del potere inibitorio in via ordinaria.
Dopo la legge Madia, dunque, il limite dei diciotto (poi dodici) mesi finisce per applicarsi anche al provvedimento di rimozione degli effetti della s.c.i.a., entro i limiti delineati con riferimento ai “provvedimenti” conseguiti sulla base di condotte fraudolente “accertate con sentenza passata in giudicato”.
Come si è già ricordato, di contro, ante riforma non solo mancava un termine inderogabile per l’esercizio dell’autotutela – valendo unicamente il limite del “termine ragionevole” –, ma l’Amministrazione poteva intervenire “in ogni tempo” in ipotesi di “dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci”, e ciò senza che assumesse alcun rilievo l’accertamento di tale presupposto per effetto di un giudicato penale.
L’entrata in vigore della l. n. 124/2015 avrebbe dunque dovuto segnare uno spartiacque tra due regimi giuridici.
In particolare, proprio in virtù del ricordato principio generale del tempus regit actum (ed in assenza di una norma transitoria), ai provvedimenti adottati dopo il 28 agosto 2015 si sarebbe dovuta applicare la nuova disciplina, più attenta ad offrire tutela alle esigenze di certezza giuridica ed all’affidamento dei soggetti beneficiati dal provvedimento di primo grado asseritamente illegittimo[15].
3.1. segue: oscillazioni giurisprudenziali tra “termine ragionevole” e “termine di diciotto mesi”
L’interpretazione della giurisprudenza, specie con riguardo all’operatività del termine di diciotto mesi, tuttavia, non è stata univoca.
Secondo un indirizzo rimasto minoritario, il termine perentorio avrebbe trovato applicazione per i provvedimenti di secondo grado adottati dopo l’entrata in vigore della riforma e decorsi diciotto mesi dal provvedimento ritenuto illegittimo[16].
Altri orientamenti hanno cercato di attenuare – ove non di neutralizzare – l’impatto innovativo della riforma.
Si è così affermato che la nuova disciplina dell’art. 21 nonies sarebbe applicabile solo ai provvedimenti di annullamento di atti (di “primo grado”) emanati dopo l’entrata in vigore della riforma[17]. Secondo un altro indirizzo giurisprudenziale in riferimento ai provvedimenti di annullamento adottati dopo il 28 agosto 2015 – ma con riguardo ad atti di primo grado adottati ante riforma – il termine di diciotto mesi decorrerebbe non dalla data di adozione del provvedimento originario, ma dal 28 agosto 2015[18] (e spirerebbe, dunque, in ogni caso il 28 febbraio 2017)[19]; in tale ipotesi, tuttavia, sarebbe comunque salva l’operatività del termine ragionevole già previsto dall’originaria versione dell’articolo 21 noniesdella legge n. 241/1990 sicché – allorquando i diciotto mesi non possano considerarsi ancora decorsi – “la novella non può non valere come prezioso indice ermeneutico ai fini dello scrutinio dell’osservanza della regola di condotta in questione”[20].
D’altro canto, finanche con riferimento alla legittimità di provvedimenti di annullamento d’ufficio adottati prima della riforma del 2015, la giurisprudenza aveva osservato che la disposizione novellata – pur non applicabile ratione temporis – nella parte in cui fissava il termine dei diciotto mesi dovesse comunque valere come indice ermeneutico ai fini della valutazione sulla ragionevolezza del termine[21].
Ciò significa che per i provvedimenti di annullamento d’ufficio adottati dopo il 28 agosto 2015 – dunque assoggettati ad uno ius superveniens che è comunque espressione di una diversa valutazione degli interessi pubblici operata dal legislatore – ed anche prendendo atto degli orientamenti giurisprudenziali su richiamati, il potere di annullamento d’ufficio si consumerebbe solo dopo diciotto (oggi dodici) mesi che decorrono: a) dal 28 agosto 2015 se il provvedimento di primo grado è anteriore a tale data; b) dalla data di adozione del provvedimento di primo grado (se successiva al 28 agosto 2015).
Nell’ipotesi appena richiamata sub a), il provvedimento di annullamento d’ufficio ancorché adottato prima dello spirare dei diciotto (o dodici) mesi potrebbe comunque risultare illegittimo qualora, per le circostanze concrete, il termine complessivamente decorso dal provvedimento annullato appaia non “ragionevole”[22].
3.2. Incertezze lessicali e temporali: il c.d. “annullamento della s.c.i.a.” e la irrilevanza delle riforme sulla ragionevolezza del termine in taluni approdi giurisprudenziali
In materia di s.c.i.a. la giurisprudenza continua a considerare impropriamente l’atto adottato ai sensi dell’art. 19, comma 4, (e dunque “in presenza delle condizioni previste dall’art. 21 nonies”), quale espressione del potere di autotutela e non, come ormai dovrebbe risultare definitivamente chiaro, quale manifestazione di un potere inibitorio, repressivo o conformativo postumo o “supplementare”.
È evidente che il richiamo alla nozione di “autotutela” (ovviamente inammissibile, da un punto di vista logico rispetto ad un atto del privato) risponde probabilmente ad esigenze di celerità nella redazione delle decisioni. Tuttavia, questa semplificazione lessicale finisce per confondere le categorie dommatiche e per creare ulteriore incertezza che non dovrebbe essere ancora alimentata a distanza di otto anni dall’entrata in vigore della l. n. 124/2015 e dopo che già nel 2016 il Consiglio di Stato si era soffermato sulla “inconfigurabilità di un’autotutela in senso tecnico” in materia di s.c.i.a.[23].
Con riguardo al perdurare di orientamenti giurisprudenziali che neutralizzano la riforma Madia è significativo, ad esempio, come i principi enunciati dalla sentenza 17 ottobre 2017, n. 8 dell’Adunanza plenaria[24], pur se dichiaratamente elaborati con riferimento al regime precedente alla l. n. 124/2015, continuino ad essere richiamati anche con riguardo a fattispecie che dovrebbero essere disciplinate dagli artt. 19, 21, 21 nonies, l. n. 241/1990 post riforma.
Balza agli occhi, tuttavia, come il richiamo ai principi enunciati in quella sede dal Consiglio di Stato valga, in una parte della giurisprudenza, quasi a sterilizzare ogni possibile “tentazione” di proporre interpretazioni differenti.
La sentenza n. 6387/2023 che qui si annota è emblematica sia quanto al reiterato riferimento alla nozione di autotutela applicata alla s.c.i.a., sia con riguardo al richiamo ad orientamenti giurisprudenziali tralatizi che – sebbene riferibili a fattispecie differenti da quelle sottoposte alla cognizione del giudice – fondano (recte si ritiene possano fondare) la decisione.
A tale ultimo proposito il Collegio espressamente richiama tre principi enunciati dall’Adunanza plenaria n. 8/2017:
i) il termine ragionevole per l’annullamento d’ufficio decorre solo dalla scoperta da parte dell’Amministrazione di fatti e circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro;
ii) in caso di interessi pubblici “autoevidenti” l’onere motivazionale risulta attenuato;
iii) la non veritiera prospettazione di circostanze in fatto ed in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo non fa sorgere alcun affidamento in capo al privato sicché l’annullamento potrà dirsi adeguatamente motivato richiamando la non veritiera prospettazione di parte.
Di tali principi il Consiglio di Stato afferma “la perdurante validità”, anche in ossequio a taluni precedenti (sez. IV, n. 2839/2023 e n. 4374/2018).
Tuttavia, la vicenda oggetto della sentenza in commento è relativa ad un provvedimento inibitorio ex art. 19, comma 4, adottato il 3 novembre 2015 la cui legittimità, dunque, si sarebbe dovuta scrutinare alla luce della disciplina post riforma Madia.
Sia l’Adunanza plenaria nella sentenza n. 8/2017, sia la richiamata sentenza n. 2839/2023, di contro, si riferiscono a fattispecie che – in ossequio al principio tempus regit actum – rientravano nella disciplina pre riforma[25]. Quanto poi alla sentenza n. 4374/2018, anch’essa richiamata nella decisione in commento, in quell’occasione il Consiglio di Stato, in ossequio all’orientamento già ricordato innanzi[26] ha ritenuto che la disciplina dell’art. 21 nonies, nella sua versione novellata dalla l. n. 124/2015[27], non fosse applicabile ad un provvedimento di annullamento d’ufficio del 2016, in quanto relativo ad un atto di primo grado adottato prima dell’entrata in vigore della legge Madia.
Nella sentenza che qui si annota, il richiamo da parte del Giudice a precedenti riferiti a fattispecie che, sotto il profilo del diritto applicabile ratione temporis, sono del tutto differenti rispetto a quella oggetto del ricorso, rende la decisione assolutamente non prevedibile in quanto fondata, tra l’altro, su un quadro normativo niente affatto chiaro.
Un contributo di chiarezza deriverebbe anzitutto dall’espressa individuazione del diritto applicabile al caso di specie.
Sul punto il Consiglio di Stato nella sentenza in commento ritiene che al provvedimento (di c.d. “autotutela”) si applicherebbe la disciplina vigente nel momento dell’avvio del relativo procedimento.
Si legge infatti: “in ogni caso, non si ravvisa la violazione del termine ragionevole per l’esercizio dei poteri di autotutela – l’art. 21 nonies, comma 1, della l. n. 241/1990, nel testo vigente al momento dell’avvio del procedimento di annullamento in autotutela della d.i.a. [10 settembre 2013, n.d.a.], disponeva: «il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge» – in quanto il procedimento di autotutela è stato avviato dopo pochi giorni dall’esposto dei proprietari dei fondi limitrofi [datato 8 agosto 2013, n.d.a.], che hanno denunciato una non veritiera rappresentazione nella denuncia di inizio attività dello stato di fatto effettivamente esistente” [28].
La deviazione dal principio tempus regit actum non potrebbe essere più evidente: il provvedimento impugnato è del 3 novembre 2015, ma il Collegio ritiene applicabile la disciplina vigente al momento dell’avvio del procedimento (2013), nonostante le significative innovazioni introdotte dapprima con d.l. n. 133/2014 e poi con la l. n. 124/2015.
Tale soluzione interpretativa è proposta (recte affermata e seguita) senza il supporto di alcuna argomentazione, quasi alla stregua di un’opzione volitiva del giudicante che liberamente sceglie quale diritto applicare alla fattispecie sottoposta alla sua cognizione.
Una possibile spiegazione di tale scelta, tuttavia, si rinviene proseguendo nella lettura della sentenza: secondo il Consiglio di Stato il provvedimento ex art. 19, comma 4, l. n. 241/1990 sarebbe comunque tempestivo nonostante sia stato adottato a distanza di oltre due anni dall’esposto dei proprietari dei fondi limitrofi; e ciò perché, alla luce dei “principi enunciati dalla Adunanza plenaria sopra richiamati, il termine ragionevole per l’adozione dell’annullamento d’ufficio decorre soltanto dalla scoperta dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro”.
Discostandosi dal principio temupus regit actum il Collegio può così richiamare direttamente quei principi che l’Adunanza plenaria aveva enunciato facendo esplicito riferimento alla disciplina ante riforma.
Ma anche di tali principi offre una lettura in parte innovativa.
3.3. Spostando dies a quo e dies ad quem: quando il solo avvio del procedimento rende “ragionevole” il termine per l’esercizio del potere
Con la sentenza n. 8/2017, l’Adunanza plenaria aveva chiarito che “la nozione di ragionevolezza del termine è strettamente connessa a quella di esigibilità in capo all’amministrazione, ragione per cui è del tutto congruo che il termine in questione (nella sua dimensione ‘ragionevole’) decorra soltanto dal momento in cui l’amministrazione è venuta concretamente a conoscenza dei profili di illegittimità dell’atto”.
Nel caso di specie, quindi, il dies a quo per il computo del termine ragionevole si sarebbe potuto individuare nella data in cui il Comune, a seguito dell’esposto dei vicini, aveva avuto notizie del presunto abuso (3 agosto 2013).
Certamente a partire da tale data diviene “esigibile” una condotta attiva dell’Amministrazione volta all’esercizio del potere (inibitorio postumo) entro un termine ragionevole. L’Adunanza plenaria, tra l’altro, aveva precisato che “in particolare, in caso di titoli abilitativi rilasciati sulla base di dichiarazioni oggettivamente non veritiere (e a prescindere dagli eventuali risvolti di ordine penale), laddove la fallace prospettazione abbia sortito un effetto rilevante ai fini del rilascio del titolo, è parimenti congruo che il termine ragionevole decorra solo dal momento in cui l’amministrazione ha appreso della richiamata non veridicità”.
Se nell’interpretazione “creativa” dell’Adunanza plenaria il dies a quo, ai fini del calcolo del termine ragionevole è quello in cui diviene esigibile la condotta attiva dell’Amministrazione, per lo meno quanto al dies ad quem non sembrava potersi dubitare della necessità di guardare alla data di adozione del provvedimento di annullamento.
Nel caso di specie tra la denuncia dei vicini (8 agosto 2013) e il provvedimento espressione del potere inibitorio ex post (3 novembre 2015) era decorso un termine di quasi ventisette mesi ed è rispetto a questo che, a tutto voler concedere, si sarebbe dovuta valutare la ragionevolezza[29].
È indubbio che il Consiglio di Stato avrebbe dovuto scrutinare la legittimità del provvedimento del 3 novembre 2015 applicando la disciplina successiva alla riforma Madia. Dunque, ai sensi dell’art. 19, comma 4, l. n. 241/1990 (vigente ratione temporis) il Comune avrebbe dovuto provvedere entro diciotto mesi decorrenti dalla presentazione della s.c.i.a. o, secondo altra interpretazione, dalla scadenza del termine per l’esercizio in via ordinaria dei poteri inibitori[30].
Nel caso di specie la prima d.i.a. era stata presentata nel febbraio 2010 ed era stata successivamente integrata nel 2012 e nel luglio 2013, pur se con riferimento a profili diversi da quelli poi contestati.
Pertanto, a stretto rigore, è dal febbraio 2010 (o, al più, dal luglio 2013) che si sarebbe dovuta valutare la decorrenza del termine di diciotto mesi. Ed in effetti il giudice di primo grado aveva ritenuto illegittimo il provvedimento osservando come rispetto alla prima d.i.a. “ai cui grafici e relazione si fa riferimento per sostenere la falsa rappresentazione della volumetria pre-esistente, il potere di ‘autotutela’ è intervenuto ad oltre cinque anni” e che “l’asserita difformità tra la consistenza planovolumetrica del deposito come dichiarata e come esistente prima della demolizione avrebbe dovuto e potuto essere verificata dal Comune prima dello spirare dei trenta giorni dalla presentazione della d.i.a., essendo in suo possesso la relazione del tecnico di parte (corredata da allegati grafici e planimetria catastale) ed essendo all’epoca ancora esistente il deposito, poi demolito per effetto dell’intervento. Il decorso di un sì considerevole lasso temporale non trova dunque alcuna giustificazione”.
Ma anche accedendo alla già ricordata interpretazione “creativa” che fissa il dies a quo nella data di entrata in vigore della riforma Madia[31], non può trascurarsi come quella stessa giurisprudenza ritenga che la ragionevolezza del termine debba essere scrutinata anche avendo riguardo al decorso dei diciotto mesi.
In ogni caso, quindi, l’esercizio nel novembre 2015 del potere inibitorio postumo sarebbe risultato irragionevole sia rispetto alla data di presentazione della d.i.a. (2010), sia rispetto alla data della denuncia delle presunte irregolarità da parte dei vicini (8 agosto 2013).
Ciò anche in considerazione della condotta serbata dalla segnalante che: aveva partecipato al procedimento con proprie memorie e documenti fornendo un principio di prova sulla insussistenza della irregolarità contestata; prima dell’avvio del procedimento ex art. 19, comma 4, l. n. 241/1990 aveva demolito il piccolo manufatto oggetto di contestazione ed aveva già ultimato il rustico della nuova costruzione[32]; aveva addirittura sollecitato la conclusione del procedimento con provvedimento espresso.
Il Consiglio di Stato, invece, nella sentenza in commento non solo fa riferimento alla disciplina ante riforma, ma valuta la ragionevolezza del termine con riguardo al tempo intercorso tra ricezione della denuncia e avvio del procedimento di “autotutela”, così palesemente discostandosi dalla lettera (e dallo spirito) della legge.
Non può che destare perplessità, dunque, il passaggio in cui si afferma che “secondo i principi enunciati dalla Adunanza plenaria sopra richiamati, il termine ragionevole per l’adozione dell’annullamento d’ufficio decorre soltanto dalla scoperta dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro. Nel caso di specie, dopo pochi giorni dalla presentazione dell’esposto da parte dei proprietari dei terreni confinanti, la amministrazione comunale ha dato avvio al procedimento di annullamento in autotutela della d.i.a.”.
È evidente a questo punto che se non si compie uno sforzo almeno per individuare in modo puntuale le questioni di fatto volta a volta affrontate (ed il diritto applicabile ratione temporis) e si ammette che il dies ad quem sia quello dell’avvio del procedimento inibitorio postumo, il parametro della ragionevolezza del termine – già di per sé indeterminato ed elastico – finisce per essere privo di qualsiasi capacità ordinante del sistema.
Così facendo, tuttavia, si schiude (ancora una volta) lo spazio ad interpretazioni creative che in nome di una concezione del potere di autotutela che le più recenti riforme intendevano superare, continuano a sacrificare l’interesse del privato alla tutela dell’affidamento e l’interesse generale alla certezza giuridica.
4. Falsa rappresentazione dei fatti ed esercizio del potere inibitorio postumo
Nel caso che ci occupa il Comune aveva esercitato il proprio potere inibitorio postumo (art. 19, comma 4, l. n. 241/1990) rispetto ai lavori oggetto di s.c.i.a., sulla base del rilievo per il quale la dichiarata consistenza plano-volumetrica del piccolo locale deposito non sarebbe stata conforme all’esistente[33].
Come abbiamo ricordato, nella sentenza in commento il Consiglio di Stato ha espressamente richiamato il principio enunciato dall’Adunanza plenaria n. 8/2017 ed in forza del quale “la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte”.
Nell’argomentare del Consiglio di Stato, il richiamo al precedente dell’Adunanza plenaria vale a fondare la decisione anche nel caso di specie, come se al provvedimento in questione non si applicasse la (diversa) disciplina introdotta con la riforma Madia.
Come se, in particolare, la legittimità del provvedimento andasse scrutinata alla luce della disciplina vigente prima della l. n. 124/2015 ed in forza della quale in caso di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci il potere inibitorio postumo sulla s.c.i.a. poteva essere esercitato anche oltre il “termine ragionevole” ed indipendentemente dal giudicato penale[34].
Ma, come si è già avuto modo di osservare, nella sua attuale formulazione l’art. 21 nonies, comma 2 bis, prevede che “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di dodici mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”[35].
Tuttavia, per il Consiglio di Stato in presenza di una non veritiera rappresentazione della realtà, il “potere di annullamento in autotutela (…) non può essere paralizzato dalla mancanza di un giudicato penale, rilevante per il solo caso (non ricorrente nella fattispecie in esame) di dichiarazioni sostitutive o atti di notorietà mendaci o falsi”.
Tale affermazione riecheggia gli insegnamenti di quella giurisprudenza che attraverso un’articolata esegesi dell’art. 21 nonies, comma 2 bis, ha affermato che l’inciso “per effetto di condotte costituenti reato accertate con sentenza passata in giudicato” debba riferirsi esclusivamente al mendacio nelle dichiarazioni sostitutive e non anche alle “false rappresentazioni dei fatti”[36]. Secondo tale impostazione, oggetto di severa critica da parte della dottrina, finanche presunte inesattezze commesse dal privato nella descrizione o nella qualificazione tecnico-giuridica della fattispecie (pur se chiaramente riconducibili a meri errori di valutazione) giustificherebbero l’esercizio del potere ex art. 21 nonies oltre il termine decadenziale.
Ma perfino questa giurisprudenza – attenta più alla legalità del titolo che alla tutela dell’affidamento del cittadino ed alle esigenze di certezza giuridica – aveva individuato alcuni limiti all’annullamento “tardivo” del provvedimento frutto di false rappresentazioni dei fatti. Infatti, il necessario dolo (cui è equiparata la colpa grave) dell’agente e la sussistenza di uno “specifico e pregnante” nesso causale (tra condotta della parte e conseguimento del beneficio) avrebbero dovuto connotare la fattispecie concreta, sicché attraverso il limite della ragionevolezza del termine, si rimetteva all’Amministrazione il compito di “apprezzare e gestire la confliggente correlazione tra gli opposti interessi in gioco”[37].
Occorre infatti certamente garantire che gli istituti di (presunta) semplificazione o liberalizzazione dei titoli abilitativi non divengano un pericoloso strumento a disposizione di privati che consapevolmenteforniscano una rappresentazione dei fatti oggettivamente falsa dando luogo così ad una situazione nella quale non può invocarsi alcuna tutela dell’affidamento; e ciò perché, semplicemente, non vi è alcun affidamento. Al contempo, tuttavia, si deve prendere atto della scelta del legislatore, chiaramente orientata verso l’intento di accrescere la fiducia degli operatori economici e la certezza giuridica, sicché la nozione di “falsa rappresentazione dei fatti” non può estendersi sino a ricomprendervi l’errore incolpevole o una certa interpretazione delle norme giuridiche e tecniche di riferimento che la p.A. (ovviamente ex post!) ritenesse non condivisibile[38].
Di contro, si assiste sovente ad interpretazioni che tendono ad allargare i confini della “falsa rappresentazione dei fatti” (e, dunque, dell’esercizio del potere caducatorio ex post oltre il termine ragionevole) sino a ricomprendervi – sotto il profilo oggettivo – anche l’ipotesi dell’errata ricostruzione delle norme giuridiche e tecniche di riferimento[39] e, sotto il profilo soggettivo, qualsiasi condotta del dichiarante, indipendentemente dall’elemento psicologico[40].
Particolarmente delicato è l’accertamento dell’elemento psicologico affidato in prima battuta all’Amministrazione e, in un secondo momento, (eventualmente) al giudice[41].
Infatti, se si prescinde dal dolo – che pare dover connotare intrinsecamente la falsa dichiarazione – si legittima l’esercizio dell’autotutela in qualsiasi caso di errore attribuibile al segnalante nella ricostruzione del quadro normativo (e tecnico), anche con riguardo a circostanze che presentano un certo grado di opinabilità.
L’Adunanza plenaria, tuttavia, a proposito della nozione di “dichiarazione non veritiera” rilevante ai fini espulsivi nell’ambito dei contratti pubblici (art. 80, comma 5, lett. f bis, d.lgs. n. 50/2016) ha affermato che la falsità di una dichiarazione è “predicabile rispetto ad un «dato di realtà», ovvero ad una «situazione fattuale per la quale possa alternativamente porsi l’alternativa logica vero/falso», rispetto alla quale valutare la dichiarazione resa dall’operatore economico”, ma non in riferimento a profili suscettibili di interpretazione e, dunque, opinabili[42].
I profili oggettivi e soggettivi relativi alla nozione di falso, a ben vedere, non paiono facilmente scindibili ove si rammenti che, secondo una parte della giurisprudenza “il concetto di «falso», nell’ordinamento vigente, si desume dal codice penale, nel senso di attività o dichiarazione consapevolmente rivolta a fornire una rappresentazione non veritiera. Dunque, il falso non può essere meramente colposo, ma deve essere doloso”[43].
4.1. Non veritiera rappresentazione dei fatti, falsità ed onere della prova
Nel caso di specie il Comune aveva esercitato i poteri inibitori ex post osservando che “la consistenza plano volumetrica del locale deposito dichiarato nei relativi grafici come costruita ante 1942 e così nella perizia giurata (…) alla stessa allegata non è quella realmente esistente in quanto la precedente struttura del locale deposito risultava in pietra a secco e il successivo ampliamento (di cui non consta un titolo edilizio, neppure richiamati dalla parte) risulta eseguito con parametri murari recenti”.
La rappresentazione dello stato dei luoghi offerta in sede di d.i.a. dal denunciante viene per ciò solo considerata “non veritiera” e, quindi, idonea a fondare la legittimità del provvedimento impugnato indipendentemente dalla ragionevolezza del termine di adozione dello stesso.
Sul punto, tuttavia, il giudice di prime cure aveva correttamente osservato, da un lato, che “rispetto alla presentazione della prima d.i.a. ai cui grafici e relazione si fa riferimento per sostenere la falsa rappresentazione della volumetria pre-esistente), il potere di «autotutela» era intervenuto ad oltre 5 anni di distanza” e, per altro verso, come “l’asserita difformità tra la consistenza planovolumetrica del deposito come dichiarata e come esistente prima della demolizione avrebbe dovuto e potuto essere verificata dal Comune prima dello spirare dei trenta giorni dalla presentazione della d.i.a., essendo in suo possesso la relazione del tecnico di parte (corredata da allegati grafici e planimetria catastale) ed essendo all’epoca ancora esistente il deposito, poi demolito per effetto dell’intervento”. In ordine alla presunta non veridicità della consistenza plano-volumetrica denunciata dal proprietario, il T.a.r. aveva criticamente rilevato come nell’atto impugnato mancasse “a monte una puntuale «contestazione» circa la concreta difformità tra l’esistente ed il dichiarato, non comprendendosi se la difformità attenga solo alle dimensioni ovvero alla effettiva consistenza del locale (ad esempio, se fosse chiuso o meno o se sia mutata anche la sua altezza)”. Così, rilevata l’assenza nel provvedimento di “una compiuta descrizione delle caratteristiche essenziali del manufatto pre-esistente” il T.a.r. ne aveva disposto l’annullamento ritenendo che il Comune non potesse “fondatamente addurre la falsità della rappresentazione quale unico presupposto legittimante per l’annullamento, considerate le foto dello stato dei luoghi prodotte da parte ricorrente (ma anche dal Comune) che comprovano (quanto meno alla stregua di “principio di prova”) l’esistenza di un manufatto in epoca antecedente all’intervento”.
In altri termini, secondo il giudice di primo grado, in una situazione nella quale il dichiarante aveva fornito elementi plausibili in ordine all’esistenza ed alla consistenza del manufatto, sarebbe spettato al Comune contestare puntualmente la falsa rappresentazione dei fatti. Ciò tanto più ove si consideri che proprio l’inerzia dell’Amministrazione nell’esercizio degli ordinari poteri repressivi e inibitori – nel termine di trenta giorni dalla presentazione della d.i.a. (art. 19, comma 6 bis, l. n. 241/1990) – aveva reso possibile la (legittima) demolizione della porzione del piccolo locale deposito contestato.
Sembra, in altri termini, che la condotta del denunciante fosse complessivamente ispirata a buona fede in quanto non solo aveva preso parte al procedimento attraverso due memorie scritte, ma si era addirittura attivato – dapprima in sede procedimentale e, successivamente, proponendo un ricorso al T.a.r. ex art. 117 c.p.a. – affinché l’Amministrazione definisse il procedimento di c.d. “autotutela” avviato anni addietro.
Il Consiglio di Stato, di contro, non ha preso neanche in considerazione questa condotta, ma ha desunto la falsità delle dichiarazioni dalla mancata prova, da parte del denunciante, della datazione del manufatto e della sua originaria consistenza plano-volumetrica.
A sostegno della propria tesi il collegio afferma che “costituisce ius receptum nella giurisprudenza amministrativa il principio secondo il quale la prova delle dimensioni (consistenza) di un manufatto, la prova della esistenza o inesistenza di un rudere, la prova della data di costruzione e così via, grava su colui che attiva il procedimento di rilascio del titolo e poi agisce in giudizio, specie se si tratta di demo ricostruzione (cfr. sez. IV, n. 148 del 2022, sez. IV n. 463 del 2017, sez. VI n. 5106 del 2016)”.
Ma, ancora una volta, il principio giurisprudenziale è impropriamente richiamato. Ed infatti – come si desume dalla lettura proprio di quegli stessi precedenti cui la sentenza fa riferimento – esso è enunciato in relazione a fattispecie in cui il privato invocava l’applicazione di una norma a sé favorevole, senza tuttavia riuscire a fornire la prova della sussistenza dei presupposti di fatto e conseguentemente di diritto posti a fondamento della propria pretesa[44] (art. 2967 c.c.).
Nel caso che ci occupa, di contro, è l’Amministrazione che per esercitare dopo oltre cinque anni i propri poteri inibitori e ripristinatori ex post avrebbe dovuto provare la sussistenza dei relativi presupposti, tra i quali rientra la non veritiera rappresentazione della realtà[45].
Applicando un principio giurisprudenziale enunciato in una fattispecie differente, il Consiglio di Stato finisce per sancire un’illegittima inversione dell’onere della prova, quasi che l’esercizio del potere da parte dell’Amministrazione debba considerarsi ex se legittimo, spettando al cittadino il compito di provare (e non solo di contestare in giudizio) l’insussistenza dei relativi presupposti.
Alle medesime critiche si presta quel passaggio della sentenza nel quale il Collegio rigetta il motivo di ricorso relativo alla carenza di motivazione richiamando il proprio “consolidato” orientamento giurisprudenziale, secondo il quale, quando un titolo abilitativo sia stato ottenuto dall’interessato in base ad una falsa o “comunque erronea rappresentazione della realtà sia consentito all’amministrazione di esercitare il proprio potere di autotutela, ritirando l’atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19 marzo 2019, n. 1795)”.
Non si intende qui richiamare l’articolato dibattito sull’interesse pubblico in re ipsa in materia di autotutela innanzi a dichiarazioni false o mendaci. Piuttosto è interessante notare come nel sostenere la propria tesi il Consiglio di Stato faccia riferimento alla sentenza n. 1795/2019, relativa – questo è il fatto rilevante – ad un provvedimento di annullamento d’ufficio di una concessione edilizia adottato nel lontano 1990, quando era appena entrata in vigore la legge sul procedimento amministrativo. In quel caso i giudici avevano precisato che il provvedimento impugnato era stato adottato “in un’epoca – antecedente alla riforma della legge n. 241 del 1990 ad opera della l. n. 15 del 2005 – in cui non era stato ancora codificato il potere amministrativo di riesaminare i precedenti provvedimenti come annullamento d’ufficio” riconoscendo la sussistenza dell’interesse in re ipsa all’annullamento del titolo ottenuto attraverso una falsa rappresentazione della realtà.
Il riferimento ad una sentenza relativa a fattispecie assoggettata ad una disciplina totalmente differente da quella applicabile nel caso deciso dal giudice “richiamante” costituisce l’ulteriore riprova della necessità di un uso accorto e sorvegliato del “richiamo del precedente” da parte della giurisprudenza.
5. Linee ricostruttive
È noto che il giudice rappresenta sovente l’ultimo baluardo per la tutela effettiva di interessi pubblici la cui cura troppo spesso è colpevolmente trascurata da quelle stesse Amministrazioni cui l’ordinamento affida il potere-dovere di farsene gelose custodi a beneficio della generalità dei consociati.
Tuttavia, l’innegabile rilevanza di questo ruolo di supplenza che è stato assunto dal Giudice – e che è tutt’ora vivo nell’ordinamento– non può consentire di avallare indirizzi interpretativi che, come accade in ambito edilizio, finiscono per derogare alle scelte legislative in nome di un interesse pubblico rielaborato e reinterpretato in via pretoria[46].
In particolare, in materia edilizia, il tentativo di ricondurre a sistema una disciplina resa particolarmente complessa (e confusa) dal susseguirsi delle modifiche normative – e dalle aporie generate talvolta da uno scarso coordinamento con la normativa vigente[47] – risulta ancor più arduo per effetto di orientamenti giurisprudenziali che muovono da una non condivisione della ratio e degli obiettivi delle riforme introdotte e finiscono per sterilizzarne gli effetti.
Inoltre, la confusione tra categorie giuridiche e una certa tendenza a richiamare orientamenti ermeneutici maturati in un quadro normativo a volte profondamente differente sembrano emergere in talune pronunzie del giudice amministrativo. È il caso, ad esempio, delle decisioni sulla operatività ratione temporis della “nuova” autotutela all’indomani dell’entrata in vigore della legge Madia, o di quelle che tendono ad equiparare l’errore di diritto alla falsa dichiarazione di un fatto oggettivamente verificabile[48] e, dunque, indirettamente a scaricare sul cittadino le conseguenze pregiudizievoli derivanti da un ordinamento nel quale la certezza giuridica, da sempre vagheggiata, risulta in realtà smarrita.
In un contesto ordinamentale in cui il diritto, sempre più frammentato in una pluralità di fonti normative, appare mutevole ed in continua evoluzione è auspicabile che la giurisprudenza non abdichi alla propria funzione di tutela del cittadino e, al contempo, dell’interesse generale e contribuisca a fornire certezza giuridica attraverso le proprie decisioni.
A tal fine, tuttavia, è indispensabile un richiamo ad un uso più meditato della tecnica del rinvio al precedente che non può risolversi nel riferimento tralatizio a massime e sentenze risalenti e relative a fattispecie a volte del tutto inconferenti. Occorre, piuttosto, muovere dalla ricostruzione dei fatti di causa e del diritto applicabile ratione temporis e, solo a quel punto, individuare precedenti realmente pertinenti senza trascurare che lo ius superveniens reca sovente una diversa valutazione degli interessi pubblici operata dal legislatore, dalla quale né l’Amministrazione, né il giudice possono legittimamente discostarsi se non entro gli stringenti limiti ammessi dall’ordinamento.
[1] Art. 4 della legge della Regione Puglia 30 luglio 2009, n. 14, “Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale”.
[2] In proposito, nella sentenza di primo grado (T.a.r. Puglia – Bari, sez. III, 28 dicembre 2017, n. 1372), si legge: “nel caso di specie, l’annullamento travolge una d.i.a risalente al febbraio 2010, successivamente integrata (con eliminazione del sottotetto adibito a volume tecnico) nel luglio 2013. Rispetto alla presentazione della prima d.i.a. (ai cui grafici e relazione si fa riferimento per sostenere la falsa rappresentazione della volumetria pre-esistente), il potere di “autotutela” è intervenuto ad oltre 5 anni di distanza, in epoca in cui l’immobile risultava praticamente già ultimato a rustico (circostanza non contestata da parte del Comune e risultante dalle fotografie all. 14 al ricorso per motivi aggiunti) ed all’esito di un confronto partecipativo con la ricorrente instaurato dal Comune (attivatosi su sollecitazione di terzi) ben due anni prima (cfr. prima comunicazione di avvio del procedimento del 10/9/13 prontamente riscontrata dalla ricorrente)”.
[3] Nella sentenza di primo grado si legge: “Parte ricorrente contesta la tempestività dell’auto-annullamento emesso il 3/11/15 alla luce del dettato di cui all’art. 21 nonies cit. Sul punto va precisato che un problema di tempestività rispetto al termine di diciotto mesi non si pone - in radice - ove si aderisca alla tesi secondo cui l’art. 21 nonies come modificato dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 1, l. n. 124/2015 (da qualificare come norma in esame di sicuro carattere innovativo e non meramente interpretativo) si applica solo ai provvedimenti di autotutela di provvedimenti di primo grado emanati dopo l’entrata in vigore di tale norma, cioè emanati dopo il 28.8.2015 (T.a.r. Basilicata, sez. I, sent. 16/3/17 n. 199). L’atto impugnato è, altresì, tempestivo (rispetto al predetto termine legale) ove si segua l’impostazione secondo cui - rispetto ai provvedimenti illegittimi (di primo grado) adottati anteriormente all’attuale versione dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 - il termine di diciotto mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione (Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 13/7/17 n. 3462). Tanto premesso, si osserva che tutte le opzioni ermeneutiche fanno salva l’operatività del “termine ragionevole” già previsto dall’originaria versione dell’art. 21 nonies. Anche ove trovi applicazione la novella legislativa, il termine di diciotto mesi non è “necessariamente un termine legittimante l’inibitoria sempre e comunque, perché è comunque un termine massimo” (T.a.r. Campania, Napoli, sez. IV, sent. 5/4/16 n. 1658). Rispetto alla previgente formulazione dell’art. 21 nonies, infatti, non mutano gli altri presupposti per l’annullamento del provvedimento da parte dell’Amministrazione emanante o all’uopo legalmente autorizzata e quindi: (i) la sussistenza di ragioni di interesse pubblico, (ii) l’esistenza di un termine comunque “ragionevole”, (iii) la necessaria considerazione degli interessi dei destinatari e dei contro interessati, (iv) le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
[4] Una difesa motivata del ruolo del giudice amministrativo nella costruzione delle regole dell’ordinamento amministrativo e quale baluardo della garanzia di diritti ed interessi del cittadino e dell’interesse generale, si ritrova nelle considerazioni svolte da V. Caputi Jambrenghi durante la relazione al Convegno su “L’attuazione dei principi del risultato e della fiducia nel nuovo codice dei contratti pubblici. Il modello del collegio consultivo tecnico”, indetto a Roma il 3 ottobre 2023 nella biblioteca della Camera dei deputati a Palazzo San Macuto.
[5] Si tratta degli interessi relativi alla tutela del patrimonio artistico e culturale, dell’ambiente, della salute, alla sicurezza pubblica o alla difesa nazionale.
[6] Tra i primi commenti, cfr. M.A. Sandulli, Gli effetti diretti della L. 7 agosto 2015 n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, in Federalsimi.it, n. 17/2015, 1 ss. Della stessa A., cfr., inoltre, S.c.i.a., in Libro dell’anno del diritto 2017, Roma, 2017; Id., La segnalazione certificata di inizio attività (s.c.i.a.) (artt. 19 e 21 l. n. 241 del 1990 s.m.i.), in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2023, 363 ss. Cfr. inoltre, senza pretesa di esaustività, W. Giulietti – N. Paolantonio, La segnalazione certificata di inizio attività, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 902 ss.; F. Liguori, I modelli settoriali: s.c.i.a. delizia e procedure semplificate in tema di rifiuti, ivi, 937 ss.; G. Strazza, La s.c.i.a. nei decreti attuativi della “riforma Madia”, in M.A. Sandulli (a cura di), Le nuove regole della semplificazione amministrativa. La legge n. 241/1990 nei decreti attuativi della “riforma Madia”, Milano, 2016, 74 ss.; Id., La s.c.i.a. tra semplificazione, liberalizzazione e complicazione, Napoli, 2020.
[7] L’art. 19, comma 4, come introdotto dall’ art. 6, comma 1, lett. a), l. n. 124/2015 dispone: “decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3, primo periodo, ovvero di cui al comma 6 bis, l’amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall’articolo 21 nonies”.
[8] Cons. Stato, commissione speciale, parere 30 marzo 2016, n. 839, reso sullo schema di decreto s.c.i.a., § 8.2: “Considerata la natura dichiaratamente non provvedimentale della SCIA, occorre comprendere come possa innestarsi ad essa un meccanismo (quello dell’autotutela) originariamente sorto per disciplinare l’annullamento d’ufficio di un precedente provvedimento. Ad avviso della Commissione Speciale, il nuovo sistema introdotto dalla legge n. 124 prevede un «ruolo espansivo» dei princìpi contenuti nel riformato art. 21 nonies della legge n. 241. Tale norma viene infatti richiamata nel meccanismo della SCIA di cui all’art. 19 con una funzione innovativa, che non può più definirsi di ‘autotutela’ in senso tecnico, poiché l’autotutela costituisce un provvedimento di secondo grado ed esso appare impossibile nel caso di specie, dove il provvedimento iniziale manca del tutto. L’art. 21 nonies detta piuttosto, per la SCIA, la «disciplina di riferimento» per l’esercizio del potere ex post dell’amministrazione: un potere inibitorio, repressivo o conformativo da esercitarsi solo «in presenza delle condizioni previste dall’art. 21 nonies» (…). Ciò sembra trovare riscontro anche nella lettera del comma 4 dell’art. 19, che nella nuova versione non fa più riferimento a «provvedimenti di autotutela», bensì ai «provvedimenti previsti dal comma 3» (ovvero agli interventi inibitori, repressivi o confermativi): il richiamo al 21 nonies è operato per rimandare a «le condizioni previste» in quella sede, a conferma che si tratta di una disciplina generale di riferimento, non della combinazione di due modelli tra loro incompatibili”.
[9] Cons. St., sez. III, 6 dicembre 2019, n. 8348 che richiama Cons. St., sez. IV, 21 agosto 2012 n. 4583. Cfr. anche Cons. St., sez. III, 17 febbraio 2020, n. 1199.
[10] Sez. IV, 24 ottobre 2022, n. 9045, con espresso richiamo a id., sez. IV, 16 novembre 2020, n. 7052; id., sez. III, 29 aprile 2019, n. 2768; id., sez. V, 18 marzo 2019, n. 1733; id., sez. V, 10 aprile 2018, n. 2171; id., sez. IV, 21 agosto 2012, n. 4583. Cfr., inoltre, Cons. St., sez. III, 29 aprile 2019, n. 2768; sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1450; 22 settembre 2014, n. 4727.
[11] F. Francario, Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, in Federalismi.it, n. 8/2017, 15-16. Sul punto, cfr. inoltre, Id., Autotutela amministrativa e principio di legalità (nota a margine dell’art. 6 della l. 7 agosto 2015, n. 124), in Federalismi.it, n. 20/2015.
[12] Cfr. F. Francario, Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, cit., 30 per il quale le diverse norme in materia di autotutela decisoria, oggi contenute nella legge n. 241/1990, non sono “meramente dichiarative di un principio generale immanente nell’ordinamento, ma costitutive di un potere eccezionalmente attribuito alla pubblica Amministrazione e che dipende, pertanto, nella sua concreta configurazione, dai modi e termini in cui è plasmato dalla legge”.
[13] Cons. Stato, parere 30 marzo 2016, n. 839 cit. Per la tesi secondo la quale l’art. 21 nonies, l. n. 241/1990, nella parte in cui prevede il termine di dodici mesi dall’emanazione del provvedimento come limite massimo per l’esercizio dell’autotutela (in riferimento ai soli provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici), avrebbe introdotto non già una norma d’azione con la quale disciplina l’esercizio del potere, ma una norma di relazione, idonea a tracciare quella linea di demarcazione che il potere pubblico non può oltrepassare senza ledere la sfera dei diritti del cittadino, sia consentito il rinvio a P. Otranto, Autotutela decisoria e certezza giuridica tra ordinamento nazionale e sovranazionale, in Federalismi.it, n. 14/2020, 235 ss.
[14] M.A. Sandulli, Edilizia, in Riv. giur. ed., 2022, 206.
[15] Sul problema del diritto applicabile a seguito della riforma e sui primi orientamenti giurisprudenziali, cfr. G. Strazza, La s.c.i.a. nei decreti attuativi della “riforma Madia”, 82.
[16] Cfr., ad esempio, T.a.r. Puglia, Bari, sez. III, 17 marzo 2016, n. 351.
[17] T.a.r. Campania, Napoli, sez. II, 8 settembre 2016, n. 4193; id., 30 gennaio 2017, n. 614; T.a.r. Basilicata, sez. I, 16 marzo 2017, n. 199.
[18] Ex multis, Cons. St., sez. V, 19 gennaio 2017, n. 250; sez. VI, 13 luglio 2017, n. 3462; sez. VI, 14 ottobre 2019, n. 6975; id. 20 marzo 2020, n. 1987; sez. VI, 15 giugno 2020, n. 3787.
[19] “Se per un verso il termine dei diciotto mesi previsto dal nuovo art. 21 nonies non può applicarsi in via retroattiva, nel senso di computare anche il tempo decorso anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 124 del 2015 – atteso che tale esegesi, oltre a porsi in contrasto con il generale principio di irretroattività della legge (art. 11 preleggi), finirebbe per limitare in maniera eccessiva ed irragionevole l’esercizio del potere di autotutela amministrativa – per un altro verso, rispetto a un titolo anteriore all’attuale versione dell’art. 21 nonies, l. n. 241 del 1990, il termine dei diciotto mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione”. In tal senso, tra le tante, Cons. St., sez. VI, 15 giugno 2020, n. 3787.
[20] Cons. St., sez. VI, 20 marzo 2020, n.1987.
[21] Ex multis, Cons. St., sez. VI, 20 marzo 2020, n. 1987, con ulteriori riferimenti giurisprudenziali. Sulla ragionevolezza del termine, da valutare anche alla luce della norma che individua in talune ipotesi il temine fisso di diciotto mesi, cfr. Cons. St., sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5625 ove si osserva che “pur se tale norma non è applicabile ratione temporis, in ogni caso, rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti”. Secondo Cons. St., sez. VI, 18 novembre 2022, n. 10186, “anche in relazione alla ragionevolezza del termine trascorso dal rilascio del titolo, se il termine di diciotto mesi è applicabile solo per i provvedimenti adottati successivamente alla entrata in vigore della l. 124/2015 (avutasi in data 28 agosto 2015) in considerazione della natura innovativa (e non interpretativa) della disposizione, con conseguente inapplicabilità ratione temporis nel caso di specie, resta salva l’operatività del «termine ragionevole», secondo la formulazione del testo previsto dall’originaria versione del citato art. 21-nonies, con la conseguenza che la novella non può non valere come prezioso indice ermeneutico ai fini dello scrutinio dell’osservanza della regola di condotta in questione (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI , 08/09/2020, n. 5410); ragionevolezza assente nel caso di specie, laddove l’atto di ritiro risulta adottato dieci anni dopo il titolo annullato”.
[22] Ad esempio, in Cons. St., sez. VI, 13 luglio 2017, n. 3462, il giudice era chiamato a pronunciarsi sulla legittimità di un provvedimento di annullamento d’ufficio adottato dopo l’entrata in vigore della l. n. 124/2014 ma comunque prima del 28 febbraio 2017 (diciotto mesi dall’entrata in vigore della riforma). Il provvedimento impugnato disponeva l’annullamento di atti di primo grado adottati alcuni anni prima ed il collegio ne ha dichiarato l’illegittimità non già per violazione del termine decadenziale di diciotto mesi (che non risultava ancora decorso), ma perché era stato emanato dopo oltre tre anni, termine ritenuto non ragionevole.
[23] Cons. Stato, parere 30 marzo 2016, n. 839, cit., § 8.2.
[24] La sentenza è stata criticamente commentata, tra gli altri, da N. Posteraro, Annullamento d’ufficio e motivazione in re ipsa: osservazioni a primissima lettura dell’Adunanza Plenaria n. 8 del 2017, in Riv. giur. ed., 2017, 1103 ss.; L. Bertonazzi, Annullamento d’ufficio di titoli edilizi: note a margine della sentenza dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8/2017, in Dir. proc. amm., 2018, 730 ss.; G. Manfredi, La Plenaria sull’annullamento d’ufficio del permesso di costruire: fine dell’interesse pubblico in re ipsa?, in Urb. e app., 2018, 52 ss.; C. Pagliaroli, La “storia infinita” dell’annullamento d’ufficio dei titoli edilizi: nessun revirement da parte dell’Adunanza plenaria, Riv. giur. ed., 2018, 92 ss.; E. Zampetti, Osservazioni a margine della Plenaria n. 8 del 2017 in materia di motivazione nell’annullamento d’ufficio, in Riv. giur. ed., 2018, 404 ss.; M.A. Sandulli – G. Strazza, L’autotutela tra vecchie e nuove incertezze: l’Adunanza plenaria rilegge il testo originario dell’art. 21 -nonies, l. n. 241 del 1990, in S. Toschei (a cura di), L’attività nomofilattica del Consiglio di Stato, Roma, 2019.
[25] Sul punto, cfr. Cons. St., Ad. plen., n. 8/2017 ove si precisa: “Va in primo luogo osservato che la vicenda per cui è causa resta pacificamente governata dalle disposizioni in tema di annullamento d’ufficio di cui all’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990 nell’originario testo introdotto dall’articolo 14 della l. 15 del 2005. Non rilevano, quindi, ai fini della presente decisione, le modifiche apportate al medesimo art. 21-nonies dall’articolo 6 della l. n. 124 del 2015. Tale disposizione non provvede che per il futuro, sicché dalla stessa non possono essere tratti elementi o spunti interpretativi ai fini della soluzione di questioni ricadenti sotto la disciplina del previgente quadro normativo”. Cons. St., sez. IV, 21 marzo 2023, n. 2839, è relativa alla legittimità dell’annullamento d’ufficio intervenuto nel 2009, rispetto ad un titolo edilizio del 2006: “con riferimento alla parametrazione temporale in termini di ragionevolezza in relazione alla disposizione dell’art. 21-nonies, comma 1, nel testo applicabile ratione temporis, è evidente che il termine ragionevole può decorrere soltanto dal momento in cui l’amministrazione abbia effettiva contezza del vizio invalidante, come puntualizzato dalla nota sentenza dell’Adunanza plenaria n. 8 del 17 ottobre 2017”.
[26] V. supra, nota 17.
[27] Cons. St., sez. IV, 18 luglio 2018, n. 4374/2018, ove si legge “nel caso di specie, deve recisamente negarsi l’applicabilità della disposizione come novellata: in tal senso è ormai consolidato l’orientamento secondo cui, in ossequio al principio generale di ordinaria irretroattività di cui all’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, la novellapuò trovare applicazione soltanto in relazione all’esercizio dei poteri di autotutela relativi a provvedimenti emanati dopo la sua entrata in vigore, ossia al 28 agosto 2015: cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 13 luglio 2017, n. 3462 e Sez. III, 28 luglio 2017 n. 3780, nonché Ad Plen., 17 ottobre 2017, n. 8, specie §§ 4.9.6. e 10.5)”. Si tratta di un’interpretazione seguita da una parte della giurisprudenza subito dopo l’entrata in vigore della novella, ma successivamente superata dal Consiglio di Stato proprio nelle pronunce richiamate dalla sentenza n. 4374/2018. Ed invero, in quelle sentenze il Consiglio di Stato non ha mai messo in discussione l’applicabilità della novella ai provvedimenti di secondo grado adottati dopo il 28 agosto 2015 (anche se relativi a provvedimenti di primo grado adottati ante riforma) ed ha affermato soltanto che “rispetto ai provvedimenti illegittimi (di primo grado) adottati anteriormente all’attuale versione dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, il termine dei diciotto mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione”(cfr. n. 3462/2017 e n. 3780/2017).
[28] Cfr. il § 7.5 della sentenza in commento.
[29] Sulla ragionevolezza del termine, da valutare anche alla luce della norma che individua in talune ipotesi il temine fisso di diciotto mesi, cfr. Cons. St., sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5625 ove si osserva che “pur se tale norma non è applicabile ratione temporis, in ogni caso, rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti”.
[30] Cfr. l’art. 2, comma 4, d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222, che, nel chiarire una questione interpretativa affrontata dalla giurisprudenza e dalla dottrina, ha precisato che “nei casi del regime amministrativo della Scia, il termine di diciotto mesi di cui all’articolo 21 nonies, comma 1, della legge n. 241 del 1990, decorre dalla data di scadenza del termine previsto dalla legge per l’esercizio del potere ordinario di verifica da parte dell’amministrazione competente”.
[31] Cfr. supra nota 18.
[32] Si veda il §7.3 della sentenza di primo grado.
[33] Secondo il provvedimento impugnato, infatti, “la precedente struttura del locale deposito risultava in pietra a secco e il successivo ampliamento (di cui non consta un titolo edilizio, neppure richiamati dalla parte) risulta eseguito con parametri murari recenti” sicché costituiva “legittimo motivo di annullamento della d.i.a. di che trattasi la non veritiera rappresentazione delle consistenze plano-volumetriche del locale deposito”.
[34] Cfr., in particolare, l’art. 19, comma 3, l. n. 241/1990 nel testo introdotto dall’art. 49, comma 4 bis, d.l. 31 maggio 2010, n. 78 s.m.i.
[35] Sulle difficoltà di coordinamento della disciplina del 21 nonies comma 2 bis con la disciplina dell’art. 21, comma 1, per non impegnare vanamente il lettore si rinvia a M.A. Sandulli, Edilizia, cit., 2022, 212-213.
[36] Secondo un orientamento consolidato a partire da Cons. St., sez. V, 27 giugno 2018, n. 3940 il superamento del termine decadenziale è consentito “a) sia nel caso in cui la falsa attestazione, inerente ai presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo, abbia costituito il frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano state all’uopo rese dichiarazioni sostitutive), nel qual caso sarà necessario l’accertamento definitivo in sede penale; b) sia nel caso in cui l’acclarata erroneità dei ridetti presupposti risulti comunque non imputabile (neanche a titolo di colpa concorrente) all’Amministrazione, ed imputabile, per contro, esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla colpa grave e corrispondente alla mala fede oggettiva) della parte, nel qual caso – non essendo parimenti ragionevole pretendere dalla incolpevole Amministrazione il rispetto di una stringente tempistica nella gestione dell’iniziativa rimotiva – si dovrà esclusivamente far capo al canone di ragionevolezza per apprezzare e gestire la confliggente correlazione tra gli opposti interessi in gioco”. Sulla sentenza si vedano le considerazioni di M.A. Sandulli, Autoannullamento dei provvedimenti ampliativi e falsa rappresentazione dei fatti: è superabile il termine di 18 mesi a prescindere dal giudicato penale?, in Riv. giur. ed., 2018, 687 ss.
[37] Di recente Cons. St., sez. II, 2 novembre 2023, n. 9415, riferendosi alla nozione di “autotutela doverosa parziale”, ha affermato che l’accertamento irrevocabile operato in sede penale in ordine al falso fa sorgere in capo all’Amministrazione l’obbligo di avviare il procedimento di annullamento d’ufficio, ma non anche l’obbligo di provvedere sempre e comunque all’annullamento.
[38] M.A. Sandulli, Edilizia, cit., 211, osserva: “appare dunque evidentemente più coerente e corretto, in via principale, leggere la falsa rappresentazione della realtà come un’endiadi della dichiarazione falsa o mendace, richiedendo quindi per entrambe la copertura del giudicato penale e, in via subordinata, delimitarne la portata alle rappresentazioni di dati strettamente fattuali (es. dimensioni del manufatto, distanze, ecc.) non legati ad alcun elemento valutativo e comunque diversi da quelli attestati nella dichiarazione, che, per il tipo di responsabilità che implica, deve essere sempre presunta come veritiera fino ad accertamento definitivo del giudice penale”. L’A. ricorda, peraltro, che il Consiglio di Stato, nei propri pareri sui decreti s.c.i.a. 1 (Cons. St., Comm. spec., parere 30 marzo 2016, n. 839, § 8.3) e s.c.i.a. 2 (Cons. St., Comm. spec., parere 4 agosto 2016, n. 1784, § 1.3.1) aveva suggerito una riscrittura della norma che prevedesse “la possibilità di superare i 18 mesi, al di là delle condanne penali passate in giudicato, in tutti i casi in cui il falso è immediatamente evincibile dal contrasto con pubblici registri, come nel caso di percezione di pensione a nome di persona defunta”.
[39] Secondo Cons. St., sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2207, la lettura costituzionalmente orientata (artt. 3 e 97 Cost.) dell’art. 21 nonies, comma 1, l. 241/1990, conduce a ritenere “il limite temporale dei 18 mesi, introdotto nel 2015, in ossequio al principio del legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui che ha ottenuto un provvedimento autorizzatorio o di attribuzione di vantaggi economici, è dedicato dal legislatore e, quindi, trova applicazione, solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento o successivamente all’adozione dell'atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento l’amministrazione si sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare il provvedimento favorevole. Nel caso contrario, non potendo l’ordinamento tollerare lo sviamento del pubblico interesse imputabile alla prospettazione della parte interessata, non può trovare applicazione il limite temporale di 18 mesi oltre il quale è impedita la rimozione dell'atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario”. Su questa pronunzia si vedano le annotazioni di V. Sordi, La concessione della Certosa di Trisulti al Dignitatis Humanae Institute. Autotutela e “anestetizzazione” del termine per provvedere, in Giustiziainsieme.it, 21 maggio 2021.
[40] Sul tema si rinvia, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, allo studio di M.A. Sandulli, La semplificazione della produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio (art. 18 l. n. 241 del 1990 s.m.i. e d.P.R. n. 445 del 2000 s.m.i.), in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, cit., 253 ss. In senso critico, cfr. anche E. Zampetti, Osservazioni a margine della Plenaria n. 8 del 2017 in materia di motivazione nell’annullamento d’ufficio, cit., 411-412, il quale osserva: “se infatti ci sono casi in cui l’erronea rappresentazione è certamente imputabile a negligenza e malafede del privato, ve ne sono altri in cui essa può dipendere da un’incertezza interpretativa della normativa o da fattori che rendono oggettivamente difficile rappresentare la situazione di fatto. Si pensi all’ipotesi in cui la vetustà dell’immobile e l’assenza di precedenti misurazioni renda oggettivamente incerta l’esatta quotazione delle altezze (…). In questi casi un’ipotetica erronea rappresentazione non può essere ascritta a malafede o negligenza, proprio in quanto strettamente connessa alla situazione d’incertezza che caratterizza il contenuto della dichiarazione. Sul piano generale se ne deduce che una situazione di affidamento può ritenersi sussistente anche in presenza di rappresentazioni non veritiere, poiché ciò che in ipotesi esclude l’affidamento non è la falsa dichiarazione in sé ma il dolo o la colpa che eventualmente l’assista”.
[41] Cfr. M.A. Sandulli, Autoannullamento dei provvedimenti ampliativi e falsa rappresentazione dei fatti: è superabile il termine di 18 mesi a prescindere dal giudicato penale?, cit., secondo la quale spetta al g.a. “l’arduo e delicato compito di accertare la ricorrenza dell’elemento soggettivo, per il quale dovrà però fare corretta applicazione dei principi penalistici in tema di onere della prova, chiarezza e univocità della situazione rappresentata, favor rei, ecc.”.
[42] Cons. St., Ad. plen., 28 agosto 2020, n. 16: “è risalente l’insegnamento filosofico secondo cui vero e falso non sono nelle cose ma nel pensiero e nondimeno dipendono dal rapporto di quest’ultimo con la realtà. In tanto una dichiarazione che esprima tale pensiero può dunque essere ritenuta falsa in quanto la realtà cui essa si riferisce sia in rerum natura”. Da questa premessa l’Adunanza plenaria fa discendere la non rilevanza ai fini espulsivi (almeno in relazione all’ipotesi delineata ex art. 80, comma 5, lett. f bis) di una dichiarazione in relazione alla quale la presunta non veridicità sarebbe derivata non già da un contrasto dei fatti ivi esposti rispetto alla realtà materiale, ma dall’interpretazione di una norma giuridica. Si trattava, in particolare, di una dichiarazione concernente il possesso (effettivamente sussistente) di un certo volume d’affari da parte di un soggetto che era stato tuttavia estromesso dal Consorzio stabile indicato quale proprio ausiliario dall’operatore economico escluso dalla gara. La sentenza è stata annotata, tra gli altri, da C. Napolitano, La dichiarazione falsa, omessa o reticente secondo l’Adunanza plenaria (nota a Cons. Stato, Ad. plen., 28 agosto 2020, n. 16), in Giustiziainsieme.it, 8 ottobre 2020, nonché da G.A. Giuffrè – G. Strazza, L’Adunanza plenaria e il tentativo di distinguo (oltre che di specificazione dei rapporti) tra falsità, omissioni, reticenze e “mezze verità” nelle dichiarazioni di gara, in Riv. giur. ed., 2020, 1343 ss.
[43] Cons. St., sez. V, 12 maggio 2020, n. 2976.
[44] In Cons. St., sez. IV, 10 gennaio 2022, n. 148 il ricorrente, nel contestare la quantificazione degli oneri di urbanizzazione relativi ad un permesso di costruire in un intervento di demolizione e ricostruzione, pretendeva che una parte del manufatto preesistente non fosse qualificato alla stregua di un rudere, come era avvenuto, invece, nel provvedimento impugnato. In quel caso il collegio rilevava che “al momento dell’intervento tale parte dell’edificio risultava fatiscente e i muri perimetrali diroccati coperti posticciamente, con la conseguenza che tale manufatto era sostanzialmente qualificabile come un rudere”, ma soprattutto che la parte privata non aveva “fornito alcun contrario elemento concreto che possa smentire l’effettiva consistenza, sotto il profilo quantitativo-dimensionale, delle caratteristiche del preesistente manufatto collocato al piano terreno e delle attività ivi svolte”. In Cons. St., sez. IV, 3 febbraio 2017, n. 463, il giudice aveva rilevato che ai fini del rilascio del provvedimento di condono edilizio ricade sul privato l’onere della prova rigorosa in ordine alla ultimazione delle opere entro il termine previsto dalla legge, sicché in assenza della prescritta prova, l’istanza di condono era stata legittimamente rigettata dall’Amministrazione. Infine, Cons. St., sez. VI, 5 dicembre 2016, n. 5106, non affronta specificamente il problema dell’onere della prova, limitandosi ad affermare che “la ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire [sicché] non è sufficiente che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all’an anche il quantum e cioè l’esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione”.
[45] In tal senso cfr., ad esempio, Cons. St., sez. VI, 18 novembre 2022, n. 10186. In quel caso l’annullamento d’ufficio era stato pronunciato dopo dieci anni dal rilascio di un permesso di costruire in sanatoria. Nonostante il lungo lasso di tempo intercorso, il provvedimento di secondo grado era stato ritenuto legittimo dal T.a.r. in quanto, anche a seguito di accertamenti della Guardia di Finanza, emergeva “un quadro indiziario comunque grave, preciso e concordante” in ordine alla non veridicità delle dichiarazioni rese dal privato. Il Consiglio di Stato ha annullato tale pronunzia osservando che nel caso di specie non potesse ritenersi “applicabile l’eccezione – presente in giurisprudenza - derivante dalla falsa rappresentazione dello stato dei luoghi intesa come base sufficiente dell’interesse pubblico alla rimozione, in quanto la prospettazione in proposito formulata nell’informativa della Guardia di Finanza, non ha trovato corso in alcuno specifico procedimento penale (avviato per ipotesi diverse dalla dichiarazione mendace). Premesso che di per sé un tale elemento formale è insufficiente a sostenere la motivazione di un atto di tale rilevanza quale il ritiro di un titolo già rilasciato dieci anni prima, le stesse prospettazioni ivi contenute non risultano esser state considerate di alcun rilievo per avviare un processo penale, né risultano adeguatamente sviluppate dal Comune al fine di sostenere l’atto adottato. Peraltro, i meri indizi ivi tratti dal Comune, non sono all’evidenza sufficienti al fine di sostenere l’onere della prova che, a differenza del procedimento ordinario di rilascio della sanatoria (dove l’onere probatorio incombe sul privato), fa capo unicamente all’amministrazione procedente in autotutela. Ed a quest’ultimo riguardo l’amministrazione non ha svolto alcun approfondimento istruttorio autonomo né alcuna valutazione delle risultanze, con ciò rendendo evidente la fondatezza delle censure dedotte in termini di difetto di istruttoria e di motivazione” (corsivo aggiunto).
[46] M.A. Sandulli, Edilizia, cit. 2022, 209.
[47] Si pensi, in via esemplificativa, al difficile coordinamento tra la norma di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis, l. n. 241/1990 e quella di cui all’art. 75, d.P.R. n. 445/2000, secondo cui “fermo restando quanto previsto dall'articolo 76, qualora dal controllo di cui all’articolo 71 emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione, il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”. Sul punto, il Consiglio di Stato ha di recente osservato “come l’art. 21-novies e l’art. 75 si sovrappongono solo in parte con riferimento all’oggetto della dichiarazione. Il primo, infatti, distingue chiaramente le «false rappresentazioni», dizione ad ampia valenza contenutistica nella quale sicuramente rientra la descrizione dello stato dei luoghi ove si va ad inserire un intervento edilizio, dalle «dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci», ovvero quella specifica e tipica tipologia di dichiarazioni disciplinate dagli artt. 46 e 47 del d.P.R. n. 445 del 2000, in relazione alle quali l’art. 75 irroga la decadenza quale conseguenza del mendacio. A tutto concedere, quindi, alla lettura rigorista che vuole far prevalere sempre e comunque la decadenza sull’annullamento d’ufficio, ciò deve essere limitato ai casi in cui il mendacio sia contenuto in una dichiarazione sostitutiva di certificazione (i cui oggetti sono analiticamente elencati all’art. 46 del d.P.R. n. 445/2000) ovvero di «atto notorio», vale a dire quello stato di fatto la cui conoscenza è di comune dominio («notoria», appunto) che il privato è autorizzato a formalizzare in un documento a sua firma. Nei casi, invece, di «rappresentazioni di fatto» non veritiere non rientranti in tali tipologie, ovvero rese da soggetti cui l’ordinamento attribuisce una specifica qualifica soggettiva, l’art. 75 non rileva, vuoi che lo si ritenga un rimedio (sanzionatorio o meno) aggiuntivo all’autotutela, vuoi che, per quanto sopra detto, lo si assorba nella stessa, piuttosto che identificarla con essa. Anche per tale strada, tuttavia, la sostanziale ritenuta operatività, ancorché limitata a specifici casi, del solo art. 75 finisce per vanificare la decantata svolta garantista che il legislatore ha inteso imprimere con la novella del 2015, sottraendo alla valutazione della singola amministrazione la valenza inficiante della declaratoria falsa e pretendendone l’accertamento definitivo da parte di un giudice penale” (sez. II, 2 novembre 2023, n. 9415).
[48] Secondo Cons. St., sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2207, ad esempio, “la Sezione ha già chiarito che (cfr., tra le ultime, Cons. Stato, sez. VI, 31 dicembre 2019 n. 8920) è ferma in giurisprudenza, per i più vari casi d’esercizio di una funzione amministrativa ampliativa delle facoltà giuridiche del privato e connessa ad autodichiarazioni rese da quest’ultimo (cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2019 n. 3940, 3 febbraio 2016 n. 404 e 24 luglio 2014 n. 3934), la regola secondo cui, in base a detto art. 75, la non veridicità di quanto descritto nella dichiarazione sostitutiva presentata implica la decadenza dai benefici ottenuti con il provvedimento conseguente a tale dichiarazione, senza che, per l’applicazione di detta norma, abbia rilievo la condizione soggettiva del dichiarante (rispetto alla quale è irrilevante l’accertamento della falsità degli atti in forza di una sentenza penale definitiva di condanna), facendo invece leva sul principio di autoresponsabilità”. Nella medesima occasione il Consiglio di Stato ha affermato che, in caso di dichiarazioni non veritiere, il termine ragionevole per l’annullamento d’ufficio decorre dalla scoperta dei fatti da parte della p.A. e non dall’adozione del provvedimento: “laddove la fallace dichiarazione abbia sortito un effetto rilevante ai fini del rilascio del provvedimento amministrativo, è del pari congruo che il termine ragionevole (massimo di 18 mesi) decorra solo dal momento in cui la pubblica amministrazione abbia appreso tale non veridicità (cfr., ancora per tutte, seppure in materia edilizia ma con principi sovrapponibili pienamente al caso in esame, Cons. Stato, Ad. pl., 17 ottobre 2017 n. 8)”.