Gli incarichi legali della p.A. e le “mobili frontiere” dell’equo compenso.
di Piergiuseppe Otranto
Sommario: 1. Premessa. 2. Il quadro normativo di riferimento. 3. L’equo compenso dell’avvocato e la garanzia dell’efficacia della difesa dell’Amministrazione. 4. La pronuncia del Tar Lombardia n. 1071/2021. 5. P.A. ed equo compenso del professionista nella giurisprudenza amministrativa. 6. Discrezionalità amministrativa e motivazione: alla ricerca di un punto di equilibrio tra esigenze di contenimento della spesa pubblica e interesse dell’Amministrazione a una difesa efficace.
1. Premessa
Con ricorso notificato il 10 gennaio 2021 un operatore economico aveva impugnato il provvedimento adottato dal Comune di Cernusco sul Naviglio per l’affidamento di un servizio di valore superiore ai 2,2 milioni di euro. In vista della Camera di Consiglio fissata per la trattazione dell’istanza cautelare, il Comune l’11 febbraio 2021 ‒ quindi dopo ben trenta giorni dalla notifica ‒ interpellava a mezzo mail cinque professionisti affinché entro il giorno successivo (sic!) formulassero un preventivo dei costi per la difesa in giudizio dell’Ente nella fase cautelare e in quella di merito.
Nella propria comunicazione, peraltro, l’Amministrazione indicava in 2,2 milioni di euro il valore della causa, parametrandolo al valore dell’appalto contestato.
Acquisiti, quasi ad horas, i preventivi di taluni dei legali interpellati, l’Ente affidava l’incarico alla professionista che aveva offerto il minor prezzo.
Uno dei legali che avevano formulato l’offerta insorgeva innanzi al Tar Lombardia contro l’affidamento, deducendo l’illegittimità dei relativi atti sotto diversi profili, tutti riconducibili alla violazione della disciplina in materia di “equo compenso” [1].
Alla Camera di Consiglio fissata per la trattazione dell’istanza cautelare, il ricorso veniva deciso con la sentenza in forma semplificata n. 1071/2021 che si inserisce nel vivace dibattito sui criteri e sulla misura del compenso per le prestazioni rese dai professionisti in favore delle pubbliche Amministrazioni.
2. Il quadro normativo di riferimento
Occorre ricordare che, come è noto, per effetto del c.d. “decreto Bersani” (d.l. 4 luglio 2006, n. 223) sono stati eliminati i limiti tariffari inderogabili per le prestazioni professionali, in favore di un sistema liberalizzato[2] nel quale le parti possono negoziare il valore della prestazione d’opera intellettuale e pattuire un compenso omnicomprensivo.
Per quanto riguarda, in particolare, la professione forense, la legge professionale[3] (di seguito l.p.) ha sancito la regola della libera negoziazione del compenso[4], individuando il riferimento ai c.d. “parametri” (introdotti con d.m. n. 55/2015) per le ipotesi in cui il corrispettivo per le prestazioni professionali non sia stato determinato in forma scritta nonché “in ogni caso di mancata determinazione consensuale” (art. 13, comma 6, l. n. 247/2012).
Il quadro normativo è stato arricchito dall’art. 13 bis l.p., rubricato “equo compenso e clausole vessatorie”, a mente del quale nei rapporti professionali regolati da convenzioni “unilateralmente predisposte” da soggetti economicamente forti ‒ imprese bancarie e assicurative, nonché imprese di grandi dimensioni ‒ ed aventi ad oggetto lo svolgimento di attività di assistenza, rappresentanza e difesa in giudizio, deve essere comunque garantito al legale un equo compenso[5].
In particolare, “ai fini del presente articolo si considera equo il compenso determinato nelle convenzioni di cui al comma 1 quando risulta proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, e conforme ai parametriprevisti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia adottato ai sensi dell’articolo 13, comma 6” (art. 13 bis, comma 2)[6].
Sono considerate vessatorie le clausole che determinano “anche in ragione della non equità del compenso pattuito, un significativo squilibrio contrattuale a carico dell’avvocato” (comma 4), con la conseguente possibilità per il professionista di agire in giudizio per ottenere la declaratoria della relativa nullità (comma 8) e la determinazione giudiziale del compenso secondo i parametri individuati dal d.m. (comma 10).
Con l’art. 13 bis l. n. 247/2012 (introdotto dall’art. 19 quaterdecies, comma 1, d.l. 16 ottobre 2017, n. 148), il legislatore ha inteso apprestare direttamente nella legge professionale una tutela per l’avvocato che versa in una situazione di squilibrio contrattuale allorquando si trovi ad accettare incarichi proposti da grandi imprese, banche o assicurazioni.
Nello stesso articolo 19 quaterdecies d.l. n. 148/2017, al comma 3, il legislatore, senza innovare l’impianto della legge professionale, ha affermato, tuttavia, un ulteriore principio in forza del quale “la pubblica Amministrazione, in attuazione dei principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia delle proprie attività, garantisce il principio dell’equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti.
La precisa volontà del legislatore del 2017 di disciplinare autonomamente i rapporti dell’avvocato con le imprese “forti” (art. 19 quaterdecies, comma 1) o con la p.A. (art. 19 quaterdecies, comma 3), induce a ritenere che le due fattispecie non siano sovrapponibili e assolvano a funzioni differenti.
La prima, come si è già sottolineato, risponde all’esigenza di protezione di un soggetto (l’avvocato) che, per quanto qualificato ed “informato”, si trova in posizione di debolezza negoziale sul mercato dei servizi legali richiesti da committenti che, per la numerosità e la continuità nel tempo degli incarichi, potrebbero imporre condizioni eccessivamente svantaggiose.
L’art. 19 quaterdecies, comma 3, invece, non disciplina direttamente e puntualmente i rapporti tra l’avvocato ed il cliente-p.A., ma impone all’Ente di garantire il rispetto di una regola (di congruità del compenso professionale) che assurge, addirittura, a “principio” direttamente correlato ai principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia dell’attività amministrativa.
3. L’ “equo compenso” dell’avvocato e la garanzia dell’efficacia della difesa dell’Amministrazione.
Nei rapporti tra Amministrazione e difensore esterno, la quantificazione non irrisoria del corrispettivo è ritenuta strumentale al buon andamento che, allorquando l’Ente sia coinvolto in controversie legali, può essere assicurato dall’opera dell’avvocato.
Ritiene il legislatore che, solo attribuendo un compenso “equo”, l’Amministrazione possa assicurarsi, sul libero mercato dei servizi legali, le prestazioni dei professionisti più capaci e che, d’altro canto, questi ultimi, in virtù di un compenso ragionevole e sufficientemente remunerativo, possano essere incentivati anzitutto ad accettare l’incarico proposto dall’Ente e, di conseguenza, a profondere il massimo sforzo nell’esecuzione dello stesso.
Solo per tal via il venir meno del sistema tariffario non si risolve in un detrimento per l’Amministrazione. Questa, essendo ex lege tenuta a “garantire il principio dell’equo compenso”, potrà legittimamente orientare la scelta del professionista esterno anche verso difensori che ‒ nonostante vantino, in ipotesi, una consistente clientela privata (evidentemente per la qualità dei propri servizi) ‒,potrebbero essere indotti ad accettare l’incarico pubblico in ragione di un compenso che non sia esiguo o, peggio ancora, meramente simbolico.
L’obbligo di garantire il principio dell’equo compenso mette così l’Amministrazione nelle condizioni di competere ad armi pari con altri soggetti per assicurarsi i servizi dei professionisti più capaci, con evidente vantaggio per l’interesse pubblico.
4. La pronuncia del Tar Lombardia n. 1071/2021.
La sentenza in esame, tuttavia, non distingue la disciplina dell’equo compenso nei rapporti tra professionista e “cliente forte” (art. 13 bis l.p.) dalla disciplina rivolta alle pubbliche Amministrazioni (art. 19 quaterdecies, comma 3, d.l. n. 148/2017). Anzi, nel sovrapporre la prima alla seconda, finisce per svilire il chiarissimo dettato normativo.
Il T.a.r. Lombardia riconosce, correttamente, che “l’applicazione della disciplina dell’equo compenso, in quanto eccezione al principio pro-concorrenziale della libera pattuizione del compenso spettante al professionista, di cui all’articolo 13, comma 3, della legge 31 dicembre 2012, n. 247, soggiace a precisi limiti soggettivi, ovvero l’appartenenza del cliente alle categorie delle imprese bancarie, assicurative o di grandi dimensioni”, ma compie poi un salto logico ‒ che mina il successivo ragionamento ‒ allorquando estende sotto il profilo soggettivo l’applicazione della norma anche alle pubbliche Amministrazioni.
L’erronea equiparazione della p.A. al “cliente forte” ‒ operata nonostante la chiara distinzione delle due ipotesi nel d.l. n. 148/2017 ‒ ispira le successive considerazioni del giudice amministrativo.
In particolare, il Collegio estende al caso portato alla sua attenzione considerazioni che potrebbero validamente fondare una decisione relativa alla quantificazione del compenso nei soli rapporti tra professionista e imprese bancarie, assicurative o di grandi dimensioni.
È senz’altro vero, infatti, che “la disciplina dell’equo compenso non trova (…) applicazione ove la clausola contrattuale relativa al compenso per la prestazione professionale sia oggetto di trattativa tra le parti”; e che “la tutela avanzata della debolezza del professionista, a fronte del potere di mercato del cliente forte, può essere reclamata anche ove il professionista sia posto in condizione di incidere sul contenuto della clausola relativa al compenso professionale, come si verifica nelle fattispecie riconducibili al principio generale di abuso di dipendenza economica, di cui all’articolo 9 della legge 18 giugno 1998, n. 192, ovvero, in coerenza con la previsione del «significativo squilibrio contrattuale a carico dell’avvocato», contenuta nell’articolo 13-bis, comma 2, di «un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi»”.
Non è altrettanto vero, tuttavia, che la medesima situazione (escludente l’applicabilità del principio dell’equo compenso) si verifica “nelle fattispecie di formazione della volontà dell’Amministrazione secondo i principi dell’evidenza pubblica, ove l’Amministrazione non imponga al professionista il compenso per la prestazione dei servizi legali da affidare”.
In altri termini: se la disposizione prevede semplicemente ed in via generale che la p.A. “garantisce il principio dell’equo compenso”, non può propugnarsi un’interpretazione che finisce per circoscriverne l’applicabilità ai soli casi in cui l’Amministrazione abbia predeterminato il compenso imponendolo al professionista.
La disposizione, infatti, come si è già osservato, è volta a tutelare l’interesse pubblico ad una difesa efficace della p.A. (quale portato del richiamato principio di buon andamento), non di certo a tutelare l’avvocato quale contraente debole.
L’interpretazione in forza della quale allorquando sia il professionista a quantificare il proprio compenso, non sussisterebbe il potere-dovere dell’Amministrazione di garantire che lo stesso sia “equo”, stride con la lettera e con lo spirito della norma e finisce per avallare condotte potenzialmente lesive di quell’interesse pubblico che il legislatore ha voluto tutelare.
In relazione a questo profilo la sentenza in commento muove da una premessa non condivisibile, allorquando afferma che “la disciplina dell’equo compenso è rivolta a tutelare la posizione del professionista debole e non l’indipendenza, la dignità e il decoro della categoria professionale, la quale si realizza attraverso il rispetto dei precetti contenuti nel codice deontologico, che impongono al professionista di non offrire la propria prestazione in cambio di compensi lesivi della dignità e del decoro professionale, nel rispetto dei principi della corretta e leale concorrenza (articolo 9, comma 1, del Codice deontologico forense) e dei doveri di lealtà e correttezza verso i colleghi e le istituzioni forensi (articolo 19 del codice deontologico forense)”.
In realtà, la disciplina dell’equo compenso nei rapporti tra Amministrazioni e avvocato non è volta a tutelare né il contraente debole, né l’indipendenza, la dignità e il decoro della categoria professionale. Essa, piuttosto ‒ come dianzi rilevato ‒ è ispirata dall’interesse acché (anche) riconoscendo un compenso non vile al proprio difensore, la p.A. sia messa nelle condizioni migliori, in riferimento al mercato dei servizi legali, per accedere ad una difesa efficace e possa, per tal via, tutelare al meglio l’interesse pubblico.
Il Tar Lombardia, dunque, sembra non mettere a fuoco gli esatti termini della questione allorquando afferma che, nel caso di specie, il compenso previsto tra Comune e avvocato designato non è “idoneo né a determinare un significativo squilibrio contrattuale a carico [del legale] né ad esporre il Comune al rischio di un successivo intervento correttivo del giudice civile”.
L’accertamento dello squilibrio contrattuale e l’intervento correttivo del giudice sono previsti, infatti solo nei rapporti tra avvocato e “cliente forte” (art. 13 bis, comma 10, l.p.), mentre nel caso di specie il giudice amministrativo avrebbe dovuto accertare soltanto se il compenso pattuito tra le parti potesse considerarsi equo, e dunque, se l’Amministrazione avesse rispettato il principio introdotto dall’art. 19 quaterdecies, comma 3, d.l. n. 148/2017.
Il ricorrente, nel dedurre la violazione di legge in riferimento a tale disposizione nonché all’art. 13 bis l.p., aveva paventato la possibilità che l’affidamento dell’incarico per compensi irrisori rispetto all’attività da svolgere esponesse il Comune al rischio di attività difensive non adeguate.
Ma, secondo il Tar lombardo, non esiste il rischio che il professionista, in ragione del compenso “non equo”, possa profondere nella trattazione dell’affare un impegno non adeguato. Ciò in quanto l’art. 1176, comma 2, c.c. impone che nelle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza, che il debitore è sempre tenuto a garantire, debba esser valutata con riguardo alla natura dell’attività esercitata.
Anche in questo caso l’argomento non può essere condiviso.
Come è noto, le obbligazioni inerenti all’esercizio dell’attività professionale sono considerate “di mezzi” e non “di risultato”, in quanto il professionista, assumendo l’incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non a conseguirlo[7].
Tale principio, tuttavia, attiene alle modalità di esecuzione del contratto, non già alle regole che presiedono alla scelta del professionista da parte dell’Amministrazione e al conseguente instaurarsi del rapporto tra questa e il difensore designato.
In altri termini: se il legislatore ha inteso vincolare l’Amministrazione all’osservanza del principio dell’ equo compenso, non si può concordare con il Tar allorquando afferma che il semplice obbligo di diligenza ex art. 1176 c.c. “elimina in radice i dubbi che la qualità della prestazione professionale possa essere condizionata dall’entità del compenso offerto”.
Tale interpretazione finisce per affidare al solo (e generale) obbligo di diligenza quella particolare cura per l’interesse pubblico che il legislatore ha voluto prevedere con la più volte richiamata norma di cui al art. 19 quaterdecies, comma 3, d.l. 148/2017.
La tesi sostenuta dal Tar, dunque, appare non esente da rilievi non solo (o non tanto) perché rappresenta un vulnus per gli interessi della categoria forense[8], ma in quanto si pone in contrasto con una scelta ordinamentale ispirata a ragioni di massima garanzia di un’efficace difesa delle pubbliche Amministrazioni, rispetto alla quale l’osservanza del principio dell’equo compenso appare servente.
Il Tar Lombardo si richiama espressamente ad un orientamento giurisprudenziale che affermerebbe “la compatibilità con la disciplina dell’equo compenso persino delle procedure di affidamento di incarichi professionali gratuiti”.
Il primo precedente richiamato è la nota sentenza con la quale il Tar Lazio nel 2019 aveva ritenuto legittimi gli atti di affidamento a titolo gratuito di incarichi di consulenza in favore del Ministero dell’Economia e delle Finanze[9]. In quel caso, tuttavia, il giudice amministrativo aveva rigettato il ricorso, osservando che la disciplina sull’equo compenso non impedirebbe al professionista di rendere gratuitamente la propria prestazione, ben potendosi immaginare che questi possa “trarre vantaggi di natura diversa, in termini di arricchimento professionale” e curriculare. Nell’argomentare del Tar Lazio, però, merita di esser richiamato il passaggio in cui si afferma che la disciplina dell’equo compenso deve “intendersi nel senso che, laddove il compenso in denaro sia stabilito, esso non possa che essere equo”. Dunque, per il giudice romano, l’incarico può anche essere gratuito, ma se è conferito a titolo oneroso, il relativo compenso deve essere equo.
Il Tar milanese richiama, poi, una sentenza che non solo ha dichiarato l’illegittimità di un appalto pubblico di servizi di architettura e ingegneria a titolo gratuito, ma ha rimarcato ‒ ancorché a livello di mero obiter dictum ‒ la diretta riconducibilità dell’equo compenso ai principi enunciati dagli art. 35 e 36 Cost.[10].
La tesi sostenuta dal Tar Lombardia nella sentenza breve che si commenta, sembra, così, essere smentita da un’interpretazione letterale e teleologica della legge, ma anche da quella giurisprudenza richiamata dallo stesso Collegio a fondamento della propria decisione.
5. P.A. ed equo compenso del professionista nella giurisprudenza amministrativa.
Nella giurisprudenza amministrativa, d’altro canto, sembra non agevole la ricostruzione di un orientamento univoco.
Il Consiglio di Stato, ad esempio, ha ritenuto legittimi gli atti con i quali era stato affidato (al valore simbolico di un euro) un appalto pubblico di servizi relativi alla redazione di uno strumento urbanistico, osservando che sussisterebbe addirittura una “preferenza”, nell’ordinamento dei contratti pubblici, per un’accezione ampia e particolare dei “contratti a titolo oneroso” e in forza della quale sarebbero ammissibili procedure che prevedano offerte gratuite allorquando dall’aggiudicazione il contraente possa trarre (ad esempio sotto il profilo reputazionale e curriculare) “un’utilità economica lecita e autonoma, quand’anche non corrispostagli come scambio contrattuale dall’Amministrazione appaltante” [11].
In un altro caso sono stati annullati gli atti di una gara per l’affidamento del servizio di assistenza giuridico-legale di un Comune, osservando come l’indeterminatezza dei servizi richiesti al professionista assumesse rilievo sia in relazione all’esiguità del compenso indicato quale base di gara, sia con riguardo alla stessa legittimità dalla procedura comparativa avviata[12].
Del pari, sempre richiamando il principio dell’equo compenso, è stata sospesa, in sede cautelare, l’efficacia di un avviso pubblico con il quale un Comune aveva preannunziato la costituzione di un elenco di professionisti esterni cui affidare incarichi di difesa dell’Ente, prevedendo un compenso “pari allo zero” per le controversie di valore inferiore a € 500[13].
Ancor di recente, il Tar Marche ha annullato gli atti relativi alla selezione pubblica per l’incarico di “sindaco unico” di una società partecipata a fronte del quale era stato offerto un compenso forfetario e fisso notevolmente inferiore a quello equo dovuto secondo i vigenti parametri[14]. In quel caso il Collegio ha richiamato gli artt. 35 e 36 della Costituzione e, pur ricordando l’applicabilità del principio dell’ equo compenso alla p.A., ha preferito equiparare la pubblica Amministrazione ad un “contraente forte” piuttosto che valorizzare il ruolo autonomo che il principio riveste nei rapporti tra professionista ed Ente pubblico[15].
6. Discrezionalità amministrativa e motivazione: alla ricerca di un punto di equilibrio tra esigenze di contenimento della spesa pubblica e interesse dell’Amministrazione a una difesa efficace.
Dall’analisi svolta sembra trarsi conferma che il principio dell’equo compenso nei rapporti professionali tra avvocato e Amministrazione risponde al più volte ricordato interesse pubblico ad una difesa efficace, realizzato anche attraverso la possibilità per l’Ente di assicurarsi (pattuendo un corrispettivo non irrisorio) le prestazioni di avvocati più richiesti sul libero mercato dei servizi legali.
Ciò, tuttavia, non deve indurre a ritenere che sussista un obbligo per le Amministrazioni di attenersi in maniera rigida e inderogabile ai parametri di cui al d.m. 55/2014.
Se così fosse, infatti, si finirebbe per reintrodurre surrettiziamente quel regime tariffario che l’ordinamento ‒ con una chiarissima scelta, frutto anche delle spinte del diritto dell’Unione ‒ ha inteso superare sin dal 2006[16].
D’altro canto, non può ignorarsi che l’ordinamento, sebbene ad altro proposito, “considera equo il compenso determinato nelle convenzioni (…) quando risulta proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, e conforme ai parametri” (art. 13 bis, comma 2, l.p.).
Ed allora, il punto di equilibrio del sistema ‒ nella dialettica tra l’interesse pro-concorrenziale sotteso all’abolizione delle tariffe professionali[17] e l’interesse pubblico a una difesa efficace dell’Ente ‒ può essere individuato nel legittimo esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione. Questa, infatti, pur essendo tenuta a rispettare il principio dell’equo compenso, dispone di un margine di scelta nel valutare se, secondo le peculiarità del singolo caso, il corrispettivo negoziato con il professionista (o da questi offerto in una procedura comparativa) risulti equo.
Anzitutto, ed anche in ossequio al principio generale delineato dall’art. 36 Cost., l’equità dovrà esser parametrata alla quantità e qualità del lavoro svolto. Mentre la valutazione sulla “qualità” (di una prestazione professionale non ancora resa) non può esser effettuata compiutamente al momento dell’affidamento dell’incarico, quella relativa al profilo quantitativo ben può essere eseguita ex ante. Pertanto, nella propria valutazione l’Ente dovrà accertare che per ciascuna fase del giudizio sia riconosciuto al difensore un compenso, dovendo escludere (nel caso di procedure comparative tra più offerte), la proposta che preveda un compenso pari a zero per taluna delle fasi[18].
D’altro canto, lo stesso d.m. n. 55/2014, delinea un sistema nel quale sono significativi i margini di discrezionalità nella determinazione del corrispettivo. Basterà ricordare, infatti, che “ai fini della liquidazione del compenso si tiene conto delle caratteristiche, dell’urgenza e del pregio dell’attività prestata, dell’importanza, della natura, della difficoltà e del valore dell’affare, delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate”; e che, in ordine alla difficoltà dell’affare, assumono rilievo taluni elementi valutativi, tra i quali, ad esempio, la sussistenza di contrasti giurisprudenziali (art. 4, comma 1). Nella liquidazione giudiziale, inoltre, il giudice tiene conto dei valori medi di cui alle tabelle che possono essere “di regola” aumentati fino all’80 per cento, o diminuiti “in ogni caso non oltre il 50 per cento”. Deve rimarcarsi, peraltro, che per effetto delle modifiche introdotte con il d.m. n. 37/2018, la discrezionalità del giudice nel ridurre il compenso rispetto ai parametri è stata notevolmente ridimensionata, se è vero che, ad esempio, la riduzione (che prima era ammessa “di regola” fino al 50 per cento) nell’attuale formulazione può essere disposta “in ogni caso non oltre il 50 per cento”[19].
Anche nella determinazione del valore della controversia sussiste un certo margine di apprezzamento. In proposito, si deve avere riguardo non in maniera rigida ed automatica all’entità della domanda, ma al valore effettivo della controversia, anche in relazione agli interessi perseguiti dalle parti, quando il valore risulta manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile o della legislazione speciale (art. 5, commi 1 e 2). Sotto altro profilo, le controversie di valore “indeterminabile” si ritengono “di regola” di valore non inferiore a euro 26 mila e non superiore a euro 260 mila, pur sussistendo la possibilità di considerarle nello scaglione fino a 520 mila euro.
Può, quindi, ritenersi che, fermo restando il limite di carattere quantitativo (legato alla necessità di valorizzare tutte le fasi della controversia), l’Amministrazione abbia l’obbligo di motivare ‒ in ossequio al generale principio di trasparenza, espressamente richiamato anche dall’art. 19 quaterdecies, comma 3, d.l. n. 148/2017 ‒ in ordine alla “equità” del compenso stabilito.
Nella motivazione l’Ente dovrà rendere espliciti i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che conducono all’individuazione di un determinato valore della controversia e a ritenere equo il compenso in concreto riconosciuto. La motivazione dovrà esser tanto più approfondita allorquando l’Ente si discosti dai parametri ministeriali “medi” e dalle relative soglie numeriche di riferimento che, sebbene non siano vincolanti né inderogabili, “costituiscono criteri di orientamento e individuano la misura economica standard del valore della prestazione professionale”[20].
Anche in questo caso la motivazione assolve ad un’essenziale funzione di garanzia non solo per i destinatari del provvedimento, ma, a livello sistemico, per l’interesse pubblico che deve essere incessantemente curato dall’Amministrazione attraverso decisioni che siano (ed appaiano) legittime e proporzionate[21].
Non è il decoro della professione forense a venire direttamente in rilievo sebbene, sia detto in questa sede solo per inciso, l’avvocatura ‒ in quanto garante di un diritto fondamentale quale la difesa in giudizio e per il ruolo essenziale che assume “nel dinamismo della funzione giurisdizionale”[22] ‒meriterebbe talvolta maggiore considerazione da parte del legislatore[23], ma soprattutto dell’Amministrazione e della magistratura.
L’interesse da preservare, piuttosto, attiene all’essenzialità del ruolo della difesa tecnica e qualificata anche in favore delle Amministrazioni, per evitare che le sempre vive ragioni di contenimento della spesa pubblica conducano a scelte auto-lesioniste che ‒ valorizzando tout court il prezzo più basso ove non, addirittura, la gratuità dell’incarico ‒ collocherebbero le Amministrazioni al di fuori del novero dei clienti “desiderabili” per i professionisti più richiesti sul mercato dei servizi legali.
La logica pro-concorrenziale ‒ che ha condotto all’abolizione delle tariffe ‒ deve esser tenuta ben presente anche nella riflessione sul tema che ci occupa: se è vero che il mercato deve potersi auto-regolare sicché debbono essere liberalizzati i corrispettivi dovuti per l’attività professionale, su quello stesso mercato l’Amministrazione deve avere il potere-dovere di competere ad armi pari con altri potenziali fruitori di servizi legali.
Solo in questo modo i soggetti pubblici potranno assicurarsi le prestazioni di difensori che ‒ senza esser necessariamente interessati al (presunto) prestigio e all’arricchimento curriculare che potrebbe astrattamente derivare dalla difesa di un Ente in una determinata controversia ‒ ambiscono, del tutto legittimamente, a trarre un’adeguata remunerazione dalla propria prestazione d’opera intellettuale.
Attraverso una puntuale osservanza del nuovo “principio dell’equo compenso” ‒ la cui valenza generale merita di essere, in sintesi, rimarcata ‒ potrà garantirsi che le esigenze di riequilibrio finanziario si armonizzino con altri principi fondamentali dell’azione amministrativa[24].
[1] Si tratta dell’avv. Maurizio Zoppolato del Foro di Milano che ringrazio per il fecondo scambio di opinioni intercorso sul tema che ci occupa.
[2] L’abolizione del sistema tariffario costituisce il portato dell’applicazione, anche al settore delle prestazioni d’opera intellettuale, dei principi pro-concorrenziali di matrice europea. In proposito, con sentenza 18 luglio 2013, in causa C-136/12, la Corte di giustizia ha affermato che le regole deontologiche relative ad una determinata professione che indicano come criteri di commisurazione delle parcelle del professionista “oltre alla qualità e all’importanza della prestazione del servizio, la dignità della professione, costituiscono una decisione di un’associazione di imprese ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, che può avere effetti restrittivi della concorrenza nel mercato interno”. Sul punto, cfr. anche Cons. St., sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 238.
[3] Legge 31 dicembre 2012, n. 247, “Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”.
[4] Ai sensi dell’art. 13, comma 3, l. n. 247/2012 “La pattuizione dei compensi è libera: è ammessa la pattuizione a tempo, in misura forfetaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l’intera attività, a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione”.
[5] G. Alpa, L’equo compenso per le prestazioni professionali forensi , in AA.VV., La disciplina dell’equo compenso, in consiglionazionaleforense.it, 2018, 5 ss.; E. Minervini, L’equo compenso degli avvocati e degli altri liberi professionisti, Torino, 2018; S. Monticelli, L’equo compenso dei professionisti fiduciari: fondamento e limiti di una disciplina a vocazione remediale nell’abuso dell’esercizio dell’autonomia privata, in Nuove leggi civ. comm., 2018, 299 ss.; M. Filippelli, Equo compenso per l’avvocato (voce), in Treccani.it, 2019.
[6] Nella originaria formulazione, introdotta dal ricordato art. 19 quaterdecies, comma 1, del d.l. n. 148/2017 , il compenso era considerato equo “quando risulta proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, tenuto conto dei parametri”. L’art. 1, comma 487, lett. a) della l. 27 dicembre 2017, n. 205 ha modificato la disposizione, sicché attualmente si considera equo il compenso non solo “proporzionato (…)” ma anche “conforme ai parametri”. Secondo G. Colavitti, Equo compenso, nuovi parametri e tutela costituzionale del lavoro degli avvocati, in AA.VV., La disciplina dell’equo compenso, cit., 29: “Con la formulazione originaria, del livello dei parametri il giudice doveva ‘solo’ tenere conto, ai fini della valutazione circa l’iniquità del compenso, ora, ben più rigorosamente, è equo il compenso conforme ai parametri, e quindi è iniquo quello non conforme”.
[7] Cass. civ., sez. III, 5 agosto 2013, n. 18612.
[8] Secondo E. Novi, Demolito l’equo compenso: per il Tar l’avvocato deve lavorare bene a basso costo, in ildubbio.it (1 maggio 2021), la sentenza in esame “legittima e autorizza, in rapida successione: l’automortificazione professionale, lo schiavismo piramidale degli studi costretti a sottopagare i giovani collaboratori, la ricerca di incarichi non in nome della sostenibilità ma in ossequio all’urgenza di restare comunque su piazza e di non screditarsi agli occhi di altri committenti forti”.
[9] Tar Lazio – Roma, sez. II, sentenza 30 settembre 2019, n. 11411. Per alcune notazioni critiche, cfr. A. Rota, Lavoro gratuito per la p.A.: “un’opportunità per arricchire il curriculum”, in Riv. it. dir. lav., 2020, 145 ss. Sul lavoro gratuito nelle pubbliche Amministrazioni, cfr. M. Barbieri, Il sinallagma nei contratti di lavoro per le pubbliche amministrazioni: un percorso storico-critico, Bari, 2018, spec. 117 ss.
[10] Tar Calabria – Catanzaro, sez. I, 2 agosto 2018, n. 1507, secondo cui la disciplina sull’equo compenso, ancorché non applicabile alla vicenda dedotta in quel giudizio, lascia “emergere come nell’ordinamento vi sia un principio volto ad assicurare non solo al lavoratore dipendente, ma anche al lavoratore autonomo una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro. Non a caso, l’art. 35 Cost. tutela il lavoro ‘in tutte le sue forme e applicazioni’, mentre il successivo art. 36, nell’occuparsi del diritto alla retribuzione, non discrimina tra le varie forme di lavoro. Ebbene, la configurabilità di un appalto pubblico di servizi a titolo gratuito si pone in disarmonia rispetto a tale affresco, tenuto conto che non ogni servizio prestato reca con se vantaggi curricolari e di immagine tali da garantire, sia pure indirettamente, vantaggi economici tali da soddisfare il diritto a un equo compenso”. È il caso, tuttavia, di ricordare che la giurisprudenza ha sovente affermato l’inapplicabilità della garanzia dell’art. 36 Cost. ai lavoratori autonomi (Cass. civ., sez. II, 6 novembre 2015, n. 22701; Cass. civ., sez., lav., 25 gennaio 2017, n. 1900). In senso contrario, cfr. G. Colavvitti, Equo compenso, cit., 31, per il quale “l’articolo 35 esprime l’obbligo della Repubblica di tutelare ogni forma di lavoro, in qualunque ambito essa si svolga, ed in qualunque modo si presenti. È pertanto difficile accogliere la tesi di chi ha ridottola sfera di applicazione dell’articolo 35 al solo lavoro salariato. Deve invece ritenersi che l’articolo si riferisca a tutte le forme di lavoro, sia esso autonomo, dipendente, professionale”. Dello stesso A., cfr. anche La libertà professionale tra Costituzione e mercato. Liberalizzazioni, crisi economica e dinamiche della regolazione pubblica, Torino, 2012; Id., “Fondata sui lavoratori”. Tutela del lavoro autonomo ed equo compenso in una prospettiva costituzionale, in Riv. AIC, n. 1/2018 1 ss. Tra gli autori che, in passato, hanno ritenuto applicabile anche al lavoro autonomo il principio di cui all’art. 36 Cost., cfr. C. Lega, Principi costituzionali in tema di compenso del lavoro autonomo, in Giur. it., 1960, I, 343 ss.; G. Giacobbe, Professioni intellettuali (voce), in Enc. dir., vol. XXXVI, Milano, 1987, 1078 ss.
[11] Cons. St., sez. V, 3 ottobre 2017, n. 4614, con nota di C.M. Chiarelli, Appalti pubblici di servizi a titolo gratuito: nota a Consiglio di Stato, sez. V, 3 ottobre 2017, n. 4614, in Federalismi.it, n. 18/2018, 1 ss. I giudici di Palazzo Spada nell’occasione hanno precisato che “l’effetto, indiretto, di potenziale promozione esterna dell’appaltatore, come conseguenza della comunicazione al pubblico dell’esecuzione della prestazione professionale, appare costituire, nella struttura e nella funzione concreta del contratto pubblico, di cui qui si verte, una controprestazione contrattuale anche se a risultato aleatorio, in quanto l’eventuale mancato ritorno (positivo) di immagine (che è naturalmente collegato alla qualità dell’esecuzione della prestazione) non può dare luogo ad effetti risolutivi o risarcitori”.
[12] Tar Sicilia – Palermo, sez. III, 6 febbraio 2017, n. 334 ove si ricorda ‒ richiamando Cons. St., sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 238 ‒ che “il principio secondo cui in ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione è già insito nell’ordinamento ed è previsto nell’art. 2233, cod. civ., che espressamente si occupa del contratto d’opera intellettuale, precisando che tale norma, contenuta nel codice civile, si indirizza, infatti, al singolo professionista, disciplinando i suoi rapporti con il cliente nell’ambito del singolo rapporto contrattuale”.
[13] Tar Campania ‒ Napoli, sez. I, ord. 25 ottobre 2018, n. 1541.
[14] Tar – Marche, sez. I, 9 dicembre 2019, n. 761.
[15] Tar – Marche, sez. I, 9 dicembre 2019, n. 761: “quando il cliente è un contraente forte - ovvero, come nella specie, la pubblica amministrazione - la pattuizione del compenso professionale incontra il limite del rispetto del principio dell’equo compenso (inteso, si ribadisce, come proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione), che va armonizzato con le esigenze di riequilibrio finanziario e non recedere rispetto ad esse (TAR Campania Napoli, sez. I, ordinanza n. 1541 del 25 ottobre 2018)”.
[16] È opportuno ricordare che in data 22 novembre 2017 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nell’esercizio dei poteri di cui all’art. 22 della legge 10 ottobre 1990 n. 287, ha deliberato l’invio di una segnalazione (AS 1452) ai presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, nonché al Presidente del Consiglio dei Ministri, avente ad oggetto alcune disposizioni previste nel d.l. n. 148/2017 e nel disegno di legge di conversione dello stesso. In particolare, l’Autorità ha rilevato che: “Il descritto intervento normativo, ove attuato nei termini proposti, determinerebbe (…) un’ingiustificata inversione di tendenza rispetto all’importante ed impegnativo processo di liberalizzazione delle professioni, in atto da oltre un decennio e a favore del quale l’Autorità si è costantemente pronunciata. Si tratta, infatti, di misure che, al di là delle motivazioni che le vorrebbero giustificare, ripropongono appieno gli stessi problemi concorrenziali che l’Autorità ha avuto in più occasioni modo di segnalare in tema di tariffe minime (…) In conclusione, l’articolo 19 quaterdecies del ddl in esame, in quanto idoneo a reintrodurre nell’ordinamento un sistema di tariffe minime, peraltro esteso all’intero settore dei servizi professionali, non risponde ai principi di proporzionalità concorrenziale, oltre a porsi in stridente controtendenza con i processi di liberalizzazione che, negli anni più recenti, hanno interessato il nostro ordinamento anche nel settore delle professioni regolamentate”.
[17] Corte di giustizia, sentenza 18 luglio 2013, in causa C-136/12, nonché Cons. St., sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 238.
[18] Sul punto, cfr. Cass. civ., sez. VI, ord. 26 maggio 2021, n. 14483, ove si afferma: “In tema di liquidazione delle spese processuali successiva al d.m. n. 55 del 2014 (…) il giudice deve solo quantificare il compenso tra il minimo ed il massimo delle tariffe, a loro volta derogabili con apposita motivazione (Cass. n. 2386 del 2017; Cass. n. 26608 del 2017; Cass. n. 29606 del 2017; Cass. n. 89 del 2021). In particolare, non sussistendo più il vincolo legale della inderogabilità dei minimi tariffari, i parametri di determinazione del compenso per la prestazione defensionale in giudizio e le soglie numeriche di riferimento costituiscono criteri di orientamento e individuano la misura economica standard del valore della prestazione professionale, per cui il giudice è tenuto a specificare i criteri di liquidazione del compenso solo in caso di scostamento apprezzabile dai parametri medi (Cass. n. 30286 del 2017; Cass. n. 6296 del 2019; Cass. n. 20183 del 2018; Cass. n. 10343 del 2020). Resta, tuttavia, ferma la necessità che il giudice proceda alla liquidazione di tutte le prestazioni che, in base alle fasi indicate nel citato d.m. n. 55, art. 4, e secondo gli scaglioni esposti nelle tabelle allegate al medesimo d.m. n. 55, l’avvocato abbia effettivamente reso nel giudizio, dandone specificamente conto in motivazione”.
[19] Di analogo tenore è la modifica che ha condotto alla novella dell’art. 4, comma 1, quarto periodo e art. 4, comma 4 del d.m. n. 55/2014.
[20] Cass. civ., sez. VI, ord. 26 maggio 2021, n. 14483.
[21] Una diversa funzione, evidentemente, è assolta dalla motivazione della decisione giudiziale sull’entità del compenso. Secondo Cass. civ., sez. VI, 10 dicembre 2020, n. 28113, infatti, “solo in caso di scostamento apprezzabile dai valori medi della tabella allegata al d.m. n. 55 del 2014 il giudice è tenuto ad indicare i parametri che hanno guidato la liquidazione del compenso; scostamento che può anche superare i valori massimi o minimi determinati in forza delle percentuali di aumento o diminuzione, ma in quest’ultimo caso fermo restando il limite di cui all’art. 2233 c.c., comma 2, che preclude di liquidare, al netto degli esborsi, somme praticamente simboliche, non consone al decoro della professione (in tale prospettiva, cfr. Cass. n. 25804/2015, Cass. n. 24492/2016 e Cass. n. 20790/2017)”.
[22] Corte cost., 18 marzo 1957, n. 46.
[23] Si deve concordare con G. Colavitti, Equo compenso, cit., 26 secondo il quale storicamente “la disattenzione per il comparto del lavoro professionale è andata di pari passo con una vasta produzione normativa di tutela del lavoro subordinato da un lato, e, dall’altro lato, con una altrettanto ampia azione di sostegno ed incentivazione del mondo delle imprese, lasciando i professionisti italiani in una condizione di ontologica minorità, senza le tutele del lavoro dipendente, e senza le misure promozionali del comparto delle imprese”.
Nella legislatura in corso sono state presentate numerose proposte di legge volte ad ampliare la portata applicativa della vigente disciplina in materia di equo compenso. In particolare, sono in corso d’esame, in sede referente, presso la II Commissione, Giustizia, della Camera dei Deputati, i disegni di legge nn. C. 301 (on. Meloni), C. 1979 (on. Mandelli e altri), C. 2192 (on. Morrone e altri), C. 3058 (on. Di Sarno e altri), C. 2741 (on. Bitonci e altri). Per una prima analisi si rinvia al dossier predisposto dal Dipartimento Giustizia del Servizio studi parlamentare che reca le schede di lettura relative agli atti 301, 1979, 2192.
Con particolare riguardo al compenso dovuto dai soggetti pubblici, l’art. 3 della proposta di legge C. 2192, da una parte, estende la garanzia dell’equo compenso anche alle prestazioni rese in favore degli agenti della riscossione, dall’altra, tuttavia, prevede che, in relazione a quelle prestazioni, i compensi siano dimezzati.
[24] Tar Campania, Napoli, sez. I, ord. 25 ottobre 2018, n. 1541.