HAMMAMET, recensione di Eva Di Palma
Un bambino armato di fionda, con sguardo da monello, pantaloni alla zuava e viso paffuto, lancia con impegno e precisione un sasso con cui infrange il vetro di una finestra del collegio. La rottura rende sfuocata l’immagine, come se improvvisamente si fossero rotti gli occhiali che ci fanno da lenti sul mondo.
Così si apre il film, è da lì che scaturiscono le immagini successive.
E lì si tornerà: la finestra infranta, inquadrata – questa volta – dall’interno ci avvierà alla conclusione della pellicola.
Il film altro non è se non la dimensione tra le due finestre rotte, tra il doppio lancio, del quale ci viene offerta la visione dall’esterno e dall’interno, da aggressori e da aggrediti (discrimen non sempre nitido nella realtà, per chi non si accontenta di visioni assiomaticamente partigiane).
La narrazione passa, con un salto tipico dei sogni, al 45° Congresso del PSI tenutosi nel 1989 nell’ex fabbrica Ansaldo di Milano, in cui Craxi, che troneggia come un moderno faraone sugli schermi piramidali ideati da Filippo Panseca (l’inventore del Garofano, per intenderci), venne confermato per la sesta volta segretario.
Non il personaggio e neppure la persona, bensì la sua immagine, affidata a un iperrealista Pierfrancesco Favino (superlativo e scrupoloso il suo lavoro mimetico), è al centro del lavoro di Gianni Amelio, che ci offre una rappresentazione densa di atmosfere oniriche, felliniane, lasciando sullo sfondo una storia, le cui ferite si pagano ancora quotidianamente.
Non la persona, ma la sua immagine (interessante la scelta dei formati, 16:9 e 4:3, a sottolineare che è la rappresentazione a voler prevalere) e, conseguentemente, la sua pesante assenza: cercherà i fotografi, Bettino, fuori dalla porta dell’ambulatorio tunisino, ma non li troverà. Il ritratto di quell’immagine mancante è rappresentazione di un’identità smarrita, quella dell’uomo, del partito, della politica tutta (se non dell’intero Paese) e ricorda vagamente il ritratto dell’identità smarrita dello Specchio di Tarkovskij (non a caso definito il film della sua emarginazione politica), in cui l’artista ci propone il suo sguardo sul proprio rapporto fragile – e sempre più distaccato – con la società sovietica e con le gerarchie del potere ideologico, quindi con la sua identità di cittadino, cui affida una profonda riflessione sul senso del tempo, che, qui, Amelio, lascia a noi.
Non la persona, ma il luogo in cui si consuma il corpo affaticato del re solo: la villa di Hammamet, quella vera, impiegata come set dal regista su concessione della famiglia proprietaria.
La storia resta fuori da quel fortino decadente, nel quale tenta di insinuarsi sotto varie forme: la cancrena (metafora inquietante e perfetta del nostro fatalista Paese), personaggi volutamente non ben delineati, le evocate sentenze e le parole dei magistrati (si parla di un “giudice” di Milano, dando per scontato che l’interlocutore ben lo conosca), in un incalzante senso di attesa che tanto ricorda l’inquietudine di Giovanni Drogo de Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati.
Tutti i personaggi, anche quelli palesemente riconducibili alla realtà, primo fra tutti il protagonista, riportano nomi di fantasia. Si tratta di una scelta stilistica interessante, quasi che Amelio volesse rifuggire il realismo, a vantaggio talvolta della sua rappresentazione iperrealistica e talaltra del sogno. Il protagonista mai viene chiamato per nome, così come la figlia ci si presenta come “Anita”, in un fin troppo chiaro parallelismo con l’Anita garibaldina (evocata nella canzoncina che il nonno affettuosamente affida al nipote appassionato di fanciullesche strategie belliche), che, seppur febbricitante e incinta, dolorosamente seguì nella fuga il marito a cavallo, tanto quanto la ragazza del film ci appare appassionata e decisa, infuocata dall’amore paterno, che la rende capace di qualsiasi abnegazione, come una moderna Elettra. E ancora, è inutile arrovellarsi su chi sia l’ospite che lo raggiunge (in un “pellegrinaggio” che fu di molti, all’epoca), interpretato da un ottimo e teatrale Renato Carpentieri; o Fausto, l’ambivalente giovane al quale il Craxi del film affida il delicato compito di ricostruire – per immagini, appunto – la sua esperienza politica (un’unica pecca: Fausto è un personaggio debole, al quale viene affidato un ruolo eccessivo, come se spettasse a lui il compito di ricucire le falle nella rete della pellicola) o, infine, l’amante Claudia Gerini, che porta con sé la malinconia di appetiti sessuali, smodati come la golosità craxiana.
Costituirebbe, dunque, una dissertazione sterile stilare l’elenco di ciò che c’è e di ciò che manca rispetto ai ricordi di chi, invece, c’era: sarebbe uno sforzo ingrato al regista, oltremodo riduttivo. Del pari riduttiva è la visione di chi asserisce che Amelio si sia concentrato esclusivamente sulla “pietas” verso un uomo malato. Non innalziamo, non celebriamo, né denigriamo, ma non scomodiamo neppure divinità romane a sproposito: la Pietas – che non è pietà umana, né la συμπἀθεια, il cum patior della compassione – che fu del pio Enea, che, fuggendo da Troia in fiamme caricandosi sulle spalle il vecchio padre Anchise, assolvendo, con pazienza infinita e accettazione senza riserve, ai suoi doveri nei confronti dei genitori, degli antenati e, quindi, della patria e degli dei non può, qui, trovar luogo senza scivolare in un nostalgico revisionismo, nel quale si rischierebbe di inciampare anche avvicinando la Milano onirica a un’irraggiungibile Itaca (prezzo da pagare per un empio e geniale Ulisse, che pecca di ὕβϱις e vince la guerra con l’inganno).
Sulle belle note di Nicola Piovani (che ci regala una stonata e dissonante Internazionale) resta l’umorismo dissacrante di un moderno king Lear, ultima traccia di una genialità che sopravvivrà all’immagine rimessa all’ebete sarcasmo in stile “Bagaglino”, mentre tenta la fuga da quel vetro infranto attraverso i sogni, a piedi scalzi, quando, ormai, non rappresentano più, nemmeno quelli, una via d’uscita.