La didattica di Franco Cordero
di Arturo Capone
La didattica di Cordero era caratterizzata dalla fascinazione verso un percorso di apprendimento impegnativo e irto di ostacoli, che apriva le porte a un livello superiore di conoscenza.
Franco Cordero incuteva soggezione. Erano tempi diversi da oggi, nei quali il professore si sforza di venire incontro agli studenti e, se ci riesce, persino di risultare simpatico. Decisamente non aveva questa preoccupazione. In aula entrava senza dire buongiorno o fare un sorriso di circostanza e incominciava direttamente a spiegare, con uno stile non troppo diverso da quello che si trovava sul manuale, deliberatamente preordinato più a disorientare che a semplificare. Lui stesso però non attribuiva grande importanza alle lezioni: la cosa importante – diceva – è studiare il manuale.
Il manuale – la Procedura penale – aveva un impatto enorme sugli studenti. Anche chi poi si è dedicato ad altro nella vita spesso lo ricorda ancora, a distanza di decenni, come un testo perturbante, che bisognava studiare mettendo in campo risorse nuove, non richieste in nessuna delle altre materie fino a quel momento incontrate nel corso di laurea in giurisprudenza.
Si trattava in effetti di un testo affascinante e difficile. Le sue peculiarità si sono via via intensificate nelle edizioni che si sono susseguite dal 1966 al 2012. Nelle ultime, non solo l’intero processo, nelle prime sfavillanti cento pagine, ma ogni singolo tema era preceduto da un’introduzione, che per semplicità si potrebbe chiamare “storica”, ma che in effetti era composta da una sorta di montaggio di riferimenti letterari, precedenti normativi, atti di processi antichi, discussioni dottrinali, ritratti di personaggi, fonti romanistiche, etc. Queste parti, di primo acchito, suscitavano nello studente l’impressione di un’oscura divagazione; distrarsi però era esiziale, perché il nucleo interpretativo della disciplina, quello che l’introduzione serviva a mettere piano piano a fuoco, era poi esposto, talvolta all’improvviso, in poche fulminanti parole.
A dispetto della molteplicità dei materiali che entravano a far parte del manuale, infatti, la sintesi era un tratto costitutivo del suo stile. Questa sintesi senza dubbio era una risorsa: consentiva di fornire una quantità smisurata di informazioni. La Procedura in realtà era un trattato ridotto a mille pagine. «C’è tutto!» - ci dicevamo ammirati ma anche un po' impressionati, quando ancora anni dopo, studiando qualche piccola questioncina su cui speravamo di poter scrivere qualcosa di nuovo, riguardando il manuale ne trovavamo menzione. Tre parole, ma c’era.
E queste brevi, icastiche espressioni, con cui Cordero sintetizzava problemi, sfondi, dibattito e soluzioni, avevano perciò una carica semantica enorme. Ogni volta che le rileggevamo, magari via via che si affinava la conoscenza della materia, riconoscevamo sempre nuove implicazioni, prima non colte.
La sintesi però era indubbiamente anche un divertissement letterario. Raggiungeva la sua acme in quel vero e proprio virtuosismo costituito dai brevi abstract che nel manuale erano anteposti ad ogni paragrafo: un terzo di pagina o poco più, in carattere più piccolo, che secondo Cordero avrebbero dovuto facilitare la memorizzazione del testo. Ma anche dopo lo studio approfondito del paragrafo, quell’abstract era talmente condensato da restare obiettivamente criptico.
L’apprendimento del manuale in genere aveva un decorso anomalo. Di solito, per quanto riguarda le discipline di base del corso di laurea in giurisprudenza, l’esposizione della materia, curata appunto in modo da risultare chiara, non comporta soverchie difficoltà di comprensione; bisogna però rileggere il testo più volte, magari anche ripeterlo a voce alta, per arrivare a una sua memorizzazione, sufficiente per affrontare l’esame. Con la Procedura penale le cose andavano diversamente. Bisognava leggere e rileggere più volte per comprendere il testo, o, meglio, il senso dei suoi riferimenti, la sua logica, le sue implicazioni, le sue soluzioni. Ma poi, una volta raggiunta tale comprensione, non era più necessaria alcuna rilettura o ripetizione; concetti e immagini si incistavano irreversibilmente nella memoria.
Aver studiato con Cordero, perciò, si rivelava a volte nella forma angosciante di una sorta di colonizzazione linguistica e del pensiero. Tutti coloro che hanno poi continuato a occuparsi di procedura penale hanno dovuto affrontare a lungo questa specie di condanna, per cui, al momento di scrivere, tornavano in mente, anche a tradimento, le frasi con cui Cordero scolpiva i concetti – come non si potesse nemmeno pensare la procedura con parole diverse. Quindi dopo, rileggendo, bisognava disincrostare il testo di tutto ciò che in effetti non ci apparteneva, e purtroppo, spesso, il meglio andava via.
Continuare a studiare all’ombra di Cordero non era facile. Anche per ragioni strettamente accademiche: non amava avere allievi, cerchie, clientes; solo rapporti, eventualmente, di stima, e ciascuno doveva badare a sé stesso. Ma, soprattutto, maturare il proprio punto di vista era particolarmente impegnativo. Bisognava confrontarsi con un interlocutore radicatissimo nelle sue opinioni e poco disposto a tollerare dissensi. Si trattava senza dubbio di una rigidità, non condivisibile, fondata però sulla obiettiva consapevolezza che il suo punto di vista era maturato all’esito di studi di ampiezza e spessore difficilmente eguagliabili. Ricordo la prima volta che gli chiesi di leggere un testo, che ambiva ad essere la mia prima nota a sentenza. La tesi centrale dello scritto stava nell’idea, allora negata dalle Sezioni unite, della possibilità di considerare alcuni vizi della motivazione alla stregua di errores in procedendo. Cordero non condivideva questa idea – lo sapevo già – ma speravo di convincerlo con le mie argomentazioni. Mi disse che, sì, nel complesso il lavoro non era male, tranne il fatto che sostenevo quella tesi, che a suo giudizio andava espunta dal novero delle opinioni giuridicamente predicabili. Poi aggiunse: «D’altra parte, guardi un po’ chi cita!», e, pronunciando il nome dell’autore che avevo usato per argomentarla, scoppiò in una risata che a me parve demoniaca. E che avesse qualcosa di oltremondano, ma ambivalente, a tratti mi capitava di pensarlo, quando scherzavo ad accostare il suo cognome – ‘agnello’, il simbolo sacrificale – al suo incedere leggermente claudicante. Naturalmente non bisognava arrendersi, ma studiare ancora a lungo, riverificare la sostenibilità delle proprie idee, argomentarle molto meglio. E così il suo essere straordinariamente esigente con gli altri, imponeva agli altri di essere straordinariamente esigenti con sé stessi.
Nel merito, ciò che caratterizza la didattica di Cordero potrebbe essere descritto, sia pure un po’ approssimativamente, come un invito a studiare il processo penale come parte della storia della cultura.
Come si accennava all’inizio, si tratta di una scelta non originaria; i due piani del discorso si sono a poco a poco intrecciati, come se, in termini di produzione scientifica, i materiali di Riti e sapienza del diritto, la monumentale opera del 1981, siano infine confluiti nella Procedura penale. Ecco perché studiarla risultava difficile e affascinante. Perché, per spiegare ogni frammento normativo, venivano chiamati a raccolta l’antropologia, la storia, la teoria del linguaggio, la sociologia, il pensiero giuridico, la politica, etc.; naturalmente, per via della necessaria sintesi, non esposti in una sequenza ordinata, ma messi in scena in una sorta di teatro dell’immaginario.
Ancora oggi che nell’insegnare uso un metodo agli antipodi, cercando cioè, per quanto riesco, di essere semplice e accessibile, vengo a tratti colto da alcuni dubbi radicali. Mi domando cioè se questo metodo non favorisca piuttosto – come direbbe Cordero – la pigrizia mentale; forse, invece di adattare la materia al livello di comprensione dello studente, bisognerebbe piuttosto saperlo attrarre, magari affascinandolo con una scrittura luccicante, verso un livello superiore. Personalmente sedo i miei dubbi con la consapevolezza che tanto non ci riuscirei.
I testi giuridici – si sa – invecchiano presto. Il pensiero che la Procedura possa smettere di essere un riferimento per le nuove generazioni di studiosi mi inquieta. Credo però che essa, anche una volta sorpassato il testo normativo di cui parla, possa conservare non solo un valore retrospettivo, ma una sua perdurante efficacia didattica. Cordero, in un certo senso, grazie alle sue molteplici peregrinazioni intellettuali ha portato tutto il mondo dentro la procedura. Spesso noi studiosi, quando vogliamo sapere qualcosa del mondo che sta oltre la procedura, in effetti ci accontentiamo di leggere Cordero. Il manuale ci invita piuttosto a intraprendere il percorso all’inverso; a usarlo come una porta, che dalla procedura consente di avventurarsi in quel mondo.